Mai la merce sfamerà l'uomo (4) (CXXIII)
IV. Il capitalismo, rivoluzione agraria
Facendo il punto
L'intrapresa esposizione dell'essenziale e ricchissimo materiale marxista sulla questione agraria, non essendo ancora giunta alla attualità e nemmeno allo scottante problema politico sulla funzione rivoluzionaria delle masse della campagna, può avere ad alcuni lettori fatto l'impressione di essere troppo densa di teoria economica, la quale non può svilupparsi, sia pure in limiti tutt'altro che vasti, senza qualcuna delle orripilanti "cifre". Senza cifre non si fa politica e tanto meno rivoluzione.
Per disavventura si è stampato un 10 (in lettere per di più, a rispetto dei maniaci della "musica leggera") al posto di un 5 nella seconda propinazione, dal titolo Stregoneria della rendita fondiaria, nel passare al capitoletto Interesse e rendita. Ogni lettore avrà tuttavia capito, anche senza avere la competenza del contadino analfabeta, che sa fare conti in modo mirabile. E' giocoforza (e assai più urgente che scatenare il finimondo attivista) piantare un fisico piede sullo scalino interesse-rendita. Si diceva semplicemente di un terreno che, se ha il valore di acquisto di 1 milione, ha la rendita lorda del 10 per cento e la rendita netta del 5 (mal stampato di nuovo 10) per cento, ossia 100 mila e 50 mila lire. Scalino non troppo arduo per chi si sente pronto a voli di trenta metri dal trapezio della irrefrenabile azione. Il buon bifolco può spiegare il teorema: la rendita netta è minore della lorda, da quando ha accantonato dal grano da vendere quello per farsi il pane, e riseminare.
Tuttavia non potendo servire subito il dessert della politica (sono i Nenni che dettano al cuciniere la formula: le dessert d'abord: noi vi diamo dell'antipasto, anche se sa di forte agrume), ci indurremo a trarvi nel campo della filosofia, valendoci di una fulminea punta di Marx nel capitolo sui fisiocratici, cui abbiamo inteso dare suprema importanza. Avrete così un po' di respiro: chi dei leggeristi non è filosofo?
Del passo storico in cui appare la rendita agraria capitalista, Marx non tratta solo nella fin qui adoperata Storia delle dottrine economiche, che più propriamente egli avrebbe intitolata Storia delle teorie del plusvalore, come annuncia nel dare la trama del Capitale. Egli ne tratta a fondo in uno dei capitoli di coronamento dell'incompleto terzo tomo, il 47°, dal titolo - appunto - Genesi della rendita fondiaria capitalistica. Questo capitolo racchiude tutta l'analisi che noi abbiamo tratta da comuni ma seri trattati della materia. Esso culmina in una quasi atroce definizione del piccolo contadino proprietario e lavoratore (che citammo alla riunione di Milano):
"La piccola proprietà fondiaria crea una classe di barbari che è per metà al di fuori della società, che unisce tutta la rozzezza delle forme sociali primitive con tutti i dolori e tutta la misère dei paesi civilizzati".
E non vi è dunque da equivocare col piatto anteporre alla antica barbarie la moderna civiltà! La prima era solo rozza, la seconda è infame. Il seguito del passo sferza del pari la grande proprietà terriera e la grande industria capitalista: alla fine "esse operano in comune", nello sfruttare fino all'esaurimento il Lavoro e la Terra. Ora questo stesso capitolo contiene l'avvertimento che di colpo risponde alla ovvia domanda dei "pratici": la rivoluzione operaia non potrà lanciare quei barbari, compagni di sfruttamento e di soggiogamento, contro la civiltà del capitale? Alla risposta arriveremo più oltre, e qui sarà ricco pescaio il materiale di Lenin sulla questione agraria: si pazienti.
"Ogni critica della piccola proprietà fondiaria si risolve in ultima istanza in critica della proprietà privata, come limite e ostacolo per l'agricoltura. Così anche ogni critica contrapposta della grande proprietà fondiaria. Va da sé [sì, da sé, don Carlo; ma se ne sono sudate camicie!] che qui si la astrazione nei due casi dalle riserve mentali di carattere politico. Questo limite e questo ostacolo (...) si esplicano, da una parte e dall'altra, soltanto in diverse forme, e nelle dispute intorno a queste forme specifiche del male, si finisce col dimenticarne la causa ultima".
E' vecchia l'immagine, ma ci vuole. Questa manata va in pieno volto, non solo ai rinnegati alla ricerca di rinnovate strutture della spartizione giuridica del possesso terriero, ma anche ai maniaci che, insofferenti dell'opera titanica di raddobbo del potente scheletro della dottrina, in cui la controrivoluzione tenta senza sosta di far penetrare siluri, corrono ad ogni attimo a reclamare, per insostenibile pruriginoso bisogno, la infiocchettatura da pagliaccio delle "considerazioni politiche". Fossero milioni e noi mezza dozzina, diamo il tergo a costoro, dicendo col fiorentino che Marx ama spesso citare: e lascia pur grattar dov'è la rogna.
Toccata sulla solita corda
Teoria ed azione. Vecchio diverbio sul valore del loro rapporto. Il preteso contrasto tra esse, nel senso che il dare troppa importanza alla teoria possa compromettere il successo dell'azione, è la peggiore invenzione, è la bestialità centrale di ogni opportunismo. La prima è indispensabile alla seconda, quando anche i tempi di esse si stacchino di mezzi secoli. E' assurdo, ove il nostro determinismo non sia frottola, che possa darsi l'alternativa tra l'una e l'altra. Se lontanamente si desse, non esiteremmo - schiatti chi vuole - a lasciare andare l'azione, mai la dottrina.
Sono apparse le recensioni di un libro del comunista francese Rosmer: A Mosca al tempo di Lenin. Rosmer è un uomo di massima lealtà: non disprezziamo in un rivoluzionario tale qualità, ma la consideriamo da sola lungi dall'essere sufficiente. Rosmer, vecchio organizzatore sindacale e devoto militante della causa proletaria era un sindacalista del tipo soreliano, oggi è un trotzkista (che del resto ha ripudiato il curioso movimento, che si ammanta di tale vocabolo e non ha capito che il male dello stalinismo è quel contorsionismo, nel quale virtualmente lo supera). Ma se Rosmer fosse mai stato, oltre che un amante della rivoluzione e un amico di Lenin e di Trotsky, un marxista vero, mai avrebbe scritta la definizione che alla memoria di Lenin è un grave seppure involontario oltraggio. "Libri di circostanza", il Rosmer si è condotto a chiamare gli storici scritti di Lenin!
Non si tratta di frase sfuggita a caso: il Rosmer vede in Lenin il manovratore geniale della rivoluzione comunista, non riesce a vedere il tanto più grande, nell'ormai sicuro bilancio storico, restauratore della dottrina rivoluzionaria. Non può altrimenti sentire un inguaribile volontarista alla Sorel, per cui il sogno supremo è il fascio, aperto ad ogni erba, di tutti i ribelli contingenti, il partito è cosa secondaria, la disciplina inutile intralcio, la teoria un semplice e plastico mito, una mutevole droga che infiammi la folla nella lotta.
Solo così si spiega che Rosmer si lasci andare a dire che l'Estremismo, malattia d'infanzia del comunismo, fu scritto per fare entrare nella Internazionale i socialisti tipo "due e mezzo" contrari ai 21 punti (in verità non avendo il volume diffidiamo di un tale riferimento: che Lenin per abilità - termine contenuto in una citazione da quel testo - lavorasse per violare le condizioni da lui dettate, non è solo assurdo, ma risulta falso); ed anche che Stato e rivoluzione fu altro libro di circostanza scritto per attirare gli anarchici con la promessa abolizione dello Stato, allorché invece si trattava di colpire a fondo la dimenticanza socialdemocratica di quella marxista tesi e di tutta la integrale ortodossa dottrina.
Sarà appunto nel ricostruire la "politica agraria" storicamente seguita dai partiti marxisti, che sarà dato far vedere quanto Lenin, nel particolare complesso problema russo, sia sempre e solidamente tornato a riaffermare la ortodossa dottrina di Marx nella materia.
Tutto ciò è conforme alla tesi, da noi difesa sistematicamente nella riunione già ricordata del nostro movimento a Milano, che secondo il materialismo storico la dottrina di una classe rivoluzionaria non può che formarsi in un solo blocco e in un dato svolto della storia. In altri termini, solo dati e rari "momenti" del ciclo umano sono quelli in cui, per dirla alla breve, sbocciano nuove verità, si conquistano nuove conoscenze, che divengono patrimonio di una classe, programma di un movimento che estende la sua battaglia e il suo avvento su di un arco misurabile a secoli. Il ponte di questa conquista non ha appoggi intermedi, lancia una sola "volata" sul nemico abisso; e con ciò si vuol ributtare senza pietà la concezione di un nucleo di dottrina "in continua elaborazione", il che neghiamo sia come apporto dei seguaci, sia - peggio che mai - come utilizzazione degli apporti della "scienza in generale", della "cultura in generale" attinta alla società e all'epoca che verrà sorpassata e travolta.
Ci rifacciamo di continuo al testo di Marx perché corrisponde, nella sua formulazione di getto (anche se alla immediata e materiale compilazione e paginazione altre mani concorsero), alla utilizzazione di quello svolto fecondo e dinamico della storia, in cui schieramento della classe proletaria e critica della dottrina borghese (fresca ancora della sua rivoluzione) insieme ed inseparabili proruppero dalla materiale base sociale. Non perché Carlo Marx fosse testa più potente di tutti i predecessori e successori, come potrebbe obiettarci chi volesse scalfire la parallela tesi della negazione del compito motore delle personalità.
Tre le vie della conquista di comune dotazione di nozioni da parte della umana collettività. La prima mette il sapere tutto fuori del mondo fisico entro un cervello soprannaturale che ad ogni tanto rivela un fascio della sua luce facendo parlare una umana bocca; e va ammesso in tal caso che può essere di gran sapiente o di umile creatura: la via delle religioni. La seconda considera il sapere conquistato dai cervelli degli uomini viventi che progressivamente accumulano i risultati di un lavoro del pensiero; e ad ogni tanto una personalità di maggior rilievo e potenza fa fare un passo avanti alla comune dotazione di scienza; sicché ogni stagione ne sa di più della precedente: è la via illuminista ed evoluzionista. La terza via, rivoluzionaria, è la nostra. Senza la regìa di una divinità, tuttavia la dottrina come ogni altra forma sociale si vede erompere in una crisi violenta della storia, quando il sottosuolo materiale ne è sconvolto, e si cristallizza in un comune bagaglio di norme di azione che percorre compatto secoli e secoli della storia: non deriva da sforzi soggettivi di uno o più grandi pensatori o condottieri ma da fatti generali del modo di vivere e di produrre collettivo. E così spieghiamo come sociali sovrastrutture le antiche religioni e la stessa filosofia moderna e borghese, seguendo con la massima considerazione l'alto potenziale storico di classe della osservanza dei vecchi miti, della agitazione dei principii moderni di democrazia, libertà ed eguaglianza giuridica, propri delle classi a noi nemiche.
Una mano da Federico
Tutto l'immane lavoro di Marx non solo contiene la dimostrazione fatta con formidabile lavoro di raccolta di materiali, che da un certo punto in poi la teoria sociale non progredisce ma decade inesorabilmente dalle prime luminose visioni (ad esempio dei classici economisti del XVII secolo) ma anche che l'espositore magnifico della nuova teoria non l'ha inventata, ma è felice come il cercatore che trova una pepita, quando dimostra che le sue verità sono contenute, in forma sia pure approssimata, in vecchissimi testi. Tutte le note al Capitale, specie nel primo volume, e tutto il materiale della Storia delle dottrine, hanno questo fine: provare che le conclusioni che sembrano originali sono verità che si impongono a tutti per la evidenza e furono constatate e formulate sempre più da vicino in passato. Si enunciano finalmente in modo organico non quando il genio scende sulla terra, ma quando le condizioni sono mature e concorrono tutte alla apparizione del risultato. Ove tanto non si afferri sarà impossibile convincersi che noi siamo a posto quando affermiamo che il comunismo sarebbe lo stesso apparso se non ci fosse stato il signor Carlo Marx, e quando ci gettiamo come cani arrabbiati contro chi voglia degli scritti di Marx sostituire un rigo, difendendoci con non minore ringhiosità dalla taccia di avere alcunché aggiunto di nostro.
Non diversamente da Marx del resto procedettero i principali enunciatori di fondamentali "rivoluzioni della scienza". Nella loro polemica e nella generosa lotta contro il soffocamento, sia Galileo che Copernico, ad esempio, fecero lavoro gigantesco su testi antichi e sulla storia della scienza per dedurre prove innumeri che la plausibilità e la certezza del moto dei pianeti attorno al sole era già stata accettata in varie epoche precedenti, come al suo momento il concetto della sfericità della terra. Il sottile dialettico Zenone eleate nell'antica Grecia, coi suoi sofismi, non solo dimostra di avere già dedotto la dottrina matematica infinitesimale, ma assai di più: che questa è insita nella logica, discesa dalla esperienza, secondo la quale ogni uomo incolto saprà bene che la freccia non è ferma in nessun momento anche brevissimo del suo lancio, e che l'uomo, che cammina sulla tolda della nave in senso inverso al moto guardando la sponda, non fa sì che sia negabile il moto della nave e quello del suo corpo: quindi fino da allora con illazione immediata: nemmeno il moto della sponda! e con lei della terra. Einstein verrà a dire che qui in embrione vi è la relatività tutta: quella di Galileo e anche la sua... Con il ciclo della evoluzione biologica e quello della tecnica produttiva, questo risultava il ciclo del "sovrastrutturale" pensiero umano. Per i quali motivi ogni brevetto di diritti d'autore si denega ai precitati signori Zenone, Copernico, Galileo, Einstein... e Marx. Gonfio, pieno della sua Personalità è soltanto il Fesso. Qui verrà Engels coi suoi giri di ruota al povero Dühring: ma prima alcune conferme in queste pagine oggi aperte di Marx.
Proprio nel capitolo che abbiamo citato, Marx mostra in una rapida rassegna di quegli autori stessi, che sarà poi più diffusa nella storia delle dottrine, come la giusta tesi è vista meglio dagli economisti più vicini allo sgorgare del capitalismo dalla ganga feudale, e più si va avanti più la scienza economica ufficiale rinnega le conquistate verità e si compiace di corbellerie.
Il difficile del problema della rendita terriera, Marx dice, sta nel vedere da che nasce questo certo eccedente del profitto dell'azienda agraria sul medio profitto delle aziende in genere, che va a pagare il diritto di monopolio del proprietario fondiario; che esso non deriva da produttività naturale della terra, ma resta una aliquota del valore aggiunto al prodotto per effetto del sopralavoro umano. La rendita non è un di più sul profitto, ma un di meno del profitto, per così dire. Quindi, come seguitiamo a battere, tutto vien da origine di lavoro-valore e non di natura-valore. Ora:
"Per i vecchi economisti, che in generale sono appena all'inizio dell'analisi del modo di produzione capitalistico, ai loro tempi non ancora sviluppato, l'analisi della rendita (...) non presentava difficoltà alcuna (...). Più vicini ai tempi feudali, sostengono in generale che la rendita fondiaria è la forma normale del plusvalore, mentre il profitto (...) appare loro come una parte di questo plusvalore (...). La proprietà fondiaria appare ancora come la condizione fondamentale della produzione (...). Per i fisiocratici la difficoltà è già di altra natura. Essendo di fatto i primi portavoce sistematici del capitale essi cercano di analizzare la natura del plusvalore in generale (...) il capitale che frutta rendita, o capitale agricolo, è per essi l'unico capitale che produce plusvalore, ed il lavoro agricolo da esso posto in movimento è (...) il solo lavoro produttivo (...). Ma che cosa si deve dire dei più recenti scrittori di economia, come Daire, Passy, ecc., che, al tramonto di tutta l'economia classica, addirittura al suo letto di morte, ripetono le più primitive concezioni sulle condizioni naturali del pluslavoro e quindi del plusvalore, e con ciò credono di dire qualche cosa di nuovo e di convincente sulla rendita fondiaria, dopo che questa rendita fondiaria si è da tempo sviluppata [e in fondo, s'intenda, presso gli stessi classici come Ricardo, prima che nello stesso Marx] come forma particolare e parte specifica del plusvalore? E' appunto una caratteristica dell'economia volgare ripetere cose che erano nuove, originali, profonde e giustificate in un certo grado di sviluppo ormai superato, e ripeterle in un periodo in cui esse sono diventate banali, ammuffite e sbagliate".
Lungi dunque dall'andare a vedere se finalmente le grandi riviste, i testi universitari e i trattati ufficiali hanno fatto gioco alla dottrina di Marx, noi liquidiamo con questo solo e secco colpo non solo economia ma anche sociologia e filosofia da mezzo ottocento a mezzo novecento.
Quelli che fanno epoca
Engels, chiamato in ballo, è noto come desse importanza immensa alla spiegazione trovata dalla genialità di Marx al famoso Tableau économique di Quesnay, da noi già richiamato. Ciò in un celebre scambio epistolare coll'amico, e in un capitolo dell'Antidühring, provocato dal fatto che il Dühring stesso, convinto di dire cose nuove a proposito di quel Quadro e del Quesnay, ricade crassamente nelle più sorpassate e banali posizioni.
Il Dühring afferma compiere "una impresa che assolutamente non ha precedenti" quando scopre che la dottrina dell'economia è "un fenomeno straordinariamente moderno". Ma Engels gli rinfaccia che già Marx ha detto: "L'economia politica come scienza a sé prende piede nel periodo manifatturiero", e che "l'economia politica classica comincia in Inghilterra con Petty, in Francia con Boisguillebert, e ha termine in Inghilterra con Ricardo, in Francia con Sismondi". Ed Engels:
"Il signor Dühring segue questo cammino che gli è stato tracciato, solo che per lui l'economia superiore comincia solo con i miserabili aborti che la scienza borghese ha messo al mondo dopo la fine del suo periodo classico".
Dunque anche in Engels è chiaro il concetto che ogni scienza di classe, dopo un brillante ed esplosivo inizio, inesorabilmente declina quando la classe che ne è soggetto da rivoluzionaria diventa conservatrice. Quando il Dühring nella sua Storia critica degli economisti... precedenti arriva a Quesnay e al suo Quadro, lo dichiara incomprensibile, mostrando ignorare che la chiave che a lui sfugge era stata già data da Marx: al che Engels limpidamente riespone, spianando la via a chi trovasse troppo dura la succosa spiegazione di Marx (Dottrine, Cap. XIV), la costruzione del Tableau. Marx procede poi alla effettiva spiegazione critica delle deficienze del Quadro; ma il Dühring, che ne fa aspro governo, aveva cominciato col non capire che cosa il Quadro volesse dire, per lo stesso suo autore.
Non interessa seguire ulteriormente la scrupolosa vivisezione engelsiana delle enormità del signor Dühring, poiché quello che qui ci interessa è la misera fine del metodo dell'aggiornamento, del superamento scientifico di ogni predecessore. I Dühring sono a migliaia, e, come quello, volendo andare oltre Marx, restano al di sotto non solo del geniale Quesnay ma dei più remoti ingenui autori da cui cominciano la sufficiente critica. Il Dühring, all'inizio - difatti - aveva accampato "la pretesa di creare un sistema nuovo non solo sufficiente per l'epoca, ma che faccia epoca esso stesso". Autori di sistemi nuovi, autori che fate epoca, sarà breve la nostra polemica con ciascuno di voi: la ridurremo a una parola e ad un atto, dopo che vi sarete fatti avanti: dietro-front!
Come degnare di un trattamento meno pedestre simili zibaldoni, quando il ripetuto signor Dühring dopo averne ammannito uno sulla difficoltà di spiegare il profitto dell'affittuario agricolo e il suo rapporto colla rendita del padrone della terra, col loro eventuale coincidere (ed Engels gli contrappone un limpido passo al riguardo di Adamo Smith in cui questa analisi è esaurita, come nei trattati universitari moderni da noi richiamati, al di fuori di ogni dubbio), va a cascare in una conclusione di questa fatta: il guadagno dell'affittuario si fonda sullo sfruttamento della forza di lavoro della terra! e quindi è "una parte di rendita"!
Ora è al di sotto della concezione di Marx: la rendita è una parte specifica del plusvalore totale, quella di Quesnay: la rendita della terra è una parte del plusvalore e quindi del sopralavoro, ma vi è plusvalore e sopralavoro solo nella azienda agraria. E' ancora al di sotto di quella di Quesnay quella ingenua: la rendita viene dalla fertilità naturale e non da sopralavoro umano. Ma il superamento di Dühring colla formula: forza di lavoro della terra in cui si ha lavoro senza che vi siano braccia umane, ci riporta alla battuta, che non avevamo posto in riferimento a lui: voi dormite e Kinglax lavora! E alla mattina questo sopralavoro scientificamente scoperto in modo da fare epoca si raccoglie ove non è che luce. E soccorrete, pagine da "vient de paraìtre"!
Rendita e capitalismo
La seconda fonte marxista cui siamo passati - ossia il capitolo 47 del terzo tomo del Capitale (non meno di altra che possiamo indicare in quelli del primo tomo sulla accumulazione iniziale e specialmente sulla "genesi dell'affittaiuolo capitalista") - ci permette di chiarire ancora, ritornandoci prima di proseguire, dato che l'argomento è tanto notevole quanto delicato, questa serie storica: feudalesimo - capitalismo agrario - capitalismo manifatturiero statale - industrialismo privato, il cui ordine andrà assai di traverso ai vari strati di facce oblique.
Bisogna capire che quando il problema moderno della rendita fondiaria si pone, siamo già in piena economia capitalistica. E infatti in tale ambiente lo pone Quesnay. Il prodotto agrario totale (non meno che le condizioni del lavoro agrario: terra ed attrezzi, scorte, ecc.) è tutto già separato dal lavoratore produttivo. I miliardi a cui Quesnay riferisce il prodotto totale nazionale sono tutti cinque ricavati dalla vendita delle derrate e sono nelle mani degli affittuari agricoli e quindi di capitalisti. Tutti i prodotti sono quindi passati dal mercato, nessuno consumato dal diretto produttore (come nella sopravvissuta piccola coltura, come nella economia naturale del feudalesimo). Due quinti di tale denaro sono pagati dagli affittuari come rendita ai proprietari fondiari e quanto al resto della circolazione fra le "tre classi" di Quesnay: produttiva (salariati agricoli e fittavoli), proprietaria e sterile (industriali e loro operai), essa è dimostrata nel Quadro, che qui non esponiamo. Importante è che anche i lavoratori agricoli acquistano i generi di sussistenza con denaro, ma per Quesnay questo avviene "entro la classe produttiva".
Vi sono quindi 5 miliardi di prodotto lordo agrario, 3 di prodotto netto, di cui 2 formano la rendita dei proprietari, 1 la remunerazione del capitale di esercizio detenuto tutto dai fittavoli nella misura di 10 miliardi, in ragione del 10 per cento: gli altri 2 miliardi compensano le anticipazioni e logorii. Siamo in ogni modo già ai criteri capitalistici:
1) Tutto il prodotto è merce;
2) Tutto il sovraprodotto deriva da sopralavoro, ossia i lavoratori agricoli consumano due e producono cinque;
3)Tutto il profitto sta nelle mani dei fittavoli o capitalisti agrari, che sono però tenuti a stralciarne due terzi a benefizio dei proprietari fondiari: la loro rendita.
Questa concezione che non vede sottrazione di sopralavoro agli operai non agricoli si spiega col prevalere dell'agricoltura sull'industria. Nell'audace ipotesi fisiocratica tutta l'agricoltura ha cessato di essere feudale, ma la produzione industriale è ancora secondaria rispetto a quella agricola. Mano mano che la manifattura e l'industria ingigantiscono il quadro risulta inadeguato. Ma la società descritta è già la società "di Marx" con tre classi che si dividono il prodotto netto: ai lavoratori il salario, ai capitalisti il profitto, siano essi fittavoli o industriali, ai proprietari immobiliari la rendita. Profitto più rendita formano il plusvalore.
In questa società "astratta" non ci sono artigiani e piccoli contadini: in effetti tali classi sono ancora oggi ovunque presenti, ma sono classi "non caratteristiche" della società borghese, classi "superstiti" dei tempi precapitalistici in quanto esistevano anche senza che vi fossero salariati, capitalisti intraprenditori, possessori di terra alla maniera non signorile, ma mercantile e borghese. Ora tutto questo è confermato dal testo di Marx.
Passi espressivi
"La rendita è pagata dal prezzo del prodotto del suolo", quindi la rendita deve essere spiegata come parte del prezzo pagato sul mercato per la merce-derrata. Ora da questa somma di denaro deve uscire: la ricostituzione del capitale di esercizio per il fittavolo imprenditore - il pagamento di salari agli operai agricoli in misura almeno atta alla loro sussistenza e riproduzione - il guadagno del fittavolo (profitto dell'impresa agraria) - la rendita al proprietario. Quindi pieno mercantilismo e capitalismo.
Per i fisiocrati, come detto, la negazione di produttività al lavoro manifatturiero non toglie che "il capitale produttivo di rendita, ossia il capitale agricolo, produce plusvalore". Intanto, dunque, si pone il quesito: cosa è la rendita della terra in quanto l'agricoltura è tutta condotta dal capitale, al modo capitalista? Quindi la nostra tesi: il capitalismo nasce agrario e la sua prima dottrina rivoluzionaria è la fisiocratica, embrione di quella dell'economia classica.
Marx anche qui antepone il sistema fisiocratico al sistema monetario, "che non arriva alla concezione del plusvalore", tuttavia "giustamente proclama come premessa e condizione della produzione capitalistica la produzione per il mercato mondiale e la trasformazione del prodotto in merce, quindi in denaro":
"Nel suo svilupparsi nel sistema mercantilistico, non è più la trasformazione del valore-merce in denaro, bensì la produzione del plusvalore che decide, ma dal punto di vista superficiale della sfera di circolazione (...) questo plusvalore si presenta come (...) eccedenza della bilancia commerciale",
ossia come un sovrapprofitto nel giro denaro-merce-denaro svolto sul solo mercato. Se è vero che sono i fisiocratici i primi a riportare l'origine di ogni plusvalore (e quindi di ogni sua accumulazione successiva) nella sfera della produzione, nei mercantilisti troviamo che
"la cosa che esattamente caratterizza i commercianti e i fabbricanti interessati di quel periodo, e che giustamente corrisponde al periodo dello sviluppo capitalistico da essi rappresentato, è che nella trasformazione delle società agricole [aziende, imprese agrarie borghesi] feudali in società industriali, e nella corrispondente lotta industriale delle nazioni sul mercato mondiale, il loro scopo principale è uno sviluppo accelerato del capitale, che si deve raggiungere non per la cosiddetta via naturale, ma attraverso mezzi coercitivi. Vi è un'enorme differenza se il capitale nazionale [accumulazione di moneta nelle casse statali] si trasforma gradualmente e lentamente in capitale industriale, oppure se questa trasformazione viene affrettata mediante l'imposta rappresentata dai dazi protettivi con cui essi colpiscono soprattutto i proprietari fondiari, contadini medi e piccoli e artigiani (...). Il carattere nazionale del sistema mercantilistico non è quindi una semplice frase sulla bocca dei suoi portavoce. Con il pretesto di occuparsi semplicemente della ricchezza della nazione e delle risorse dello Stato, essi praticamente proclamano gli interessi della classe capitalistica e l'arricchimento in generale come fine ultimo dello Stato e proclamano la società borghese contro l'antico Stato di diritto divino".
Si pensi, nel leggere tali passi, all'attuale processo, che si ripete in fase di due secoli in ritardo, Europa-Russia-Cina, come tratteggiato tra l'altro nel recente rapporto a Firenze. Ribattiamo ancora che quella prima forma di capitalismo avente traguardo l'impresa agricola e non ancora quella manifatturiera ed esportatrice, era già oltre i rapporti delle agricolture preborghesi; e ribattiamo che al solito non mandiamo fuori (honny soit chi pensi a Kinglax) assolutamente nulla di originale.
"Nella economia naturale vera e propria, quando nessuna parte del prodotto agricolo, o solo una parte insignificante, entra nel processo di circolazione, ed ancora soltanto una porzione relativamente insignificante della parte del prodotto che rappresenta il reddito [in natura] del proprietario fondiario, come p. es., in molti latifondi dell'antica Roma, nelle ville di Carlo Magno e più o meno durante l'intero Medioevo, il prodotto ed il plusprodotto dei grandi possessi non consiste semplicemente nei prodotti del lavoro agricolo. Comprende anche i prodotti dell’artigianato industriale. Lavoro agricolo domestico e lavoro manifatturiero, come collaterali dell'agricoltura, che costituisce la base, sono la condizione di quel modo di produzione su cui si fonda questa economia naturale nell’antichità e nel Medioevo europei, come ancora oggi nelle comunità indiane, là dove la loro organizzazione tradizionale non è stata ancora distrutta. Il modo di produzione capitalistico dissolve completamente questo legame, processo questo che si può studiare su larga scala in Inghilterra precisamente durante l'ultimo terzo del XVIII secolo".
Può essere studiata per i prossimi trent'anni di questo XX secolo nella Cina, aggiungeremo noi. Lo scorcio storico di Marx che cita Cartagine, Roma, la Cina del secolo scorso, tende a stabilire che non vi è vera rendita come nella descrizione di Quesnay che quando vi è prezzo del totale prodotto sul mercato e capitale investito nella impresa rurale, quando ormai la separazione tra agricoltura e manifattura, campagna e città, è un fatto compiuto. Ad un tale stadio il capitale industriale è tuttavia ai primi vagiti di quella che sarà la sua corsa travolgente alla accumulazione e alla concentrazione; ma la rivoluzione capitalista si è avverata come primo campo nelle aziende terriere.
Lavoro - derrate - denaro
In questa forma ancora scarsamente industriale ma con la terra ormai libera e commerciabile: il servo svincolato, il capitale investito nell'agricoltura, il prodotto tutto posseduto dal fittavolo e venduto al mercato, abbiamo già il plusvalore e la marxista rendita fondiaria capitalista, tutta sorta da umano sopralavoro.
Potevamo prima di ciò parlare di rendita? In un certo senso si, e si trattava anche di rendita da sopralavoro, ossia di lavoro altrui sfruttato dal redditiero, ma non di rendita in denaro, ma non - in senso ristretto - di sopravalore, perché questo si cristallizza solo quando tutto il prodotto si trasforma in moneta, ed è una aliquota di questo valore-moneta in cui il prodotto di arrivo si convertì integralmente. Tre magistrali paragrafi lo chiariscono: La rendita in lavoro, La rendita in prodotti, La rendita in denaro.
Rendita in lavoro. Il produttore immediato dispone di un suo campo e degli attrezzi, quindi delle condizioni del suo lavoro. Ma è obbligato dall'ingranaggio sociale a dare, oltre il lavoro nel proprio campo, i cui prodotti consuma colla famiglia, ore nel giorno o giorni nella settimana di lavoro sulla terra del signore. Il sopralavoro è qui evidente, ed immediata la sua analisi e abbiamo un primo germe del futuro sopravalore. Sono le forme sociali del servaggio medioevale ed asiatico. Nella schiavitù antica e nella odierna delle piantagioni la rendita assorbe il profitto e si confonde con esso se ai lavoratori viene corrisposto il solo materiale alimento. Negli altri casi, soddisfatto il suo obbligo di lavoro servile, è possibile che al produttore immediato resti qualche margine sul suo consumo ed anche su quello che in futuro sarà il salario, equivalente del lavoro necessario.
Rendita in natura. Il lavoratore agricolo non presta lavoro (corvée, comandata) ma deve recare al signore o all'ente religioso una quota del prodotto del suo campo (dime, decima). E' mutata la condizione del produttore immediato nel senso che egli, oltre che delle condizioni del suo lavoro, dispone di tutto il suo tempo di lavoro, sebbene si possa determinare dall'onere del prodotto che deve fornire al signore la quota di sopralavoro che gli è sottratta. Questo tipo di lavoratore resta un servo se è vincolato alla terra ed allora si ha il pieno rapporto personale che definisce il feudalismo, in quanto al signore non importa tanto la estensione della terra cui presiede, ma il numero delle unità lavorative soggette. Si tratta tuttora di economia naturale, non vi è tendenza a smistare dalla campagna il lavoro manifatturiero, tutto il sopralavoro diviene rendita.
Rendita in moneta. Quella quantità di prodotti che il piccolo produttore dava in natura, è ora rappresentata da una somma in denaro. Tuttavia fino a che tra il lavoratore e il proprietario non si interpone un fittavolo, non possiamo ancora parlare di rendita fondiaria capitalista, essendo tuttora vero che la forma prevalente che il sopralavoro prende è rendita terriera. Pagata al particolare o allo Stato questa forma non è facile a sostituire al tributo in prodotti (ancora al tempo di Marx era questo il passaggio per l'Europa orientale: si ricordi l'imposta in natura di Lenin). Solo dopo l'avvento di questa forma, che presuppone un dato sviluppo tecnico e un mutamento delle condizioni e rapporti di lavoro, si comincia a formare il fittavolo capitalista con la espropriazione ed espulsione (=liberazione totale) del contadino, che si trasforma in salariato staccato dalla terra e dagli strumenti di lavoro.
Qui segue l'esame del sistema di colonia (mezzadria) e della proprietà parcellare, che conduce alla citata loro condanna. Ma siamo giunti alla forma sviluppata di rendita capitalista, che ci conferma l'avvenuta rivoluzione sociale, anche prima, in molti paesi, che l'industria si sviluppi:
"Come forma di transizione dalla forma originaria della rendita alla rendita capitalistica possiamo considerare il sistema mezzadrile, o parziario (...). Ma il punto essenziale è che qui la rendita non appare più come la forma normale del plusvalore".
La rendita pienamente capitalista appare quando il lavoratore immediato non dispone di alcuna delle condizioni di lavoro: né il suolo anche in limitata estensione, né alcun attrezzo o scorta, ma solo la sua forza personale: ed è un salariato. Da questo momento il sopralavoro si divide in profitto e rendita fondiaria, da questo momento la rivoluzione capitalista nel modo di produzione è compiuta.
Philosophie enfin!
Si era promessa un poco di filosofia per alleggerire l’economia, ma si è pur dovuto riepilogare quanto già detto sulle varie teorie tendenti a spiegare il "mistero" della rendita fondiaria. Lo si è fatto senza formule né numeri, ma è stato opportuno ribadire quanto si era dedotto da uno dei testi marxisti con le stesse tesi prese altrove da Marx e da Engels e ciò ad ulteriore confusione di quelli che farneticano su rettifiche di tiro dottrinali avvenute nello stesso corso della vita dei due fondatori del comunismo critico. Non solo la teoria come potremmo darla in un sistema di relazioni matematiche, ma lo stesso rigore terminologico e di formulazione verbale, è istituito in modo definitivo e non revisionabile.
E dunque: nella produzione rurale, sempre che vi è godimento di classi di non lavoratori, tutto questo eccedente si trae da lavoro e non da dono della natura che non costi umano sforzo. Tutto dunque esce dal lavoro totale che crea il prodotto totale. Esso si riduce a prodotto netto, disponibile per il consumo umano, dopo ricostituito quanto di riserve occorre per una nuova annata lavorativa.
Parte del prodotto netto lo consuma il lavoratore immediato per ricostituire la forza produttiva umana. Parte, che chiamiamo sopraprodotto e quindi sopralavoro, lo consuma la classe dei non lavoratori.
Nell'economia naturale il sopralavoro è tutta rendita. Il signore feudale lo preleva in lavoro, quando il lavoratore dà tempo di opera nel campo padronale - lo preleva in natura, quando gli cede una parte del prodotto. Il lavoratore è servo.
Una forma di transizione tra la economia naturale e quella mercantile-capitalistica piena è quella in cui: a) il lavoratore sia libero; b) la rendita si cominci a pagare in denaro (piccolo affitto) o anche in natura (piccola colonia); c) l'azienda sia ancora parcellare (minima coltura) sufficiente alla capacità di lavoro del fittuario o colono. A queste forme può aggiungersi la piccola proprietà emancipata in cui il lavoratore parcellare non deve rendita a nessuno, pure soggiacendo ad oneri vari (imposte, ecc.). Siamo però giunti al punto che gran parte del prodotto arriva al mercato commerciale e si converte in denaro.
Nell'economia agraria capitalista, che in generale precede quella industriale, le piccole particelle di terra sono riunite in unica azienda condotta dal fittavolo imprenditore, che dispone del capitale di esercizio e riduce i lavoratori spossessati del pezzetto di terra a semplici suoi salariati.
L'ideale dei fisiocratici è una società tutta basata su grandi aziende terriere capitalisticamente gestite, con una circolazione di merci e denaro fondata sulla prevalente produzione agraria, di cui la manifattura è un accessorio non produttore di accumulo di ricchezze (per l'erronea supposizione che non vi si genera alcun sopralavoro e sopravalore). Come storicamente, ideologicamente si classifica questa scuola economica? Quale la sua posizione rispetto alle filosofie moderne della Enciclopedia che precorrono la grande rivoluzione borghese? Una corrente opinione (sulla falsariga sbagliata: antitesi agricoltura-industria corrisponde ad antitesi feudalismo-capitalismo, ad antitesi diritto divino - sovranità popolare), conduce i più a vedere nei fisiocratici reazionari difensori dell'antico regime contro le nuove forme rivoluzionarie. E' questa falsa credenza che Marx abbatte.
Tra i più notevoli fisiocratici, è vero che Quesnay sosteneva la monarchia assoluta, ma la sua critica del sistema parlamentare basato sull'equilibrio di forze e controforze è notevole, perché afferma che conduce alla divisione dei grandi ma all'oppressione dei piccoli. Mercier de la Rivière scrisse che l'uomo in quanto destinato, a vivere in società è destinato a vivere sotto il dispotismo. Ma anche in questa tesi si è forse più avanti e non più indietro dei vaneggiamenti libertari dell’illuminismo. Ma vi sono poi Mirabeau padre e Turgot, uomini politici e ministri radicali e borghesi, che anticipano la rivoluzione. Notevole sotto il profilo sociale è che essi succedono ai sistemi di Colbert, ministro di Luigi XIV e di Law, esponenti sotto il vecchio regime dinastico degli interessi del capitale commerciale e manifatturiero, fautori dell'intervento statale nella economia, del protezionismo, della accumulazione di Stato delle grandi finanze per investimento capitalistico. Una tale politica economica di capitalismo diretto e di Stato condusse a dissesto e fallimento, mentre invece nella forma capitalista la agricoltura francese rifioriva: i fisiocratici esprimono questo stadio e quindi non è che logica conseguenza il fatto che fossero per il libero scambio e il non intervento economico dello Stato, fatto ritenuto dai loro critici coincidenza fortuita.
Ciò non toglie che per Marx il sistema fisiocratico contenga gravi contraddizioni connesse a quella fondamentale: hanno scoperta la plusvalenza ma solo sotto forma di una differenza tra puri valori d'uso, insiti alla materia delle derrate prodotte e di quelle consumate; hanno scoperto che
"la separazione del lavoratore dalla terra e dalla proprietà della terra è la condizione fondamentale per la produzione capitalistica e per la produzione del capitale",
e che la plusvalenza è eccedenza sul salario pagato in moneta, ma non hanno inteso che ovunque vi è vendita di forza lavoro si verifica plusvalenza e si accumula capitale. Ma in effetti essi accompagnavano la trasformazione del proprietario feudale in capitalista borghese allorquando difendevano la libertà di azione dell'impresa capitalista:
"Si comprende nello stesso tempo come l'apparenza feudale di questo sistema [fisiocratico], così come il tono aristocratico dell'esposizione, dovesse fare di una massa di signori feudali i seguaci entusiasti e i propagatori di un sistema che, essenzialmente, proclamava il sistema borghese di produzione sulle rovine del sistema feudale".
Precoscienza borghese
Le dette contraddizioni dei fisiocratici
"sono contraddizioni della produzione capitalistica mentre si sta aprendo la via per trarsi fuori dalla società feudale e si limita a interpretare la stessa società feudale in modo più borghese, ma non ha ancora trovato la sua forma specifica; pressappoco come la filosofia, la quale dapprima si elabora nella forma religiosa della coscienza, e in tal modo, da un lato annienta la religione come tale, dall'altro si muove positivamente ancora soltanto in questa sfera religiosa idealizzata, risolta in pensiero".
Questo capoverso rapido e conciso serve di esegesi alla famosa tesi della prefazione alla Critica dell'economia politica: un'epoca di transizione rivoluzionaria non può essere giudicata secondo la coscienza che ha di se stessa.
E' noto il gran conto che Marx faceva del materialismo classico francese la cui vittoria accompagnò la grande rivoluzione, che ai suoi compiti sociali e politici aggiunse quello, nel periodo rivoluzionario, di "annientare la religione".
Naturalmente la nostra teoria della rivoluzione borghese, sulla base del materialismo dialettico proletario, è ben diversa da quella che ne dava quel primo materialismo.
Esso aveva negato che la coscienza dell'uomo fosse riempita dagli apporti della divina rivelazione e dovesse secondo questi e per grazia di questi risolvere i quesiti non solo del comportamento individuo ma della vita sociale e del potere pubblico; aveva coerentemente negata la monarchia di diritto divino. Ma in sostituzione di questa fonte spirituale, la coscienza era stata riportata entro l'individuo come base, sia pure raziocinante, delle decisioni di questo sul suo comportamento di privato e di cittadino e sulla scelta libera ed elettiva degli uomini e gruppi di governo. Tale coscienza staccata dalla divinità precedeva sempre tuttavia nella sua forma mentale l'azione umana, era dunque "idealizzata ed ideale "e non cessava di muoversi "in una sfera religiosa".
Sebbene molti dei classici del materialismo francese fossero proclamati atei, Voltaire, pur fiero nemico dell'autorità dottrinale e civile della Chiesa, era deista; la rivoluzione innalzò veri e propri altari alla "Dea Ragione". La storia futura doveva poi ribadire la completa riconciliazione della società e dello Stato borghese con le forme ufficiali e dichiarate della religione.
Non è possibile infatti uscire, come si diceva anche in Germania al tempo del borghese anticristianesimo di Feuerbach, dalle brume della religione, se non si detronizza la "coscienza" personale (e la stessa coscienza collettiva) dal suo posto di antesignana e non le si dà, come nel materialismo sviluppato e dialettico, il posto che le compete: di ultima arrivata, di passiva registratrice di eventi che non solo non determinò e provocò, ma non seppe neppure comprendere prima e durante il loro svolgersi.
Una conferma della inadeguatezza e della transitorietà della coscienza di ogni rivoluzione nelle successive sue statiche forme, e quindi una conferma della validità del materialismo storico che vede nella coscienza teorica delle varie classi una sovrastruttura sorta sulla base materiale dei fatti economici, e tuttavia non toglie con ciò importanza allo studio e alla comprensione di tutte le sue successive "scuole" e "sistemi" che divengono altrettante forze storiche, la trae qui Marx dall'esempio dei fisiocratici e della incompiutezza della loro visione, avanzata tuttavia e geniale per quei tempi.
I sistemi che si illudono di contenere la verità assoluta, anche quando sono veri e vitali e non hanno a che fare con elucubrazioni soggettive di smarriti e presuntuosi autori, in tanto sono efficienti in quanto contengono contraddizioni e negazioni potenti di quanto credono loro affermato contenuto:
"L'apparente glorificazione della proprietà fondiaria si rovescia nella negazione economica (di questa) e nell'affermazione della produzione capitalistica".
Ed infatti i legislatori della Rivoluzione tentarono di giungere fino alla confisca della proprietà terriera da parte dello Stato borghese e questa era stata già pienamente teorizzata da Ricardo, esponente di una forma più avanzata della coscienza borghese, della preminenza del capitalista industriale sul proprietario fondiario.
In tutti questi sistemi però la dottrina non è presentata come coscienza di una classe dominante nella società, ma come un "ideale" per la migliore sorte di tutti gli uomini che la compongono.
Ed infatti, per i fisiocratici francesi,
"i capitalisti sono capitalisti solo nell'interesse del proprietario fondiario, esattamente come l'economia politica, nel suo sviluppo successivo, li fa essere capitalisti solo nell'interesse della classe lavoratrice".
Gli uni e gli altri credono di fare pura scienza economica ma "si muovono in una sfera idealista alla maniera religiosa".
Il materialismo dialettico e rivoluzionario del movimento comunista in tanto è potente come teoria e ha nella teoria la prima arma rivoluzionaria, in quanto non lega l'azione umana a nessuna coscienza e ributta ogni demagogia, che si appoggi su questo illusorio e risibile fondamento.