Mai la merce sfamerà l'uomo (7) (CXXVI)
VII. Rendita differenziale appetito integrale
"Hors d'œuvre"
Noi siamo giunti al loco ov'io t'ho detto... siamo al capitolo terribile, quello che di solito, nell'ingranaggio pietoso della scuola borghese di ogni grado, è il terrore dello studentello, il classico ponte dell'asino, il pericolo che vacilli l'ideale radioso: uscire raggiante dalla sala, sventolando all'indirizzo del docente il più scurrile dei gesti (ogni riferimento a saluti politici non è che fortuito).
La scolastica fu la gloria del Medioevo ed è la vergogna del tempo capitalistico moderno; è uno e non il solo, dei campi in cui raggiunge fastigi eccelsi il contrasto tra la sbornia di retorica inneggiante al trionfo della cultura e la prassi sfacciata della diffusione e accreditamento alla menzogna di classe, al servilismo, all'espedientismo, al carrierismo in cui prevale chi "sente" il gran traguardo della vita borghese contemporanea: venalità, fannullonismo.
Non a caso dicemmo che i maestri del comunismo dedicarono più pagine alla questione agraria, che andiamo riesponendo, che non alla questione "industriale". Tanto nelle esposizioni organiche che in quelle storiche, seguendo il sorgere della società borghese ed il formarsi della scienza economica, l'esigenza determinante della richiesta non riguarda il bilancio del produttore immediato che lavora e consuma; né quello dell' "azienda" capitalista che produce e smercia; ma riguarda il quadro immenso della popolazione vivente e della sua alimentazione, lo studio della complicata macchina con cui il cibo arriva agli uomini, sempre meno semplice da quando Eva stese la mano al pomo senza avere preliminarmente eseguita nessuna delle operazioni aritmetiche.
La stessa questione si posero tutti e Quesnay e Ricardo e Malthus, particolarmente battuto in breccia da Marx, con la sua disequazione tra cibi e bocche: i primi crescono in ragione aritmetica (uno, due, tre, quattro...), le seconde in ragione geometrica (uno, due, quattro, otto...); da che la fame. Non potendo quindi aumentare cibo, diminuite bocche facendo meno figli. Parlava un prete e dio disse di crescere e moltiplicare; il vescovo anglicano non propose di amare e non generare, ma girò la questione con la moral restreint, ossia la rinunzia all'amore: vecchia ricetta dell'alto Medioevo e di una economia vagheggiata da San Benedetto e da Carlo Magno con comunità che lavorano per mangiare e non prolificare. Ma, al solito, di cappello a Benedetto e a Carlo, che con le loro aziende conventuali al tempo stesso antevidero l'oppressione selvaggia del capitale sugli eserciti di lavoratori e la successiva economia associata; mentre Malthus retrovedeva l'impossibile e l'inumano. E Marx, che dedica capitoli interi ad analizzare ad esempio le equazioni di Ricardo e gli sforzi degli economisti inglesi per spiegare le ondate di alzata e crollo dei prezzi del grano, Marx sdegna di ricalcolare Malthus, sia pure per ridurlo all'assurdo, ma lo sgombra a pedate non matematiche. Onde ecco una citazione, ottimo aperitivo al fiero pasto imbandito:
"Una fondamentale volgarità di sentimenti caratterizza il Malthus, una volgarità che può permettersi soltanto un prete, il quale riconosce nella miseria umana la punizione del peccato originale e in generale ha bisogno di "una terrena valle di lacrime", ma che in pari tempo, per riguardo alle prebende che gode e con l'ausilio del dogma della predestinazione, trova assolutamente vantaggioso "addolcire" alle classi dominanti il soggiorno nella valle di lacrime".
Simpatia allo stoicismo
Non si può astenersi da una digressione utile, sulla soglia della teoria di Ricardo sulla rendita, imbattendosi in una delle decisive sintesi, dettata dal confronto tra questi e Malthus, magnifico invito ad abbeverarsi di dialettica.
Malthus, sotto la bufera di male parole, ha tuttavia un merito, "rispetto ai miserabili maestri di armonie dell'economia borghese", che
"è appunto l'accentuato rilievo delle disarmonie che certamente in nessun caso egli ha scoperto, ma a cui in ogni caso si attiene, le dipinge e divulga con pretesco e compiaciuto cinismo".
Dunque la critica del capitalismo anche in quel del 1815 è possibile e giusta, ma la posizione storica e politica contro di esso è da combattere. In noi marxisti non si fa mai scienza per la scienza, ma sempre lotta politica (stiano ben tranquilli i compagni d’oltralpe che si preoccupano di garantire che queste trattazioni siano legate all'attualità, venere spesso... infrancesata). Malthus non aveva altro scopo, per il quale consuma plagi e falsi scientifici, che quello di "difendere la proprietà fondiaria reazionaria contro il capitale 'illuminato', 'liberale' e 'progressista'". Legnate dunque a Malthus! Plauso a Malthus, in quanto sa che illuminismo, liberalismo e progressismo sono pure, purissime balle della borghesia. Ma, "l'odio della classe operaia inglese contro Malthus è pienamente giustificato"!
Il contrasto tra Malthus e Ricardo è questo; il secondo esprime la pressione di prorompenti forze produttive ed esalta la produzione per la produzione, alla quale sacrifica ogni interesse particolare e di classe, ed anche del proletariato, apertamente dicendolo; il primo, topo da doppio gioco, quando la produzione urta l'interesse di classe dei proprietari e dei rentiers, sacrifica la stessa ipocritamente e per tale scopo compie falsi scientifici: questo per Marx significa essere "volgare". E nei riguardi delle classi operaie?
"Non è volgare da parte di Ricardo quando egli mette i proletari sullo stesso piano del macchinario o della bestia da soma o della merce, perché (dal suo punto di vista) la "produzione" esige che essi siano solo macchinario o bestia da soma, o perché essi in effetti sono solo merci nella produzione borghese. Ciò è stoico, obiettivo, scientifico ". Vecchio béguin per la filosofia stoica greca, Carlone? Qua la mano!
"(...) Il prete Malthus invece abbassa gli operai a bestie da soma a causa della produzione, li condanna alla morte per fame e al celibato. [Ma] quando le medesime esigenze della produzione riducono al proprietario fondiario (Landlord) la sua "rendita"(...), cerca, per quanto sta in lui, di sacrificare le esigenze della produzione all'interesse particolare delle classi o frazioni di classi dominanti esistenti ".
La produzione fine a se stessa? E' dunque questo un mito immanente per tutti i tempi di noi "stoici" e materialisti? Qui la sintesi che abbiamo accennato:
"Giustamente, per il suo tempo, Ricardo considera il modo di produzione capitalistico come il più vantaggioso per la produzione in generale, come il più vantaggioso per la produzione della ricchezza. Egli vuole la produzione per la produzione, e questo a ragione. Se si volesse sostenere, come hanno fatto degli avversari sentimentali di Ricardo, che la produzione in quanto tale non è il fine, si dimentica allora che la produzione per la produzione non vuol dire altro che sviluppo delle forze produttive umane, quindi sviluppo della ricchezza della natura umana come fine a sé. Se si contrappone a questo fine, come Sismondi, il bene dei singoli, allora si afferma che lo sviluppo della specie deve essere impedito per assicurare il bene dei singoli e che quindi, per esempio, non dovrebbe essere fatta nessuna guerra [tastatevi, o pacifisti, il corneo grugno], in cui i singoli in ogni caso si rovinano (...). Non si comprende che questo sviluppo delle capacità della specie uomo, benché si compia dapprima a spese del maggior numero di individui umani e di tutte le classi umane, spezza infine questo antagonismo [tra il bene della specie e quello dell'esemplare] e coincide con lo sviluppo del singolo individuo, che quindi il più alto sviluppo dell'individualità viene ottenuto solo attraverso un processo storico nel quale gli individui vengono sacrificati, astrazion fatta dalla sterilità di tali considerazioni edificanti, giacché i vantaggi della specie, nel regno umano come in quello animale e in quello vegetale, si ottengono sempre a spese dei vantaggi degli individui...".
Se quindi la "brutalità" di Ricardo non si ferma per la morte di proletari o della proprietà fondiaria e se insomma la sua concezione serve gli interessi della borghesia industriale, ciò è unicamente perché in quel trapasso storico "quegli interessi coincidono con quello della produzione o dello sviluppo produttivo del lavoro umano".
L'impianto del modo di produzione capitalistico, che non può avvenire senza feroce sterminio di persone umane, è la via storica obbligata per elevare la capacità produttiva di specie verso quel grado che solo consentirà di superare l'antagonismo che, nella forma delle lotte di classe, sacrifica ad ogni passo l'individuo alla palingenesi sociale. Storicamente il grido: produzione per la produzione! Non significa che la massa sempre maggiore di produzione sia fine a se stessa, ma che si tratta di fare un grande balzo qualitativo nella produttività del lavoro, con l’associazione e l'uso delle forze meccaniche, ponendo le condizioni dell'economia associata, in cui si potrà produrre con meno lavoro, con "proporzionalità "ai bisogni quale Sismondi invocava, e perfino eliminare enormi inutili settori della produzione: solo allora comincerà a cedere l'antagonismo tra il bene di ciascuno e quello di tutti: troppo la cosa era da Ricardo lontana.
Se la Russia del 1953 vale l'Inghilterra del 1815, si permetta a Stalin di calcolare come Ricardo e si basi la lotta contro lo stalinismo sullo smascheramento della pretesa bassamente controrivoluzionaria di costruir socialismo; non su ipocrite lacrime per ecatombi di uomini consacrate a questa europeizzazione dell'Asia, su sentimentalismi per il rientro di rimasugli di armate messe in moto dall’imperialismo ribollente, e lanciate nella fornace della storia capitalista. Filosofia sulle categorie di specie e individuo, o luce diretta sulle polemiche di oggi tra gli stessi "antistalinisti" o, amici, attualità politica "à crever les yeux"?
Misteri del calcolo sublime
Torniamo dunque allo sbigottimento per la famosa formula della rendita differenziale e diciamo di che si tratta: nulla di mefistofelico. Il profano che sente parlare di calcolo differenziale allibisce, al più sa ad orecchio che insieme al calcolo integrale forma il calcolo infinitesimale e alzandosi ancora più stratosfericamente il calcolo sublime, che poi non significa nulla, così come un fesso sublime non è che un fesso. La pura matematica è quella scienza che con nuove parole e simboli dice sempre la stessa cosa. Cosa è l'elevazione a potenza? Una moltiplicazione. E la moltiplicazione? Un'addizione. E l'addizione? Una numerazione, come con le dita sulla punta del naso. Logaritmo, radice, divisione, sottrazione, non sono che le stesse cose fatte all'indietro, come la numerazione indietro: il naso sulla punta delle dita. Ora l'integrazione è ancora più semplice: una lunghissima addizione. E la differenziazione? Una stucchevole sottrazione. Per ambo queste occorrerebbe una bestia che non avesse la mano di cinque dita: poniamo il millepiedi. Dunque tutto si riduce alla numerazione e allora sapete benissimo di che si tratta.
Ora vi ho fregati. Proprio quello che non sapete voi e non so nemmeno io e nemmeno chi, a nostra differenza, trascende il calibro del fesso comune, è la definizione della numerazione. Pensate allo spazio, al tempo, ai figli consecutivi o alle ciliegie del paniere, e ditemi come siete proprio sicuri che con l'identico scatto si va da uno a due e da nove a dieci, e la data di pubblicazione di questa legge nella "Gazzetta Ufficiale".
Comunque in economia la cosa si capirà subito. La cultura universitaria vuole sciogliere il rebus economico applicando la matematica. Noi sappiamo all'opposto che applicando sola matematica mai si è cavato un ragno dal buco e ci serviamo invece della nozione economica immediata che tutti abbiamo per capire la matematica Questa infatti è nata dopo l'economia quanto e più che dopo la fisica: è stata prima agrimensura e poi geometria, prima computisteria e poi algebra e calcolo. Citammo a proposito dell'interesse perpetuo, difficile astrazione teorica, alla portata dell'intuito di tutti, il fatterello della servetta che sapeva il calcolo integrale.
Facilmente metteremo in equazione tutta l'economia di classe. Chi vive a salario limitato deve suddividerlo tra cento acquisti: alla fine di quindicina o di mese il conto non torna mai. Togli e deduci la casa, le scarpe, il pane, il vino, ecc., la cifra si assottiglia paurosamente, pur riducendo a briciole i "sottrattori". Se la grandezza che trattiamo la chiamiamo valore (potremmo chiamarla anche Teresina, pregando la facoltà di filosofia di introdurre la categoria Teresina), il proletariato si dibatte facendo continue e sempre più sottili sottrazioni di valore: differenziando dunque il valore. Questo si indica dai matematici con delta, la lettera greca D . Ed allora essi chiamano V il valore (o T, Teresina, o se volete V, Teresina stessa: non fa nulla). Delta V sarà il differenziale del valore, un valore piccino piccino, da centesimo di lira inflazionata.
Ed ecco la prima equazione:
D V = miseria = proletariato.
(leggi: differenziale del valore uguale miseria, uguale proletariato).
Un segno curioso che sta tra la esse maiuscola corsiva e la chiave di violino si chiama integrale: significa l'addizione di tanti tanti di quei cosini col delta, che sono gli infinitesimi, i differenziali.
Ora tutto il trucco, che in dottrina si è scoperto fin dai greci, è questo: tanti di quei cosini, ma tanti tanti da passare ogni numero nominabile, fanno un totale grosso, palpabile, che i matematici chiamano finito. Infiniti valori da ancora meno di un centesimo fanno un miliardo, di dollari se vi aggrada. Ma forse che questo non lo sanno tutti i componenti della società mercantile?
Ed allora l'integrale di tanti valorucoli forma la ricchezza. Seconda e semplicissima equazione:
∫ D V = ricchezza = capitalismo
(leggi: integrale dei differenziali di valore, uguale ricchezza, uguale capitalismo).
Abbiamo dunque stabilito che le parolacce integrale e differenziale non fanno paura. Abbiamo stabilito che è banale dire: voglio occuparmi di economia (senza di che riconosco di non potere occuparmi di politica e neanche occuparmi di un accidente secco) ma non voglio sapere di matematica nell'economia: è banale perché è stata mamma Economia a figliare la Matematica, alta e bassa.
Siamo andati anche più oltre del bisogno. La rendita fondiaria di cui si occupa Ricardo, e Marx, è differenziale perché deriva da un'operazione di sottrazione, da un margine, da un premio. Allo stesso titolo che la cresta sulla spesa di quella tale enciclopedica servetta è differenziale. Per Ricardo la rendita non può essere assoluta, ma solo differenziale. Per Marx in dato senso si dà anche rendita assoluta. Assoluta vuol dire che scaturisce sempre, differenziale che risulta da un margine, il quale può anche mancare. La cresta sulla spesa non è che differenziale: se la padrona sa tutti i prezzi dei fornitori e questi non fanno ribassi, la cresta scende a zero (parliamo da matematici, per Bacco Bacchiglione!).
Introduzione brillante
La sesta sezione del terzo libro del Capitale tratta la Trasformazione del plusprofitto in rendita fondiaria. E' in queste pagine che viene esposta da Marx la teoria di Ricardo (largamente trattata poi nel III e nel IV tomo della Storia delle dottrine economiche), e quindi la propria, che non nega quella di Ricardo ma la comprende come uno dei tanti possibili casi studiati. Un tale passo è, nella storia della scienza, classico: così ad esempio la teoria di Einstein non nega quella di Galileo, ma la comprende come uno dei suoi casi: quello che la velocità del mobile considerato sia molto piccola rispetto a quella (enorme) della luce. Quindi Einstein e Galileo dicono lo stesso sulla teoria del Rapido delle 14 (esso è molti milioni di volte più lento della luce). Marx fa ciò con copia di prospetti numerici e infine con poche semplici equazioni. A voi piace la "chiacchierata" ed è robustissima anche questa. Tra qualche tempo prevediamo che l'anonimato marxista editerà un testo "3 D": chiacchierata, svolgimento numerico, formule algebriche in parallelo ma indipendenti.
Spigoliamo allora anzitutto, dalla Introduzione a questa parte, un gruppo di pagine evidentemente organico e definitivo, come non sempre avviene nel complesso del terzo libro, edito postumo e da altra, se pure qualificata mano, "impaginato". Forse ci ripeteremo, ma non sarà male prendere fiato prima del toboggan submatematico:
"L'analisi della proprietà fondiaria nelle sue diverse forme storiche esula dai limiti del presente lavoro. Ce ne occupiamo unicamente in quanto una parte del plusvalore prodotto dal capitale finisce nelle mani del proprietario fondiario. Il nostro presupposto è, quindi, che l'agricoltura, precisamente come la manifattura, sia dominata dal modo di produzione capitalistico, ossia che l'economia agricola venga esercitata da capitalisti, che si distinguono in linea di massima dagli altri capitalisti soltanto per l'elemento in cui sono investiti il loro capitale e il lavoro salariato messo in opera da questo capitale".
Scusate l'insistenza, ma qui ancora non entrano in scena né il barone feudale, né il servo, né il contadino piccolo proprietario:
"Quando, perciò, ci viene ricordato che sono esistite ed ancora esistono altre forme di proprietà terriera e di agricoltura, ci viene fatta un'obiezione che non intacca per nulla quanto veniamo esponendo. Ciò può riguardare unicamente quegli economisti che trattano il modo di produzione capitalistico nell'agricoltura, e la forma della proprietà fondiaria ad esso corrispondente, come categorie non storiche ma eterne".
Marx ricorda che per il piccolo contadino autonomo, produttore immediato, la proprietà legale della terra è una delle "condizioni di produzione". Ora, se il capitalismo
"presuppone in generale che i lavoratori siano espropriati dalle condizioni di lavoro", nell'agricoltura esso presuppone che "i lavoratori rurali vengano espropriati dalla terra e subordinati a un capitalista, che esercita l'agricoltura in vista del profitto".
Dunque nel nostro studio abbiamo solo "braccianti"; non contadini-proprietari, non mezzadri, non coloni lavoratori (che bella cosa!).
Abbiamo dunque tre figure: proprietario fondiario, capitalista affittaiuolo, operaio salariato. Da teorico sicuro, Marx semplifica ulteriormente:
"Noi ci limitiamo quindi esclusivamente all'investimento del capitale nella agricoltura propriamente detta, ossia nella coltivazione della pianta fondamentale, che serve al nutrimento di una popolazione". Più ancora: "possiamo prendere, p. es., il grano, costituendo questo l'alimento principale dei popoli moderni a sviluppo capitalistico".
Informatissimi, arricciate nasi: lo scatolame americano dove lo mette?
Quando lo avete afferrato, ecco che vi tocca altro sforzo: "Oppure le miniere, poiché le leggi sono le medesime". Ma gli aggiornatori di Marx si possono perfino mandare a mangiar sapone, prodotto industriale.
Adamo Smith ha il grande merito di aver mostrato che la rendita fondiaria derivante da altre produzioni agricole: lino, piante tintoriali, allevamento del bestiame, ecc., è determinata dalla rendita che si forma dal capitale collocato nella produzione dell'alimento principale: "Dopo di lui non è stato fatto alcun progresso in questo campo". Smith nasce nel 1723, muore nel 1790. Marx fa tabacco per la pipa di un ottant’anni di "progresso scientifico". Anche non fumando, mandiamogliene dietro un'altra ottantina. Così non ci diranno: voi non leggete nulla, Marx leggeva tutto. Noi leggiamo Marx.
Anche qui egli, del resto, si ricollega all'inscindibile unità della teoria. La redazione di queste pagine è degli ultimi anni, forse 1882:
"Il capitale può essere fissato nella terra, venire incorporato, parte in modo più transitorio, come in miglioramenti di natura chimica, concimazione e così via, parte in modo più permanente, come nei canali di drenaggio e di irrigazione, nei lavori di livellamento, nella costruzione di fattorie ecc. E ciò ho altrove chiamato la terra-capitale".
E rinvia alla Miseria della filosofia del 1847, largamente esposta nel precedente di questi scritti.
La rendita di Ricardo
L'opera di Smith sulla Ricchezza delle nazioni è del 1776: un anno dopo, un fittavolo economista, Anderson, dava questa netta formulazione:
"Non è (...) la rendita del terreno che determina il prezzo del suo prodotto, ma è il prezzo di questo prodotto che determina la rendita del terreno".
Così era dato il colpo di grazia alla teoria fisiocratica, all'opinione che la rendita era dovuta alla eccezionale produttività dell'agricoltura, derivata questa dalla speciale fertilità del suolo nota Marx. Scartata questa opinione fisiocratica restano quattro modi di spiegare l'origine della rendita.
Primo. Avendo i proprietari fondiari il monopolio della terra, ossia la legale facoltà di vietare l'accesso a chi loro non piaccia, essi vengono ad avere il monopolio dei generi alimentari, che sono quindi venduti al di sopra del loro valore. Quindi sorge un costante margine o premio che costituisce la rendita.
Secondo (è la teoria di Ricardo). Non esiste rendita fondiaria assoluta ma solo rendita differenziale. Ossia non per tutti i terreni avviene che il prezzo di vendita delle derrate faccia premio sul prezzo di produzione, ma solo per i terreni che sono, secondo una certa scala, più fertili della "terra peggiore". Questa, con la vendita del prodotto, remunera il lavoro e il capitale investito col suo profitto e basta: non vi è margine per il proprietario fondiario. In tal caso la gestione è possibile solo se fittavolo e proprietario sono la stessa persona, perché un canone di fitto non potrebbe essere pagato. Mano mano che la terra è più fertile, il prezzo di vendita è lo stesso, la spesa di produzione minore; il margine è il fitto pagato al proprietario.
Terzo. La rendita è l'interesse del capitale che è servito a comprare la terra. Questa teoria di alcuni difensori della proprietà fondiaria contro Ricardo è per Marx insostenibile, non potendo spiegare la rendita che non deriva da capitali investiti, come per le miniere e le cadute di acqua (punto importante: ad esempio lo Stato italiano ha già incamerata questa forma di rendita e sia le risorse del sottosuolo che quelle idriche si danno non in proprietà ma in sola concessione ai privati gestori, che pagano un canone allo Stato).
Quarto. E' la teoria di Marx. Si ammette una rendita anche per il terreno peggiore, e questo è la rendita assoluta, cui si aggiunge la rendita differenziale passando ai terreni di maggiore fertilità. Non occorre come nella prima delle quattro soluzioni distruggere la legge del valore.
La difficoltà è rimossa rilevando che, sul prezzo di produzione, il valore, dato dal tempo di lavoro medio, realizzabile sul mercato, fa in dati casi un premio. L'errore di Ricardo era di fare uguali per sistema prezzo di produzione e valore, ossia medio prezzo di mercato. Ma vi sono certe categorie, tra cui i prodotti agricoli sia pure della terra più scarsa di fertilità, che consentono un prezzo di produzione al di sotto del valore e prezzo di mercato: tale differenza sistematica è la rendita assoluta. Questa non cessa di essere una parte del plusvalore e del profitto: corrisponde ad un sopraprofitto - donde il titolo della trattazione marxista - che diviene rendita e che con un gioco di parole andrebbe chiamato "sopraplusvalore".
Naturalmente per chiarire la dimostrazione di Marx occorre ben stabilire i concetti: prezzo di produzione - valore di scambio - prezzo di mercato e nel fare ciò non lasciarsi deviare dai correnti concetti dell'economia borghese.
Il prezzo di produzione di Marx non è il costo di produzione... del dott. Costa. Per il capitalista, il costo di produzione comprende tutte le sue spese ed erogazioni: materie prime, lavoro e spese generali. Tutta la differenza tra il passivo del conto di gestione, così costituito, e il ricavo e la vendita, il famoso "fatturato", è utile dell'azienda o, con altra parola, profitto capitalistico. Lasciamo ora andare che nel gergo aziendale questa cifra di margine non si rapporta al movimento spese del ciclo considerato, ma al capitale sociale dell'impresa, anticipato dagli azionisti e che dovrebbe - molto dovrebbe, specie in tempi di oscillazione valutaria - corrispondere al valore patrimoniale di tutta l'azienda, alla cifra con cui si comprerebbe questa con tutti gli immobili, il macchinario e l'accorsamento.
Marx nel prezzo di produzione include oltre alla spesa materie prime e alla spesa salari anche già, se così può dirsi, il profitto del capitale.
Per rendere chiaro questo, dobbiamo lasciare la bassa quota della dinamica economica aziendale e passare ad una dinamica sociale, trattare il profitto non del capitalista singolo o della determinata azienda ed impresa, ma il profitto della classe capitalista (come Quesnay trattò la rendita della classe fondiaria) e meglio ancora il profitto del capitale sociale, in altro senso da quello aziendale, nel senso che già si esprime solo in parte con l'espressione di capitale nazionale - quale esiste nella nazione capitalista; in tutte quelle che rovesciano i prodotti su un mercato di scambio interno ed esterno.
Impostazione di Marx
E' naturale che la teoria della rendita fondiaria non sia costruibile senza prima avere stabilito quella del saggio medio di profitto del capitale: se ne trattò nel Dialogato con Stalin.
Marx ritiene il postulato ricardiano che il prezzo di una mercanzia è dato dalla quantità e quindi dal tempo di lavoro che è stato necessario per avere la stessa. Naturalmente si tratta del prezzo medio per una larga estensione e per un certo tempo e a queste condizioni assumiamo la cifra di tale prezzo come misura del valore di scambio. La definizione per una singola azienda o per un singolo blocco di prodotti cade in difetto: non si deve badare al contingente cumulo di spesa-ore di lavoro che sono occorse, ma a quello che mediamente occorrerebbe nelle date condizioni sociali per riprodurre la merce in discussione.
Vogliamo far dire a Marx questo concetto che di continuo ricordiamo? Basta ricorrere alla stessa sua esposizione del punto di vista di Ricardo.
"Il valore della merce di una determinata sfera di produzione non è determinato dalla quantità di lavoro che la singola merce costa, ma da quello che costa la merce prodotta nelle condizioni medie della sfera".
Se allora dalla congerie dei prezzi di mercato del ramo, poniamo cotoni, deduciamo la cifra media, tralasceremo tanti scarti in più o in meno, dovuti a occasionali circostanze di luogo e tempo, di scarsezza e abbondanza e questi daranno luogo in mille modi a sotto- e sopra-profitti accidentali, che non interessano.
Di questa cifra di valore di scambio sociale facciamo allora la scomposizione nei vari termini e ne deduciamo quanto il borghese chiama le sue spese. Due categorie: capitale costante, ossia materie prime, logorio di macchine e simili - capitale salari o variabile. Resta sempre un terzo elemento per saldare il conto del valore di scambio: ed è il plusvalore, che nella cifra bruta vale il profitto, comprensivo di utile di impresa e di interesse di capitale, se il fabbricante ha preso contante a prestito. Saggio del profitto è il rapporto tra questo utile tratto dal prezzo medio di mercato e le spese anticipate. Fatto tale calcolo in base ai dati generali, sociali, Marx chiama prezzo di produzione la somma dei tre elementi inglobati nella mercanzia: capitale costante, capitale variabile, plusvalore o profitto medio che sia. Una singola azienda che abbia realizzato contratti più favorevoli o per avventura pagato meno del salario medio e meglio comprato materie prime, farà una differenza maggiore che Marx chiama sopraprofitto.
E' inevitabile che una tale sopravalenza sia compensata da altrettante minusvalenze e minusprofitti. Forse che se in una fabbrica l'utile diventa perdita, si concluderà che non vi è plusvalore e sfruttamento? A questo arriverebbero i vari Chaulieu che studiano la dinamica entro l'azienda e sono all'altezza di Proudhon, quando intitolano Dinamique du capitalisme una loro banale Méthaphysique de l'exploitation. In francese questa parola significa allo stesso tempo sfruttamento e intrapresa. Sono poco pasticcioni, chez eux!
Eliminati tutti questi scarti che si compensano, non sono più di faccia il padrone e i suoi operai, ma il capitale nazionale (o mondiale) e il proletariato, il lavoro umano e sociale.
Lo studio della produzione capitalistica nella sua purezza, col gioco della pienissima concorrenza e della legge dei valori (cara a Stalin) che dovrebbe condurre alla famosa armonia tra lavoro e consumo (e se la concorrenza non è più libera, meglio; la porta contro cui lottiamo si sfonda da sé e fessi noi se le volgiamo le spalle come la classe operaia di Europa nell'interguerra; quando tutto il profitto diventerà una "rendita industriale" non ci vorrà tanta matematica a snidare fuori la camorra di classe) perviene a mettere di fronte, nel bilancio sociale, due classi antagoniste e se noi sappiamo tutto il capitale costante nella società e tutto il numero dei proletari nella popolazione, il saggio medio della plusvalenza e quello del profitto ci lasciano calcolare quanta ricchezza passa, nel Quadro di Carlo Marx, dalla classe operaia alla capitalista,
Nel che nemmeno è raggiunta tutta la "filosofia" dello sfruttamento, in quanto occorre stabilire storicamente fino a quando un tale flusso risponde a crescita e delle forze produttive e della parte di redditi destinata a servizi sociali ignoti al precapitalismo quasi del tutto; da quando invece risponde a sperpero folle delle destate forze di produzione, a dissesto e catastrofe nell'ingranaggio immane dei servizi generali.
La soluzione di Marx
I normali settori industriali presentano evidentemente sopraprofitti, ma solo contingenti e accidentali. Difatti l'analisi di Marx ha condotto a queste leggi sul profitto: esso tende ad uniformarsi tra i vari settori della produzione ad un saggio identico; questo saggio tende a discendere nel corso dello svolgimento capitalistico, mentre aumentano enormemente la massa del capitale investito, il numero dei lavoratori salariati, la produttività del lavoro come rapporto tra materie trasformate e tempo impiegato (concetto di composizione organica del capitale) e quindi la massa sociale del profitto: sia questo chiaro o non chiaro al fu Stalin, al fatto fuori Beria, al felicemente regnante Malenkov.
Quindi - se quello che dite voi teorici capitalisti sulle gioie del lasciar concorrere è vero - non possono sorgere sopraprofitti sistematici nei vari rami della produzione dei manufatti. Ma naturalmente se un'organizzazione avesse, poniamo, tutta la gomma del mondo, potrebbe dettare il prezzo al mercato e allora questo sarebbe sistematicamente al di sopra del valore e dell'identico prezzo di produzione: tale organizzazione, pappatosi il suo tasso medio di profitto come ogni libero capitalista, si papperebbe pur sempre un sopraprofitto, istantaneamente e facilmente trasformato in rendita gommaria. Che altro è il parassitismo capitalista che Lenin descrive sorto dai trusts e monopoli? Il capitalista e i manutengoli del capitalismo si godranno queste rendite dal momento che
"costituisce uno dei grandi risultati del modo di produzione capitalistico" l'instaurare uno stato di cose tale "che il proprietario fondiario può trascorrere tutta la sua vita a Costantinopoli, mentre il suo fondo si trova in Scozia" (Introduzione citata).
Questo il "barone" non lo poteva fare, per tutti gli dei; doveva custodire il feudo dal suo castello in armi e caso mai a Costantinopoli non andava in crociera ma in Crociata.
Come dunque al tempo di Marx e di Ricardo prima di lui, questo sopraprofitto si trasformava in generale, nel settore agricolo tutto, in rendita fondiaria, dopo pagato al saggio medio di tutta l'industria l'utile del fittavolo imprenditore?
Ricardo supponeva che sia nell'industria che nell'agricoltura, sul terreno meno fertile, il prezzo di produzione fosse lo stesso del prezzo di vendita, sempre parlando di medie generali. Allora un tale terreno non dà rendita, ma solo copre come abbiamo già detto spese e profitto di impresa. Ricardo considera il valore di ogni prodotto legato al prezzo medio di vendita al mercato, e questo è vero, senza di che la teoria del valore condivisa da Marx cade in fallo. Ma Ricardo lega anche il prezzo di produzione allo stesso valore del prodotto. Marx invece ammette che questo sia vero per tutti i prodotti dell'industria, ma osserva che dedotto da questa il profitto medio, parte del prezzo di produzione, nulla vieta che nella speciale produzione agraria, essendo sempre le derrate vendute al loro valore e il profitto del fittavolo pari a quello del fabbricante, il prezzo di produzione risulti minore. Perché ciò sia, basta che a parità di prodotto vi sia meno impiego tanto di capitale che di lavoro nella media sociale: ciò vale dire che il lavoro applicato alla terra sia più produttivo che quello applicato all'industria. Ed allora lo scarto tra prezzo di produzione e valore venale ricavato al mercato, fermo restando il profitto, deve essere versato al proprietario fondiario, in quanto le leggi e la forza statale gli danno questa facoltà.
E' questo un evento immancabile anche per il terreno più vile? No certo, e infatti vi sono terre senza rendita. Ciò significa solo che non si trova capitale di fittavoli disposto ad investirsi. Se infatti la terra dà soltanto un margine utile eguale al profitto di impresa, il fittavolo non può entrare senza pagare qualcosa al proprietario e dovrebbe investire il suo capitale sotto il profitto medio: allora cerca altro terreno, fa l'industriale, e anche tiene i soldi alla banca.
Ma Marx ha provato che in altre situazioni che non siano quelle dell'Irlanda, ad esempio, del XVIII secolo, in genere su qualunque terreno il capitale condottovi come materie e lavoro rende più del medio profitto industriale: questo minimo è dunque rendita fondiaria assoluta, ossia una rendita base, minimum, che ritrae ogni proprietario di terra, anche di semplici brughiere.
Ora se una stessa superficie di terreno consta invece di humus fertile, può aversi, per fissare le idee, che con lo stesso concime comprato e le stesse giornate di zappatura si abbia grano in quantità maggiore e maggiore ricavo. Allora il proprietario troverà un fittavolo che, guadagnando lo stesso profitto del caso precedente, potrà pagare un canone molto maggiore, di una differenza pari al prezzo di mercato della parte di grano in eccedenza. Questo aumento di canone è rendita differenziale.
Per Ricardo: la terra più sterile dà zero rendita e normale profitto di impresa; le terre man mano migliori danno progressivamente rendite differenziali.
Per Marx: la terra più sterile dà tuttavia abbastanza grano da fare premio sul profitto di impresa al saggio medio: questa la rendita assoluta. Passando ai terreni mano mano più fertili, a questa rendita assoluta si aggiungono variabili quantità di rendita differenziale.
Si intende che qui e per ora non abbiamo fatto che presentare le due dottrine, di cui non è breve cosa esaurire il confronto completo che dimostra valida la seconda; e non troverebbe luogo che in una esposizione totale dell'economia marxista. Ma su taluni confronti particolari sarà il caso di tornare.
Né questa volta passeremo a cifre, che Marx rende più espressive con il suggestivo esempio dell'industriale che prende la sua forza motrice da una caduta d'acqua anziché, come i suoi colleghi, da macchine termiche. Dato che costui vedrà diminuire il suo prezzo di produzione, fermo restando il valore medio dei suoi manufatti e la vendita al mercato, ben potrà egli addossarsi un canone senza il quale il proprietario del salto non gli darà il permesso di applicarvi il motore idraulico: questa è una vera rendita assoluta.
Per la rendita assoluta integrata da quelle differenziali, non meno elegante è l'esempio della miniera, nell'ipotesi che la resa di estrazione vada, a parità di capitale dell'impresa esercente, aumentata da accorgimenti tecnici nel lavoro di escavazione.
Riforma fondiaria italiota
Lo Stato fascista in Italia, dicevamo, forse avendo letto Marx, confiscò - non senza indennizzo - acque e miniere. Possiamo dire che con tale atto confiscò ogni rendita assoluta non agraria. Con ciò non confiscò certo la quota assai più alta dei profitti delle industrie estrattive e delle industrie idroelettriche, di cui i lauti appetiti sono ben noti.
Ora in materia agraria si vuole, pare, a scuola fascista (altro che fascismo esprimente interessi fondiari contro interessi manifatturieri, o ordinovisti!), espropriare - pagando bene seppure scriteriatamente - la rendita agraria assoluta italiana. Infatti la regola di prendere i terreni a minimo imponibile lasciando quelli ad alto imponibile, vale prendere i più sterili. Se fosse vera la teoria di Ricardo che sulla terra peggiore la rendita è zero, si salverebbe tutta la rendita differenziale e Pantalone... sarebbe uno scemo integrale.
Ricardo, come ministro di un paese borghese, non sarebbe stato così minchione. Senza essere né sovversivo e tanto meno comunista, era tutta la rendita che egli voleva incamerare, tutta la sua rendita differenziale; ossia si sarebbe gettato in nome del re sulle terre migliori. Vi avrebbe lasciato la grande azienda capitalista, l'impresa avrebbe avuto il suo profitto pari all’industria e la rendita sarebbe finita nelle casse statali.
Se, come è vero e come Marx dimostra, una certa rendita, molto bassa, sta anche sulle terre dei "latifondi", lo Stato riformatore acchiapperebbe sempre un qualcosa (come dimostrammo altra volta, con le cifre dell'agricoltura nazionale, una miseria) ma alla condizione di mettersi a fare il rentier mantenendo i già esistenti capitalisti agrari, ossia i nostrali affittaiuoli e fermiers, i fittatori di Campania, i gabellotti di Sicilia, gli industrianti di campagna (termine teoricamente impeccabile) di Calabria, che potrebbero pagare il canone redditiero traendolo dal sopralavoro dei contadini braccianti. Ricardo, stoico ma non cinico (come i filibustieri in circolazione), avrebbe fatto così.
Tirando fuori invece la formula sciagurata della parcellazione ai contadini, la coglioneria iperbolica di un'agricoltura feudale e non passata, tra le prime del mondo, al pieno modo borghese di gestione, non si è fatto che distruggere la magra rendita assoluta che non ripartisce tra i contadini proprietari altro che la condanna ad erogare doppie ore di lavoro per grano da campare e rate da pagare, dato e fin quando non fuggano dal lotto. Quanto alle pingui rendite differenziali, esse restano sacrosante, a disposizione del capitale della Speculazione italiana, che se per principio detesta l'investimento agrario, tanto meno lo avrebbe fatto mai nella "terra peggiore", ove invece bisognava portarlo, la corda al collo, a calci nel sedere.
La formula dunque: si salvi la rendita differenziale, con gli stessi onori dovuti al capitale delle anonime; perisca la rendita assoluta; se non si sapesse che cosa è lo Stato italiano, quale spregevole edizione sia degli Stati di classe del capitale, a quale ulteriore funzione di ingannatore delle masse lavoratrici scenderebbe se andasse in mano a partiti di opposizione "antifeudale", si potrebbe ben riassumere in una apostrofe concisa: Stato, quanto sei fesso!