La nostra riunione generale del 6-7 settembre, Parigi 1969 (2)
(continuaz. dal numero precedente)
Dopo il rapporto di economia marsxista di cui, nel numero scorso, abbiamo dato lo schema introduttivo, una compagna italiana ha illustrato lo sviluppo delle lotte sociali in Italia dalla fine della seconda guerra mondiale, spiegando anzitutto, per confronto, le loro caratteristiche nel primo dopoguerra: la rivoluzione è in ascesa, le masse sono animate da spirito combattivo e hanno dietro di sé una lunga tradizione di lotta che le ha portate ad organizzarsi nei grandi sindacati e nei partiti socialisti e a reagire vigorosamente alta politica di aggiogamento al conflitto. Terminato questo, scatenano vastissime lotte, che però il partito socialista immobilizza e di cui impedisce lo sbocco rivoluzionario.
Nel 1921, in una fase che è ormai di ritirata proletaria, nasce il Partito Comunista. La situazione limita le sue possibilità di dirigere il proletariato a1meno nell'immediato. Lo Stato borghese e le squadre fasciste passano al1'ofensiva e procedono alla distruzione fisica delle organizzazioni operaie. Lo stalinismo, riflesso della degenerazione dello Stato russo, attacca il Partito sul terreno stesso della teoria del programma e della tattica, distruggendo anche le basi di una possibile ripresa futura. Il proletariato, stretto in questa duplice morsa, non si oppone alla seconda guerra mondiale, contro la quale nessuna agitazione è svolta dai PCI ormai degenerato. Le lotte che il proletariato ingaggia nel secondo dopoguerra portano quindi il marchio di questa disfatta senza precedenti; esse si svolgono sotto il completo controllo dei partiti opportunisti e dei sindacati da essi diretti, e sono rivolte ad obiettivi di conservazione borghese.
Il secondo dopoguerra non apre dunque un periodo rivoluzionario sulla cui base il Partito possa tentar di demolire il controllo opportunista sulle masse, ma un periodo di assestamento del capitale alla scala mondiale, garantito dal dominio totalitario opportunista sul proletariato. Non la rivoluzione, ma la controrivoluzione, celebra i suoi fasti.
Lotte sociali dal 1945 al 1953
li proletariato viene portato alla seconda guerra mondiale completamente disarmato: da una parte la dittatura aperta dello Stato borghese, dall'altra l'opportunismo dei partiti operai, completamente legati al carro della Russia stalinista e del blocco imperialista cosiddetto "democratico", fanno sì che nessuna voce si levi in campo proletario per la trasformazione della guerra in rivoluzione. Dopo la caduta del fascismo mussoliniano entrano in Italia gli eserciti alleati e tedeschi, e il partito "comunista", dominato dagli staliniani, riesce a piegare ogni potenziale spinta sovversiva del proletariato all'obiettivo della difesa e liberazione della patria invasa, e della creazione di uno Stato democratico basato sul fronte unico antifascista. Mentre il CLN svolge nelle zone occupate dagli americani funzioni statali, in quelle ancora in mano ai tedeschi si spingono gli operai a partecipare alla lotta partigiana contro i tedeschi, sostenendo che solo dopo la liberazione della patria si potrà realizzare la liberazione del proletariato. Una parte, anche se minima, della classe operaia partecipa alla lotta partigiana con la speranza di favorire l'avvento della rivoluzione: l'intervento dell'esercito americano dissipa immediatamente queste illusioni, mentre il PCI sostiene che non di fare la rivoluzione si tratta, ma di conquistare la democrazia.
Il partito "comunista" comincia a qualificarsi come partito "di tipo nuovo", democratico e "popolare", ponendo la conquista delle libertà democratiche, l'unità nazionale e la ricostruzione, come primo gradino per muovere per via "democratica e pacifica" al socialismo in unione con la piccola e media borghesia e con il contadiname.
Inizia la lotta al "bordighismo", cioè alle tendenze rivoluzionarie sempre vive nel partito almeno nell'istinto dei semplici proletari. Questa lotta caratterizza tutto il periodo della fine della guerra e della ricostruzione; essa è resa necessaria non tanto dall'esistenza di un'ala rivoluzionaria nel PCI, quanto dal fatto che le terribili condizioni di vita in cui il proletariato era stato gettato durante e dopo la guerra favorivano il sorgere di lotte spontanee e di atteggiamenti estremisti all'interno del partito, che inevitabilmente finivano per ricollegarsi alla sua tradizione rivoluzionaria.
Finita la guerra, il PCI partecipa al governo e lancia la parola d'ordine della ricostruzione. "Prima ricostruire, poi rivendicare"; e, per imporre al proletariato questo ulteriore sforzo, ci si serve dell'apparato sindacale unitario ereditato dal fascismo come di apparenti misure di controllo operaio sulla produzione (i comitati di gestione, anch'essi derivati dagli organismi collaborazionisti di cui il fascismo si era servito per garantire la produzione bellica). I più grandi sacrifici vengono imposti al proletariato: blocco dei salari, sblocco dei licenziamenti per favorire la ripresa della produzione, orari di lavoro di 72 ore settimanali. Nello stesso tempo si procede alla ricostruzione dell'apparato statale; mentre gli opportunisti sono al governo vengono disarmati i partigiani, ricostituito il corpo dei carabinieri, costituita la famosa celere. Gli operai industriali in genere non sono in grado di reagire: una cappa di piombo grava su di loro; inoltre, subiscono in pieno la disorganizzazione dovuta alla guerra.
Nelle campagne, Invece, i braccianti, ridotti in condizioni molto peggiori degli operai di fabbrica, si rivoltano alla disperata contro gli agrari e contro le autorità locali, incendiano i municipi, occupano le terre. I capi sindacali e i partiti opportunisti intervengono a riportare la calma e a lottare contro l'"estremismo". Ma, ad un certo punto, anche le condizioni degli operai industriali minacciano di diventare disperate: la CGIL richiede il blocco dei licenziamenti giustifìcandolo con l'affermazione che "altrimenti si porta il paese alia guerra civile".
Nel 1948 l'apparato statale è ormai ricostruito: la produzione industriale tocca i vertici dell'anteguerra, gli operai industriali sono ormai riorganizzati dalla riorganizzazione della produzione. Gli opportunisti vengono estromessi dal governo: ora il loro posto è alla testa delle masse per frenare le lotte rivendicative e impedirne qualsiasi sbocco politico. La situazione degli operai rimane terribile ed essi cominciano a muoversi: nel 1948 si hanno i primi scioperi nell'industria; il sindacato provvede a frenarli, o a indirizzarli verso la difesa e il potenziamento della produzione. Si hanno i cosiddetti scioperi a rovescio, cioè agitazioni durante le quali le direzioni aziendali abbandonano le fabbriche mentre la produzione viene garantita da. gli operai che lavorano senza salario. Bonzi sindacali e polizia statale agiscono di conserva per mantenere i lavoratori nelle fabbriche: la celere bastona ed arresta chi esce dalle aziende.
La situazione terribile della classe operaia porta ad una potente impennata in seguito all'attentato a Togliatti (1948), seguito all'estromissione dal governo e al clima di caccia alle streghe instaurato dal governo democristiano contro gli opportunisti, sia allo scopo di dar loro credito di fronte alle masse sia e soprattutto a causa della cosiddetta "guerra fredda" fra i due colossi imperialistici americano e russo.
Gli operai scendono in lotta spontaneamente; in molte città occupano o bruciano municipi e prefetture, si scontrano con la polizia e la mettono in fuga. E' l'estremo sobbalzo politico del proletariato italiano che ancora riconosce nel PCI il suo partito e in Togliatti il suo capo. La CGIL e il PCI fanno immediatamente rientrare lo sciopero, ma esso viene preso a pretesto per la scissione sindacale che si realizza poco dopo ma che in realtà era già stata decisa dagli americani e rispondeva alla precisa necessità per il capitale italiano di dividere il fronte operaio. Subito dopo, le forze dello Stato si scatenano contro gli operai, i quali sono tenuti a bada dai partiti opportunisti e indeboliti dalla scissione sindacale. Nel 1949, in tutta l'industria si attuano scioperi alla rovescia: la CGIL non avanza nessuna richiesta di aumenti salariali, i sindacati bianchi si comportano da veri e propri agenti dello Stato. Si hanno anche movimenti di disoccupati, che vengono abbandonati a se stessi: la tesi dei bonzi sindacali è che l'unico modo di risolvere la questione della disoccupazione è di potenziare al massimo la produzione.
Nelle campagne, e questa volta specialmente in Toscana e in Emilia, i braccianti danno vita nel 1949 ad un possente sciopero, che dura 45 giorni.
I braccianti si scontrano con la polizia che ne uccide alcuni; lottano contro i crumiri e riescono a farli aderire allo sciopero. In un primo tempo i sindacati (la CGIL che organizza la quasi totalità dei braccianti) escludono dallo sciopero i lavoratori delle piccole e medie aziende contadine sotto pretesto che si tratta di alleati, e cercano di imporre lo sciopero a rovescio in nome della produzione. Man mano che la lotta si fa più dura, e specialmente dopo gli eccidi perpetrati dalla polizia, i braccianti impongono ai dirigenti la fine degli scioperi a rovescio e l'entrata in sciopero delle piccole e medie aziende. I sindacati si affrettano allora a concludere un accordo che, secondo le loro stesse parole, è nettamente insufficiente e che non prevede nessun aumento salariale, Dopo la fine dello sciopero gli opportunisti accusano i braccianti di "bordighismo" per non aver saputo mantenere l'alleanza con la piccola borghesia contadina.
Ancora nel 1949, i sindacati cominciano ad agitare la questione della rivalutazione salariale, cioè del ristabilimento delle gerarchie salariali per qualifica. A causa dell'introduzione del meccanismo della contingenza (45-46), infatti, i salari tendevano ad appiattirsi e a rendere troppo limitate le differenze fra qualifiche superiori ed inferiori. Questa situazione, mentre da una parte stringeva gli operai in un solo blocco dal punto di vista economico, dall'altra creava seri problemi alla produzione. Il PCI stesso sostiene la necessità di differenziare i salari in nome dei "giusti criteri" a cui deve ispirarsi "ogni economia, sia essa capitalistica o socialistica".
I sindacati e i partiti opportunisti si piegano alle esigenze del capitale: la "rivalutazione" attuata nel 1950 mantiene fermo il salario dei manovali (circa 1'80% degli operai industriali) ed eleva di pochissimo quello degli operai in genere; aumenta invece notevolmente gli stipendi delle categorie impiegatizie superiori e crea qualifiche speciali per un ristretto numero di superspecializzati. In termini reali, il salario della maggioranza degli operai risulta addirittura svalutato.
Solo nel 1951 la CGIL pone il problema degli aumenti salariali che vengono richiesti in misura limitatissima e differenziati per categoria per non influire negativamente sull'andamento della produzione. Nel 1953 viene firmato l'accordo sulle zone salariali: i salari vengono differenziati in 13 zone geografiche. Con questo accordo si intende favorire l'afflusso verso il Nord industriale di mano d'opera a basso prezzo proveniente dal Sud e dalle zone agricole e favorire qui l'impianto di nuovi stabilimenti industriali che possano basare il loro profitto sullo sfruttamento intensivo della mano d'opera locale peggio pagata.
Dal 1953 al 1958 non si hanno nemmeno lotte rivendicative apprezzabili. Gli operai sono sotto il pieno controllo degli opportunisti e subiscono l'offensiva padronale favorita anche dalla presenza di un numerosissimo esercito di disoccupati, costantemente alimentato dall'esodo dalle campagne.
Lo spopolamento delle campagne, che dal 1953 assume proporzioni terribili, risponde a due fondamentali esigenze del sistema: 1) modernizzare l'agricoltura eliminando la piccola proprietà contadina arretrata, per adeguarla alle esigenze del mercato europeo e mondiale; 2) creare e mantenere un esercito industriale di riserva di cui servirsi per schiacciare gli operai alla produzione. In effetti l'economia italiana è caratteristica per basarsi su bassi salari e su uno sfruttamento piuttosto estensivo che intensivo degli operai, cosa resa possibile solo dall'esistenza di una forte massa di disoccupati e di sottoccupati. Eccetto alcune grandissime aziende con impianti modernissimi e alcune aziende medie (sui 4-5 mila operai), gran parte dell'industria è ancora basata sulle aziende piccole (100-200-300 operai) e piccolissime (10-50 operai) o addirittura artigianali (3-10 operai), scarsamente meccanizzate: queste prosperano sui bassi costi del lavoro, che permette loro, entro certi limiti, di produrre a prezzi concorrenziali sul mercato mondiale. Molte, anche di una certa ampiezza (ad esempio i cantieri navali con 500-1000-2000-3000 operai) producevano ancora nel 1958 con gli impianti prebellici rimessi in moto alla meno peggio. E' in questa situazione che si inserisce l'azione dei partiti opportunisti e della CGIL. Da un lato non viene mai affrontata da un punto di vista di classe (elevamento dei salari, riduzione dell'orario di lavoro) la questione della disoccupazione; i disoccupati sono completamente abbandonati a se stessi e divengono una massa di manovra nelle mani del padronato; dall'altro non si richiedono mai forti aumenti salariali e una riduzione drastica dell'orario di lavoro, ma si incoraggia la pratica del cottimo e del lavoro straordinario. Nel 1958 gli stessi bonzi sindacali sono costretti ad ammettere che i salari hanno registrato addirittura un calo in termini reali rispetto al 1953 mentre il rendimento del lavoro è aumentato in maniera vertiginosa. Nell'imminenza del boom produttivo 1959-1963 essi dichiarano timidamente che è necessario invertire questa tendenza "nell'interesse stesso della produzione e dell'economia", ma essa non si è mai invertita, anzi si è accentuata ancor più. Nel campo politico, i partiti opportunisti agitano la loro soluzione legalitaria: 1) lotta contro i monopoli e difesa della piccola e media industria e dell'artigianato (in omaggio a questa difesa, circa 2 milioni di lavoratori dell'artigianato erano privi di contratto di lavoro e ancor oggi hanno un contratto diverso da quello dell'industria); 2) potenziamento dell'industria di Stato, che avrebbe una natura diversa dall'industria privata; 3) potenziamento della produzione per eliminare la disoccupazione.
Naturalmente, mentre agitano questa posizione utopistica, essi favoriscono con la loro azione pratica proprio lo sviluppo dei monopoli e l'aumento della disoccupazione.
In realtà, in questo periodo la situazione degli operai è terribile non solo da un punto di vista economico. Manovrando l'esercito dei disoccupati, il padronato, con la complicità aperta dei sindacati bianchi, attacca la CGIL; i militanti del sindacato di classe vengono licenziati, si impone l'organizzazione nella CISL e nella UIL, si impedisce qualsiasi organizzazione degli operai all'interno delle aziende: le stesse C.I., nate su una base collaborazionista, vengono molto spesso disciolte e i loro membri licenziati. Se, da un punto di vista immediato, tutto questo disorganizza la CGIL, la quale non chiede di meglio che essere disorganizzata, si crea però fra gli operai più combattivi una tradizione di lotta e di odio contro i sindacati bianchi, agenti del padronato; è questa tradizione che oggi costringe i bonzi CGIL a muoversi con cautela sul terreno dell'unificazione sindacale, e ad essa il partito si appella per combattere l'unificazione con le centrali bianche e gialle.
(continua)
Da "il programma comunista" n. 18, 15 ottobre 1969