Sulla via del "partito compatto e potente" di domani - II

Si è visto nel numero precedente come la lettera di Bordiga a Korsch affidasse la prospettiva di costituzione di un'Opposizione internazionale di sinistra nel Comintern non - come erroneamente si crede - "al corso generale delle lotte e delle esperienze proletarie, all'esigenza e possibilità in esse maturate" di un'organizzazione diversa e, al limite, "del partito", ma alla capacità delle correnti sorte in antitesi allo stalinismo in seno all'Internazionale Comunista di pervenire, partendo ciascuna dalle proprie premesse ideologiche invece di unirsi sulla base di posizioni parziali e contingenti, a quel bilancio generale del passato e del presente che la classe non può mai trarre con le proprie forze, anche se ne offre gli elementi; al quale anzi, negli svolti decisivi della storia, si arriva alla sola condizione di andare, rispetto al movimento reale, contro corrente.

Quando la lettera fu scritta, la speranza comune era che la partita in Russia non fosse ancora perduta: non si doveva "volere la scissione" dei partiti, né dell'Internazionale. Bisognava chiedersi perché partiti, Internazionale, dittatura proletaria vittoriosa, fossero divenuti suscettibili di degenerazione, e trovare la risposta al quesito non fuori delle tesi sulla cui base si era costituito il Comintern, ma in esse, quindi nel blocco unitario della dottrina marxista: basteranno pochi mesi a dimostrare che nessuna delle correnti "di sinistra comunista" ne aveva la forza, non solo perché mancava loro il solido bagaglio teorico indispensabile per non precipitare in deduzioni spontaneiste, immediatiste, anti-partito e antidittatura, in definitiva democratoidi e democratiche tout court, ma perché seguivano appunto il movimento nel suo corso oggettivo, nella sua contingenza immediata - avrebbero dovuto esserne la forza critica; ne erano, ne fossero o no consapevoli, il riflesso sia pure capovolto.

I fatti dimostrarono d'altra parte che la partita ritenuta aperta era già chiusa, e irrevocabilmente. Nel volgere travagliato degli anni '30 quindi, il problema si spostò via via da quello di battersi in seno all'Internazionale per la sua rinascita sulle proprie basi di partenza e sul bilancio critico del loro abbandono progressivo fino a quello di operare fuori e contro l'organismo imputridito in funzione della ricostruzione ex novo del partito comunista mondiale.

La frazione all'estero

Il merito della nostra Frazione all'estero fra il 1928 e il 1940 fu di resistere, in questo come in altri campi (alla rivendicazione dei quali abbiamo dedicato di recente una riunione di partito), su posizioni che potevano soltanto essere di contro-corrente. È falso che essa abbia opposto un rifiuto pregiudiziale e di principio alla mano tesale da diverse parti, e specialmente da Trotsky. Quello che respinse - mille volte a ragione - fu un processo, oggi si direbbe, di aggregazione di forze e correnti eterogenee, soltanto accomunate dal fattore negativo dell'opposizione allo stalinismo, a sua volta interpretato in modi difformi quanto lo erano le rispettive matrici ideologiche, e incapaci di svincolarsi dal quadro forzatamente ristretto dei problemi che l'Opposizione russa aveva dovuto affrontare, per assurgere ad una visione d'insieme di quelli che tutto il movimento comunista internazionale doveva risolvere e che affondavano le loro radici in un terreno più vasto e, comunque, più complesso; e relativo non soltanto al presente, ma al passato.

Quello che essa respinse fu la pretesa di risanare o, infine, ricostruire l'Internazionale non solo con i mattoni di un movimento che non aveva più in sé nessuna capacità di recupero, ma con quelli di movimenti che lo stesso Trotsky in anni gloriosi aveva giudicato e condannato, in pieno accordo con noi, come intrinsecamente morti alla causa del comunismo rivoluzionario (entrismo nei partiti socialisti). Quello che difese tenacemente fu, al contrario, la necessità di ricominciare daccapo non cedendo alle suggestioni né di un volontarismo generoso fino all'eroismo, ma non radicato in una valutazione materialistica dei rapporti di forza, né delle apparenze di rinascita soggettiva del movimento nel corso di una travagliata agonia oggettiva.

L'immaturità che, a nostro costante giudizio, condannava inesorabilmente all'insuccesso il generoso tentativo di Trotsky di ricostruire l'Internazionale negli anni Trenta non solo come se si fosse in una situazione di avanzata rivoluzionaria su scala mondiale pari a quella del 1918-1920, ma con un aggravamento degli errori di tattica e di organizzazione allora compiuti nella prospettiva di fondere correnti eterogenee al fuoco della rivoluzione, aveva però un'altra faccia che la Frazione non intravide, né lo poteva. Rivendicare il filo che essa riuscì a tenere ben saldo nei confronti dei mille espedienti con cui le altre opposizioni si illusero di aprirsi una via più breve di uscita dalla morsa della contro-rivoluzione avanzante (e fu una splendida battaglia, su questo terreno, quella dei nostri compagni), significa anche capire le ragioni materiali per cui la Frazione lasciò dietro di sé, accanto a molti valori positivi, degli elementi caduchi. La verità è che quelle che in seguito chiamammo "lezioni delle controrivoluzioni" non si possono trarre in qualunque momento nell'atto stesso in cui ci si divincola nelle spire di una sconfitta che non sembra ancora consumata, e di cui forzatamente si risentono i riflessi anche sul piano ideologico. "Imparare dalla controrivoluzione" significapoter capire che essa non solo non invalida, ma conferma in tutto e per tutto la dottrina, armati della quale si è scesi in campo per abbattere il nemico e non per esserne battuti, e che la via della rinascita passa non già attraverso la scoperta di una falla nella propria corazza teorica e programmatica, ma, al contrario, attraverso la riscoperta della sua potenza in tutti i punti, e rifarsi ad essa come blocco monolitico, per riprendere il cammino. Ma a tanto si può giungere solo dopo che la forza politica dominante nella controrivoluzione (e che, negli anni Trenta, si chiamava ancora col termine relativamente blando e limitativo di "centrismo") abbia percorso tutta la sua parabola per rivelarsi apertamente come il pilastro "di sinistra" dell'ordine costituito essendo precipitato in un abisso, nel quale - disgraziatamente, ma così vuole la storia - ha trascinato l'immensa maggioranza della classe; lo si può, quindi, soltanto prima, forse assai prima, che possa annunciarsi una sua risalita sul proprio cammino anziché, su quello dell'avversario. È possibile soltanto allora perché, soltanto allora, non nella classe in generale ma in un nucleo anche ristrettissimo di militanti comunisti (a Marx ed Engels toccò, per anni ed anni, di restare soli, "partito a due"), si sono create le condizioni di distacco dal corpo dell'esercito in rotta, necessarie per capire fino in fondo, con gli strumenti originari - non trovati lungo la strada - della critica, le cause della rotta insieme ai presupposti in un futuro ritorno all'attacco.

Da un lato, l'impossibilità di rompere, per così dire, il cerchio soggettivo della controrivoluzione si tradusse per la Frazione in sbandamenti in questioni come quella nazionale e coloniale, e non tanto nel giudizio su che cos'era diventata la Russia, quanto nella ricerca di una via, diversa da quella battuta dai bolscevichi nell'esercizio della dittatura e nel ricorso alla NEP, che impedisse in avvenire di ripetere la catastrofe del 1926-1927. Dall'altro lato, nella questione del partito (o dell'Internazionale) se Trotsky credette che il segnale della maturità della sua ricostituzione fosse data da un'inversione di rotta già allora in atto da parte del movimento reale, la Frazione pensò che una tale inversione si sarebbe verificata solo all'avvento o per riflesso dalla seconda carneficina imperialistica: partiti da presupposti così diversi, la attesero, contraddittoriamente, dal clamoroso ritorno in scena delle grandi masse su un terreno di scontro frontale col nemico.

Nell'articolo intitolato Vers l'Internationale deux et trois quarts...? apparso nel n. 1 della rivista "Bilan", bollettino teorico mensile della Frazione, tuttavia fondamentale per la critica del velleitarismo trotskista e per la riaffermazione in termini vigorosamente dialettici della necessità di poggiare la ricostruzione del Partito e dell'Internazionale su un bilancio storico al quale tutte le correnti di sinistra erano drammaticamente impreparate, è posto come seconda condizione della nascita del partito "lo scoppio di movimenti rivoluzionari" che, sconvolgendo "il sistema di rapporti di classe costituitosi in seguito alla vittoria dell'opportunismo" permetta "alla frazione di riprendere la direzione della lotta verso l'insurrezione" (p. 19). E, più oltre: "le frazioni di sinistra non potranno trasformarsi in partito che quando gli antagonismi fra la posizione del partito degenerato e la posizione del proletariato minacceranno tutto il sistema dei rapporti di classe determinato dalla vittoria del centrismo in seno ai partiti (comunisti)" (p. 21). Su queste e analoghe formulazioni oggi speculano ad arte coloro che, come il gruppo "Révolution internationale", teorizzano l'inevitabile degenerazione opportunistica di qualunque partito di classe pretenda di costituirsi prima dell'ondata rivoluzionaria futura, e che, nel frattempo, si dedicano ad una revisione completa delle Tesi costitutive dell'Internazionale presentata come il "bilancio" preliminare alla rinascita del partito formale. Per noi, l'errore non era di credere che la vittoria dell'opportunismo in seno ai partiti dell'ancora esistente (ma già defunto) Comintern avrebbe scatenato in essi e, peggio ancora, nella classe in generale una reazione violenta parallela allo sconvolgimento dei rapporti partito-proletariato, o che lo scoppio di movimenti rivoluzionari dovesse coincidere con la catastrofe della II guerra mondiale: erano queste al massimo, valutazioni eccessivamente ottimistiche, alle quali era d'altronde estremamente difficile sottrarsi nel vivo stesso di un ciclo storico in turbinoso movimento. L'errore era di far coincidere l'atto di nascita del Partito e l'atto del suo incontro con la classe; il processo della sua formazione e quello della conquista di un'influenza decisiva sul proletariato, e, perfino, della sua direzione nella lotta per il potere. Più sopra abbiamo detto che il Partito di classe poteva ricostituirsi soltanto dopo la conclusione della parabola degenerativa dell'Internazionale e prima della risalita del proletariato dall'abisso in cui esso stesso era piombato: dobbiamo aggiungere che era necessario - come lo è sempre - che quella rinascita precedesse questa risalita.

L'organo-partito può, per un intreccio di condizioni storiche indipendenti dalla volontà di chicchessia, formarsi in ritardo sulle situazioni di altissima tensione sociale (fu questo il caso, in genere, dei partiti comunisti occidentali, non escluso il nostro, nel primo dopoguerra); ma la frazione che teorizzi la dipendenza della propria trasformazione in partito dall'avvenuta esplosione di movimenti rivoluzionari, e addirittura insurrezionali, condanna se stesso al suicidio (come purtroppo avvenne alla Luxemburg e a Liebknecht) e la classe all'olocausto, perché la priva della sua guida non soltanto teorica ma pratica, del suo strumento - che è non solo un programma ma un'organizzazione, ed è tale in forza di un processo non breve e non facile, ma indispensabile, di "importazione della dottrina del programma comunista nel proletariato" non con la pura propaganda, ma nel vivo delle sue lotte e nel duro scontro con le "false risorse" delle mille "soluzioni" extra - ed anti-marxiste.

La storia del nostro piccolo movimento ha provato del resto che questo era il cammino da percorrere, e che il Partito sarebbe nato non perché e quando la classe avrebbe ritrovato, sotto la spinta di determinazioni materiali, la via unica e necessaria della ripresa, ma perché e quando una cerchia forzatamente "microscopica" di militanti avrebbe attinto dalla comprensione delle cause della situazione oggettiva immediata e dalla coscienza dei presupposti della sua inversione futura la forza non di elaborare nuove teorie ad "integrazione" del marxismo nel chiuso di un cenacolo di studiosi o di un "gruppo di lavoro" posto nella condizione d'essere tale dalla constatazione che il secondo dopoguerra non è la ripetizione del primo e quindi non offre prospettive né immediate né vicine di ripresa rivoluzionaria, ma di ripresentare il marxismo nella sua intatta e immutata integralità e su questa base, da un lato, trarre il bilancio della controrivoluzione come totale conferma della nostra dottrina in tutti i campi, e, dall'altro, organizzarsi come quella milizia che, pur sapendo e non nascondendo a se stessa e al proletariato di trovarsi, con tutta la società d'oggi e, in primo luogo, con la classe operaia, "nella situazione oggettiva peggiore possibile", non cessa perciò di rivendicare "tutte le attività proprie dei momenti favorevoli, nella misura in cui i rapporti di forza lo consentono".

Questo è il partito, non il suo prologo, non la frazione aspirante a divenirlo; e nulla toglie a ciò il fatto di non essere, come non era, non è, né può essere, "il partito potente di domani". È il partito: dal suo sviluppo in stretta concomitanza con la ripresa delle lotte di classe noi ci attendiamo non la suaformazione, che è già avvenuta, ma il suo potenziamento; non l'uscita dallo stato di "frazione", ma il passaggio alla testa della classe anche benché, certo, non soltanto, per opera nostra.

(2 - continua)

Da "Il programma comunista" n. 19, 15 ottobre 1977, (con errata corrige del n. 20).

Indice de Il programma comunista - 1977