Le origini del Partito Comunista d'Italia

Questo scritto vuole esclusivamente ristabilire la successione dei fatti e degli eventi poco noti oggi ai militanti e soprattutto ai giovani. L'analisi critica sarà oggetto di successive trattazioni.

 

L'esigenza della costituzione di un partito fu enunciata apertamente in Italia soltanto negli anni successivi alla rivoluzione bolscevica dell'ottobre 1917 ed alla fine della prima guerra mondiale.

Riferendoci però alla origini storiche di quelle forze sociali e politiche che si inquadrarono nella formazione del Partito, occorre riportarsi alquanto più indietro, e rifarsi alle tendenze e correnti di sinistra del Partito Socialista Italiano.

Come è noto, questo si costituì a Genova nel 1892 raggruppando le tendenze marxiste del movimento proletario che si separarono dai gruppi anarchici di tendenza bakuniniana avversi alla lotta per la conquista del potere politico.

Il Partito Socialista italiano, seguendo le grandi vicende del movimento socialista mondiale e della Seconda Internazionale, si poneva sul terreno di una politica di classe e di opposizione al regime capitalistica, ma non mancava di risentire dell'indirizzo di destra prevalente nei grandi Partiti Socialdemocratici in quel periodo di relativa tranquillità sociale, e non fu mai chiara l'impostazione del suo programma di Genova circa "la conquista dei pubblici poteri", suscettibile di doppia interpretazione: legalitaria da un lato, rivoluzionaria dall'altro.

L'urto fra le tendenze che rispecchiavano le due politiche andò successivamente accentuandosi, ma fino agli anni 1907-1908 il contrapposto alla corrente riformista dei Turati e Treves fu costituito soprattutto dall'indirizzo sindacalista e rivoluzionario importato in Italia con le dottrine dei Soreliani francesi, indirizzo che, pur combattendo gli eccessi del legalitarismo elettorale e del relativismo sindacale, e propugnando l'azione diretta e l'impiego della violenza nella lotta di classe, errava nella impostazione delle questioni dei rapporti tra economia e politica, sindacato e partito, e nella concezione della via con cui il proletariato può pervenire ad abbattere il potere e il dominio borghese, costituendo così un'altra deviazione revisionista del marxismo con influenze individualiste e volontariste, e rapporti con gli errori dell'anarchismo.

Quando il Partito nel 1908 al Congresso di Firenze allontanò la tendenza sindacalista, che d'altra parte ripudiava teoricamente l'organizzazione in partito politico, ciò che non mancò di apparire come una vittoria di destra, un affermarsi del metodo pacifista ed evoluzionista propugnato dai capi riformisti del gruppo parlamentare e della Confederazione Generale del Lavoro, dalla quale parimenti si scisse il movimento dell'Unione Sindacale Italiana. Esisteva però nel Partito anche una corrente marxista ortodossa e radicale, che non partecipava né alle deviazioni riformiste né a quelle sindacaliste.

Tale corrente riuscì dopo alcuni anni ad avere la maggioranza nella organizzazione del Partito e si affermò fin dal Congresso di Modena del 1911.

La frazione che si denominò "rivoluzionaria e intransigente" aveva una precisa politica contraria alla collaborazione di classe ed ai blocchi elettorali; era avversa fieramente ad ogni partecipazione del Partito al Governo e ad ogni appoggio parlamentare a questo; si richiamava ai cardini della dottrina marxista nel senso del manifesto dei Comunisti; ma, per ragioni di natura storica, non possedeva un'aperta elaborazione della teoria della conquista del potere.

Nel 1912, al Congresso di Reggio Emilia, la sinistra con una prima vittoriosa battaglia liquidò il gruppo di estrema destra: Bissolati, Cabrini e Bonomi per avere sostenuto la partecipazione ai governi del Re, Podrecca per avere aderito alla guerra imperialistica di Tripoli.

Nel 1914 il Partito, che aveva a capo ufficiale della tendenza rivoluzionaria Benito Mussolini, direttore dell'"Avanti!", nel Congresso di Ancona ribadì alcune posizioni di sinistra ripudiando i compromessi elettorali anche nei ballottaggi e nelle elezioni amministrative, e stabilendo l'incompatibilità con la massoneria e le sue ideologie di anticlericalismo borghese e confusionistico.

Tutto ciò preparò solo in parte il Partito alla tremenda crisi prodotta dalla scoppio della guerra mondiale; sicché la grande maggioranza, senza lasciarsi travolgere come i grandi partiti di Francia, di Germania e di altri paesi nella capitolarda politica della collaborazione nazionale, si schierò contro ogni guerra ed avversò tanto l'intervento a fianco degli imperi centrali, quanto quello contro di essi propugnato fino al maggio 1915 dalla sinistra democratica borghese e da tutti i rinnegati del movimento proletario cui, nell'ottobre 1914, si univa lo stesso Mussolini, immediatamente scacciato, senza seguito alcuno, dalle fila del Partito.

Dal 1915 al 1918 il Partito Socialista Italiano mantenne la sua linea di opposizione alla guerra, e, malgrado i vacillamenti della minoranza riformista, evitò, anche dopo il rovescio di Caporetto di cadere nell'inganno della concordia e della difesa nazionale.

Tuttavia, tale storico merito del Partito Socialista Italiano non solo non tolse che gli elementi di destra, soprattutto i deputati e capi sindacali, facessero notevoli sforzi contro le direttive della maggioranza e della direzione, ma neppure comportò una solidale e coerente politica rivoluzionaria da parte della maggioranza stessa.

In vari convegni legali od illegali tenuti durante la guerra – Bologna (1915); Firenze (1917); Roma (1918) – si delineò una forte corrente di sinistra la quale, insoddisfatta della formula di Costantino Lazzari "né aderire alla guerra, né sabotarla", pose molto più energicamente la rivendicazione di sfruttare la crisi militare e bellica al fine di rovesciare lo stato borghese.

Questa tendenza lottò nel seno del Partito con la propaganda e la elaborazione teorica controbilanciando le ribellioni in senso patriottardo della destra, e stimolando la direzione del partito ad un'azione più decisa, ma seppe precisare politicamente e tatticamente il suo indirizzo soprattutto quando sul problema tremendo del passaggio dal potere capitalistico a quella rivoluzionario operaio, alle lezioni e alle esperienze tratte dal Manifesto del 1848 e dalla gloriosa caduta della Comune di Parigi, la storia aggiunse quelle luminose e decisive dell'ottobre russo dando contenuto esplicito e possente alla fondamentale tesi marxista della lotta per la dittatura rivoluzionaria.

Da quell'epoca si polarizzò in seno al Partito, conseguendo direttamente alle posizioni d'intransigenza già affermate nei confronti della guerra, la corrente decisamente comunista che, non più appagandosi della sola impostazione classista della azione economica e politica proletaria, e della sua autonomia da ogni corruzione collaborazionista, formulò le rivendicazioni decisive dell'assalto armato al potere della borghesia guidato dal Partito di classe, del frantumamento dell'apparato statale borghese e della instaurazione della dittatura del proletariato fondata su un organamento della classe proletaria in rappresentanze che, come i Soviet in Russia, restassero chiuse agli elementi sociali delle classi non lavoratrici.

Nell'anno 1919 il Partito Socialista accettò nel congresso tenutosi a Bologna il programma comunista e aderì alla Terza Internazionale costituitasi a Mosca; ma sostanzialmente rimase quello che era prima della guerra, conservando i caratteri tradizionali dell'opera sua, e seguitò a muoversi nel campo economico sul terreno dalle piccole conquiste graduali e corporative, nel campo politico su quello di un'azione ispirata da pura finalità elettorali. È opportuno ricordare in proposito che nello stesso congresso la corrente comunista, ufficialmente costituitasi in Frazione Astensionista a sottolineare la sua netta opposizione al parlamentarismo dominante nel Partito, raccolse un piccolo numero di voti.

In conclusione, il P. S. non divenne un partito capace di svolgere un'opera rivoluzionaria secondo le direttive dell'Internazionale Comunista e di intendere ed applicare gli insegnamenti della rivoluzione russa, vero ai quali si protendeva ansioso il nostro proletariato. L'azione politica ed economica continuò ad essere affidata alla destra riformista, che non voleva né poteva intendere la nuova tattica rivoluzionaria, con conseguente delusione di tutti i lavoratori che venivano in tal modo sviati dalla preparazione ideale e materiale alla lotta rivoluzionaria per la conquista del potere, unica finalità del partito comunista.

La funzione di tradimento esercitata dai riformisti del Partito si palesò apertamente quando la profonda crisi economica e finanziaria abbattutasi sull'Italia spinse il proletariato italiano alla lotta rivoluzionaria, che raggiunse il suo punto culminante nell'occupazione delle fabbriche e dei latifondi dei lavoratori.

In questo momento di lotte rivoluzionarie, il partito proletario aveva il dovere di indicare lo scopo generale di tali lotte, di collegarle e indirizzarle alla conquista del potere politico, ma nel Consiglio Nazionale composto di rappresentanti del Partito e dei Sindacati, convocato nel vivo della lotta, i riformisti riuscirono a far prevalere il concetto che la lotta stessa aveva semplice scopo economico e non carattere politico, e che perciò ne spettava la direzione ai Sindacati anziché al Partito.

Il Governo non osò servirsi delle forze armate per stroncare il moto operaio, ma i riformisti gli vennero in aiuto con l'impostare trattative sulla base di pure rivendicazioni economiche e, postisi su questo piano, non potevano che addivenire alla riconsegna delle fabbriche e alla liquidazione del movimento.

Perché la lotta di classe potesse raggiungere i suoi obiettivi occorreva pertanto eliminare dal Partito i riformisti, e fu in questo senso che si mosse la Frazione Comunista.

Tale presa di posizione fu avvalorata dal giudizio del II Congresso di Mosca (1920), nel quale l'eliminazione dei riformisti dal Partito fu posta come condizione prima dell'adesione alla III Internazionale.

Intanto tutti i comunisti italiani che, accettando la disciplina internazionale alle deliberazioni di Mosca, si erano riuniti attorno al nucleo della Frazione Astensionista, decidevano, nel convegno di Imola (novembre 1920), di proporre al prossimo Congresso del P. S. (Livorno, gennaio 1921), una mozione che comprendeva l'applicazione di tutte le decisioni del II Congresso dell'Internazionale e l'adozione del nome di Partito Comunista d'Italia.

Precedentemente, i riformisti si erano organizzati in frazione "di concentrazione socialista" nel loro Convegno di Reggio Emilia (ottobre 1920) mentre fra coloro che si erano proclamati nelle file del Partito "Massimalisti" si organizzò la corrente unitaria che veniva a costituire una frazione di centro contraria alla divisione fra comunisti e riformisti.

Al Congresso di Livorno si presentarono così tre gruppi, ciascuno con la propria mozione già precedentemente deliberata.

La mozione dei riformisti affermava che in Italia mancavano le condizioni necessarie per la rivoluzione proletaria, che il capitalismo aveva ancora davanti a sé un lungo periodo di pacifico sviluppo, e che il Partito Socialista non doveva rifiutare di collaborare con la borghesia, se ciò era necessario per le finalità della classe lavoratrice; ma nello stesso tempo dichiarava di aderire all'Internazionale Comunista.

La mozione dei centristi accettava la tesi dell'Internazionale Comunista, ivi comprese le 21 condizioni poste al II Congresso ma aggiungeva che l'applicazione di queste ultime doveva lasciarsi al Partito Socialista italiano.

La mozione del Gruppo Comunista esigeva non solo l'immediata accettazione, ma anche l'immediata applicazione delle 21 condizioni mediante l'espulsione dei riformisti dal Partito.

Tanto i riformisti, quanto i centristi, pur dichiarandosi nelle loro mozioni ligi all'Internazionale, in realtà erano apertamente contro di essa e cercavano di nascondere questa loro fondamentale avversione per timore di perdere la fiducia e l'appoggio delle masse operaie.

Il Gruppo Comunista smascherò la vera natura del riformismo e del centrismo e nella sua mozione dichiarò apertamente: "Chi è per l'Internazionale Comunista, deve immediatamente separarsi dai riformisti".

I centristi, sebbene facessero sforzi disperati per passare come leali seguaci dell'Internazionale, non vollero staccarsi dai riformisti non accettando la loro espulsione immediata dal Partito, e ciò perché si erano posti sullo stesso terreno teorico e tattico.

Dinnanzi a tale situazione, la Frazione Comunista abbandonò senz'altro il Congresso e decise di costituirsi in Partito Comunista d'Italia, Sez. dell'Internazionale Comunista.

Pochi giorni dopo il Congresso di Livorno, si teneva a Firenze l'adunata di quel movimento giovanile che da anni era affiancato alla sinistra del Partito, e una maggioranza schiacciante deliberava tra il più vivo entusiasmo l'adesione al Partito Comunista.

Nelle file del Partito nato a Livorno sulle basi politiche e tattiche che avevano presieduto alla rivoluzione di ottobre, erano giovani e vecchi militanti dell'antico Partito; esso continuava storicamente la sinistra del Partito Socialista, quella parte cioè di questo Partito che aveva lottato in prima linea contro il riformismo, contro la guerra, e contro la politica di compromesso.

Da "Prometeo" n. 1 del luglio 1946

Prometeo 1946-1952