Battute di attesa nell'evoluzione internazionale del capitalismo

La situazione internazionale è entrata in una fase di attesa, in cui, dietro il velo superficiale di un lento assestamento dell'economia e dei rapporti politici, si verifica in realtà il processo di maturazione della più grande crisi economica e politica che il capitalismo abbia mai attraversato.

L'aspetto esteriore di questa crisi è dato dall'ormai cronica incapacità dei convegni diplomatici delle massime potenze vintrici a risolvere i problemi della pace. Più che per trovare un terreno comune d'intesa, sembra che i delegati dei "Tre Grandi" non si incontrino ormai che per saggiare le loro forze rispettive, spiare i loro disegni e individuare il punto di minor resistenza sul quale l'uno o l'altro farà leva per aprirsi una breccia nel mondo. E non è un caso che le trattative internazionali rivelino ogni giorno più l'esistenza di un contrasto anglo-russo, e vedano invece gli Stati Uniti in un'apparente posizione di arbitrale superiorità sui contendenti, giacché il problema di uscire dalle strettoie dei rapporti economici internazionali è in primo luogo problema russo e inglese, ed è fra queste economie a raggio mondiale che più diretta e continua appare la frizione.

Ma il contrasto è, nello stesso tempo, russo-americano ed anglo-americano. C'è conflitto politico e persino militare tra Russia e Stati Uniti in Manciuria, in Cina, in Giappone; c'è conflitto di interessi economici fra queste stesse potenze nell'America latina, con affannosa corsa all'arrembaggio della navicella di Peron, mentre un più sottile urto di interessi economici, dai confini incerti e mutevoli ma non per ciò meno reali, si delinea fra Washington e Londra. E tale è l'imponenza delle forze in gioco, che l'ombra di questo nodo di contrasti si proietta, giorno per giorno sulla vita politica di ogni Paese, per cui se agli occhi dei proletari italiani può apparire come il più immediato preludio al terzo conflitto mondiale, il più impressionante segno dei tempi la situazione di Trieste, dove operai "slavofili" e "italofili" si combattono nelle strade e nei cantieri e lo schieramento degli imperialismi penetra fin del cuore del proletariato suscitando artificiali divisioni, e falsando il contenuto di classe di ogni lotta operaia, lo stesso contrasto si riproduce in ogni settore nazionale; e in Germania si esprime nei due tronconi antitetici del movimento operaio nelle zone di occupazione occidentale e orientale; e in Francia, Inghilterra, America, Italia, si traduce nelle professioni di relativa "autonomia politica" di partiti – il socialista e il comunista – che nessuna diversità programmatica ormai differenzia ma che gravitano verso opposti blocchi imperialistici; e in Grecia, nei Balcani, in Egitto, oppone in una lotta a parvenze ideologiche le pedine dei "Tre Grandi".

Ma che cosa c'è, nelle cose, dietro questo muoversi inquieto di ombre sul telone grigio del secondo dopoguerra mondiale? Che cosa matura dietro queste manifestazioni esteriori di una realtà più profonda?

Il capitalismo ha oggi di fronte a sé, in tutti i Paesi, problemi non di potenza ma di sopravvivenza. Il capitalismo soffoca.

Fra le altre conseguenze economiche, la guerra ha avuto quella di capovolgere i termini dell'equilibrio commerciale britannico. Nazione importatrice, la Gran Bretagna copriva fino al 1939 il cronico disavanzo della sua bilancia commerciale col reddito degli investimenti all'estero e dei noli e coi proventi della sua attività di centro finanziario internazionale. Il conflitto ha compromesso le basi di quest'attività, mentre ha inaridito le due prime fonti della bilancia invisibile dei pagamenti. Non è tanto il suo costo, quanto la sua composizione, che ha sconvolto la posizione finanziaria britannica. Sui 7 miliardi e mezzo che, secondo calcoli prudenziali, è costata la guerra al popolo inglese (un quarto circa della ricchezza nazionale), ben 4,2 si riferiscono a disinvestimenti all'estero effettuati per pagare merci o servizi e saldare debiti, e poco meno di 1 a perdite di naviglio: mentre i debiti contratti all'estero sommano (secondo un calcolo della Newsweek) a 14 miliardi di sterline, e l'Inghilterra, se per metà potrà farvi fronte procedendo ad altri disinvestimenti all'estero od ottenendo di annullarli, dovrà per il resto assicurarsi altri crediti aggravando così la propria situazione finanziaria.

Di qui il problema centrale dell'Inghilterra d'oggi: aumentare di almeno il 70% le esportazioni, sia invadendo i mercati che le distruzioni belliche hanno aperto in Europa, sia soppiantando antichi concorrenti come il Giappone nel rifornimento di alcuni paesi, sia mantenendo in pugno le tradizionali vie di commercio con le colonie e i dominions. Come riuscirvi? Comprimendo i consumi all'interno, affrettando la conversione delle industrie di guerra in industrie di pace, e razionalizzando le industrie-chiave (i piani di "nazionalizzazione" delle arretratissime industrie carbonifera e siderurgica sono in primo luogo piani di razionalizzazione). È quello che si sta facendo, con il risultato: 1) che mentre l'occupazione operaia complessiva è a tutt'oggi inferiore al livello dell'anteguerra, nell'industria di esportazione lo supera del 23%; 2) che mentre ancora nel 1. Trimestre 1945 il numero indice delle importazioni (base 1938=100) era 124 e quello delle esportazioni 62, nel primo trimestre 1946 i due indici erano rispettivamente 121 e 157; 3) che il razionamento lungi dall'allentarsi, si è fatto più rigoroso; 4) che la percentuale di reddito nazionale consumato tende a contrarsi rispetto alla percentuale assorbita dallo stato sotto forma di tasse ed imposte, o risparmiata per essere riemessa nel ciclo produttivo.

In altre parole, è in atto una tensione di tutto l'apparato produttivo sia dal punto di vista del capitale che dal punto di vista del lavoro: tutta l'economia si orienta, sotto l'egida dello Stato (addio antitotalitarismo), verso l'esportazione. Ma quest'espansione commerciale può avverarsi in condizioni di normalità? La guerra, distruggendo o paralizzando il potenziale produttivo di alcune grandi potenze, ha bensì aperto nuove possibilità di espansione all'industria inglese, ma ha concentrato sugli stessi campi di azione gli sforzi di altre potenze frustate da analoghe necessità di vita; ha allentato le fittissime maglie dei rapporti commerciali interimperiali riducendo le possibilità di esportazione entro il raggio della Commonwealth britannica; ha accentuato il processo d'industrializzazione dei paesi coloniali e semicoloniali, molti dei quali, d'altra parte, sono stati spinti a gravitare economicamente verso gli Stati Uniti; infine, facendo sempre più della Gran Bretagna la debitrice degli Stati Uniti, l'ha costretta a subirne le esigenze di politica economica, per cui il recente e vistosissimo prestito accordato da Wall Street è servito egregiamente da ricatto per ottenere l'impegno inglese alla rinuncia al sistema del commercio preferenziale all'interno dell'area della sterlina e garantire ai membri dei quest'ultima la libertà di spendere dove meglio credano i dollari e le sterline finora bloccati presso Londra. Tutto ciò lascia disarmata di fronte al mondo un'industria non attrezzata per l'esportazione e che pur deve esportare, in concorrenza con economie tecnicamente più efficienti, sotto pena di assistere al crollo di tutto l'edificio economico nazionale e di non poter sopportare più a lungo il peso del controllo militare di parte dell'Europa e del mondo.

In questa situazione, due cose sono certe. Da una parte, l'industria inglese sarà spinta ad un ritmo rapidissimo di razionalizzazione, di accentramento, di sviluppo della produttività del lavoro, per rispondere alla primordiale esigenza dell'esportazione: questo processo si rifletterà in un disagio sempre più acuto del proletariato e in un progressivo smantellamento della sopravvissuta "democrazia" britannica. Dall'altra, la tendenza verso l'esportazione, stimolata da questa stessa trasformazione dell'apparato economico, urterà contro barriere sempre più difficili da superare, rappresentate non soltanto dalla parallela espansione commerciale di altre economie in seguito al conflitto, ma dalle contro-reazioni provocate dallo stesso ritmo espansionistico britannico e dalle sue esigenze di difesa.

D'altra natura sono in parte le forze che spingono sulla via dell'espansione la Russia sovietica. La guerra ha provocato qui, da un lato, una sensibile riduzione della capacità produttiva di alcuni settori, soprattutto di quello agricolo, e, dall'altro un notevole indebitamento verso la massima potenza finanziaria mondiale, gli Stati Uniti. Il conflitto ha non soltanto colpito duramente il cuore della produzione agraria dell'URSS (l'Ucraina), rovinando i seminati, impoverendo le terre e distruggendo le scorte vive e morte, ma reso estremamente difficile il salvataggio di impianti e macchinari (parzialmente riuscito invece nel settore industriale), e provocato nei contadini una diffusa tendenza a spezzare i quadri dell'economia collettiva, alterando l'equilibrio faticosamente raggiunto negli anni dell'industrializzazione accelerata dell'agricoltura. Tutto questo ha accresciuto il disagio del consumatore e reso ancor più grave il peso dei sacrifici sostenuti dalle masse nel corso del conflitto, il quale ha avuto anche l'effetto di accentuare il già esistente squilibrio fra industria pesante e leggera, fra produzione di beni capitali e di beni di consumo (il nuovo piano quinquennale prevede appunto un'estensione di quest'ultima): problema tanto più acuto, in quanto l'iniziata smobilitazione di un gigantesco esercito imponeva il riassorbimento di una larga massa di mano d'opera nelle industrie e nell'agricoltura, e che ha perciò dominato le linee generali della più recente politica di espansione della Russia.

Questa ha dunque come suo primo stimolo la necessità di colmare le lacune e gli squilibri dell'economia nazionale ricostituendo l'attrezzatura industriale e agricola con una spregiudicata politica di smantellamento economico dei Paesi occupati (il caso della Germania orientale, dell'Austria e della Manciuria), rimediando alle deficienze alimentari e in genere di beni di consumo con una parallela politica di requisizione (il caso della Rumenia, dell'Ungheria, della Prussia occupata, dove si è avuta per conseguenza una sensibile rarefazione di prodotti agricoli per la popolazione locale), e provvedendo fin da ora ad assicurarsi vantaggi futuri con una conseguente politica di infeudamento dei Paesi limitrofi ad economia complementare.

Ma ci sono altre forze che agiscono da motivo propulsore dell'espansione sovietica. Anche la Russia è oggi gravata di debiti verso l'estero; anch'essa deve ricostruire come l'Inghilterra e la Francia, importando beni di produzione e capitali; anch'essa deve "far pagare a qualcuno" quello che è costretta a pagare ad altri. Lo fa assoggettando alla propria l'economia di altri paesi, imponendo riparazione ai vinti senza l'ipocrisia di certe formule anglosassoni che dicono in modo diverso la stessa cosa, e preparandosi una strada all'espansione commerciale. La Russia si avvia a diventare esportatrice di prodotti non soltanto agricoli, ma industriali, e la sua diplomazia non esita ad agire conseguentemente a questa prospettiva non arretrando né di fronte alla rivendicazione di mandati di amministrazione coloniale in questo o quel territorio africano, né di fronte ad una politica di esportazione di capitali attraverso la partecipazione finanziaria ad imprese miste nei paesi più direttamente suscettibili di controllo dell'Oriente vicino, medio e lontano (col risultato di mettere a contribuzione il lavoro dei proletari di zone semicoloniali per pagare gli interessi al capitale nord-americano o britannico), e aprendo gradatamente la via verso il mercato mondiale e i mari liberi, con la pressione diplomatica e se occorre militare, a un'industria che, grazie anche al trapianto di macchinario modernissimo, si va mettendo in grado di affrontare e di battere, come sul mercato balcanico, la concorrenza americana e britannica.

E tuttavia, più nascosta, meno suscettibile di manifestazioni clamorose sul piano dei contrasti politici e militari, è la crisi maturante in seno all'economia degli Stati Uniti che giganteggia nel mondo; e la sua importanza è tanto più decisiva agli effetti dell'evoluzione delle lotte di classe, in quanto a quell'economia è per mille fili legata l'economia di tutti i paesi.

È una grande nazione creditrice interessata a promuovere lo sviluppo economico dei creditori; è la grande fornitrice di merci, di capitali e di servizi a paesi in ricostruzione (e si sa che, per vendere a credito a qualcuno, bisogna impegnarsi a comprare o a far comprare qualcosa da lui); è la più colossale potenza produttiva del mondo, condannata perciò ad un'espansione insofferente di limiti; è infine una nazione che non vuol ricadere nel baratro della grande crisi e persegue il sogno del "full employment" (pieno impiego dei fattori produttivi) e perciò del dominio incontrastato del mondo.

La situazione economica degli Stati Uniti è dominata da un complesso di fattori che si possono schematizzare così: 1) gigantesco aumento della produzione (il cui valore passa dagli 88 miliardi del 1938 ai quasi 200 del 1945); 2) aumento vertiginoso della produttività del lavoro (si parla del 180%), dimostrato dal fatto che il raddoppiamento della produzione si è ottenuto ad onta dell'assorbimento nell'esercito di circa 12 milioni di unità produttive e della loro parziale sostituzione con mano d'opera femminile e non qualificata; 3) dilatazione della capacità produttiva assoluta in seguito ai forti investimenti di capitale nell'industria a fini di guerra (il valore complessivo del capitale già immobilizzato prima del conflitto è di appena un quinto superiore a quello dei nuovi investimenti effettuati nel corso di esso); 4) necessità di aumentare di almeno tre volte l'esportazione (si calcola che questa debba raggiungere un valore di almeno 10 miliardi) per mantenere la produzione al livello della sua capacità, e perciò realizzare l'auspicata politica del "pieno impiego"; 5) necessità correlativa di ritornare ad un sistema di liberi scambi internazionali che escluda il commercio preferenziale e bilaterale – politica che gli Stati Uniti hanno messo a base dei recenti accordi finanziari con Inghilterra e Francia e alla quale condizionano e sempre più condizioneranno la concessione di prestiti. O esportare di più, o affrontare il pericolo di una vastissima disoccupazione determinata ad un tempo dall'aumento della produttività del lavoro (per produrre la stessa quantità di merci occorrono oggi assai meno braccia di prima) e dall'aumento dell'offerta di mano d'opera (graduale smobilitazione dell'esercito, aumento naturale della popolazione): questo il più assillante problema per l'America.

Non è perciò strano che, tra il '45 e il '46, si sia venuta accentuando l'eccedenza delle esportazioni sulle importazioni, e che la politica americana si orienti sempre più verso l'accaparramento di punti d'appoggio in tutto il mondo. Potrà mantenersi e moltiplicarsi, questo ritmo di espansione, senza turbare le correnti commerciali già in atto a mettere in forse la ripresa economica di quegli stessi paesi che l'America ha interesse di far vivere perché sono suoi debitori, e verso i quali è generosa di aiuti appunto perché comprino da lei e, ristabilendo il proprio equilibrio economico, facciano onore ai propri impegni, e come debitori e come compratori? E, rendendo difficile questo processo di riassestamento, gli Stati Uniti non aggraveranno le proprie condizioni di vita, posto che non si può vendere senza, in un modo o nell'altro, comprare? È sotto questa luce che va visto l'altro problema scaturito in America alla fine delle ostilità: il problema dei prezzi. Gli Stati Uniti hanno potuto sopportare le loro gigantesche spese di guerra senza diminuire il tenore di vita della popolazione: essi sono l'unico Paese belligerante in cui non solo si sia avuto un aumento reale del reddito nazionale nel corso del conflitto, ma in cui il consumo civile, lungi dal contrarsi, sia notevolmente aumentato. C'è abbondanza di danaro, in America, e una spinta corrispondente agli acquisti, un afflusso rapido e incontrollato di questo denaro sul mercato, significano inflazione. La battaglia svoltasi al Senato intorno al mantenimento del controllo dei prezzi significava rimettere in moto il meccanismo delle rivendicazioni salariali appena placate dopo i giganteschi scioperi di primavera, alterare l'esistente equilibrio monetario, limitare le possibilità di esportazione. Perciò il Presidente ha esercitato il suo diritto di veto; il che non ha impedito che, nel frattempo, il prezzo dei generi di più largo consumo aumentasse del 22-25% nel giro di poche settimane, e che il nuovo controllo nascesse su basi e con criteri molto più elastici.

Ora è chiaro che un aumento dei prezzi americani significa automaticamente una riduzione della capacità di acquisto dei dollari prestati un po' a tutti, una minor capacità di concorrenza dell'economia statunitense sul mercato internazionale e, per converso, una maggior capacità di concorrenza di altre economie su quel mercato; tutto il mercato internazionale delle merci è destinato ad alterarsi perché sono gli Stati Uniti a dominarlo, e con esso subisce nuovi e pericolosi squilibri il già inquieto mercato del lavoro. E poiché, in un modo o nell'altro, e in una misura più o meno grande, i prezzi aumenteranno e in rapporto ad essi bisognerà aumentare i salari, sarà in atto una nuova spinta alla razionalizzazione, allo sfruttamento del lavoro, alla pianificazione industriale, e saranno questi altrettanti fattori di crisi, ed altrettanti stimoli a superarla mediante una nuova e più forte espansione commerciale. Tante e così aggrovigliate sono le azioni e reazioni dell'economia capitalistica.

Le conclusioni si impongono da sé. Tutte le grandi potenze mondiali sono dominate dal problema di realizzare il "pieno impiego" dei fattori produttivi. Inghilterra e Russia lavorano a pieno ritmo pompando crediti all'America e riparazioni in merci e servizi ai paesi occupati: gli Stati Uniti, mantenendo in moto e potenziando la loro intatta e gigantesca macchina industriale. È il processo dell'accumulazione capitalistica che riprende dopo anni di distruzione, e che non vuol conoscere limiti.

Ma i limiti sono posti dalle condizioni in cui deve svolgersi e moltiplicarsi il commercio estero di queste stesse grandi nazioni vincitrici e dominatrici del mondo. Per le due prime, questi limiti sono posti dalla parallela necessità di espansione di ciascuna di esse, del "terzo grande" (gli Stati Uniti) da cui in un modo o nell'altro la loro ricostruzione economica dipende, e di tutte le nazioni alle quali la guerra e il dopoguerra hanno conferito un peso economico nuovo nel giuoco della concorrenza internazionale. Per la terza, sono posti dalla espansione delle altre due (ch'essa è purtuttavia costretta a favorire) e dall'intersecarsi delle linee di sviluppo di tutti gli aggregati politici mondiali.

Questa situazione ha i suoi inevitabili riflessi nei rapporti fra le classi. La ricostruzione, che è il problema dominante della Russia, e la "riconversione", che è il problema dominante dell'Inghilterra e dell'America, poggiano su basi così fragili che non si può prospettarle senza prospettare l'ineluttabilità della crisi. Esse implicano un accelerato ritmo di sfruttamento del lavoro, una prolungata restrizione dei consumi, una spinta ad allargare lo smercio dei prodotti per evitare il grande scoglio della disoccupazione interna, anche a costo di provocarla o aumentarla negli altri paesi.

In questa situazione, per un fatale riprodursi di condizioni storiche obiettive, il problema tedesco è destinato a ritornare al centro della crisi internazionale del capitalismo. È nella logica del capitalismo che le tre potenze, dopo aver sostenuto un programma di sbriciolamento dell'economia tedesca, da essi realizzato senza scrupoli e senza rimpianti in quanto si trattava di "decongestionare" il mercato internazionale, aprire nuovi sbocchi alle proprie industrie e riattrezzarsi alla concorrenza nel più breve lasso di tempo possibile, siano ora portate a prospettarne non solo la graduale rinascita ma la riunificazione. Lo debbono perché ciascuna di esse tende a fare di tutta la Germania una pedina propria, un proprio trampolino di lancio per il futuro così come un serbatoio economico per il presente (e la Russia non esita a pestare i piedi dell'ultranazionalismo dei comunisti francesi propugnando un governo centralizzato del Reich); lo debbono perché anche la rapina ha le sue leggi economiche, e non si può aprire un mercato alle proprie merci in un deserto; lo debbono infine perché nessuna delle zone sottoposte alla occupazione militare alleata può vivere da sé; e l'Inghilterra non può pensar di perdere a cuor leggero i 100 milioni di sterline anticipati per finanziare le importazioni nella zona britannica se la zona agricola orientale non li paga esportando in conto pagamento debiti verso l'estero, e se la produttività del lavoro nella Renania e nella Ruhr rimane, proprio per la penuria di generi alimentari, così bassa; mentre la Russia non può contare su uno sfruttamento continuato delle possibilità agricole dell'Est se le barriere doganali che separano zona e zona continuano ad inceppare dall'ovest l'afflusso di prodotti chimici e meccanici ch'essa non è in grado di fornire. La Ruhr e la Renania non esportano a sufficienza carbone, perché ne producono poco (e lo stesso dicasi dell'acciaio, la cui produzione si è ridotta al 10% dell'anteguerra); le regioni orientali non esportano prodotti agricoli se non nell'URSS: è una politica di esaurimento che nuoce alle stesse potenze occupanti. E, se è naturale che la Russia propenda per un'unificazione anche politica della Germania perché pensa di agevolmente controllarla, mobilitando, se occorre, i partiti di massa che servono al suo gioco, è altrettanto naturale che la Gran Bretagna e l'America propendano per la sua unificazione economica ma per il suo decentramento politico. E poiché – come ha dimostrato in una serie di documentatissimi articoli sulla Germania l'Economist – gli alleati si stanno accorgendo dell'inattuabilità di un piano che riporterebbe il vinto a un livello economico inferiore a quello del suo più duro anno di vita (il 1932) e lo condannerebbe a rappresentare per gli occupanti un insopportabile peso invece di un possibile mercato di sbocco, si va facendo strada dovunque l'idea che bisogni rianimare l'economia germanica rimettendone in vita le industrie e ridando ossigeno alla sua agricoltura, il che non è possibile senza reintrodurre nel mercato mondiale un nuovo fattore di concorrenza, di squilibrio, di contrasto.

In questo letto di Procuste si agita senza trovar pace il mondo capitalistico, e poiché sarebbe assurdo credere che ad una soluzione pacificamente concordata del problema tedesco si giunga, tanto forte e pressante è in quel settore il giuoco delle competizioni, la Germania potrà essere di nuovo al centro della crisi mondiale non per effetto del famoso "imperialismo teutonico", ma per l'imperialismo di tutti. A dimostrazione se pur ve ne'era bisogno, che la guerra imperialista non comporta responsabilità unilaterali, e non esiste, né obiettivamente né soggettivamente, aggressore e aggredito.

Ma le condizioni della crisi capitalistica (e di quella sua estrema manifestazione che è la guerra) sono le stesse della ripresa delle lotte di classe del proletariato. Ed è dai dati della prima che la critica marxista deve partire, senza lasciarsi sviare né dalle suggestioni del momento né dall'artificio di raffronti superficiali tra situazioni storiche radicalmente diverse, se il proletariato dovrà, nel corso della crisi di cui alcuni fatti da noi rilevati rappresentano appunto le "battute di attesa", opporre al capitalismo imperialistico quella che Marx chiamò la critica delle armi.

La qual cosa è, per ora, soltanto nei voti.

Note

[1] Come è noto, il presidente argentino ha cessato di essere 'fascista' da quando gli Stati Uniti prima e la Russia poi hanno creduto necessario accaparrarsene l'amicizia commerciale riconoscendone ufficialmente il regime.

[2] Il reddito privato inglese è rimasto durante la guerra pressoché invariato (tenuto conto delle modificazioni monetarie): la percentuale di reddito consumato, che era nel 1938 dell'83% è scesa nel 1945 al 61, mentre la percentuale trasferita allo stato per tasse ed imposte saliva dall'11 al 23% la percentuale risparmiata dal 6 al 16, e la percentuale delle imposte dirette dall'11,8 al 25,32%. A quest'ultimo proposito, è da notare che l'aumento più forte si è avuto nell'incidenza delle imposte dirette sui redditi di lavoro (dal 3,01 al 10,7% per i salari, dal 5 al 21,04% per gli stipendi) mentre per i redditi di capitale – interessi e profitti, rendita fondiaria e edilizia – si è avuto un aumento percentuale non di tre o quattro ma di due volte.

Da "Prometeo" n. 1 dell'agosto 1946

Prometeo 1946-1952