Evoluzione dei sindacati e politica salariale nell'URSS

La politica del "socialismo in un solo Paese" e la conseguente evoluzione della macchina statale sovietica nel senso di un sempre più pesante e oppressivo apparecchio di sfruttamento del lavoro hanno avuto per effetto di alterare profondamente il significato e la funzione degli organismi sindacali nell'URSS.

Questa funzione era stata definita con grande chiarezza da Lenin nel 1922 in un corpo di tesi che l'XI Congresso del Partito doveva integralmente approvare: "L'adozione di una contabilità commerciale da parte delle aziende di stato – vi si leggeva – l'urgente necessità di aumentare la produttività del lavoro e di garantire la stabilità economica di ogni azienda di stato, l'inevitabile zelo burocratico delle autorità industriali non possono non provocare nelle imprese conflitti di interesse in materia di lavoro fra la maestranza e i direttori, i tecnici e i comitati preposti alle imprese medesime. È perciò dovere assoluto dei sindacati difendere gli interessi degli operai nelle aziende socialiste e di migliorarne in tutti i modi le condizioni materiali correggendo sistematicamente gli errori e le esagerazioni degli uffici economici, in quanto prodotti di una degenerazione burocratica della macchina statale" (Pravda, 17 genn. 1922).

Con questa formulazione, Lenin riconosceva che, nel regime economico misto caratterizzato dalla coesistenza di elementi socialisti e non-socialisti, il processo della lotta di classe continuava e in esso trovava la sua giustificazione la permanenza di organismi di difesa degli interessi operai.

Né il quadro poteva essere alterato dalla successiva politica di industrializzazione dell'URSS né dall'introduzione dei piani quinquennali, che mentre non abolivano il sistema della contabilità commerciale delle aziende e ponevano anzi a queste ultime in forma categorica il problema dell'equilibrio dei bilanci tipico di tutte le aziende in regime mercantile, esasperavano il ritmo di accrescimento della produttività del lavoro e il pericolo degli "eccessi di zelo" della burocrazia. Ma il dado era tratto, e l'evoluzione politica portava necessariamente a ingranare i sindacati nel gigantesco meccanismo dello Stato-padrone e a toglier loro ogni funzione che non fosse quella di promuovere l'incremento della produzione industriale attraverso l'aumento della produttività del lavoro e il potenziamento della sua disciplina – finalità abilmente mascherata dietro lo slogan della "sempre più consapevole e diretta partecipazione delle masse operaie alla costruzione del socialismo".

Si iniziava così un processo di svuotamento del sindacato che, nel corso del I° piano quinquennale, quando il tasso reale dei salari diminuiva, portava gli organi sindacali a combattere per la "disciplina finanziaria" nelle questioni salariali e per il rigido mantenimento del "fondo salario" e delle quote di produzione fissate dall'amministrazione delle aziende di Stato; ad abbandonare dopo il 1934 la definizione dei contratti collettivi agli organi amministrativi dell'azienda e dello stato e infine, nel gennaio 1933, a perdere ogni influenza sulla determinazione delle quote di produzione nell'ambito di ogni singola attività produttiva.

Nell'estate dello stesso anno, il segretario del Comitato Centrale dei Sindacati per le questioni salariali, Veinberg, dichiarava: "La corretta impostazione del sistema dei salari e di un sistema di quote di produzione in armonia con le peculiarità di ogni singola branca industriale e in rapporto alle sue particolari condizioni esige che la responsabilità di questo compito sia assegnata direttamente alla direzione tecnica ed economica. Ciò è richiesto anche dalla necessità di introdurre la direzione unica e la contabilità commerciale nell'azienda… Solo funzionari economici possono essere responsabili delle quote tecniche, del livello dei salari, della fissazione di quote di produzione, dei cottimi ecc. In alcuni compagni di fabbrica è radicata oggi la convinzione che il sindacato debba avere voce in capitolo nel fissare i salari a parità con la direzione economica. È questa una deviazione "di sinistra" ed opportunista, un tentativo di metter fine alla direzione unica e di interferire con l'amministrazione. Ciò deve finire" (Trud, 8 luglio 1933).

Parallelamente, a partire dallo stesso anno, erano soppressi gli uffici di collocamento e l'assunzione della mano d'opera diventava compito esclusivo della direzione aziendale, senza alcun controllo da parte dei sindacati. I quali, nel frattempo, erano presi nel girone dello stakhanovismo e dell'"emulazione socialista", e diventavano l'anima della campagna per l'aumento della produttività del lavoro e quindi del suo intensificato sfruttamento. E poiché nella catena della produzione non v'è anello che non ne presupponga un altro, era inevitabile che l'aumento della produttività fosse visto come problema, non sotto l'angolo visuale di un miglioramento delle condizioni generali di lavoro e di vita dell'operaio, ma – in armonia con le esigenze contabili dell'impresa – sotto quello di un irrigidimento della disciplina del lavoro. Punto culmine di questo capovolgimento della politica sindacale dello "stato operaio" è il decreto 26 giugno 1940, che vincola l'operaio al posto di lavoro comminando pene severissime per i casi di violazione, e condizionando alla rigida osservanza di questa disciplina il meccanismo della stessa assistenza sociale (il decreto del 28 dic. 1938 stabiliva già che "gli operai licenziati per infrazioni della disciplina del lavoro o per delitto, e quelli che hanno abbandonato il lavoro di loro spontanea volontà potranno chiedere l'assistenza per malattia solo dopo di aver lavorato non meno di sei mesi al loro nuovo posto"; lo stesso decreto, d'altra parte, riconosceva l'antico criterio dell'assistenza malattia pari al salario solo agli operai che lavoravano da almeno 6 anni nella stessa azienda, mentre la riduceva al 50% per quelli che potevano vantare una permanenza di meno di un biennio). "Il compito dell'assicurazione sociale – scrivevano i Voprosy Truda dell'aprile-maggio 1932 – consiste in una vasta, incessante, quotidiana battaglia per l'aumento della produttività del lavoro… È questo il punto d'onore di tutti i funzionari e di tutti gli organi dell'assicurazione sociale".

Ridotte al minimo anche le funzioni di controllo sul lavoro, i sindacati hanno finito per confinare la loro attività di difesa degli interessi operai ad un settore che potremmo chiamare dopolavoristico, cosicché appare giusta la conclusione a cui è giunto S. Schwarz in uno studio sui sindacati nella vita industriale russa (The Trade Unions in Russian industrial life, in International Postwar Problem v. II, numero 3, luglio 1945): "[I Sindacati] hanno finito per occuparsi soprattutto di rafforzare la disciplina del lavoro, di aumentarne la produttività e di curare gli interessi dell'operaio non come prestare d'opera… ma come consumatore, attività esercitata largamente in questo Paese da organizzazioni assistenziali di tipo paternalistico".

Ma è chiaro altresì che il fenomeno è di portata troppo vasta e complessa per poterlo chiudere nei confini cari allo Schwarz di un'antitesi democrazia-antidemocrazia. Per noi, il problema rientra nel quadro generale della lotta di classe e dei rapporti di forza che fra le classi si son venuti a stabilire nell'URSS. Lo svuotamento della vita sindacale non è il punto di approdo di una lotta tra forme politiche o strutture giuridiche diverse (come, sviluppando in certo modo il pensiero dello Schwarz e tracciando una storia ideale della conversione del leninismo in stalinismo, ce lo presenta il Pagliari in un suo recente articolo su I Sindacati operai in Russia in Critica Sociale, a. XVIII, 4-10, 16 maggio 1946), ma è la conclusione di un processo di lotte di classe che va visto sul più vasto orizzonte della situazione internazionale del proletariato. Chi ha trionfato, in questo processo, non è la "dittatura" sulla "democrazia", ma la conservazione capitalistica sulla rivoluzione proletaria.

Il grave non è, in altre parole, che la funzione di difesa di classe del sindacato sia venuta decadendo (come è ovvio che decada nell'ipotesi di una definitiva affermazione delle forme socialistiche sulle forme "mercantili" della produzione), ma che sia venuto decadendo man mano che si affermavano gli aspetti degenerativi dell'economia e della politica russa, per spegnersi del tutto quando la macchina statale ed economica si presentava ormai come la concretizzazione mostruosa di capovolti rapporti di forza tra le classi.

Ed è perfettamente ridicolo che i teorici della democrazia o socialdemocrazia occidentale piangono sul tramonto della funzione autonoma del Sindacato in Russia, o sulla sua degradazione ad organismo assistenziale-dopolavoristico, quando in tutti i paesi, cominciando dalla libera America di Truman per finire con le democrazie progressive di cui ha fatto dono il dopoguerra in Europa, la stessa tendenza va chiaramente delineandosi nel nome della ricostruzione e della solidarietà nazionale, e come se il sindacato non si ponesse dovunque (perché glielo fan porre i partiti del compromesso) il problema di applicare degli impacchi freddi sulla fronte dell'operaio per fargli sopportare il peso asfissiante della tanto auspicata (vedi le quindicinali omelie di "Critica Sociale" o di "Rinascita") intensificazione della sua capacità produttiva.

Lo stato-padrone è il fenomeno tipico della società borghese nella sua parabola discendente, il punto in cui tendono ad incrociarsi la linea di sviluppo del capitalismo e la linea d'involuzione dello Stato che già fu detto "operaio", e la sua funzione è dovunque quella di garantire il profitto contro le perturbazioni di un apparato economico in sfacelo. È su questo piano che va visto storicamente il fenomeno della "morte del sindacato" nella Russia e nel mondo: e sarebbe davvero il caso di dire che… chi è senza peccato lanci la prima pietra. Il criterio della produttività domina il mondo sociale sovietico come tutto il mondo sociale capitalistico.

Evidentemente, il sintomo preoccupante dell'evoluzione politica e sociale russa non è il fatto bruto delle constatate differenze salariali fra categoria e categoria, ma il fatto che queste differenze si fondino sugli stessi criteri mercantili di contabilità aziendale che sono tipici del sistema di produzione capitalistico. Mantenuto per gli operai non qualificati il sistema del salario orario, la base della politica salariale è ormai costituita per le altre categorie produttive dalla quota di produzione, o meglio ancora dal costo, che l'azienda stabilisce preventivamente in vista di un bilancio il più possibile attivo fra entrate ed uscite. La retribuzione aumenta proporzionalmente ai pezzi prodotti in più della quota media fissata, così come un sistema progressivo di multe colpisce il mancato raggiungimento della quota e un sistema di premi compensa il miglioramento realizzato nei metodi di lavoro (si noti che il sistema di corrispondere buoni-acquisto supplementari in rapporto all'aumento della produttività del lavoro riguarda non soltanto l'operaio singolo, ma il caporeparto, il "guardaciurma" della grande azienda moderna). Il personale tecnico e dirigente non gode soltanto di uno stipendio di gran lunga superiore al salario dell'operaio non-qualificato e qualificato, ma partecipa agli utili dell'azienda in rapporto percentuale all'aumento della produzione o, che è in definitiva lo stesso, alla riduzione dei costi; riceve dall'azienda merci e servizi gratuiti o semigratuiti; può rifornirsi in spacci aziendali a prezzi bloccati; gode determinati privilegi in fatto di educazione, mentre la tassa sul reddito lo colpisce in misura assai meno forte che nei paesi occidentali. È chiaro che, essendo i prezzi fissati dal governo, il fondo-salari supplementare si costituisce sulla base della differenza fra prezzi e costi di produzione, e l'azienda viene a costituire un'unità chiusa in cui il plusvalore è distribuito secondo criteri contabili schiettamente mercantili sulla doppia base dello sfruttamento del lavoratore non-qualificato il cui salario è ridotto al minimo necessario per vivere, dello stakhanovista sottoposto al massacrante logorio fisico della "emulazione", del consumatore che paga i prodotti ad un prezzo di gran lunga superiore al costo di produzione o, guardando il problema da un altro punto di vista, su basi di concorrenza tra aziende nella produzione e di monopolio statale nella vendita.

E poiché in una struttura economica di questo genere il criterio discriminante del "lavoro" è di natura essenzialmente sociale, è ovvio ch'esso tenda, da una parte a tener compresso il salario orario dell'operaio non qualificato e, dall'altra, ad aumentare gradatamente ma costantemente il reddito globale del lavoratore qualificato, dello stakhanovista e del dirigente. Andate, con questo, a parlare di una progressiva scomparsa delle classi o di un avvicinamento alla formula comunista: "a ciascuno secondo il suo bisogno!".

Dobbiamo meravigliarci, dopo tutto questo, della constatazione del Drucker che "il risultato del contatto col sistema industriale russo è stato sorprendente: alcuni dei più conservatori industriali americani, per i quali tutto ciò che è russo era anatema, esaltano oggi le virtù del sistema russo dei salari a premio?". E che, d'altra parte, l'introduzione di questo sistema e dello stakhanovismo abbia urtato nel 1934-36 contro l'opposizione degli organi sindacali provocando per contraccolpo il loro esautoramento? Il trionfo della nuova politica salariale e la "morte del sindacato" sono due aspetti della stessa evoluzione storica, cioè dell'inversione dei rapporti di forza fra le classi nella fase discendente della Rivoluzione russa.

E non c'è che da prenderne atto.

Note

[1] Per un inquadramento generale della questione russa, cfr. "La Russia sovietica dalla rivoluzione ad oggi" in Prometeo, n. 1, luglio 1946.

[2] Nel 1938, il personale dirigente dell'industria riceveva da 15 a 25 volte e in qualche raro caso 30 volte più dell'operaio non qualificato: il rapporto era in America di 1 a 8/12 e in qualche caso di 1 a 20 (P. Drucker, Wages and incomes in Soviet industry, in World Review, nov. 1945). D'altro canto, il salario medio del manovale risulta dalle stesse statistiche degli apologisti del sistema russo (si veda il recentissimo rapporto di G. Borghesi, "Un mese nella Russia sovietica", in, Cultura sovietica, ott.-dic. 1945) ridotto al livello minimo della sussistenza e poco più che sufficiente a coprire il consumo di due pasti nelle mense aziendali, pur tenuto conto delle facilitazioni di tipo assistenziale accordate al lavoratore.

[3] Secondo il Drucker il salario dell'operaio non qualificato è aumentato durante la guerra di 4 volte, quello del dirigente di 8, e quest'ultimo può impiegare il suo reddito nell'acquisto di merci a prezzo anteguerra. La recente riduzione del 50% sui prezzi di alcuni generi di consumo – annunciata con tanto rilievo da alcuni giornali nostri – riguarda d'altronde soltanto alcune merci non tesserate che per il loro prezzo rappresentano, agli effetti del reddito medio dell'operaio, articoli di lusso (Neue Zürcher Zeitung, 4-7-46).

Da "Prometeo" n. 1 dell'agosto 1946

Prometeo 1946-1952