Mare nostrum
Dopo quarant'anni la borghesia italiana torna a piangere i caduti in terra straniera.
La sua stampa lamenta, con la consueta attitudine filistea, "particolare preoccupazione circa un ulteriore deteriorarsi della situazione in Libano, destata dal fatto che varie imboscate abbiano preso di mira, tra il 15 e il 27 marzo, le truppe del contingente italiano, che hanno subito una decina di feriti [non c'era ancora il morto]; proprio quelle che, avendo stabilito rapporti positivi con le popolazioni locali, erano probabilmente riuscite ad operare con maggior successo per stabilizzare in senso pacifico l'area loro assegnata della capitale libanese".
Così, secondo i borghesi italiani, un'operazione congiunta di vera e propria polizia internazionale svolta in una area particolarmente esplosiva si riduce ad una sorta di missione paternalistica mal digerita dai soliti "destabilizzatori".
Non seguiremo in questa sede la fitta trama di interessi imperialistici e di scontri di classe che percorre tutto il Medioriente.
Ci interessa invece utilizzare come esempio l'atteggiamento dell'imperialismo italiano che, dal suo buon posto in graduatoria, è emblematico a proposito di una tendenza generale, connessa sia con lo sviluppo economico (e crisi conseguente), sia con le dottrine militari che vanno prendendo piede in questo periodo.
Proprio i mass-media, con naturalmente la stampa in testa, riscoprono la "questione militare" e incominciano a premere sulla necessità del "miglioramento" tecnico-qualitativo delle forze armate italiane e conseguentemente sul rilancio dell'investimento statale in questo settore. Va da sé che in epoca di crisi, quando l'imperialismo nella sua fase decadente cerca ogni via per risollevare le sue sorti economiche, ogni spiraglio per investire, produrre e vendere è preso d'assalto come l'ancora di salvezza. Le spese militari non rappresentano la soluzione per le contraddizioni capitalistiche, ma sono senz'altro una allettante valvola di sfogo. Così cresce l'impegno dell'industria nella produzione militare diretta e ogni grido di allarme, ogni possibilità di "pacificazione" vorrebbero essere sfruttati dall'industria al di là della normale routine di mercato.
Inoltre, per la borghesia, la spesa militare rappresenta il miglior investimento per rafforzare le proprie difese contro ogni tentativo rivoluzionario, in quanto ogni rivoluzione è impossibile senza la disgregazione dell'esercito. Un esercito efficiente, ben pagato, ben equipaggiato e non inviso alla popolazione è un ostacolo insormontabile per le forze rivoluzionarie. Il rapporto è certamente dialettico in quanto l'esistenza di un esercito del genere presuppone di per sé la mancanza di un fermento rivoluzionario, ma la borghesia ha coscienza storica della necessità di mantenere il suo armamentario per il dominio di classe il più efficiente possibile.
Lo stesso discorso televisivo di Reagan è chiaramente il frutto di spinte dell'industria e la ritrosia del Congresso a votare gli aumenti di spesa per l'apparato militare è più l'indice di una lotta interna sull'indirizzo che deve prendere la spesa che non un rifiuto alla spesa stessa. E' evidente che il diminuito impegno nelle spese cosiddette spaziali si risolverà in un riversamento su quelle militari per l'armamento più o meno convenzionale. Un'analisi delle ultime commesse (carro M1, naviglio leggero, armi anticarro etc.) conferma in pieno questa tendenza.
Il capitale italiano che piange sulla necessità di investire maggiormente nel campo militare, detiene già il 4° posto tra gli esportatori mondiali di armamenti (dopo USA, URSS e Francia, avendo "sorpassato l'Inghilterra due anni fa), ma non è soddisfatto del grande distacco che lo separa dai colossi militari che lo precedono.
La storia del capitalismo italiano è storia di intervento statale a favore dello sviluppo dell'industria e in particolar modo quella militare o comunque collegata ad essa. La necessità di piastre blindate per la corazzatura delle navi da guerra porta alla nascita e allo sviluppo (1884) delle Acciaierie e Fonderie di Terni e ancor prima Cavour aveva favorito l'intervento pubblico in favore dei cantieri Ansaldo.
La tradizione militare del Piemonte era molto più seria della sua dinastia reale, come ricorda Engels, e si rifletterà nella politica economica dello Stato unitario che nasce prettamente militarista e imperialista, nonostante la debolezza politica ed economica nel confronto internazionale.
La 1^ guerra mondiale sancisce questa disposizione e rappresenta per l'industria italiana una vera e propria frustata d'energia. Si assiste ad una massiccia concentrazione dell'apparato produttivo e ad una accumulazione gigantesca di profitti di guerra. La FIAT, per esempio, passa dal 30° posto nella graduatoria delle industrie italiane al 3° posto aumentando di sette volte il capitale sociale e decuplicando i suoi iniziali 4000 dipendenti dal 1915 al 1918.
Sarà proprio il settore militare-industriale a fungere da modello di organizzazione per tutta l'economia. Concentrazione ed accumulazione si accompagnano ad una sempre maggiore socializzazione dei costi di produzione fino alla modernizzazione radicale dovuta al fascismo (la cui economia guarda caso viene riscoperta adesso con interesse) che negli altri stati capitalisti troverà buon terreno di applicazione anche se sotto diversi nomi e diverse sfumature (New Deal, nazionalsocialismo, kokutai).
Come potenza economica più sviluppata, gli Stati Uniti dettero un esempio storico emblematico della funzione della spesa militare nella crisi economica e di come si possa mettere in moto un meccanismo di guerra inarrestabile. Ormai è un fatto acquisito anche dai borghesi e dagli opportunisti più incalliti che la "liberazione" fu solo un effetto secondario di una guerra che era iniziata ben prima che la "barbarie nazista" sconfinasse in Polonia.
Nel corso del New Deal le spese dello Stato in campo civile si dimostrarono al di sotto delle esigenze, tant'è vero che all'inizio della guerra ormai il nuovo corso poteva considerarsi fallito nei suoi compiti. La grande crisi avrà la sua soluzione con la mobilitazione generale delle risorse sia per quanto riguarda l'investimento di capitali, sia per quanto riguarda l'assorbimento dei milioni di disoccupati che si trasformano da esercito di manodopera di riserva in esercito di carne da cannone.
La spesa pubblica militare sarà una componente importante (e non solo per gli Stati Uniti) della politica imperialistica anche nel dopoguerra, oltretutto diventerà sempre più motivo di contrasto tra gli alleati-avversari occidentali per il tentativo degli USA di imporre armamenti americani agli eserciti NATO. E' ovvio che il piano di riarmo annunciato da Reagan ha anche il compito di rilanciare le avanzate tecnologie americane. Ma per i paesi europei l'accettazione e l'acquisizione di armamenti e tecnologie dall'esterno ha sempre significato anche l'adozione acritica di precise dottrine oltre che un freno allo sviluppo delle diverse industrie nazionali del settore. Ecco perciò spiegato il rigurgito europeista, il velato (per ora) risentimento antiamericano e la marcata tendenza all'incremento delle produzioni nazionali con relativo sviluppo della tecnologia nazionale. Quando si tratta di investimenti "produttivi" e di lucrose commesse, specie quando la crisi insiste, il capitale non bada a ostacoli.
In questo contesto è ovvio il risveglio militare di due importanti poli dell'imperialismo "minore": Italia e Giappone. Per il momento il terzo polo storico, quello tedesco, non avendo problemi gravi come quelli degli altri due, non si espone così direttamente, anche se le avvisaglie di autonomismo militare tedesco hanno peso specifico evidentemente rilevante. L'Inghilterra e la Francia sono classicamente grandi produttori ed esportatori di armi e per loro non si può parlare di "risveglio", dato che lottano per mantenere le loro posizioni contro un'agguerrita concorrenza. Tra l'Italia e il Giappone, è comunque la prima che ha imboccato senza mezze misure la strada del riarmo e del coinvolgimento militare all'estero in modo più clamoroso e accelerato. Frutto senz'altro, questo, di più impellenti necessità economiche e politiche. Tutto ciò non potrà che produrre i suoi effetti sul contesto generale e sui rapporti tra gli imperialismi.
Si osservino i giornali borghesi in questo periodo, specialmente "La Stampa" della FIAT.
Non è certo un caso che proprio l'amministratore delegato della più grande industria italiana, tradizionalmente produttrice per le tre armi, sia intervenuto in un convegno a Firenze sul tema "Le forze armate e la Società", insieme con il Direttore Generale degli Armamenti, un convegno organizzato per stimolare una pianificazione della produzione militare, cioè un'azione comune tra governo, Stato Maggiore e industria. E' chiaro per noi che non si tratta solo di mettere ordine nel settore; il capitale italiano è ben cosciente delle "possibilità di sviluppo" del ramo militare e spinge naturalmente per un aumento della produzione.
Per quanto riguarda l'intreccio tra capitale "pubblico" e "privato" rimandiamo ai classici testi della Sinistra che dimostrano come in Italia vi sia stato il primo esempio, addirittura con la nascita del capitalismo, di impiego di capitale statale per lo sviluppo dei traffici, della produzione e della potenza militare. Oggi esiste già uno stretto rapporto tra Stato e industria, non solo in Italia e non solo nel campo militare: i convegni e gli incontri a tre come quello ricordato non servono a creare questo rapporto ma a rilanciare la produzione. Le dottrine militari sono strettamente complementari a questo discorso e in genere vengono dopo, sia perché la crisi impone di cercare nuovi settori d'investimento, sia perché provoca in campo internazionale tensioni e insicurezze nazionali, buon terreno per le nuove teorie che, come si diceva in apertura di questo opuscolo, seguono le esigenze reali di guerra in un determinato momento. In ogni caso, se usciamo dai conflitti locali e sporadici, l'industria militare deve avere carattere nazionale: in caso contrario ogni paese è legato alla politica e all'economia della potenza dominante in un certo momento.
E' quindi estremamente significativo che proprio in questo periodo in Italia, che da sempre è il barometro più sensibile delle variazioni negli schieramenti interimperialistici, si assista ad un fiorire di iniziative e discussioni a favore di una industria militare nazionale autonoma.
Il caso delle fregate italiane è molto eloquente. Sono belle navi, il meglio che il mercato mondiale possa offrire in quella categoria di naviglio. Rappresentano la vetrina di ciò che l'industria italiana può offrire di più tecnologicamente avanzato ed affidabile in campo elettronico, cantieristico, missilistico, balistico e propulsivo. Ma hanno un difetto: l'apparato motore è costruito dalla FIAT su licenza General Electric, cioè americana. Sarebbero richiestissime, si vendono come il pane, ma gli Stati Uniti vietano ogni transazione con ogni paese che non sia loro gradito. Così il capitale italiano è stato col fiato sospeso per le trattative con l'Iraq, e ha trangugiato una amara cancellazione di ordini da parte della Cina, potenziale gigantesco partner commerciale per armi convenzionali.
La rivista ufficiale dell'esercito interviene proprio per invocare una politica statale degli armamenti e delle esportazioni promosse da un'apposita agenzia come succede in Inghilterra, Francia e USA. E interviene non con un articolo redazionale, ma con un articolo del Capo di Stato Maggiore Cappuzzo, già noto per altri interventi esemplari in campi non proprio pertinenti (ufficialmente) al suo incarico.
"Le spese per la Difesa - dice il generale - rientrano nel classico circuito economico, provocando effetti di rilievo nei parametri che lo contraddistinguono: il reddito, l'occupazione, la bilancia dei pagamenti, lo sviluppo tecnologico, con importanti ricadute sulle stesse produzioni civili, la qualificazione dei tecnici e delle maestranze e così via. Questi riflessi vanno attentamente considerati, inserendo le spese della difesa - come dovrebbero esserlo d'altronde tutte le altre spese dello Stato - in un quadro programmatico economico generale. Si tratta di considerarle, cioè, come strumento, se non privilegiato, quanto meno non trascurabile della manovra di politica economica ed industriale del Governo".
Il generale chiede che, dopo la recente istituzione della carica di Direttore Nazionale degli Armamenti (DNA) si saldi ancora meglio l'interesse dell'industria con quello della Difesa ponendo alle dirette dipendenze del DNA gli uffici tecnici del Ministero della Difesa. "Le relazioni industriali dovranno far capo, nella Difesa, ad un'unica Agenzia e non avere l'ibrida forma attuale in cui DNA, Direzioni Generali Tecniche e Stati Maggiori costituiscono tutti interlocutori dell'industria". D'altra parte "sarebbe auspicabile la costituzione di un'Agenzia delle Industrie per la Difesa che coordini l'intera produzione, costituisca l'interfaccia autorevole del Direttore Nazionale degli Armamenti, collabori all'impostazione della politica di ricerca, sviluppo ed equipaggiamento".
Le soluzione auspicate dal Capo di Stato Maggiore non sono una novità: sono sempre state la risposta obbligata al varo di un'economia di guerra. Si perfezionarono in Germania con i compiti affidati all'organizzazione Todt portati alle estreme conseguenze dal ministro degli armamenti Speer, furono caratteristiche dell'economia di guerra in Italia e in Giappone con aspetti quasi identici.
E' ovvio che in tutti i paesi è necessario un organismo che centralizzi il controllo della produzione e delle vendite di armamenti, specie in tempo di guerra. Ma il generale Cappuzzo auspica una soluzione particolare, "moderna", che guarda caso ripropone certe caratteristiche degli odiati regimi battuti nella II guerra mondiale. Lo Stato si organizza centralmente per affrontare la pianificazione della produzione militare e obbliga le industrie a fare altrettanto (Agenzia delle Industrie per la Difesa) in una specie di sindacato di categoria interlocutore unico e mediatore "autorevole" per tutti.
Esaminando i grafici delle organizzazioni concorrenti bisogna riconoscere che il generale Cappuzzo offre una soluzione più "organica". Questa soluzione ha dei precedenti che, come dice il testo citato appresso, non sono né di tipo collettivistico né di tipo liberale classico: "questi due metodi non esistono allo stato puro; possibile sarebbe il primo, impossibile oggi il secondo; nelle moderne economie miste corporative o dirette si ha una combinazione dell'uno e dell'altro, con forme tuttavia quasi collettiviste (...) E' lo Stato insomma che determina in via diretta o indiretta principalmente con opportune misure di politica economica e poi di politica finanziaria, la quantità e l'indirizzo degli investimenti e della produzione, la quantità e l'indirizzo dei consumi (...) E' forse vero che la guerra si vince prima nelle officine e poi sui campi di battaglia. Perciò la forza militare è maggiore nei popoli industriali: e questa è un'importante giustificazione militare dell'autarchia, non solo come politica di autosufficienza necessaria in guerra, ma come acceleramento di sviluppo industriale (...) A questa organizzazione statale del lavoro produttivo nazionale in genere giova particolarmente la collaborazione dei vari gruppi di produttori: organizzati in sindacati e portati sul piano dell'azione amministrativa statale (...) come in Italia o altrimenti in Germania".
Questa lunga citazione da un opuscolo fascista ci può far meglio inquadrare le tendenze storiche del capitalismo nella sua fase estrema. I generali e i politici, coscienti o meno, seguono questa tendenza storica. Guerra vuol dire autonomia produttiva, officine che girano e quindi libero accesso alle materie prime, innanzitutto al petrolio.
L'Italia, protesa come una portaerei nel Mediterraneo, oltre a far gola ai potenti alleati in quanto territorio ideale per operazioni aeronavali, ha mire imperialistiche in proprio e affronta la questione medio-orientale in termini di libertà di approvvigionamento o, se si vuole, di "interessi vitali". Per questo nonostante le più accese accuse verbali resiste un asse discreto Roma-Tripoli; per questo i marò e i bersaglieri incominciano a contare i morti e i feriti.
Dal punto di vista capitalistico, correttamente Cappuzzo aborre il ricorso alle merci straniere. Oggi non si chiama più autarchia, ma certo che almeno una maggiore autonomia sarebbe auspicabile. Ma autonomia in che senso? Nel 1980 le commesse statali per la difesa andavano per il 94,1% all'industria nazionale (però 100% cantieristica, 99,8% meccanica) e solo per il 5,9% all'estero. E' evidente che si vuole una autonomia nella vendita di armi, si vuole modificare quel 4,3% di quota di mercato che, pur consentendo un quarto posto dopo i colossi, rappresenta sempre però una bella distanza. Infatti Cappuzzo precisa: "La mancata programmazione di lungo periodo impone spesso di ricorrere ad acquisti all' estero. Essi non solo si traducono in una sottrazione netta di risorse al reddito nazionale ed in un appesantimento della bilancia dei pagamenti, ma concorrono addirittura allo sviluppo di industrie concorrenti con quelle nazionali nel mercato internazionale degli armamenti". Un'ottantina di miliardi in più sulle impostazioni totali (103.675 miliardi nell'81) non spaventa certo nessuno, ma la concorrenza sul mercato internazionale degli armamenti con tutto ciò che comporta, sì, questo preoccupa: gli acquisti all'estero "infine sono dannosi per l'intero sviluppo industriale nazionale, perché impediscono la capitalizzazione in capacità tecniche, in know how tecnologico, in qualificazione delle nostre maestranze (...) non possiamo essere troppo tributari all'estero per tecnologie avanzate (...) sono in gioco non solo il nostro benessere e il nostro tenore di vita, ma la nostra stessa indipendenza nazionale". (Tutte le sottolineature sono nel testo)
Dove vadano a parare tutte queste preoccupazioni sulla indipendenza nazionale nel fattore militare l'abbiamo visto, e non sono solo preoccupazioni dello Stato Maggiore. La stampa italiana, goffa e ignorante da sempre sulle questioni militari, sotto la spinta dell'industria (FIAT in testa) riscopre un ruolo di patriottica informazione anche tecnica verso il cittadino.
Ecco quindi che il corpo di spedizione in Libano assume, alla luce di questo agitarsi degli interessi nazionali, una caratteristica ben precisa di intervento militare in difesa di detti interessi. Che per ora l'intervento sia limitato da una serie di circostanze conferma invece di smentire questo dato di fatto: gli interessi delle tre potenze rappresentanti il corpo di spedizione sono contrastanti anche se la situazione è troppo poco matura perché la cosa sia palese, ma è certo che in caso di azione militare che coinvolga israeliani, siriani e truppe di controllo sarebbe certamente impossibile evitare un contrasto politico tra i paesi mandatari.
C'è chi si agita per la pace minacciata, chi rivendica riconversioni produttive dagli armamenti alle spese sociali, chi concepisce il militarismo come una questione morale da risolvere. Sappiamo che queste concezioni hanno tutti gli elementi necessari per trasformarsi in moralissime prediche per la difesa dall'"aggressione", non appena il "nemico" sarà delineato dal consolidarsi definitivo degli schieramenti. Lasciamo ai moralisti e agli allocchi pensare che pace e schieramenti democratici e no, siano valori universali e stabiliti per sempre.
Lasciamo anche pensare agli economisti borghesi e falsi "sinistri" che gli investimenti militari siano una vera valvola di sfogo alla asfittica economia degli anni '80. La spesa militare degli Stati moderni è infinitamente inferiore, in rapporto alla ricchezza totale, a quella, poniamo, di un secolo addietro. Per avere un effetto sulla economia la modifica della percentuale (oggi del 2 - 6%) richiederebbe già un avvio verso un'economia di guerra, ma questo sarà un processo che coinvolgerà tutti gli elementi della società, dalla produzione alla politica estera, non solo gli investimenti e non solo in qualche paese o in qualche specifico settore.
La militarizzazione totale della società richiesta dalla preparazione alla guerra futura esclude che si possa fissare in una percentuale qualsiasi la differenziazione tra spesa militare e spesa di altro tipo, dato che tutta la società sarà mobilitata. Da questo punto di vista la guerra tecnologica "spaziale" annunciata da Reagan o le diatribe sull'esercito di specialisti fanno sorridere i marxisti: mai come in quest'epoca la guerra è stata un fenomeno di massa e questo è un vantaggio per la rivoluzione.
NOTE
[1] Relazioni Internazionali n° 12, 2.4.'83
[2] L'insistenza con cui viene presentato il rafforzamento vero o presunto del Patto di Varsavia, il clamore sollevato attorno alla "Bulgarian Connection" ecc. sono funzionali agli interessi del capitale indipendentemente dal reale pericolo rappresentato dal "nemico". Così l'opinione pubblica viene convinta che una maggiore spesa militare è sacrosanta per il benessere e la tranquillità della nazione.
[3] cfr. F. Battistelli: Armi, nuovo modello di sviluppo? Torino 1980.
[4] cfr. F.Battistelli op. cit. p.69
[5] Si tratta di Cesare Romiti e del generale Piovano.
[6] V. Cappuzzo: Industria-difesa. Rivista Militare Genn./Febbr. 1983.
[7] Ibid.
[8] Defence Security Assistence Agency negli Stai Uniti;
Delegation Ministerielle pour l'Armement in Francia;
Defence Sales Organisation in Gran Bretagna.
[9] Celestino Arena: L'economia di guerra. Ist. Naz. Cultura Fascista, 1941 - XIX. cfr. anche A. S. Milward: L'economia di guerra della Germania. Milano, 1972.
[10] Negli anni '60 e '70 il modello tattico-strategico cui rispondeva la dislocazione delle unità militari in Italia era quello di un attacco attraverso la frontiera di Nord-Est dove si prevedeva una linea difensiva in grado di bloccare entro un determinato spazio-tempo l'aggressore. Oggi si assiste ad una ridislocazione, specie dell'aviazione, verso Sud, con il pretesto di una minaccia sovietica dal mare. L'argomentazione è assolutamente pretestuosa: la marina dell'URSS non sarebbe in grado di mantenere una presenza in Mediterraneo in corso di conflitto con gli attuali schieramenti. E' chiaro che la ridislocazione ha altro obiettivo e cioè il riconoscimento di un ruolo in proprio nell'ex "Mare Nostrum" specie verso il Medio Oriente (cfr. Rivista Italiana Difesa n° 4, 1983, pag. 34).
[11] V. Cappuzzo: art. cit.
[12] "La Stampa" di Torino (FIAT), nella corsa a guadagnare quote di diffusione perse dal "Corriere", si distingue tra i quotidiani nell'affrontare temi militari, ma solo da pochi mesi. Gli appelli contro il "ritardo" si moltiplicano, come quelli di un certo generale Caligaris, ex capo dell'ufficio politico-militare dello Stato Maggiore della Difesa e oggi "consulente" militare a Roma che auspica su "Panorama" una presenza più aggressiva dell'Italia con o senza alleati (cfr. l'art. "Italian Defence Policy: Problems and Prospects" in "Survival" dell'IISS marzo-aprile 1983, in cui il Caligaris afferma che la scelta di far parte della NATO fu "più una scelta di campo che una chiara valutazione politica e militare dei requisiti di difesa per l'Italia".
Opuscolo del 28 aprile 1983
PARTITO COMUNISTA INTERNAZIONALE
Via Calandra 8/L, Torino