22. Era ora: con il Muro di Berlino crollano miseramente gli avanzi della lunga mistificazione staliniana (2)
Libertà, democrazia e sorci verdi
Lenin ne L'Imperialismo spiega bene (siamo intorno alla Prima Guerra Mondiale) come l'imperialismo, con la sua necessità di dominare il mondo, non sia altro che una semplice maturazione del capitalismo, anche in risposta a coloro che vedevano in questa maturazione una specie di cambiamento di qualità. Non lasciamoci ingannare, dice Lenin, questa non è una cosa nuova, è solo il vecchio decrepito capitalismo che ha bisogno di nuove forme di dominio, finanza aggressiva, insofferente dei vecchi confini nazionali (ma forse che Venezia spingeva le sue mire solo fino al lago di Garda?), bisognosa di apparati statali e di eserciti altrettanto aggressivi e insofferenti. Oggi non è diverso. L'abbiamo chiamato "cadavere che cammina" perché sta in piedi soltanto grazie al proletariato che infonde nel corpaccio in decomposizione energia vitale negata a sé stesso. Questa è la prospettiva capitalistica dell'Est Europeo e della Russia: o subire l'imperialismo come terreno per le scorrerie commerciali e finanziarie altrui, o cercare di imporre il proprio imperialismo altrove. Il condominio e la coesistenza sono terminati.
E veniamo alla democrazia, questa sete di libertà che appassiona milioni di persone che credono di avere sconfitto il totalitarismo.
Il fascismo non è stato un fenomeno italico, né si caratterizzava principalmente attraverso la mascella di Mussolini e la camicia nera. Il fascismo è stata la risposta organizzativa dello Stato borghese alla rivoluzione proletaria e alla necessità di controllo del fatto economico nell'era del tramonto del liberalismo, se mai questi c'è stato. Secondo una nostra definizione, il fascismo è stato il realizzatore dialettico delle vecchie istanze riformiste. Neppure il nazismo è specifico prodotto tedesco. In quegli anni lo sviluppo raggiunto dalle forze produttive impone un controllo centrale dell'economia. Il capitale non può più permettere che fatti economici di portata internazionale siano lasciati alla discrezione dei singoli e si regola di conseguenza. Il metodo della dominazione statale sull'economia è un fatto mondiale irreversibile che si riflette inevitabilmente sui rapporti di classe. I fascisti hanno perso militarmente la guerra ma il fascismo l'ha vinta economicamente e politicamente. Il controllo centralizzato sulla classe operaia viene realizzato attraverso l'apparato militare dell'imperialismo più forte e dei suoi alleati. Ecco perché è giusto dire che gli Stati Uniti sono il gendarme del mondo. Altro che democrazia.
Nella competizione per il primo posto nell'assetto imperialistico del mondo non c'è spazio per la democrazia e la libertà, sempre ammesso, come dice Rousseau, che la democrazia sia mai possibile (se lo dice uno dei padri della democrazia!) in un popolo che non sia fatto di dei. La forma di governo riflette la maturità dei rapporti economici: se in Italia e in Germania la forma era quella, negli Stati Uniti il controllo statale prese la forma del New Deal e in Russia quella dello stalinismo.
Quale forma può mai riservare una serie di governi che con ogni probabilità risulteranno la copia di quelli preesistenti, salvo i nomi dei partiti e dei personaggi?
Non sparirà l'intervento statale nell'economia, come non sparirà in America o in Inghilterra, non sparirà la protezione delle proprie merci e dei propri mercati o comunque dei vantaggi per le proprie economie, non sparirà l'esigenza di avere un apparato militare interno ed esterno, adatto a difendere il proprio spazio vitale - già sentito, vero? - che il più delle volte è ben al di là dei propri confini.
Il vero fascismo, al di là delle spacconate mussoliniane, è il New Deal riveduto e corretto dalle esperienze moderne, l'applicazione integrale delle politiche keynesiane, la politica globale del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale, che controllano il credito ai diversi paesi del mondo. Questi organismi sono controllati dagli Stati Uniti e dai loro alleati. Hanno vinto la guerra, bisogna vincerli per prenderne il posto.
L'Oriente nemico è quello giallo
Dicevamo nel nostro Quaderno citato che non è più possibile continuare la serie che Marx tratteggia nel Capitale quando fa la storia dell'accumulazione primitiva: Venezia, Portogallo, Spagna, Olanda, Inghilterra, Stati Uniti. Giunti a una dominazione planetaria come quella attuata dagli Americani, la serie finisce lì, a meno che non sia possibile la nascita di una nazione imperialistica che li superi e li scalzi dalla loro posizione.
E' una parola. La posizione militare degli Stati Uniti non si basa su determinati territori che possono essere conquistati all'influenza di un altro imperialismo. La dominazione militare americana si basa sulla semplice possibilità di dislocare in breve tempo mezzi sufficienti in qualsiasi parte del pianeta dopo che venissero a mancare tutte le altre potenti forme di dissuasione economica. Non traggano in inganno i buchi in queste possibilità, o le prove maldestre che i boys forniscono in arte militare. L'apparato di Washington è tale da far vedere i sorci versi a chiunque, non importa se l'eroismo lascia alquanto a desiderare.
Questi sono i mercati e i mezzi che si confrontano. Non sembra di antivedere nei paesi dell'Est un blocco monolitico in grado di scalzare l'America, anzi, le forze centrifughe si accentueranno, venendo meno la dipendenza politica da Mosca. Abbiamo fatto anche l'ipotesi di una coalizione di paesi oggi alleati degli Stati Uniti. Non è impossibile che come potenza teorica alcuni di questi paesi li possano raggiungere. Ma sono paesi concorrenti, portati storicamente a lottare fra di loro per il predominio di aree contigue. Come insegna Engels, la geografia è data, e di lì scaturisce la storia e tutto il resto, non possono darsi ipotesi diverse da quelle che a grandi linee ha fornito il passato sugli stessi problemi. Nella Seconda Guerra Mondiale, mentre Stati Uniti e Inghilterra combattevano realmente in modo coordinato e pianificato la loro guerra di annientamento del nemico, Germania, Giappone e Italia non sono mai riusciti a darsi un vero coordinamento, finendo per combattere battaglie dall'esito magari vittorioso, ma inutili rispetto alla strategia finale.
Non c'è niente da fare, la teoria del confronto pacifico con i mezzi dell'imperialismo più forte, mercato parallelo o integrato, vede la necessità comunque della supremazia americana che imporrà le sue condizioni. Se nuovo piano Marshall si dovrà fare, sarà l'America a stabilire quanto slavi, ceki, ungheresi e polacchi dovranno tirare la cinghia e rimboccarsi le maniche.
In un periodo in cui la Storia si svolge alla luce dell'accumulazione originaria, potremmo anche ritenere possibile un ulteriore passaggio di staffetta dagli Stati Uniti alla Russia, ma nell'epoca dell'imperialismo lo escludiamo. Ed escludiamo pure che gli Stati Uniti possano in breve cambiare rotta, cioè ritornare a vedere negli ex "comunisti" il Nemico per eccellenza. Non sono le merci russe a invadere il mercato americano, non sono i capitali russi a contrastare il passo a quelli americani, né l'apparato produttivo russo a far perdere sonno ai detentori delle tecnologie avanzate. Nella stampa americana non si paventa l'avanzata di auto, calcolatori e microchips russi, ma si guarda per ora un po' più a oriente.
All'Est basso saggio di profitto
La questione di ciò che succederà all'Est va dunque affrontata alla luce del trend generale - si direbbe con un tecnicismo - del capitalismo nel mondo. La questione degli sbocchi in questo contesto diventa secondaria, perché non è la possibilità o meno dello sbocco ad allontanare o avvicinare la prospettiva rivoluzionaria.
Nel Dialogato già citato viene dimostrato, in contrapposizione a Stalin, che la questione dello sbocco è un falso problema, perché falsa è la premessa di due mercati diversi. Se è giusto, come è giusto, sostenere che i mercati sono sempre stati capitalistici, lo sbocco c'è sempre stato, solo che il capitale in cerca di valorizzazione non riteneva che fosse conveniente spingere su quelle frontiere per intervenire. La Cina ha aperto al capitale occidentale molto prima della Russia e degli altri paesi, ma non sembra che il capitale, che pure è in pericolosa esuberanza, si sia riversato in massa verso Pechino. Ancora prima aveva aperto la Yugoslavia, in tempi ben diversi, e non era successo nulla di speciale. C'è tutta l'Africa, l'Asia, continenti apertissimi e bisognosi di quei capitali che qui sono di troppo, ma non sembra che ne abbiano ricevuti da rovesciare le loro sorti economiche.
Il capitale dei paesi altamente sviluppati è esuberante, ma si dirige dove ha garanzia di trarre un profitto almeno pari a quello del saggio medio di interesse. Se non ha questa garanzia, si investe in buoni del tesoro o in qualsiasi altra attività nei campi tradizionali dello stesso capitalismo sviluppato, nel campo anche della creazione di capitale aggiuntivo fittizio, come abbiamo dimostrato nelle nostre note al crack di Wall Street dell'87.
Se anche si investisse in luoghi non tradizionali - e qui torniamo alla dimostrazione del nostro testo contro Stalin - pochissimi anni sarebbero necessari al capitale per sviluppare aree concorrenti a quelle del capitale d'origine. Ho fatto prima l'esempio di paesi che sono arrivati recentemente alla fase nazionale borghese. Paesi che si sono liberati dal tallone coloniale e hanno impostato governi nominalmente democratici, ma fascisti nella sostanza della dominazione statale, scoprendo subito il fascino dell'alta finanza.. Iran, Brasile, Egitto, Corea, paesi diversissimi, fornitori di materie prime o meno, non si sono liberati per passare a una accumulazione autoctona che sarebbe stata un'anacronistica forma di autarchia, ma sono arrivati a un'economia di capitalismo pieno attraverso l'utilizzo di capitale internazionale, cioè investimenti diretti, prestiti, rendita. Le loro forme statali sono di tipo fascista, le decisioni economiche di tipo keynesiano di stimolo all'economia. Alcuni paesi esportano merci, alcuni sono concorrenti pericolosi in campi che un tempo erano il fiore all'occhiello dei paesi più forti. La Corea straccia tutti i concorrenti nella produzione di acciaio e nella cantieristica, per esempio.
Questi paesi hanno avuto uno sviluppo rapidissimo non appena sono stati toccati dal capitale, ma sono arrivati alla decadenza subito e hanno dovuto far fronte a crisi vitali. L'accenno che abbiamo messo nel nostro volantino alle sollevazioni popolari in molti paesi è uno dei risvolti di questa situazione: di fronte alla crisi i governi cercano di stimolare ancora di più l'economia e questo si traduce in disoccupazione e inflazione il più delle volte accompagnate da una feroce politica dei redditi. Nessun apporto massiccio di capitale può avvenire senza portarsi appresso questa serie di fenomeni.
All'Est c'è un saggio di profitto abbastanza basso, cosa che significa automaticamente, date le condizioni di tecnologia arretrata, un basso saggio di sfruttamento. Non abbiamo cifre compatibili con quelle dell'Occidente per il fatto che c'è sempre bisogno di aggiustamenti per via dell'incompatibilità monetaria. Però è sicuro che la produttività esistente in quell'area è bassa.
Ogni capitalista vede in possibilità non sfruttate una strada lastricata d'oro per sé, se riesce ad approfittarne. Il fatto è che ogni capitalista la pensa esattamente allo stesso modo. In ogni caso ci sono delle condizioni ben precise per far fruttare il proprio capitale. La prima condizione è che la classe operaia sia disposta a farsi sfruttare di più di quello che non lo è già. Nessun capitalista occidentale si sognerebbe mai di investire con la produttività aziendale esistente in Russia, né tantomeno con la produttività esistente a livello sociale. Quindi o prestiti per ottenerne un interesse, o cambiamento delle condizioni per gli investimenti diretti.
Prestiti ne abbiamo visti in passato. Sono di gran lunga maggiori degli investimenti (praticamente nulli, le fabbriche costruite in loco vengono in genere vendute chiavi in mano). L'interscambio è attestato su cifre insignificanti.
Per lo sviluppo, battere cassa
La produttività si può aumentare solo attraverso due modi: assoluto, cioè aumento del tempo di lavoro sugli stessi impianti; relativo, cioè miglioramento del rendimento del sistema. Nel primo caso si può immaginare cosa ne pensano gli operai. Nel secondo caso idem per quanto riguarda, per esempio, l'aumento della velocità di lavoro, in più occorrono investimenti massicci. Bene, non c'è uno dei paesi interessati da rivolte sociali negli ultimi anni, in cui la rivolta non sia stata provocata dal tentativo specifico di aumentare il saggio di sfruttamento attraverso l'intervento del capitale straniero, ovviamente legato a ben precise garanzie.
Il bisogno di ulteriore sviluppo, o di frenare una crisi dello sviluppo precedente, portava il capitalismo di un determinato paese a rivolgersi, per far fronte alle necessità interne, al capitale internazionale libero. Di capitale libero nel mondo esiste solo quello di pochissimi paesi che sono o altamente sviluppati o in possesso di rendita, come alcuni paesi petroliferi. In un caso o nell'altro i capitali sono disponibili attraverso il sistema bancario internazionale che può incanalare i prestiti attraverso la Banca Mondiale.
Il capitale libero (cioè in cerca di valorizzazione) ha due caratteristiche: primo, non si applica massicciamente a una realtà sociale senza produrre sconquassi, perché deve adattarla ai suoi scopi. Secondo, deve ritornare maggiorato al punto di partenza. Nessuna banca e nessun singolo investe senza avere indietro più capitale. In fondo l'accumulazione è questa. Finito il ciclo, l'unico scopo del fornitore di capitali è quello di ricominciare daccapo per avere ancora più capitali. L'aumento dello sfruttamento in un arco di paesi che ormai comprende la totalità del mondo, è l'unica garanzia che può essere chiesta affinché il meccanismo funzioni. La maggior parte di questi paesi, tra i quali quasi tutti quelli che hanno conosciuto rivolte al loro interno, sono costretti a far lavorare la propria classe operaia esclusivamente per pagare la gestione del debito, gli interessi sul capitale ottenuto attraverso i meccanismi bancari internazionali.
Il meccanismo è complesso, ma semplice da spiegare: le banche private raccolgono il capitale libero nella società americana, giapponese, tedesca, inglese, italiana, francese, spagnola ecc. Il paese che voglia o che sia costretto a contrarre un debito si rivolge alle banche le quali chiedono garanzie. La moneta locale non è presa neppure in considerazione, si parla di dollari o di pacchetti di valute forti. La Banca Mondiale gestisce la meccanica del prestito, poniamo in dollari, ma il Fondo Monetario Internazionale garantisce lo squilibrio che si crea nella bilancia dei pagamenti del paese che chiede il prestito. La garanzia consiste nel deposito di moneta locale contro dollari con l'impegno di ritirarla entro un certo numero di anni. Il FMI garantisce, ma chiede garanzie a sua volta: vuole che gli si presenti un piano attendibile di risanamento dell'economia e controlla che venga applicato. Il pegno, l'ostaggio che viene lasciato nelle mani del Fondo è la classe operaia. La classe operaia della Turchia, del Venezuela, del Brasile, del Messico ecc. è chiamata a uno sforzo gigantesco per produrre il proprio sostentamento, il profitto, l'interesse interno, la rendita e l'interesse estero. Leggevo recentemente che la totalità delle esportazioni della Turchia serve appena a coprire la gestione del debito estero. Eppure la Turchia è un paese di 60 milioni di abitanti con una industria e una classe operaia piuttosto sviluppate.
Questo meccanismo è stato applicato alla Polonia, non è pensabile che non sia applicato a tutto il resto dell'Est Europeo se si vuole parlare di prestiti per lo sviluppo, investimenti o ipocritamente "aiuti".
La classe operaia sente per istinto che sotto c'è la fregatura e per ora non risulta sia scesa in piazza in quanto tale, mentre vi sono stati episodi importanti come quello dei minatori siberiani che chiedevano migliori condizioni di vita. In Germania vi sono state manifestazioni di fabbriche contro la riunificazione, non si sa se spontanee o guidate. Di tutto l'esercito di intellettuali e professionisti che cercano sfogo alle proprie ambizioni di guadagno e credono di trovare il Far West di qua dell'Elba, non si sente più parlare, ma del milione di berlinesi che sono andati a vedere le vetrine dall'altra parte del muro, solo 600 si sono fermati.
Chi apre i cordoni della borsa?
C'è qualcosa di più rispetto a queste semplici notizie giornalistiche. Indistintamente la classe operaia avverte che la possibilità di un'integrazione capitalistica comporta necessariamente uno sfruttamento a livelli occidentali. Avrà subito la propaganda staliniana, ma almeno questo è vero. Il conto sociale dei vantaggi e degli svantaggi starà frullando nella testa collettiva del proletariato. La lunga stagnazione seguita alla fase dell'accumulazione "pesante", cioè dell'industria dei mezzi di produzione, richiede una sferzata potente per rimuovere gli ostacoli, le cifre lo dimostrano. Tra le due Germanie, che pure avevano rapporti privilegiati, l'interscambio rappresenta appena l' 1,5% delle esportazioni della sola Germania Occidentale. Cifre che fanno ridere. Il patto sociale che una ristrutturazione capitalistica di tutto l'Oriente Europeo deve comportare è di portata enorme.
Che cosa concluderne? Una penetrazione di capitale occidentale deve necessariamente comportare un utilizzo di tipo occidentale di questo capitale. Le economie pianificate dovranno diventare economie programmate in modo keynesiano. C'è differenza. Sia il piano che la politica keynesiana si pongono degli obiettivi, ma mentre il piano non può avere tra gli obiettivi né inflazione né disoccupazione, la politica keynesiana tiene conto di un tasso di inflazione e di un tasso di disoccupazione "ottimali" per poter raggiungere certi obiettivi.
Da un punto di vista aritmetico la somma sociale non cambia: i disoccupati inesistenti nei paesi a economia pianificata sono nascosti nelle pieghe della bassa produttività generale. Quelli ammessi dalle statistiche ufficiali, quando sono ammessi, sono un'infima parte.
L'economia stimolata ha bisogno di pagare questo pedaggio sociale, perché stimolando i consumi, di qualunque genere siano, privati o pubblici, si fanno aumentare i prezzi, mentre una politica di piena occupazione ottiene lo stesso risultato perché si verifica una tensione verso l'alto dei salari. Questo non è vero sul piano scientifico, ma è diventato il dogma degli economisti moderni per il semplice fatto che l'osservazione empirica in epoca di capitalismo maturo ha fornito questo risultato. Qualcuno fornisce anche il tasso ottimale: 5% di inflazione, 5% di disoccupazione con il 5% di tasso medio d'interesse. Sembra che lo stesso Keynes qui abbia preso una cantonata, prevedendo una tendenza storica alla diminuzione del tasso d'interesse che non avrebbe dovuto superare il 5%, appunto. Le cose sono andate diversamente. I tassi che serpeggiano per il mondo sono di altra entità.
Tutto questo ci induce ad alcune riflessioni. Su chi controllerà la ristrutturazione capitalistica di un'area così importante, cioè la ripresa dell'accumulazione.
Gli organismi che possono aprire i cordoni della borsa per tirar fuori i quattrini avranno voce in capitolo e diranno: io ti dò i soldi e tu devi fare questo e quello. Se vuoi soldi dovrai darmi qualcosa in cambio. Da come sono impostati i rapporti mondiali oggi, da come si sono affermati i rapporti fra gli imperialismi, i cordoni della borsa li apriranno i paesi che ho citato prima. Vale a dire che entreranno in gioco dollari, marchi, yen.
Si legge in questi giorni che per esempio i francesi sono molto preoccupati, anzi preoccupatissimi, riguardo l'assoluta automaticità di certi meccanismi che si sono messi in moto in Germania. Sull' ultimo numero di Le Monde Diplomatique c'è un articolo di tre pagine scritto dal direttore. Cosa dicono i francesi? Il punto di riferimento per la Germania dell'Est in Europa non può che essere la Germania dell'Ovest. Ovvio, è lo stesso paese, già prima avevano dei rapporti privilegiati, adesso hanno addirittura eliminato fra loro le dogane. Ma il punto di riferimento per tutti gli altri paesi dell'Est è la Germania dell'Est. Ovvio, fanno parte dello stesso sistema economico e di un patto come il Comecon. D'altra parte per tutta quell'area è un dato di fatto storico fare i conti con la Germania, è così da secoli perché il continente è fatto così e le popolazioni sono insediate a quel modo.
Insomma, ciò che preoccupa, e credo non soltanto i francesi, è che si forma in Centro Europa una concatenazione di fatti materiali che porta la Germania ad assumere un ruolo guida in tutti gli affari orientali, un canale privilegiato per determinazione storica ed economica, che è così e non c'è santo che possa modificarlo.
Riaffiora il nemico economico militare in Centro Europa, non è una cosa da nulla negli schieramenti interimperialistici, assuefatti alla Cortina di Ferro. Libero Occidente contro Impero Comunista.
Implicazioni strategiche
Già da tempo la Banca Nazionale Tedesca sovrintende ufficialmente tutte le transazioni Est-Ovest della Germania e continuerà a farlo portando il marco a una importanza, come moneta internazionale, più grande di quanto già non abbia. Già si notano le prime avvisaglie di tendenza al rialzo della moneta tedesca, staremo a vedere cosa farà la Bundesbank in caso di ripercussione su altre monete, per esempio il dollaro.
Quindi la Germania Orientale come punto di riferimento dei paesi dell'ex Comecon (possiamo forse già dire ex anche se c'è ancora) e Germania tutt'intera come canale obbligato per la ripresa economica dell'Est, punto focale della trasformazione in atto. Qui non siamo più semplicemente di fronte a un riassetto del capitalismo vecchiotto dell'Est, è tutto l'armamentario economico, politico, militare del mondo che viene messo in discussione. Gli Americani dovranno rimanere senza il Nemico, se l'Impero del Male, come lo chiamava Reagan si dissolve. E il sostituto non si trova certo fra i Narcos della giungla colombiana, dove i boys giocano alla guerra (e la perdono).
Se portiamo alle estreme conseguenze la nostra riflessione, giungiamo con facilità a risalire, da marco, dollaro e yen, al profilo delle alleanze e inimicizie storiche, non risolte da due guerre mondiali, la preoccupazione degli alleati della Seconda Guerra Mondiale è di nuovo la Germania, è di nuovo il Giappone. L'Italietta la lasciamo perdere per adesso: l'asse Roma-Berlino-Tokio non è all'ordine del giorno per assoluta sproporzione dei membri facenti parte della coalizione, l'economia non spinge ancora a disporre i soldatini sulle carte.
La Francia strilla per prima, è chiaro, ha dei confini che storicamente scottano e anche un'esperienza passata non troppo eroica dal punto di vista militare, ma gli altri non stanno a guardare. Il ritiro dalla scena degli Stati Uniti è troppo tipico per essere confuso con superiore distacco dell'osservatore più potente. L'isolazionismo americano è sempre stata la scusa per prendere la rincorsa e buttarsi nella mischia quando i giochi sono ormai fatti. Proprio sui giornali di oggi c'è una notizia molto, molto interessante: dopo 18 anni i paesi vincitori della Seconda Guerra Mondiale si riuniscono per discutere sul problema della riunificazione tedesca messo all'ordine del giorno dagli avvenimenti. Nel titolo de La Stampa è scritto: certo, questo irriterà i tedeschi, però lo dobbiamo fare. E' ovvio che lo debbano fare, la Germania è ancora un paese occupato dalle truppe di tre potenze che vi tengono quasi mezzo milione di uomini armati.
Ecco le implicazioni strategiche, allora, non soltanto politico-economiche. C'è innanzitutto il fatto che non si sa più quale sia il nemico, per il momento. A quale avversario sarà rivolto ora il fantastico apparato militare che gli Stati Uniti hanno approntato contro il cosiddetto comunismo? Per più di quarant'anni ci han rotto le tasche con il fatto che bisognava difendere la libertà contro i comunisti, che ogni sforzo era giustificato per armarsi, preparare supermissili, portaerei, guerre stellari. Che faranno adesso? Smantelleranno tutto?
Unificazione del Capitale vuol dire unificazione dei suoi elementi costitutivi
Mi spiace che abbiamo esaurito un nostro opuscoletto uscito proprio in occasione della presentazione reaganiana della dottrina delle cosiddette guerre stellari, dove si parlava di questa possibilità, di superare le dottrine della dissuasione, tipiche del tempo di pace, per giungere a dottrine più inerenti a campi di battaglia realistici. I missili strategici non dovevano essere puntati così vicino, ma più a Est, verso il Giappone, perché nel caso di obiettivi a portata di mano ci sono le atomiche tattiche.
Per la Germania, se il processo di unificazione facesse risorgere il nemico tradizionale. Immaginiamo per un momento che cosa potrebbe significare una riunificazione tedesca (e possiamo star certi che quando forze di questa portata si mettono in moto non c'è più convegno di Bush e Gorbaciov che possa fermarle): una disponibilità di forza-lavoro qualificata a basso prezzo; la possibilità di utilizzarla per l'esistenza di un mercato di sbocco sia per le merci che per i capitali; la creazione in Centro Europa di un'area del marco (che significa: via il dollaro).
Ha ragione questo signore francese, è come se l'unificazione fosse cosa fatta. L'abolizione delle barriere doganali, la garanzia della banca centrale sulla convertibilità del marco orientale e quindi la inevitabile sostituzione di questo con quello, la libertà di movimento delle persone, sono tutti elementi che concorrono all'unificazione di fatto, mentre il mondo sta a discutere se lasciarla avvenire. L'andamento reale della storia è diverso da quello degli incontri di vertice, delle chiacchierate fra i cosiddetti Grandi.
Gli anticomunisti si trovano spiazzati perché sono spariti quelli che loro chiamavano comunisti. Picchiano con rabbia sui resti della grande mistificazione e ci avvertono che l'anticomunismo, pure lui, non è mai morto. Lasciamoli fare e teniamoli d'occhio. Diciamo ai compagni: gli avvenimenti hanno toccato un enorme potenziale economico e quindi anche sociale.
Mezzo miliardo di persone sono direttamente coinvolte in questi avvenimenti, ma tutta la terra può essere coinvolta se il processo innescato continua sulla strada tracciata dalle premesse. L'abbiamo detto nel volantino di presentazione: con il crollo del Muro non si unifica solo la geografia, né solo il mercato capitalistico.
L'unificazione del capitale non può esserci se non c'è unificazione anche degli elementi che lo rendono possibile, in primo luogo il proletariato. Potenziale enorme.
Abbiamo visto esplodere episodi alla periferia del mondo sviluppato occidentale che in lentissimi anni si sono avvicinati a spirale. Quando nel 1980 è stata coinvolta la Polonia abbiamo detto: ci siamo, siamo arrivati al centro dell'Europa. Questo non è più il Vietnam, o il Medio Oriente, o l'Afghanistan, questa non è una cosa da risolvere a cannonate fra imperialismi tramite interposta carne da cannone altrui.
In Polonia, nonostante le madonne nere portate a spasso, nonostante i Walesa, c'è la rivoluzione. Un momento, prima di agitarsi. E' vero, "rivoluzione" è una parola grossa, non si gioca con i termini.
Ma in Polonia si è verificato il percorso classico tratteggiato dalla nostra corrente per le rivoluzioni. D'accordo, non è ancora ora, ma là nasce un possente movimento di rivendicazioni immediate presso la classe operaia, là nasce un sindacato che in pochi mesi raccoglie undici milioni di iscritti e mette l'avversario con le spalle al muro, là il movimento deve assumere la sostanza di organismo politico immediato dalle caratteristiche molto simili al soviet, là si verifica un momento di dualismo di potere.
Certo, non il potere come lo si intende in una rivoluzione effettiva, ma il percorso è quello. Tant'è vero che Solidarnosc, benedetta dal Papa e non più ostacolata dal vecchio partito al potere, è diventata essa stessa partito di potere.
E' mancato l'apporto determinante del partito rivoluzionario, e questa, più che una smentita, è un'ulteriore conferma delle nostre tesi: la classe operaia o è rivoluzionaria o non è nulla, ma è rivoluzionaria solo se esprime il suo organo politico rivoluzionario. In questo senso c'è la rivoluzione: i proletari di Danzica e Stettino, i minatori della Slesia e gli operai della Ursus ci hanno sciorinato l'abbiccì senza volerlo e senza saperlo.
E' il caso di ricordare un precedente classico, a proposito di Slesia? Marx inneggia al movimento slesiano di un secolo e mezzo fa: un movimento materiale per obiettivi reali è mille volte più importante e universale che un movimento ideale e politico per obiettivi universali.
Nei dieci anni che ci separano da quella sollevazione operaia, le guerre locali, mai scomparse, sono state inframmezzate da sollevazioni popolari contro le condizioni di vita in molti paesi. C'è un legame comune? Crediamo di sì. E' il capitalismo che non è più in grado di soddisfare elementari bisogni di vita e aspirazioni che esso stesso suscita.
Crociate baffonesche in soffitta
L'esperienza polacca ha rappresentato il punto di partenza, il crollo finale è stato conseguente. Da diversi anni nei paesi dell'Est venivano prese misure per cercare di snellire il mercato e l'apparato produttivo. Gli avvenimenti di oggi sono il coronamento quasi pacifico di questi tentativi, che ora avverranno su un terreno sgombro da ipoteche del passato. Anche Gorbaciov e la Perestroika sono il risultato di una lunga incubazione. L'avvento in Russia di quel governo era un modo per prendere atto di una situazione che era già matura. In fondo Gorbaciov non ha inventato niente. Ma intanto ci sono stati importanti scioperi anche in Russia.
Le determinazioni che hanno portato alla situazione polacca non sono scomparse. Come l'80 polacco aveva i suoi precedenti, così vi sono dei precedenti in Germania e negli altri paesi. Sappiamo di scioperi anche estesi che sono stati nascosti dai governi staliniani, e comunque la Comune di Berlino del '53 potrebbe ripetersi. Anche in Ungheria nel '56 la rivolta ha avuto delle caratteristiche proletarie intrecciate con il generale moto di rifiuto verso il controllo russo, i moti ungheresi terminano con un massiccio sciopero generale.
Oggi in Polonia cova sotto la cenere una rete sindacale spontanea che sostituisce Solidarnosc e che ha dimostrato di essere in grado di organizzare degli scioperi e delle dimostrazioni. Non è più l'organizzazione dei Walesa, ormai superata, ma il sindacato per la difesa delle condizioni di vita, in grado di assumere caratteristiche politiche come i Soviet. A parità di condizioni materiali nulla impedisce di pensare che ciò possa ripetersi in altri paesi e comunque l'importante è che sia dimostrata l'incancellabilità della lotta di classe nonostante i rovesci più disastrosi.
Il ritorno alla luce delle cause materiali della Seconda Guerra Mondiale, fortunatamente non avviene più sotto il controllo congiunto della crociata per il "Mondo Libero" e della crociata partigiana per Baffone. Fine della coesistenza pacifica resa possibile dal confronto tra un apparato militare ed economico in grado di dominare il mondo per terra cielo e mare e un altro apparato militare ed economico tutt'al più in grado di difendere la terra su cui poggia e sulla quale si sviluppa un regime pressoché autarchico.
Ecco dove finisce la possibilità di convivenza tra capitalismi. Ma se dovessimo fare l'esempio di convivenza fra capitalismo tedesco e giapponese eventualmente coalizzati contro il capitalismo americano, vedremmo subito che le possibilità di accordo si assottigliano, a partire dalla guerra di mercato fino alle cannonate vere e proprie per sottrarsi reciprocamente ogni possibile zona di sbocco, che deve così essere controllata con tutti i mezzi. Non può esservi paese libero controllato dal capitale di un altro paese. Marx disse di più: non può esservi paese libero che controlli un altro paese.
E chiudiamo con il problema della guerra capitalistica moderna, le cui radici sono nel tentativo di conquista di sempre nuovo terreno per il proprio controllo. La guerra non è alle porte, possiamo stare abbastanza tranquilli per qualche anno. I segni di guerra sono ai nostri occhi abbastanza palesi. La guerra diventa risolutiva quando ogni altro mezzo fallisce i suoi scopi. L'impossibilità di accumulazione ulteriore è un segno che si manifesta con massiccia distruzione di valori fittizi, calo della produzione, abbassamento dei prezzi all'ingrosso, spasmodica ricerca di allargamento del proprio "spazio vitale", in questo caso toglierlo agli Stati Uniti, visto che quello disponibile questi se lo sono pappato.
Guerra e rivoluzione
La questione della guerra non è all'ordine del giorno, ma ci interessa perché le potenzialità che la mettono in moto sono una formidabile conferma del marxismo e pongono dei problemi per quanto riguarda la preparazione rivoluzionaria. In pratica: come dobbiamo affrontare il problema del partito e della rivoluzione di fronte alla globalizzazione crescente dei problemi economici e politici, quindi dell'accumulazione, cioè della caduta tendenziale del saggio di profitto?
Dicevo prima di sfuggita: Marx afferma che una società non muore finché non ha espresso tutte le sue possibilità. Bene, il capitalismo le ha espresse, ma se non esiste una reazione sociale alla sua sopravvivenza, la sua scomparsa avrà la caratteristica di una degenerazione sociale penosa e probabilmente lunghissima. E' una possibilità remota, ma esiste. Sappiamo che la lotta di classe è insopprimibile nella società divisa in classi e questa determinazione materiale (mi sembra che sia oggi in moto più di un tempo) è destinata a provocare l'organizzazione della classe operaia, prima in senso sindacale, poi in senso politico rivoluzionario, per la riorganizzazione del partito che dovrà dirigere la rivoluzione. Quando nel dopoguerra i nostri compagni ridiedero vita al partito erano perfettamente consapevoli che quello non era il partito della rivoluzione e dissero chiaramente nelle varie Tesi che si attendeva lo sviluppo del partito rivoluzionario da un cambiamento sostanziale del corso storico. Noi abbiamo appartenuto a quel partito fino al suo scioglimento, ma non pensavamo che fosse per forza fisicamente quella l'organizzazione che avrebbe diretto la rivoluzione. Andando verso l'acutizzarsi delle contraddizioni del capitalismo, verso la guerra, le classi si abilitano allo scontro frontale. Questo è mancato prima della Seconda Guerra Mondiale a causa dello stalinismo, e dopo si è continuato sulla stessa strada, sempre peggio. Se il capitalismo arriva alla guerra siamo fregati un'altra volta: con le possibilità di controllo, di mobilitazione propagandistica, di distruzione in massa di uomini e mezzi che la guerra moderna comporta, se passa la guerra non passa la rivoluzione.
C'è chi credeva che nel secondo dopoguerra ci fossero le condizioni per una ripresa rivoluzionaria, noi no. Con la guerra la borghesia ristabilisce il suo controllo totale sulla società militarizzata, dopo la guerra c'è la ricostruzione sotto il tallone di questo ristabilito controllo. E c'è anche una ragione fisica di tutto questo, dimostrabile con una formuletta, quella che ci visualizza il saggio di profitto.
Il saggio di profitto è dato dal profitto diviso il capitale costante e il capitale variabile sommati, dove per capitale costante si intende la parte in macchine, impianti, energia, materie prime che passano nella merce, e per capitale variabile si intende la forza-lavoro. Ora, nel capitalismo sviluppato esiste un eccesso di capitale e segnatamente di capitale costante che, essendo al denominatore della frazione, tende a far diminuire il saggio di profitto. D'altra parte, più il capitalismo si avvale di macchine e mezzi, meno si avvale di uomini, i quali vengono sostituiti dalle macchine. Aumentando a dismisura la produttività sociale del lavoro e anche la popolazione, ecco che nella società moderna vi è una sovrappopolazione relativa, che si traduce in un esercito di manodopera di riserva.
Niente come la guerra contribuisce a distruggere gli elementi che stanno al denominatore della frazione, quindi a bloccare o invertire la tendenza alla caduta del saggio di profitto. Questo è il meccanismo più formidabile che la borghesia possegga per salvaguardare il proprio dominio: una riattivazione brutale del ciclo di accumulazione.
Questo non vuol dire che i borghesi, fatti i loro calcoli, incaricheranno qualcuno un bel giorno di schiacciare il bottone che darà inizio alle ostilità. Il meccanismo della guerra è in moto con l'esistenza stessa del capitalismo, la guerra è inevitabile se la rivoluzione non blocca il meccanismo.
Dev'esserci la possibilità, se non vogliamo vedere una guerra e un altro tremendo ciclo di accumulazione, la possibilità per la classe operaia di organizzarsi e bloccare la guerra al suo nascere.
Questa è la posizione della Sinistra, stampata in testi inequivocabili contro l'opposta tesi staliniana dei mercati paralleli, quindi della coesistenza pacifica che diventa poi competizione pacifica e quindi affossamento di ogni arma rivoluzionaria della classe operaia, con il risultato di consegnarla, com'è successo, legata mani e piedi all'avversario. Noi abbiamo combattuto questa degenerazione, che è stato il leitmotif dell'Internazionale, a partire dalla metà degli anni '20, e dei partiti staliniani, che si sono alleati al capitalismo più forte usando i proletari come truppe d'assalto per difendere la City e Wall Street garantendo così un altro ciclo di sfruttamento.
Per evitare un altro gigantesco massacro mondiale, per evitare un altro ciclo di miserie e ricostruzione al pianeta Terra e all'umanità che lo abita è assolutamente necessario che la guerra sia troncata al suo scoppio, trasformata in guerra civile anticapitalistica con una risposta operaia organizzata.
E' necessario, perché ciò accada, che la classe operaia esprima il suo partito politico con il programma che già aveva nelle sue vittorie precedenti, quello stesso che noi cerchiamo di salvaguardare. Se passa la guerra è praticamente certo che saremo sconfitti un'altra volta.
Debito e credito
Nel corso della conferenza è stato citato il caso della Turchia, che ha raggiunto un limite difficilmente superabile quando le sue esportazioni bastavano appena a coprire le spese di gestione del debito estero, cioè a pagare gli interessi.
Normalmente è considerato pericoloso il traguardo della parità fra esportazioni e debito, ma molti paesi l'hanno superato senza che vi fosse una chiusura totale dei cordoni della borsa: basta garantire che vi sono possibilità sufficienti di sfruttare ulteriormente la forza-lavoro locale. In Turchia il regime militare ha dato queste garanzie.
Del resto tutta la questione del debito non ha soluzione: è la natura del capitalismo attuale che fa del keynesismo l'ultima spiaggia cui approdare. L'economia non ce la fa a essere libera. All'interno degli Stati imperialisti i governi ricorrono al debito pubblico per stimolare la produzione; all'esterno lo Stato e i privati concedono prestiti sia per piazzare capitali in eccesso, sia per stimolare le economie altrui in modo da non perdere acquirenti.
Nel 1980 la Polonia, con sei miliardi di dollari di debito, era in condizioni migliori della Turchia attuale. Ma a differenza della Turchia aveva una situazione interna che non dava garanzie: da anni gli operai erano in agitazione e lo Stato non era in grado di disciplinare gli effetti sociali dirompenti di un travaso di plusvalore dalle aree urbane sviluppate e industriali alle aree contadine e arretrate.
Nel 1989 la Polonia, con quaranta miliardi di dollari di debito estero, pari a 4,3 volte il totale delle sue esportazioni, accede a ulteriore credito dimostrando di essere diventata "matura" per ricevere i soldi occidentali in quantità adeguate a un nuovo piano Marshall, come chiesto da Walesa, leader di Solidarnosc, ora forza di governo.
La Polonia è stato il vero battistrada dello sconvolgimento orientale e non è semplicemente un caso che la sequenza dei paesi coinvolti nel crollo segua pedestremente l'ammontare dei debiti, ultima la Romania, appena uscita dal saldo dei suoi con enormi sacrifici della popolazione.
Abbiamo sempre dato alla questione del debito pubblico un'importanza notevole. Il capitalismo nasce nell'epoca dei Comuni e si espande per la prima volta attraverso le flotte delle repubbliche marinare, cioè grazie all'armamento di stato. Marx ricorda anche come il debito pubblico sia di grande stimolo all'accumulazione originaria in tutta Europa tra il '600 e il '700. Oggi, nell'epoca imperialistica, il debito pubblico non serve più tanto a stimolare l'accumulazione quanto a far sopravvivere il capitale che senza di esso soccomberebbe. Il keynesismo è tutto qui: una camera di rianimazione con stimolatori cardiaci e fleboclisi di droghe varie per tenere in vita un corpaccio che ha fatto il suo corso.
In Russia, come in America e negli altri paesi, il capitalismo locale non si sottrae all'esigenza della rianimazione. Nel bilancio dello Stato russo, l'economia "socialista" non riesce a produrre entrate sufficienti per finanziare il fabbisogno corrente.
Il bilancio è presentato sempre in pareggio, ma negli anni figurano entrate che non sono giustificate in nessun modo. Ricercatori occidentali hanno dimostrato che non si tratta affatto di entrate, ma di anticipi su entrate future che lo Stato fornisce al mondo della produzione. Inutile aggiungere che con il passare degli anni le entrate future non ci sono mai state.
Socialismo imbroglione
Nel 1970 il totale dichiarato dei proventi dell'economia "socialista" era di circa 143 miliardi di rubli e il totale ottenuto sommando le fonti giustificate era di circa 114 miliardi, con uno scarto di più di 30 miliardi di rubli. Vale a dire che mancava all'appello circa il 20 per cento. Nel 1977 lo scarto saliva a 58 miliardi (26%). Nel 1985 su 358 miliardi lo scarto era di 112, cioè il 31,4%. Seguendo le cifre anno per anno si nota che la curva si impenna, cioè le cose peggiorano invece di migliorare. Nell'ultimo decennio la produttività del sistema russo è in declino e il trucco di bilancio serve a nascondere che in effetti lo Stato sovvenziona imprese e attività in perdita. In effetti queste attività forniscono al bilancio generale entrate sempre minori e lo Stato integra la differenza senza specificare che queste non sono entrate aggiuntive, ma aumento del debito pubblico. Le aziende che perseverano nel non rispettare i loro obblighi di profitto, pardon, di produzione di reddito socialista, non dichiarano bancarotta come avviene in Occidente, ma possono accedere a ulteriori fondi con cui rimettere in bilancio il contributo che lo Stato richiede su utili non ottenuti.
Questo stato di cose, che in Occidente si risolve con dolorose amputazioni del sistema produttivo, in Russia si tampona con un imbroglio: lo Stato fa prestiti a sé stesso, cioè viene azzerato del valore in altro modo. Ma non può durare vent'anni un gioco del genere senza che i nodi vengano al pettine. Non si prende in giro la legge del valore né a Est né a Ovest. Ecco che allora si spiega come a un certo punto possa nascere la stella gorbacioviana e la sua perestrojka: un giro contabile fasullo fra rubli non porta ad alcun risultato, ma una forte iniezione di dollari e di marchi potrebbe veramente rilanciare l'economia.
Ma per attirare dollari e marchi (non sono sgraditi neppure gli yen) occorre far tabula rasa delle barriere politiche e militari scaturite dall'ultima guerra. Notiamo per inciso che tutti gli avvenimenti di questi ultimi mesi sono stati perfettamente controllati dall'apparato militare del Patto di Varsavia e non è da escludere una regia russa su tale controllo.
Un altro indicatore che ci dà l'idea complessiva di quanto sia urgente un'applicazione del keynesismo, con valute convertibili in modo da agganciare l'economia russa a quella occidentale, è quello dell'andamento del credito interno all'industria a breve termine (totale dell'insoluto, cioè credito sempre in essere). Dal 1970 al 1985 il credito è aumentato da 104,7 milioni di rubli a 426,4 milioni, cioè più di quattro volte, mentre le entrate complessive di bilancio sono aumentate solo di due volte e mezzo. Dieci per cento annuo di incremento medio dei crediti, cinque e mezzo per cento delle entrate.
Se osserviamo l'insieme dei sette paesi est-europei, Bulgaria, Cecoslovacchia, Germania Orientale, Polonia, Romania, Ungheria e URSS, vediamo che la questione del debito estero è comune, come è comune il funzionamento delle economie. Il totale dal 1981 al 1987 in dollari costanti, cioè depurato dagli effetti dell'inflazione, cresce: 118, 121, 126, 130 e 131 miliardi.
Interessantissima, dal punto di vista degli argomenti trattati nel corso della conferenza, la composizione per valute del debito estero. La percentuale in dollari e franchi svizzeri è continuata a decrescere, mentre è notevolmente cresciuta la percentuale in marchi. In soli tre anni, dall'84 all'87 il dollaro è passato dal 47 al 32%, mentre il marco è passato dal 20 al 26%. Se poi teniamo conto che l'ECU è l'unità di conto in cui il marco la fa da padrone, abbiamo che il marco influisce direttamente per il 41% del debito estero di tutti i paesi dell'Est. Al terzo posto c'è lo yen, con il 9%, mentre tutte le altre monete seguono a distanza.
Occhio quindi alla Germania e alle merci tedesche: Bonn esporta (1988) il 14% dei manufatti destinati all'estero nel mondo, contro il 12% del Giappone e il 10% degli Stati Uniti.
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