23. L'invasione del Kuwait e dell'Arabia Saudita
La Questione Militare.
Diciamo subito che per i marxisti è abbastanza agevole, oltre che teoricamente legittimo, collegare gli avvenimenti attuali al rivolgimento politico ed economico in atto nell'Est europeo.
Nella lettera n. 22 affermavamo che l'unificazione dell'immenso mercato capitalistico, facendo cadere la ormai sorpassata spartizione di Yalta, avrebbe scatenato la concorrenza fra gli imperialismi maggiori ponendo fine all' "era delle guerre sul terreno locale con corollario di dottrine terroristiche atomiche" e dando inizio alla "preparazione di quelle sul terreno globale con corollario di dottrine da invasione e con altri schieramenti cioè quelli dell'anteguerra". Il piano d'invasione americano è nè più nè meno che la trasposizione concreta della dottrina "Airland Battle" dello Stato Maggiore USA, la dimostrazione pratica del passaggio dalla centralità della NATO alla eliminazione di ogni centralità, essendo il mondo intero coinvolto nello "spazio vitale" americano.
Dopo quasi un mese dall'inizio della crisi anche i giornalisti borghesi incominciano a capire che qualcosa non funziona e che c'è in moto qualcosa che va al di là della risposta all'Iraq invasore.
Dal nostro punto di vista la "questione militare" non si limita di certo alla osservazione delle truppe e dei mezzi in movimento. Che ci sia o non ci sia lo scontro fisico armato, l'interesse nostro è centrato sulle ragioni materiali che possono preparare e preparano tale scontro fisico. Possono anche non verificarsi le cannonate, ma per noi la questione militare rimane tale e coinvolge ovviamente anche il disporsi delle classi rispetto ai rapporti di forza che si creano.
Quando nella lettera n. 22 affrontavamo il crollo di una struttura del mondo capitalistico che non era più in grado di rispondere alle esigenze di accumulazione, quando inserivamo questo fatto nella generale difficoltà di accumulazione del capitalismo mondiale, quando infine ne derivavamo il previsto cambiamento di indirizzo negli schieramenti generali, ebbene, noi impostavamo su quegli avvenimenti la nostra "questione militare", non diversamente da come avevano fatto Marx ed Engels o come aveva fatto il nostro giornale all'inizio degli anni '60.
Naturalmente la nostra posizione è ben diversa da quella degli analisti borghesi con i quali non possiamo neppure entrare in polemica perchè parliamo di altre cose e in un'altra lingua. Essi semplificano per esempio la scena dello scontro affermando che la guerra diviene possibile tra i sub-imperialismi, perchè i "super" hanno cessato di far valere sul resto del mondo la loro tutela da condominio nelle rispettive aree di influenza. Di qui l'esplodere delle tendenze represse dei nazionalismi, degli espansionismi, eccetera. Insomma, una situazione di caos in un momento di incertezza del "Diritto" cui deve per forza subentrare un diritto a livello superiore, per esempio una nuova funzione dell'ONU e via discorrendo.
Diritto contro diritto.
Dal punto di vista del diritto, ovviamente, non se ne cava un ragno dal buco. L'Iraq aveva il diritto di protestare per la mancata osservanza degli accordi di estrazione in sede OPEC da parte del Kuwait e degli Emirati: ne aveva un grave danno. Aveva anche un danno dal pompaggio diretto dai pozzi scavati nella terra di nessuno in zone contestate da sempre. Ma ovviamente era una scusa per far valere un altro diritto accantonato negli anni '60, quello sull'intero territorio del Kuwait, ex provincia dell'impero ottomano, con popolazione prevalentemente irachena e una massa di "stranieri" che la supera di una volta e mezza, specie palestinesi ed egiziani. Hussein si pone proprio come difensore del diritto e si contrappone agli invasori americani usando le loro stesse armi verbali, come risulta per esempio dalla famosa lettera aperta a Bush: "Lei ha mentito....basandosi sulla storia fatta circolare da Mubarak secondo cui Saddam Hussein avrebbe promesso di non impiegare la forza militare.... Io non ho promesso nulla a Mubarak, salvo il fatto che non avrei utilizzato la forza fino alla riunione di Jedda... Come lei sa, non ho utilizzato la forza che dopo il fallimento della riunione.... Lei ha mentito al suo popolo quando ha detto che la maggioranza degli arabi appoggia le vostre misure relative all'occupazione del Golfo e dei territori arabi e islamici. Gli Arabi, signor presidente degli Stati Uniti, non sono i governanti che la servono, le ubbidiscono e partecipano a spogliare la nazione dei suoi capitali. Gli Arabi sono il popolo, i figli poveri, onesti, fedeli e patrioti della nazione... L'opinione pubblica occidentale e americana saranno dalla parte della giustizia nel caso che il conflitto si intensifichi e così la sua vera immagine, e quella dei suoi alleati, si rivelerà a tutti gli onesti del mondo. Allora gli americani le diranno: abbiamo unificato l'America per mezzo del sangue, perchè tu operi contro l'unità del popolo iracheno che i colonialisti hanno diviso? E le chiederanno anche quali siano mai i loro legittimi interessi minacciati dall'Iraq... Si chieda: sarebbe mai possibile che l'Iraq le chiedesse di ritirarsi dai vostri Stati del Sud e sarebbe mai possibile per lei rispondere favorevolmente alla domanda?"
Questo è un brano dall'agenzia INA del 16 agosto e varrebbe la pena di leggerlo tutto con il suo tono biblico e la sua rettorica demagogica per il semplice fatto che il "barbaro" Hussein in fondo usa linguaggio e argomenti che non sono più osceni di quelli dei suoi omologhi occidentali. Stucchevole, internazionale potenza del diritto della chiacchiera.
D'altra parte il Kuwait, stato sovrano per volontà delle potenze coloniali, aveva ben il diritto di far valere la propria indipendenza e il governo di una dinastia che sta sul trono da duecento anni.
Dal punto di vista del diritto, se Israele ne vanta uno sulla Palestina come terra d'origine con tanto di atto notarile rappresentato dalle Sacre scritture, non si vede perchè la Siria dovrebbe rinunciare al Libano per ricostituire la "Grande Siria" che fu del protettorato francese, o l'Iran non ripensare alle province passate alla Russia, o addirittura l'Egitto rivendicare il Sudan, la Siria e i Luoghi Santi che furono conquistati da Mehemet Alì.
Dittatori, emiri e sceicchi rivendicano il diritto alla rendita da petrolio, ma da quando Marx ha sviscerato il segreto della rendita del suolo in presenza di capitalismo, questo diritto non può essere disgiunto dal fatto che il capitale si unisce al suolo ne fa oggetto passibile di compravendita, separa proprietà da sovranità. Insomma, la rendita moderna è possibile solo in quanto esiste il capitale, quindi è un sacrosanto diritto anche quello che i possessori di capitali vogliono far valere con il rombo degli aerei e lo sferragliare dei carri armati in lungo e in largo sul sacro suolo del Profeta. La rendita degli sceicchi non esisterebbe se non esistessero in primo luogo i vulcani produttivi affamati di energia delle metropoli. Senza di essi l'esecutore di comunisti Hussein non potrebbe imbastire una virgola dei suoi demagogici discorsi in favore delle popolazioni oppresse e affamate dall'imperialismo degli infedeli.
Patria economica?
"Che l'appropriazione irachena del petrolio significhi vincolo al profitto ed extraprofitto capitalista americano e britannico e conquista per il benessere dei poveri lavoratori o dei poveri contadini servi della gleba e pastori vaganti della Grande Arabia: ecco l'immensa menzogna che l'analisi marxista deve sventare. Per essa è fatto utile e rivoluzionario che chi sa può ed è attrezzato a estrarre e sfruttare tecnicamente petrolio si installi oltre i mari, e il suo diritto deriva come tutti i diritti da forza e da risorse produttive ed economiche, ma non vale meno del diritto del pronipote del Profeta, o del governo borghese o del romantico pastore beduino. Non è consegnando i pozzi ad altra occhiuta banda esercente che si miglioreranno le condizioni delle masse povere del Medio Oriente, ma con la lotta internazionale contro i centri di potere delle metropoli imperiali, cui si possono strappare le concessioni solo distruggendo quelle sul suolo delle contee inglesi o degli stati americani, il cui complesso forma il potere politico capitalistico; e non già costringendo in compartimenti stagni l'intreccio grandeggiante della organizzazione mondiale del lavoro".
Abbiamo cambiato solo poche parole a questo testo ("Patria economica?") del 1951, adattandole ad un contesto più vasto che non la sola Persia cui si riferivano in origine, ma nè la raggiunta indipendenza degli stati, nè la moltiplicata importanza del petrolio ne sminuiscono il significato, anzi, lo ingigantiscono. Appare quindi molto chiaro il perchè della nostra estraneità ai contenuti delle posizioni espresse da tutto l'arco degli osservatori, anche soprattutto da quello di "sinistra".
La guerra è un fattore di accelerazione di tutti i tipi di tendenze economiche e sociali, e questo vale al massimo grado in epoca imperialistica. I marxisti sono contro la guerra, ma non per principio e soprattutto lo sono quando la guerra tra capitalisti c'è e comporta il massacro dei proletari. Non come i pacifisti che sono contro la guerra quando non c'è, o è lontana, ma diventano interventisti quando la guerra si avvicina a casa o coinvolge interessi della propria "patria".
Il petrolio come veicolo di capitali per le metropoli.
In Medio Oriente la caduta del condominio russo-americano non è stato altro che il fattore scatenante di tensioni che non avevano certo bisogno di questo per nascere e svilupparsi. Il capitalismo mondiale non si può permettere di perdere il controllo di un'area che corrisponde ai suoi interessi vitali: non ne ricava solo petrolio ma, cosa forse più importante, una immensa quantità di capitali che servono a ossigenare le asfittiche economie dell'America e dell'Inghilterra. Solo in parte si tratta di capitali di ritorno, perchè America e Inghilterra sono quasi autosufficienti. Il fatto importante è rappresentato dalla massa dei paesi che dipendono dal petrolio mediorientale e che versano miliardi di dollari nelle casse degli sceicchi le quali sono collegate come una enorme "pipeline" direttamente alle banche americane e inglesi. Torneremo su questo fatto: la maggior parte del petrolio mediorientale è un importante mezzo attraverso cui gli Stati Uniti e l'Inghilterra sfruttano la loro potenza finanziaria per rastrellare capitali al fine di procrastinare il loro tramonto.
Ormai il Kuwait intascava un reddito da investimenti in occidente superiore alle rendite petrolifere. Insieme con l'Arabia Saudita e gli Emirati era un paese cui non importava gran che della politica di alti prezzi perseguita dai più popolosi paesi dell'OPEC. Una delle cause di attrito sta in questo.
Il capitalismo è internazionale e il capitale non conosce frontiere. Ma quando si passa alla computisteria, il denaro si tinge dei colori delle bandiere. Il nazionalismo è una questione di interessi e non di ideali, e quando il superimperialismo degli Stati Uniti, fiancheggiato da quello dell'Inghilterra, marcia a passi pesanti intorno al pianeta, è inevitabile che provochi scompiglio. In termini marxisti concorrenza.
Interessi materiali e alleanze.
Abbiamo sempre detto che contro l'egemonia degli Stati Uniti, l'unica possibilità di risposta, in caso di scontro, sarebbe una coalizione di stati che cercasse di ovviare con l'unione la forza dell'avversario. Il fatto che questa forza non si concretizzi significa soltanto che lo scontro su interessi, che sono già contrastanti, non è ancora all'ordine del giorno. Ma gli avvenimenti del Medio Oriente ci offrono già qualche indicazione di come stanno evolvendosi realmente le cose. Naturalmente la politica ufficiale, la diplomazia, il gran baraccone mondiale della informazione via satellite non registrano, se non indirettamente, questa evoluzione. Sta a noi leggere tra le righe e confrontare con i fatti materiali.
In ambito capitalistico ogni coalizione deve fare i conti prima di tutto con la concorrenza tra nazioni. Le coalizioni sono possibili e operanti se in primo luogo sono soddisfatti con esse gli interessi nazionali. Questo è dimostrato, per esempio, dalle coalizioni della seconda guerra mondiale. Intanto ciò che abbiamo appena detto spiega la contraddizione tra la grande vittoria politica degli Stati Uniti e l'impossibilità di un utilizzo militare immediato della enorme forza accumulata.
Gli americani sanno benissimo che tutti gli intervenuti al loro fianco nell'operazione "Scudo del Deserto" marciano per conto loro nel tentativo di salvaguardare o imporre loro interessi propri che possono non essere quelli collettivi del cosiddetto mondo libero, occidentale, supersviluppato. Tutti gli altri sanno benissimo che gli americani lo sanno, ma ognuno recita il suo copione nel gioco delle parti e il grande spiegamento di uomini e mezzi macina sabbia e aria roventi preparando non tanto questa guerra, che forse non si farà, ma gli schieramenti per la guerra di domani. Germania e Giappone sovvenzionano direttamente l'enorme debito americano con l'acquisto di titoli, ma anche indirettamente tramite il petrolio, cioè fornendo i miliardi di dollari che le dinastie bacate del Golfo riversano a New York. La gran parata militare è una dimostrazione di forza e di debolezza insieme, perchè significa che il massimo imperialismo, cosciente o no, tende a colpire i suoi più diretti concorrenti.
Che si faccia o non si faccia la guerra, dobbiamo ricavare dallo spiegamento delle forze le prospettive per ciò che ci interessa: l'indebolimento dei maggiori imperialismi e l'emergere di situazioni che rafforzino il proletariato e le masse povere nella loro marcia verso la rivoluzione.
I fattori di razza e nazione.
Per fare questo non ci basta l'analisi dei paesi in campo secondo il numero di navi e di aerei spediti, nè lo spulcio dei contenziosi accumulati nei decenni, nè la catalogazione dei discorsi parlamentari o delle risoluzioni dell'ONU.
Bisogna sviscerare il contesto geostorico in cui avviene tanto trambusto e poi, siccome non siamo indifferenti ai diversi tipi di soluzione possibili, auspicare che vincano le forze che risultano più idonee ad un progresso della situazione in senso rivoluzionario.
Come giustamente ha detto il presidente dell'Egitto Mubarak, pochi sono nella zona i paesi che possono arrogarsi il diritto storico di chiamarsi nazioni. Certamente l'Egitto, certamente la Siria, l'Iraq, l'Iran. Le nazioni vere in senso moderno sviluppano una borghesia nazionale senza la quale ogni sviluppo sociale è incompiuto, se non altro perchè alla borghesia nazionale fa da contrappunto il proletariato, quindi un minimo di produzione autoctona e un'accumulazione che non sia solo di segno finanziario, quindi industria, attività agraria, scuola, esercito di popolo, un rapporto decente fra attività economica e speculazione, utilizzo interno delle eventuali ricchezze del suolo, spinta positiva del patrimonio culturale e razziale per l'accumulo di energia sociale. Niente di paragonabile, certamente, alle borghesie che si sono fatte le ossa con l'accumulazione primitiva e la rivoluzione industriale. Giungere al capitalismo quando questo è ormai decrepito impedisce alla borghesia di essere conseguente, quindi, a volte, è spinta al massimo grado la contraddizione fra l'ammodernamento della vita sociale e la struttura dello Stato, che soffre per remore tribali, religiose, razziali, spesso sovrapposte a scenari ultramoderni. Aa ogni modo figuriamoci quanto ci fanno impressione le invettive dei mafiosi nostrani verso la banda di Al Tikriti.
Tra le "vere" nazioni e i paesi tracciati più o meno arbitrariamente dalle esigenze dell'imperialismo dei due dopoguerra, si muovono masse di milioni di uomini attirate nei punti nevralgici dove il capitale si è fissato alla terra e ha incominciato a dare i suoi frutti, non importa per quale padrone. Milioni di proletari e semiproletari la cui unica frontiera e bandiera è quella della propria esistenza legata al flusso del capitale. Altri milioni di uomini provengono dall'Asia e dall'Africa e vanno a ingrossare popolazioni assolutamente eterogenee che nel loro insieme producono la ricchezza o ne servono i flussi.
Il Kuwait ha 1,7 milioni di abitanti di cui solo 600.000 anagraficamente kuwaitiani e il resto "stranieri" (400.000 palestinesi). Ha il 30% di analfabetismo, ma 14.000 dollari di reddito pro capite, quasi quanto gli USA (16.000). L'Arabia Saudita ha 15 milioni di abitanti di cui almeno un milione di "stranieri", un analfabetismo al 73% e un reddito pro capite di 8.000 dollari.
Ricchezza e analfabetismo caratterizzano le popolazioni dei paesi che non risultano nella menzione di Mubarak. Vengono mantenute nello stato in cui si trovano: non sono povere, ma non si preoccupino d'altro che di vegetare all'ombra delle poche tribù che si dividono il grosso della torta.
Questo tra l'altro è anche sancito dal tipo di costituzione che i vari re e sceicchi hanno escogitato.
Ben diversa è la situazione delle nazioni con più abitanti e con una struttura sociale di tipo borghese con o senza petrolio. È inevitabile che a un certo punto nasca un attrito e poi uno scontro. Il capitalismo sopporta il sopravvivere di residui del passato finchè gli sono utili, in caso contrario tende a spazzarli via. E in genere questo succede quasi sempre in modo doloroso. Non è un caso che le modernizzazioni in quest'area del mondo, da Ataturk in poi, volenti o nolenti hanno ricalcato metodi e programmi di quello che in Italia si è chiamato Fascismo riassumendo un bisogno generale del mondo borghese. La borghesia moderna è fascista, se non sempre nell'apparenza, certamente nella sostanza. In alcuni paesi, in Iraq, per esempio, anche nell'apparenza. Dicono che Hussein si sia fatto ritrarre in un monumento nell'atto di ricevere un famoso Codice dalle mani del grande Hammurabi. Trovata mediocre, il diritto dei grandi antenati è passato per sempre attraverso il millennio bizantino.
Paesi vivi e paesi morti.
In epoca capitalistica un paese socialmente cadavere come l'Arabia Saudita non ha nulla da insegnare e da esportare tranne il petrolio. Non avrà perciò dinamiche sociali che impongono una presenza attiva sulla scena della storia, "interessi vitali" fuori dai propri confini e dai propri conti nelle banche angloamericane. Al contrario, le nazioni che per cause storiche riescono a dare il via all'accumulazione, si trovano ben presto a dover fare i conti con una contraddizione fra le energie interne sviluppate e una condizione geografica e sociale compressa in limiti che la storia di altri ha brutalmente imposto.
L'Egitto prima di tutti, e il fatto che Nasser sia stato il primo Rais della causa panaraba non è certo un caso. E non è un caso che come nazione si sia trovata al centro di ben quattro conflitti che hanno subito comportato un confronto globale tra le grandi potenze. Grande nazione che fu degna dell'esperienza trapiantata dalla Francia rivoluzionaria sul suolo africano tramite la spedizione napoleonica e così ben assimilata dal suo primo governo borghese. E' sul suolo egiziano che si è manifestato per la prima volta nella storia lo scontro globale fra grandi potenze, scontro che prefigurò la portata mondiale della guerra imperialista.
Ora, se è vero che la causa panaraba deve fare i conti con i vari egoismi nazionali, è anche vero che come problema storico, economico, sociale, non può non aggravarsi con il progredire dell'accumulazione, cioè dell'energia sociale delle nazioni che contano. È per questo che fanno ridere i soliti cultori della persona, questa volta in negativo. Il "nuovo Hitler" Saddam Hussein, il nuovo Nabuccodonosor re della Babilonia patria di ogni peccato non ha fatto altro che dare indirizzo alle forze espansive del suo paese. Qualunque gentiluomo in doppiopetto che oggi starnazza come le oche capitoline per dare l'allarme contro i nuovi barbari avrebbe fatto lo stesso e l'ha fatto cento volte peggio quando era la sua ora.
Gli imperialismi si controllano a vicenda.
Hussein ha attaccato avvisando tutti che l'avrebbe fatto e tutti se ne sono stati zitti, anche quando sono stati ammassati 130.000 uomini al confine del Kuwait. La CIA l'aveva detto e il Pentagono aveva nicchiato, il governo americano aveva preso tempo aspettando il vertice di Jedda. Ecco perchè i giornalisti hanno gridato ad una nuova Monaco, e non avevano tutti i torti, se si estende il significato di Monaco anche al bisogno di guerra dell'America.
Per L'Iraq l'obiettivo non era solo il petrolio e l'oro dei forzieri, anche se la tradizione araba della razzia è stata a quanto sembra piuttosto rispettata, bensì il vero e proprio inglobamento nei propri confini di un territorio rivendicato a più riprese. Tra l'altro il concetto di "confine", in un mondo arabo disegnato arbitrariamente sulla carta, ha un significato diverso dal nostro, per questo l'invasione più che stupire le borghesie vicine, le ha allarmate a morte: loro l'avrebbero fatto. Eccole allora accorrere al fianco del potente poliziotto mondiale con la richiesta non solo di riconquistare il Kuwait, ma di eliminare per sempre la minaccia irachena.
Il poliziotto mondiale, però, per fare il suo mestiere prima o poi presenta il conto, e questo, anche se ci hanno messo un mese, l'hanno capito pure i giornalisti. La settimana scorsa il vignettista Bucchi di "Repubblica" disegnava un fumetto sulla fotografia di Bush alla guida di un carro armato: "Speriamo che questa storia finisca presto, così i nostri ragazzi potranno rimanere"...
Osservazione importante, questa lasciata all'umorista, e intanto la diplomazia si muove di conseguenza, cercando di nascondere con una cortina fumogena fatta di melensaggini, buoni propositi, sante crociate e valanghe di parole, la malafede di ognuno nel disporre le proprie carte.
Agli Stati Uniti serve rimanere, e per questo la guerra serve più come minaccia che come azione. Se invadono il Kuwait dopo aver "sterilizzato" l'ambiente con la loro poderosa aviazione, se bombardano Bagdad, magari ammazzando Saddam Hussein con tutto il suo governo e tutto il suo Stato Maggiore come vanno predicando le buone mamme americane, se infine rendono sicura la regione armando ancora di più i fedeli alleati sauditi, poi se ne debbono andare.
C'è qualcosa che non va. Non si appresta un ponte aereo come quello in una settimana, non si spara a caso la cifra di duecentocinquantamila uomini, non si porta una forza di quelle dimensioni nel deserto per poi giocherellare con la diplomazia in un carosello forsennato come non si era visto da decenni.
È vero che i boys con tutta quell'acqua che devono bere invece del whisky per via dei luoghi santi, non hanno un gran che voglia di battersi, ma almeno per salvare la faccia, data per esempio la netta superiorità tecnologica, qualche lezione a questo nemico scodellato fesco fresco, per i benpensanti scatenati sarebbe d'uopo. E dire che con Noriega a Panama le cose erano andate diversamente... Panama non è il Medio Oriente e Saddam Hussein non è Noriega. L'ONU ha votato a raffica cinque risoluzioni, il Consiglio di Sicurezza è stato unanime, per la prima volta USA e URSS marciano uniti in una crisi di portata mondiale, mai nella storia c'è stato simile concerto di intenti eccetera eccetera. Tutte storie. Non si vede perchè per esempio con tutta questa chiarezza il Segretario dell'ONU debba andare a discutere con l'Iraq; o perchè l'URSS, con tutto questo lattemiele verso l'ex nemico gli capovolga i piani incaponendosi per la "soluzione araba" che non significa nulla; o perchè dopo caterve di truculente minacce nei confronti del dittatore, si discuta tranquillamente con lui per i noleggi degli aerei che devono portare via gli ostaggi; o si facciano bizantinismi sugli alimentari o i medicinali, lasciando nel frattempo che gli aerei non siano compresi nel blocco.
O sono tutti dei pagliacci o la compattezza del fronte anti-iracheno non è così monolitica. C'è una contraddizione enorme tra quello che sta succedendo e lo scenario dipinto così lucidamente da Kissinger per i compiti militari degli Stati Uniti (cogliere il nemico prima che organizzi una difesa, colpire a fondo fino a distruggere ogni sua capacità di risposta, annientare il sistema militare e produttivo dell'Iraq, eliminare il regime di Hussein).
Il dato di fatto è che, per la prima volta, gli Stati Uniti invadono un paese subendo il condizionamento dell'azione concentrica degli alleati. Tutti coloro che sono accorsi a dare una mano, eccetto l'Inghilterra, hanno interessi a volte convergenti, a volte contrastanti tra loro, ma hanno ormai un denominatore comune che è l'insofferenza verso la strapotenza americana che non può tenere conto dei loro piccoli egoismi. Di qui un contributo assai ambiguo a tutta l'operazione "Scudo del Deserto" e un freno oggettivo all'esuberanza militare dei generali di Bush.
L'America, per ora, ha il coltello dalla parte del manico.
Proviamo a fare un elenco spicciolo. L'URSS ha tutto da guadagnare da un aumento del prezzo del greggio. Se la situazione non viene risolta, Iraq e Kuwait insieme faranno mancare dal mercato un 20% nominale del totale. Nominale perchè non è detto che il blocco funzioni, bisognerà vedere che cosa farà il fronte che nicchia, la Giordania, ma specialmente l'Iran. L'URSS è il massimo produttore mondiale di greggio e ha un bisogno vitale di valuta: con il petrolio a 30 dollari al barile, aumenta le sue entrate del 50%.
Lo stesso vale per i produttori che affiancano gli USA e che già hanno aumentato il pompaggio di quasi tre milioni di barili al giorno e anche per l'Iran, ex nemico, ma per niente insensibile ai possibili vantaggi di un aumento dei prezzi del petrolio e una quasi certa lucrosa speculazione sull'embargo, dato che esporta greggio ma importa raffinati a causa delle raffinerie distrutte durante la guerra.
Dai 1500 chilometri di confine con l'Iraq persino durante quest'ultima si contrabbandava Whisky di Bagdad e caviale del Caspio, vadano i ragazzi dell'82a a controllare anche da quella parte se non arriverà grano in cambio di benzina e gasolio; l'Iraq ha le raffinerie intatte.
A conti fatti un aumento del prezzo del petrolio danneggia relativamente poco chi poco dipende dall'estero per il funzionamento del suo apparato economico e avvantaggia chi ha un surplus di pompaggio, dato che il prezzo internazionale era da qualche anno al di sotto del valore medio.
Risulta invece enormemente svantaggiato chi non possiede nè petrolio nè mezzi per fronteggiare l'ulteriore spesa, oppure chi, pur essendo ricco, non possiede petrolio ma ne consuma in quantità così elevate da incidere pesantemente sulla ricchezza.
È il caso, manco a dirlo, del Giappone in primo luogo, dell'Italia e della Germania, la cui bilancia energetica dipende dall'estero rispettivamente per il 63% del fabbisogno, il 79% e il 10%. Il dato della Germania deve tener conto di una poderosa rete elettronucleare, ma per contro di un fabbisogno enorme per alimentare la maggiore concentrazione industriale chimica del mondo.
Colossi come la Hoechst, la Bayer e la Basf avevano già visto i loro profitti scendere a causa del rafforzamento del marco sul dollaro (rispettivamente -20,7 e -9,5% in sei mesi le ultime due) e adesso si vedono aumentare il prezzo della maggior materia prima di un buon 30%.
La Germania aveva oculatamente diversificato le fonti di approvvigionamento staccandosi dal Medio Oriente, ma di fronte ad un aumento del prezzo rimane impotente.
Più critica la situazione del Giappone che in quell'area acquista ancora il 50% circa del suo fabbisogno e quindi anche politicamente è costretto ad andare cauto.
Dal punto di vista degli schieramenti materiali, un controllo americano del petrolio, congiunto ad un annichilimento di gran parte delle riserve mondiali, significa guerra contro i massimi concorrenti, significa un ulteriore passo verso il rovesciamento degli schieramenti usciti dalla guerra mondiale e un ritorno a quelli dell'anteguerra.
Non faremo dei manifesti per annunciare al mondo che la terza guerra mondiale è dietro l'angolo, perchè non è vero: ancora diverse condizioni si devono verificare, ma ribadiamo quello che, soli contro tutti, diciamo da anni.
L'equilibrio del terrore atomico è prima di tutto un patto mondiale controrivoluzionario e il terrore è quello borghese in funzione antiproletaria.
Le guerre si fanno per controllare il territorio e l'arma atomica è l'ultima carta da giocare, non la prima. Anche se nessun governante pensa di fabbricare armi nucleari per sventare la rivoluzione, il dato di fatto è utile da schematizzare perchè nella sostanza ci permette di capire che tra gli imperialismi il fattore di guerra non è l'ideologia ma la concorrenza economica e questa non può essere tra America e Russia, bensì fra queste due e la potenza non ancora congiunta di Germania e Giappone (l'Italia trova il suo schieramento di conseguenza più che per forza propria).
L'immensa pagliacciata politica in atto dimostra che Hussein non ha i numeri sufficienti per diventare "il" nemico.
Nè può diventarlo tutto il mondo arabo insieme, almeno finchè non abbia alle spalle qualcuno più titolato per assumerne il ruolo. Purtroppo i boys, anche se non valgono granchè come soldati, dispongono di mezzi in quantità e qualità tali da far vedere i sorci verdi a chiunque e, se sarà difficile sloggiarli con le chiacchiere dell'ONU o degli alleati, figuriamoci a cannonate.
Che vada a catafascio la puzzolente civiltà del dollaro.
Di fronte alla morale borghese noi alziamo letteralmente le spalle. Rispondano gli stati interventisti alla elementare ma veritiera demagogia di Hussein: dica Bush come lo Yankee si è preso il Texas o per quale missione umanitaria massacrava decine di migliaia di Filippini, per non parlare della libera democrazia sostenuta nell'America Latina e nel Vietnam. Parli la signora Tatcher dell'India e l'indignato Mitterrand dell'Algeria. E anche Gorbaciov non deve aver fatto carriera in un educandato.
Hussein il mostro ha impiccato e fucilato. Come Assad, come Fahad, come l'altro Hussein, la lista può continuare. Ma non sono tanto i personaggi a dover essere ricordati, quanto le sanguinarie borghesie sostenute da questo o quell'altro imperialismo a seconda degli interessi del momento. Oggi queste borghesie nazionali corrotte da tutti i difetti che hanno assorbito come malattie dell'Ovest decadente, sono spinte sulla scena in uno scacchiere vitale per i loro ricchi tutori.
Rappresentano il subbuglio in un mondo che ha bisogno di cambiare ma che subisce un ritardo storico immane, quindi esplodono come bubboni incomprensibili agli occhi della "civiltà". Che esplodano, questo è il nostro punto di vista e lo gridiamo forte, contro tutte le ipocrisie pacifiste. Che esplodano e trascinino in un vulcanico rimescolamento tutta quanta l'imputridita società mondiale.
Un telegiornalista è rimasto rintronato quando un passante arabo intervistato gli ha risposto: "non mi interessa quello che ha fatto Hussein; se tolgono delle frontiere e uniscono gli arabi va benissimo." Ecco il punto. Tutti analizzano con ponderose riflessioni il fatto che la Germania Occidentale si inglobi quella Orientale con 16 milioni di schiavi sottopagati al prezzo piuttosto vile di qualche miliardo di marchi e un milione di disoccupati indotti. Ma le analisi diventano urla schizoidi non appena si esce dalla sfera "civile" per andare a mettere il naso negli affari dei "barbari".
Ma crollino tutte le frontiere dall'Atlantico al Mare Arabico e si facciano sei paesi da ventiquattro, spariscano dalla faccia della Terra i residui di un passato che nessuno rimpiange. È più rivoluzionario il "falco" israeliano Sharon quando dice di voler regalare la Giordania ai Palestinesi per tenersi i territori occupati che non il sinistro pacifista europeo che, con piglio avvocatesco, invoca i sacri diritti calpestati e plaude all'invio di cannoni.
Il grande merito dell'esercito iracheno è stato non tanto di aver tentato di invadere l'Arabia Saudita (ammesso e non concesso che l'abbia tentato, e comunque non sarebbe stato in grado di mantenerla), ma di aver dato il destro agli USA di invaderla loro.
L'occupazione occidentale dei luoghi santi e del regno wahabbita porterà più sconquasso di qualsiasi armata araba con velleità di annessione. I boys rimarranno a lungo nel deserto, che riescano o non riescano a far filare il dittatore di Bagdad. In fondo, della libertà del Kuwait non gliene importa niente a nessuno, ma del controllo sul petrolio sì, e su questo ci si può mettere d'accordo anche con il diavolo. Nel frattempo i cingoli dei carri macinano insieme alla sabbia i vecchi rapporti sociali.
Aggressione all'Europa.
L'occupazione occidentale è innanzitutto americana e inglese da una parte e di tutti gli altri dalla parte opposta in funzione di controllo della superpotenza. Così sarà molto probabile vedere dilagare una sindrome vietnamita con molti più vincoli e senza una Saigon da trasformare in supermarket e bordello, senza un retroterra da riempire di merci, whisky, donnine e droga, quindi un modo di essere che non potrà sfogarsi e scoppierà, oppure si sfogherà producendo un impatto sulla pietrificata società saudita che tutti possono immaginare.
Troveranno allora gli Stati Uniti il loro Ngo Din Diem arabo? E cosa faranno i concorrenti alleati questa volta presenti fianco a fianco occhiuti come non sono mai stati? Come già è successo nell'Est Europeo, il Medio Oriente non sarà mai più lo stesso, Saddam Hussein è un pretesto.
Dal punto di vista storico generale potrà essere secondario, ma nessuno ci potrà convincere che siano bastati quei pochi giorni dopo l'invasione per organizzare la controinvasione dell'Arabia. Ribadiamolo pure: un ponte aereo per trasportare 60.000 uomini e mezzo milione di tonnellate di materiale non diventa operativo in cinque giorni. E nessuno ci fa credere che a ciò si faccia seguire senza un piano meticoloso preparato con mesi di anticipo l'invio di altri 200.000 uomini e un altro milione e mezzo di tonnellate di materiali. E poi perchè proprio 250.000 uomini, cifra divulgata a caldo, mentre i primi contingenti erano in partenza? Neppure in Corea, neppure in Vietnam si era giunti a una mobilitazione del genere in tempi così ristretti. Si dirà che l'esperienza insegna... Ma no, diciamo che i piani erano pronti e aggiornati.
Ovviamente tutti gli Stati Maggiori fanno piani, esistono per questo, hanno uffici tecnici attrezzatissimi, fanno simulazioni al computer. Che ci fanno 40.000 impiegati al Pentagono se almeno qualche migliaio di loro non fa piani? Torniamo indietro di quarant'anni e leggiamo nell'articolo "Aggressione all'Europa" sul nostro "Prometeo" n. 13 del 1949:
"...Vediamo che razza di guerra sarebbe la eventuale prossima dell'America per cui si votano crediti militari immensi, si fanno riunioni di Stati Maggiori e si danno ordini di preparazione e dettami strategici a paesi stranieri e lontani... (potrebbe essere presentata come la più nobile crociata contro le figure più nere e non per questo la avverseremo di meno) ciò non toglie diritto ad analizzare questa guerra e a definirla come la più clamorosa impresa di aggressione, di invasione, di oppressione e di schiavizzamento di tutta la storia. Non si tratta solo di una guerra eventuale ed ipotetica poichè essa è già in atto, essendo tale impresa legata da stretta continuazione con gli interventi nelle guerre europee del 1917 e del 1942, ed essendo in fondo il coronamento del concentrarsi di una immensa forza militare e distruttrice in un supremo centro di dominio e di difesa dell'attuale regime di classe, quello capitalistico, la costruzione dell'optimum delle condizioni atte a soffocare la rivoluzione in qualunque paese... Sta di fatto che le prepotenze di quei citati aggressori storici europei (Adolfo, Cecco Beppe, Benito, Guglielmone) che si dannavano per una provincia o una città a tiro di cannone, fanno ridere di fronte alla improntitudine con cui si discute in pubblico - ed è facile arguire di che tipo saranno i piani segreti - se la incolumità di Nuova York e di San Francisco si difenderà sul Reno o sull'Elba, sulle Alpi o sui Pirenei. Lo spazio vitale dei conquistatori statunitensi è una fascia che fa il giro della Terra; è il punto di arrivo di un metodo cominciato con Esopo quando il lupo disse all'agnello che gli intorbidiva l'acqua pur bevendo a valle. Bianco, nero o giallo, nessuno di noi può ingollare un sorso d'acqua senza intorbidire i cocktails serviti ai re della camorra plutocratica nei nightclubs degli Stati".
Ricchi contro ricchi e i poveri come partigianerie da macello.
A leggere i fatti con il senno di poi, è chiaro che ha funzionato un gioco delle parti in cui non tutte le battute del copione sono andate al loro posto: forse la provocazione kuwaitiana era fin troppo scoperta e l'Iraq deve aver subodorato qualcosa che ha fatto scattare l'azione preventiva. Meglio tutto il Kuwait subito piuttosto che rischiare un negoziato sotto la pressione armata americana, devono aver detto i militari.
Ci si potrà ritirare in seguito, mantenendo le posizioni rivendicate. Era dal tempo del supercannone che la montatura stava crescendo. Siccome i generali iracheni saranno fanatici ma non fessi, hanno messo in atto l'unica mossa che avrebbe dato loro un certo vantaggio "coalizzando" tutti quanti, cioè in pratica impedendo nella gran confusione agli Stati Uniti di agire da soli. E non è detto che la paventata invasione dell'Arabia non sia stata un'abile finta per far precipitare i tempi e costringere gli Americani a scoprire le loro carte con una controinvasione sacrilega.
Non lo sapremo mai, ma è certo che non tutte le ciambelle imperialiste riescono col buco, e forse questa volta il Pentagono ha sottovalutato sia la determinazione dell'Iraq, sia la capacità di interdizione dei suoi alleati, specie di quello russo verso il quale si versano lodi sperticate ma che di fatto ha rappresentato una palla al piede per via delle reminiscenze del passato che si porta ancora appresso, non ultimi i 200 esperti militari e i 6.000 funzionari che fino ad oggi rimangono a onorare i contratti con il maggiore alleato della zona.
C'è poco da fare: il mondo è in rivolgimento e non c'è forza che possa ergersi per mantenere inalterate le cose. Il declino della potenza americana non può essere nascosto dall'apparente unanimità degli alleati nel sostenere la sua leadership. L'accumulazione inceppata e la pressione nuova delle masse tagliate fuori o depredate della ricchezza rappresentano un potenziale enorme di cambiamento. La geografia dell'imperialismo non è ritagliata sulla carta geologica del pianeta: le risorse, a parte qualche caso sono ubicate lontane dalle metropoli e l'indigenza atavica di centinaia di milioni di individui finirà per far saltare il tappo al vulcano delle contraddizioni fra i massimi imperialismi.
Se la dottrina della difesa del proprio spazio vitale comporta l'invasione delle aree dove giacciono interessi sotto forma di miniere o di pozzi, è ovvio che l'unico diritto diventa la forza. Ma siccome i paesi minori non sono in grado di opporre forza a forza, ecco che allora si profila un'alleanza tra il cosiddetto terzo mondo e quella parte dei paesi industrializzati che preciserà il proprio antagonismo contro gli Stati Uniti.
Questa non è la guerra tra ricchi e poveri, come semplifica il giornalista in un impeto di moralismo. Questa è la guerra tra ricchi e ricchi in cui i poveri saranno trascinati ad una demagogica partigianeria. Ci sembra già di veder rispuntare prepotentemente il ritornello fascista sulle nazioni proletarie in guerra contro le plutocrazie dei popoli dai cinque pasti al giorno. Sono fantasie partorite da menti bacate? Macchè, storia ed economia l'avevano presentata a Mussolini e lui l'aveva condita per il popolo.
Così come il laico Hussein ha abbracciato istantaneamente la liturgia islamica della guerra santa, non tarderanno da noi i profeti della guerra giusta, date loro il tempo di capire che il mondo si sta muovendo dopo mezzo secolo di pax condominiale.
Tutti ricordano le foto di Moshe Dayan sul carro armato e il dito puntato sul Cairo, tutti ricordano il rigurgito isterico della civiltà contro la barbarie. E sette anni dopo la rabbia livida contro gli sceicchi che rovinavano il sacro week end occidentale. Oggi non è più tempo di condottieri romantici, piuttosto scintilla al sole d'Arabia la tecnologia di armi da fantascienza e si scontrano le tecniche della persuasione elettronica mentre gli sceicchi sembrano decaduti al rango di postulanti in cerca di protezione. Non è più in gioco solo la rendita da petrolio, ma la prospettiva di centinaia di milioni di persone. Questa è la differenza sostanziale per la preparazione di autentici schieramenti di guerra.
Alla crociata anticomunista cui si contrapponeva la crociata anti-imperialistica staliniana, si va sostituendo un oscuro crescendo di cosiddetta irrazionalità intorno al dato di fatto della concorrenza nippo-tedesca contro l'America. E la Germania non è ancora quel formidabile bestione capitalista che sta per diventare.
Non c'è che dire: l'invasione complementare di Kuwait e Arabia Saudita, al di là dei risultati militari ancora tutti da vedere, è un altro gran colpo di ramazza sulle mistificazioni del mondo "bipolare" uscito da Yalta.
La crisi è davvero irreversibile
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Molti fatti nuovi si sono aggiunti da quando è stata tenuta la riunione che abbiamo trascritto, e molti fatti vecchi sono venuti a galla o hanno assunto un'importanza che prima non appariva.
Ci ripromettiamo quindi quanto prima di integrare la riunione con dati e commenti che inquadrino meglio lo scontro in atto.
Non possiamo prevedere se nel frattempo si arriverà allo scontro militare, ma mentre stiamo per procedere alla spedizione leggiamo che il segretario dell'ONU, in apertura dell'assemblea generale ha espresso il timore che scoppi una guerra mondiale. La cosa non è da sottovalutare, sia per il pulpito dal quale viene la predica, ma soprattutto per le implicazioni che ha.
Precisiamo che una guerra mondiale non è affatto alle porte perchè gli schieramenti e l'armamentario bellico non sono ancora pronti. Ma se il personaggio in questione sente il bisogno di sollevare il problema, qualcosa sotto dev'esserci. L'affermazione risulta del tutto incomprensibile se ci si basa sugli schieramenti in campo. Nessuna guerra mondiale può scoppiare se tutto il mondo è d'accordo a schiacciare l'Iraq. Per quanto sanguinosa, una campagna per quell'obiettivo sarebbe una semplice operazione di polizia internazionale e non una guerra mondiale.
Una guerra generalizzata è ipotizzabile soltanto in caso di coinvolgimento delle grandi potenze ma su fronti opposti. Ne riparleremo presto.
Fine