24. Crisi del Golfo? (1)

Convergenze obiettive.

Nella "Lettera n. 23" affermavamo che il gran movimento di truppe annunciato in Arabia e nel Golfo non poteva essere solo frutto di una risposta all'invasione del Kuwait. In altre occasioni nessuno si era preso la briga di difendere "diritti" altrettanto "sacri". Doveva esserci sotto qualcosa di più grosso. Dice uno dei principali consiglieri di Bush: "ho la sensazione che abbiamo condotto Saddam Hussein là dove noi volevamo che fosse". Questo confermerebbe i sospetti creati dalla famosa riunione in cui l'ambasciatrice americana a Bagdad lasciò praticamente intendere a Hussein "di avere semaforo verde". E la stessa ambasciatrice confesserà più tardi: "evidentemente non ho pensato, nessuno l'ha pensato, che gli iracheni si sarebbero impadroniti di tutto il Kuwait". Tutto? Dev'essere un vizietto degli americani: la stessa cosa era successa a Mc Arthur prima dell'attacco alla Corea quando, nel 1949, aveva ufficialmente dichiarato che questo paese era fuori dagli interessi strategici statunitensi (1).

In fondo, la guerra che si profila, se si farà, è una guerra contro la logica capitalistica: l'Iraq si è mosso per avere un alto prezzo del petrolio, gli Stati Uniti anche, e così la Russia  (2). C'è un'alleanza materiale che va al di là delle dichiarazioni, un'alleanza che impedisce una vera polarizzazione delle forze in campi opposti come invece succede in una vera preparazione di guerra. Forse per questo si rende necessario il gran teatro che si trascina da quattro mesi sull'onda di ridicole sbruffonate. I poli opposti sono: America da una parte, con arabi "ricchi", schieramento che ha tutto da perdere in uno sconvolgimento incontrollato della zona; dall'altra Europa, Giappone ed Egitto, quest'ultimo alla testa dei paesi arabi "poveri", schieramento che ha tutto da guadagnare in un flusso di petrolio a basso prezzo e di una ricchezza che rimanga anche sul territorio d'origine invece di andare solo verso le banche anglo-americane. Russia e Iraq stanno nel mezzo: hanno interesse vitale all'aumento del prezzo del petrolio, ma avrebbero anche interesse a essere schierati con Europa, Giappone ed Egitto per i loro piani di sviluppo e accumulazione oltre che per una sistemazione politica che renda meno "calda" quell'area.

La strada per Mosca passa da Berlino.

Dicevamo che, attraverso sconvolgimenti militari dovuti alla situazione esplosiva provocata dall'imperialismo in almeno un secolo, potrebbero crearsi delle condizioni favorevoli all'indebolimento del controllo sul proletariato e sugli oppressi di tutto il mondo; i marxisti non sono mai indifferenti rispetto ai possibili esiti di una guerra. Siamo ancora dello stesso parere: la situazione si è fatta più intricata e le forze in gioco potrebbero essere non più controllabili.

In disaccordo con le interpretazioni immediatiste, che in fondo ricalcano l'opposizione "liberal" americana alla guerra ("no blood for oil"), dicevamo che il petrolio non è la causa diretta dello scatenarsi militarista, ma rappresenta il fattore che più si presta a essere sfruttato come arma di ricatto nei confronti dei diretti concorrenti da parte dell'America. Anche questo fatto si è andato precisando e, da agosto, la "grande coalizione" è sì più grande come forza sulla carta, ma sempre meno coalizione. Il gran accorrere di truppe "alleate" degli Stati Uniti non era un segno di unità tra imperialismi contro l'Iraq, bensì l'unico modo che i concorrenti avevano per impedire una guerra per il controllo americano dell'energia mondiale.

Osservavamo di conseguenza come fosse corretto, da parte della Sinistra, dire che la tendenza alla guerra tra Stati Uniti ed Europa e Giappone è un problema storico non risolto nonostante due guerre mondiali e che è ancora in atto ("Aggressione all'Europa"), la marcia americana verso Berlino e Mosca, marcia che produce quel vistoso rimaneggiamento degli artificiosi schieramenti dovuti alla cosiddetta guerra fredda che tanto stupisce i commentatori borghesi  (3).

Dicevamo, infine, che centinaia di milioni di uomini sono coinvolti in questa lotta mortale, oppressi e affamati, pronti per sanguinose partigianerie, ma anche per una rivolta anticapitalistica che può maturare con l'approfondirsi della crisi mondiale. Altri tre mesi di conflitto in sospensione hanno chiarito la natura dei fatti: non abbiamo da far altro che confermare con gli ulteriori elementi emersi nel frattempo.

Una crisi che viene da lontano.

Nel 1984, quasi a metà percorso del boom reaganiano, noi, controcorrente, affermavamo che quello non solo non era un boom, ma addirittura rappresentava la risposta unilaterale americana di fronte alla grave crisi di accumulazione del capitalismo più sviluppato: "Mentre nel 1970 gli eurodepositi erano costituiti per l'80% in dollari, nel 1980 si scendeva a circa il 65%. Ciò significa che, mentre gli Stati Uniti varavano più o meno coscientemente la gigantesca 'speculazione' sul dollaro per scaricare sugli altri i propri problemi, gli altri, pur rispondendo coralmente con entusiasmo alla promessa di arricchimento facile, più o meno coscientemente si premunivano sganciandosi dal dollaro. E questo è un processo irreversibile, perchè gli altri paesi diventano due volte creditori nei confronti degli Stati Uniti: prima, con la creazione di eurodollari, per effetto del deficit nella bilancia dei pagamenti americana e, poi, con l'acquisto dei titoli del tesoro americano. Per quanto esistano correttivi legali o automatici, la tendenza è chiara: le cifre dimostrano la decadenza americana anche se non lasciano intravvedere nessun successore, neppure potenziale. I problemi sollevati dall'attuale crisi non hanno precedenti nella storia del capitalismo... l'attuale crisi è destinata a trascinarsi con tutti i paesi immersi in una palude economica e sociale, martoriata da guerre locali a catena" (4).

La premessa era che la successione delle crisi non era ciclica, ma rappresentava un processo nel quale ormai ogni periodo si lasciava alle spalle per sempre una serie di tentativi reiterati per contrastare la caduta del saggio di profitto. La conclusione era che ci sarebbe stato uno scontro fra la necessità di dominio degli Stati Uniti, e l'emergente potenza economica dei loro concorrenti che si sentono sempre più soffocati: "La contrapposizione USA-URSS è un prodotto dell'ultima guerra, ma non è su di essa che si basa il reale sviluppo futuro dei rapporti interimperialistici  (5) (...) La borghesia non può arrestare lo sviluppo delle forze produttive ma deve farlo, se vuole sopravvivere, per cui la soluzione borghese di questo conflitto è univoca: distruzione di capitali ad avanzata composizione organica, drastica riduzione della forza produttiva del lavoro, fine della società tecnologica e dei suoi miti" (6).

A sei anni di distanza i fatti portano i meno sofferenti di inerzia ad ammettere che qualcosa sta succedendo al di là del Kuwait: la crisi del Golfo "è un buon banco di prova per le nuove alleanze planetarie... con implicazioni economiche in tutto il mondo. Forse Saddam Hussein sta facendo un favore alla realtà dei nuovi equilibri economici e politici globali" (7) .

Distruzione di plusvalore, bisogno di guerra.

Siccome ci sentiamo perfettamente in regola con la necessità della previsione con metodo marxista, ne citeremo diversi, di costoro che adesso ammettono la funzione americana e l'artificiosità della contrapposizione imperialistica della guerra fredda; adesso ammettono che esiste una crisi di accumulazione in grado di scatenare grandi sconvolgimenti sociali.

Il crack delle borse nel 1987 fu percentualmente vicino a quello del 1929, ma la massa di capitali distrutti incomparabilmente maggiore: le ripercussioni in tutto il mondo portarono le perdite a un ammontare pari a quasi cinque volte il Reddito Nazionale italiano.

Rapportando la perdita alla durata della crisi, abbiamo la verifica di un assunto marxista: sempre più capitale deve essere distrutto in sempre meno tempo. Nel 1929 la percentuale di perdita sul numero dei mesi dava il 2,6% al mese. Nel 1987 il 18% e nel 1990 il 5% (8).

Tuttavia l'importanza dell'avvenimento non fu tanto nelle cifre quanto nella dimostrazione che ormai la crisi è il modo di sopravvivere di questa società. Il nuovo plusvalore prodotto è destinato inesorabilmente alla distruzione per mancanza di vitalità del sistema nel suo insieme.

L'avvenimento, a differenza della crisi del '29, non lasciò traccia profonda. non vi furono scene di panico serio e non vi furono strascichi economici paragonabili. Due mesi dopo le borse riprendevano allegramente a salire, superando i record precedenti. Nessuna euforia per lo scampato pericolo e neppure grande agitazione per il successivo, lento declino dei "valori" borsistici con Tokio in testa: la più grande borsa del mondo passava seconda con la perdita di un quaranta per cento prima ancora della sporca faccenda del Golfo. Vivere con la crisi, come si vive con il delitto a New York, con la fame altrove e con l'inflazione più o meno "fisiologica" dappertutto.

Anche per il pane quotidiano occorre ormai sovvenzionare la terra: 160 miliardi di dollari regalati finiscono ogni anno in Europa e USA in tasca ai contadini solo perchè non smettano di riprodurre il cibo necessario alle metropoli (9), mentre in Giappone le sovvenzioni rappresentano il 72% dell'intero valore della produzione agricola (10).

Creare "valore aggiunto" e distruggerlo forsennatamente, cercando di scongiurare quel limite pericoloso oltre il quale l'insofferenza sociale si tramuta in scontro. Questo sembra essere l'unico obiettivo del capitalismo attuale. Sopravvivere alla storia e blindare ulteriormente la propria attrezzatura preventiva e repressiva nell'opera di polizia controrivoluzionaria mondiale.

Il suo gendarme maggiore, che ora si appresta a mettere ordine e disciplina in una zona che cerca di controllare militarmente da almeno 40 anni, che ora ha le mani libere nel mondo in cui è crollato "l'impero del male", avrà ben da fare, dato che tutto gli crolla intorno.

Se pensiamo che in una situazione più controllata è stato coinvolto direttamente o indirettamente nella maggior parte delle 125 guerre grandi e piccole scoppiate nel mondo dopo la II Guerra Mondiale e che hanno provocato 22 milioni di morti (11), possiamo immaginare che cosa è disposto a fare ora che la situazione tende a sfuggirgli di mano, in un mondo che ha raddoppiato la sua popolazione, ma in cui i più "ricchi" con il 25% della popolazione si mangiano l'80% del reddito e dove il 5% della popolazione consuma il 25% dell'energia disponibile.

In una vera esplosione di ipocrisia il gendarme scopre adesso che le "nuove minacce militari si trovano nel Terzo Mondo". Ma dove sono mai state fomentate le 125 guerre di cui prima? Altro che guerra fredda. Da questo punto di vista non è cambiato nulla; la guerra serpeggia ancora alla periferia e le truppe imperialiste calpestano ancora terra altrui. Qualcosa però è cambiato dal punto di vista della crisi in cui versa l'imperialismo nel suo insieme. Oggi infatti è più difficile, specie per gli Stati Uniti, come fa notare il superesperto di strategia M.E. Luttwak, "affrontare la loro grave crisi interna e, nello stesso tempo, esporre al pericolo truppe numerosissime in un teatro di guerra" (12).

Una società cadavere.

Di capitali "persi" è piena la storia di questi ultimi anni. L'intero debito del cosiddetto Terzo Mondo è ormai inesigibile e quello dei paesi dell'Est europeo si appresta a fare la stessa fine, mentre il colosso americano, le cui banche hanno contribuito all'ingigantirsi del debito altrui, affoga in un debito spropositato che si è impennato in 5 anni da 8,2 trilioni di dollari, a 12,4 trilioni nel 1989, tredici milioni di miliardi di lire (13). L'inadeguatezza del proposito del governo Bush (ripianare il deficit di 500 miliardi su diecimila in cinque anni) mette in risalto l'impotenza del capitalismo di fronte alle sue intrinseche magagne, provocando, fra l'altro, una reazione sociale violentissima tra le classi medie, blandite o tartassate a seconda delle circostanze.

Il settore finanziario, quello che dovrebbe essere preposto con le sue manovre a scongiurare la catastrofe, è il primo a essere colpito. Il disastro delle casse di risparmio americane (500 miliardi di dollari) si sta estendendo alle grandi banche d'affari americane che riescono a sopravvivere solo grazie all'intervento delle Holding di cui fanno parte: l'American Express che salva la Shearson Lehman Hutton, il Crédit Suisse che salva la First Boston, la General Electric che salva la Kidder Peabody, le Assicurazioni Prudential che salvano la Prudential Bache e via dicendo. Il mese scorso un funzionario del Congresso americano aveva avvertito che sono 35 le grandi banche in difficoltà e che per non scatenare la corsa agli sportelli forse non basteranno più le risorse del fondo assicurativo federale creato appositamente negli anni '30. Solo nelle grandi banche d'affari i licenziamenti sono stati 75.000 e il ricorso al credito fondiario è diminuito facendo crollare i prezzi nell'edilizia, indicatore importante dell'economia USA (14).

Il sistema industriale è in sfacelo e, oltre a essere vecchio e inefficiente, è minato dalla corsa alle fusioni, realizzate con il ricorso altamente speculativo alle obbligazioni emesse appositamente e ai prestiti delle banche. "L'anno scorso gli USA per la prima volta hanno investito nell'industria meno del Giappone, benchè l'economia di quest'ultimo sia due volte minore" (15). Non solo, ma mentre il Giappone investiva in termini relativi il doppio degli USA nell'industria, la razionalizzazione che ne conseguiva, e il costo irrisorio del suo apparato militare, gli consentivano anche di ridurre drasticamente il consumo energetico: oggi il Giappone importa meno petrolio che nel 1975, nonostante che la sua economia sia raddoppiata in volume (16).

Ciò significa che, anche se non è scongiurata la sua dipendenza dall'estero, la sua forza produttiva sociale è ingigantita in confronto a quella americana, quindi, nei rapporti con quel mercato, la potenza di penetrazione è totalmente distruttiva.

In USA, di fronte a consumi che nessuno riesce a moderare se non l'indigenza di buona parte della popolazione, l'assalto delle merci estere si fa sempre più sfacciato e il piagnisteo dei protezionisti altrettanto, sfiorando a volte il ridicolo. E' il caso recente dell'organizzazione di categoria dei produttori di display LCD che ha denunciato per "dumping" i produttori giapponesi concorrenti. Ora, i giapponesi detengono il 96% del mercato americano ed è difficile che rinuncino a una quota così alta dei loro profitti. Non si tratta di vendite sottocosto per conquistare il mercato, bensì di vendite normali in un mercato già conquistato contro il basso rendimento dell'industria americana (17).

Fine dell'autosuggestione reaganiana.

Un indice della perdita di influenza sul mercato mondiale è dato dal confronto dei saldi commerciali nel campo dell'alta tecnologia, che vedeva gli Stati Uniti in testa nel 1980 con 22,9 miliardi di dollari e in coda nel 1987 con 5,8 miliardi, mentre Germania e Giappone passavano rispettivamente da 8,7 miliardi a 13,5 e da 13,6 a ben 46,5 (18). Oppure nel campo dell'automobile, dove Giappone ed Europa mantengono quasi invariate le loro quote di mercato mondiale, mentre gli Stati Uniti passano nello stesso periodo dal 26 al 19,2% (19).

Gli Stati Uniti, come si suol dire, "vivono al di sopra dei propri mezzi", ma se lo possono permettere anche con un apparato produttivo che non è in grado di competere con i più agguerriti concorrenti, semplicemente perchè, diventando potenza globale, sono diventati il più grande mercato di merci e di capitali per i loro concorrenti.

Hanno vinto due guerre mondiali e hanno riempito il mondo di dollari obbligandolo a farne moneta di riferimento e di riserva. Con la circolazione internazionale, il dollaro gode dell'invidiabile privilegio di essere ceduto in cambio di manufatti, lavoro, materie prime, basi militari, MA di non essere obbligato a ritornare in patria per saldare il conto in pareggio come fanno tutte le altre monete. Il dollaro non può più essere convertibile per via dell'entità della sua massa circolante all'estero, ma è merce scambiabile, quindi subisce comunque le oscillazioni di mercato come se fosse convertibile. Deve tenere una parità compatibile con le esigenze della fonte dalla quale proviene, cioè deve rendere le sue merci concorrenziali, ma deve anche sottostare alla legge del mercato che lo vuole potente. Tutti lo vogliono potente, ma solo finchè è potente la base economica su cui si fonda la fiducia in esso.

Nel 1970, al tempo della prima svalutazione, il dollaro si cambiava a circa 3,6 marchi, troppo potente per la competitività delle merci americane. Con la dichiarazione di inconvertibilità in oro e la seconda svalutazione, il dollaro si avviava a diventare troppo poco potente, nonostante la riacquistata competitività delle merci. Con la guerra del Kippur e le seguenti vicende petrolifere, la moneta americana si stabilizzò per alcuni anni intorno ai 2,5 marchi, poi precipitò, alla vigilia dell'era reaganiana, a 1,7 marchi. Nell'estate del 1981 la politica della Banca Federale portò il "prime rate" al 20,5% compensando l'effetto recessivo con una serie di stimoli interni artificiali e con il ricorso massiccio al debito estero. In cinque anni il dollaro risalì a un cambio di 3,2 marchi per poi riprecipitare, con l'esaurimento della droga reaganiana, al di sotto dei due marchi (20). Oggi il dollaro è in discesa su tutte le principali monete e la fiducia in esso è legata alle sorti dello scontro in atto. Ma come può risalire la fiducia? Inducendola con la forza? Potrebbe essere. Ma per quanto?

Il decennio reaganiano è stato il coronamento dell'assuefazione al potere dell' imperialismo "rentier", la certificazione notarile dell'inerzia di una società iperconsumista, non più in grado di produrre perchè altri producevano per lei meglio e a minor costo, altri che sono stati volentieri al gioco fino ad arricchirsi e legarsi a essa al punto di finanziarla per garantirne la solvibilità. Un circolo vizioso che porta in USA 150 miliardi di dollari all'anno in prestiti dall'estero.

Per il 1990 il tasso di crescita americano è stato dell' 1,5% nella prima metà dell'anno e le previsioni per la seconda metà vanno dal 2,2% governativo all' 1% della maggior parte degli esperti che parlano di "una lenta e irresistibile degradazione del tessuto economico e sociale". L'amministrazione Bush conta di scrivere in bilancio un deficit giustificato di 330 miliardi di dollari. "Solo le repubbliche bananiere manipolano fino a questo punto i conti della nazione" perchè non ci sono fonti credibili per aggiornare il deficit. Solo che queste repubbliche ogni tanto ricevono la visita dei marines. "In futuro tedeschi e giapponesi invieranno agli USA l'equivalente dei marines per raccogliere i crediti dovuti" (21).

All'inizio del decennio gli Stati Uniti avevano ancora una piccola eccedenza commerciale, 1,5 miliardi di dollari; nel 1989, grazie alla "deregulation" reaganiana, essa si era trasformata in un deficit di 110 miliardi. Per gli stessi motivi, gli USA sono passati da maggior paese creditore (141 miliardi nel 1981) a maggior paese debitore (620 miliardi nel 1989) (22).

Questa è la storia della sempre crescente massa di buoni del tesoro americani acquistati da Europa e Giappone, la storia del contraddittorio finanziamento dell'agonia industriale americana da parte del capitalismo nippotedesco.

Questa è anche la storia dei sempre crescenti tassi d'interesse americani e quindi dell'aggravamento delle condizioni di investimento interno, quindi di effetto moltiplicatore della dipendenza dal finanziamento estero. Unico elemento mitigatore: una domanda sostenuta di buoni del tesoro a fronte di un'offerta che, perciò, non era mai esuberante.

Un vincolo e un canale di interdipendenza fra i maggiori imperialismi, un patto infernale che fa dell'uno il tributario dell'altro e viceversa, tagliando fuori il capitalismo autarchico dell'URSS e dei suoi satelliti.

Illusorio recupero dei Tagliati Fuori.

Per cercare di non soccombere nella corsa, i paesi dell'Est europeo hanno dovuto ricorrere massicciamente ai capitali occidentali offrendo l'unica garanzia possibile per loro: la cosiddetta "credibilità creditizia", cioè un decente rapporto tra indebitamento e capacità di esportazione. Esportavano ed esportano soprattutto materie prime e semilavorati che, a causa del basso saggio di sviluppo raggiunto ultimamente dai maggiori paesi industriali, sono diminuiti di prezzo. Per mantenere in attivo la bilancia commerciale, cioè la loro "credibilità" di fronte alle banche, hanno dovuto tagliare drasticamente l'importazione di cibo, beni e manufatti dall'estero, facendo precipitare il livello di vita delle popolazioni.

Come dimostrato nella lettera n.22, Il disastro economico e il susseguente crollo dei regimi staliniani ha origine nella crisi del capitalismo americano e occidentale. Questo fatto provoca l'inversione della tendenza precedente: ora la Germania deve adoperare la sua esuberanza di capitali per lo sviluppo unitario. Il compito è reso gigantesco dalle proporzioni dell'area caduta sotto il dominio potenziale del marco e della Bundesbank. La Germania diventerà un colosso economico cercando di mantenere il controllo sull'area storica della sua espansione e farà saltare i vecchi equilibri in tutto il Mondo (23).

Con la situazione invertita i capitali giapponesi lasciano il dollaro e si buttano sul marco perchè la Germania ora deve fare esattamente come facevano gli Stati Uniti, drenare liquidità in ambito internazionale. Non tanto per mantenere un superconsumo quanto per finanziare la propria inevitabile ascesa a potenza non solo economica.

Se il mercato dell'Est Europa fosse meno sgangherato potrebbe rappresentare un perfetto elemento di sfogo per l'esuberanza tedesca, ma le possibilità di assorbimento di merci e capitali sono scarse. Il sogno di un rapido sviluppo si è tramutato ben presto in un famelico bisogno di liquidità per tenere in piedi lo sfacelo (24).

La prima conseguenza è che invece di trovare sfogo immediato all'Est, il capitalismo tedesco, come quello giapponese in Estremo Oriente, continua ad avere come obiettivo la sottrazione di quote di mercato agli Stati Uniti, con la differenza che ora c'è anche fame di liquidità. "Gli investimenti diretti occidentali nel COMECON sono stati di 2 miliardi di dollari nel 1989, mentre si valuta che la sola Germania Est necessita di investimenti per 500 miliardi di dollari perchè la sua economia raggiunga il livello occidentale. Questo significa che l'Europa Orientale dovrà finanziare da sola più del 90% del suo passaggio all'economia di mercato. Questo significa altresì che il tasso di risparmio (attualmente il 10% del reddito) dovrà essere per lo meno raddoppiato, con un abbassamento dei consumi forse insostenibile" (25).

I flussi finanziari cambiano indirizzo.

Le cifre in ballo sono comunque così elevate che la loro distrazione dagli impieghi attuali provoca giganteschi sconquassi. "Nel primo semestre del 1990 gli investimenti diretti di aziende estere in USA sono crollati. Superavano i 34 miliardi di dollari nei primi mesi dell' 89, si sono ristretti a 10,5... L'Europa si è chiusa in se stessa per digerire l'unificazione tedesca... Nel 1984 gli interessi sui CCT americani erano del 12,5% e quelli tedeschi dell' 8%, il differenziale stimolava l'investimento in dollari, adesso nei due paesi si aggira sul 9%... Gli stessi americani rafforzano questo trend: nei primi sei mesi del 1990 i risparmiatori...hanno comprato l'equivalente di 18 miliardi di dollari in azioni estere, raddoppiando il volume dello stesso periodo dell'anno scorso... Dall'inizio di aprile il dollaro ha perso il 19% rispetto allo yen e l'11% nei confronti del marco... Quella irachena è la prima crisi internazionale del dopoguerra in cui il dollaro non è aumentato... il calo del dollaro ha accelerato la fuga da Wall Street contribuendo a quel crollo invisibile che negli ultimi tre mesi ha sottratto più punti al Down Jones di quanto non avesse fatto il lunedì nero dell'ottobre 1987" (26).

I tassi sul marco dovrebbero salire e invece non salgono conseguentemente al bisogno di liquidità della Germania. Perchè? La risposta potrebbe essere che l'offerta di titoli trova subito una buona domanda. Ma la causa principale è che, di fronte alle incongruità della situazione, la finanza tira i remi in barca.

I giapponesi, che acquistavano circa il 50% dei buoni poliennali del tesoro americano, all'asta dello scorso agosto ne hanno acquistato meno del 10% riversando il resto dei loro yen sul marco.

Commenta il Wall Street Journal nell'articolo che riporta il dato: "Gli americani non risparmiano abbastanza per finanziare sia il deficit federale che l'industria. Gli analisti stimano che il fabbisogno insoddisfatto sia di 100 miliardi di dollari. Se gli stranieri non colmano la differenza, i tassi di interesse a lungo termine dovranno salire sufficientemente... Il rialzo dei tassi proprio ora può essere una brutta notizia per la vacillante economia americana, già alle prese con il caro-petrolio e una crescita rallentata... Sarà molto più dura tenere in piedi l'economia. Ciò potrà anche gonfiare a dismisura il già immenso deficit... Gli investitori giapponesi non vedono per quale motivo devono tenere titoli del debito americano proprio mentre l'esercito americano fronteggia l'Iraq nel deserto, l'economia americana rallenta sempre più e diminuisce la differenza fra i tassi americani e quelli giapponesi... Questi investitori sono stati attratti dai titoli tedeschi (perchè) l'inflazione tedesca è più bassa ed è prevedibile che il cambio rimanga forte" (27).

Alla recente asta di novembre gli investitori esteri hanno acquistato "sostanzialmente meno di quanto non usassero acquistare", specie gli investitori istituzionali giapponesi che, anzi, sono diventati "rapidi venditori". Il buco sarebbe stato più vasto se, per converso, altri investitori istituzionali non avessero acquistato invece di vendere: "i maggiori compratori sono state istituzioni ufficiali... che hanno ragioni politiche per sostenere il mercato americano" come per esempio Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti (28).

Se crolla il sistema del dollaro.

D'altra parte il fenomeno è generalizzato per via della sete di liquidità, dovuta, oltre alla crisi, al taglio netto che la stessa ha effettuato sui valori fasulli creati precedentemente in tutte le borse del mondo. "Quando il tempo si fa tempestoso gli orsi si rintanano... gli investimenti all'estero di America, Giappone, Germania e Inghilterra, sono caduti a circa 97 miliardi di dollari quest'anno, contro i 223 miliardi dell'89... gli investimenti dall'estero negli stessi paesi sono caduti a 46 miliardi da 192 del 1989. Il collasso degli investimenti dei due maggiori esportatori netti di capitali, Germania e Giappone, non è di per sè sorprendente: i loro eccessi di risparmio si stanno riducendo, mentre la brusca salita dei rendimenti interni dei titoli ha reso gli investimenti in patria più attraenti... ma ci si aspetterebbe che gli investimenti in Germania e Giappone da altri paesi salissero... invece in entrambi i paesi sono crollati... Tradizionalmente, in tempi di crisi, gli investitori preferiscono essere più liquidi possibile, per questo ritirano i loro fondi all'estero... così le parità dei paesi creditori saliranno, mentre quelle dei paesi debitori cadranno" (29). Solo gli Stati Uniti sono in controtendenza avendo "incrementato i loro investimenti all'estero, ma questi sono interamente coperti dall'incremento di acquisti di buoni del tesoro, molti dei quali emessi in dollari" (30). Teniamo anche presente che, almeno per il Giappone, la crisi viene dopo un anno di forti investimenti in Europa, dove le aziende nipponiche sono salite da 411 a 529 (31).

Ecco tra l'altro perchè il dollaro scende e il marco sale, ma ancora troppo poco rispetto alle forze che si fronteggiano e alle esigenze esplosive del capitale antiamericano: c'è un autosostegno degli investimenti istituzionali americani e una attesa di chiarezza da parte degli altri paesi. Ma il controllo sulle forze scatenate da questa crisi, controllo che ora è ancora abbastanza saldo, potrebbe non durare.

In effetti i margini di manovra monetaria si restringono sempre più e, mentre il marco e lo yen hanno solide basi produttive alle spalle, il dollaro è l'espressione di un'economia asfittica, è inconvertibile, la sua richiesta dipende dalla fiducia nel sistema americano, cosa che lo può rendere da un momento all'altro perfettamente assimilabile alla carta straccia se dovesse venir meno la sua utilità internazionale.

Gli Stati Uniti non possono lasciar maturare un simile pericolo: devono assolutamente evitare che anche solo si profili all'orizzonte. Ma quali espedienti possono escogitare per frenare l'esuberanza dei loro avversari economici? Manovre monetarie? No, perchè le cifre in ballo sono al di sopra di qualunque possibilità di intervento efficace o addirittura realistico. Politiche di ristrutturazione per una ripresa produttiva? No, perchè la situazione è già il risultato di un fallimento clamoroso di ristrutturazione industriale del sistema. Accordi con gli avversari? No, perchè il Mondo si trascina GIÀ in un labirinto di accordi che non riescono a essere applicati.

Gli Stati Uniti possono seguire una sola via: rendere i loro concorrenti, appunto, meno concorrenti. La cosiddetta questione petrolifera ha questa semplice radice.

In che senso c'è una "questione petrolifera"?

A questo punto dobbiamo affermare che si tratta di una "questione petrolifera" solo perchè il petrolio si presta bene a questo tipo di manovre. Se la geologia del mondo avesse offerto petrolio anche a Europa e Giappone, la politica americana avrebbe utilizzato altri temi come veicolo della propria necessità di egemonia. In altri termini: non è la corsa al petrolio che provoca la tensione attuale, perchè i compratori lo possono avere da chiunque e l'Iraq non ha certo invaso il Kuwait per bloccarne le esportazioni. Il petrolio è abbondante sul mercato e l'invasione non l'avrebbe fatto mancare, neppure se fosse per ipotesi giunta in Arabia. A 40 dollari non è neppure ai prezzi del 1973.

D'altra parte se si prescinde dal petrolio, la storia recente insegna che lo zelo attuale per le frontiere violate è un po' fuori luogo: tra gli odierni difensori del diritto la Cina s'è preso il Tibet, Israele occupa territori non suoi, gli USA hanno attaccato Santo Domingo, Grenada e Panama, l'URSS l'Afghanistan, l'Iran le isole Tamb, la Turchia occupa in parte Cipro, il Marocco si è annesso il Sahara occidentale, per non parlare del Libano massacrato tra l'occupazione congiunta di Israele e Siria.

Quindi, esclusa la farsesca corsa alla difesa dei "diritti", se si può parlare di corsa americana al controllo delle riserve mediorientali, la si deve intendere non nel senso di corsa al petrolio come combustibile in sè, ma nel senso di corsa all'unico tipo di capitale costante di cui i concorrenti hanno vitale bisogno per il loro sviluppo, l'unico tipo che è comodamente concentrato in poche regioni del globo.

Si sa: il capitale costante è l'elemento essenziale nella legge della caduta tendenziale del saggio di profitto. E se faccio cadere il saggio di profitto altrui, io ho vinto la guerra economica. Solo che di petrolio, oggi, ce n'è in abbondanza e la crisi non ne stimola certo il consumo. La tendenza naturale sarebbe al ribasso, non al rialzo (32). Se, come dice Yamani, ex ministro del petrolio saudita, il prezzo oggi è composto di 20 dollari di mercato e 20 di paura, la paura può passare se non si tappano in qualche modo i maledetti pozzi. Quale politica fare per ottenere questo risultato?

La prova generale era stata fatta nei primi anni '70: dalla doppia svalutazione del dollaro, alla proclamazione di inconvertibilità, alla guerra del Kippur e alla successiva esplosione dei prezzi petroliferi. In un primo tempo la svalutazione del dollaro ridimensionava il costo del greggio, aumentato con le riunioni di Teheran e Tripoli (+27%), ma gli Stati Uniti afferrarono al volo la possibilità di fare i propri interessi rovinando le uova nel paniere altrui con la conferenza di Ginevra, dove i produttori chiesero un meccanismo di compensazione per la svalutazione del dollaro e dove gli Americani accettarono di buon grado un aumento che, tra prezzo netto, costo alle compagnie e prelievo fiscale dei produttori, si avvicinava al 10%. Erano tempi in cui le variazioni erano ancora relativamente piccole perchè influivano moltissimo sull'economia dei paesi importatori. Sta di fatto che con gli accordi di Ginevra e i successivi aggiustamenti (+12%) l'aumento raggiunse il 22% che, sommato al 20% di svalutazione del dollaro (competitività aumentata per le merci americane), danneggiò notevolmente i paesi europei e il Giappone, mentre diventava conveniente il petrolio dell'Alaska, che avrebbe dovuto rendere gli Stati Uniti completamente autosufficienti.

Rendita e capitali di ritorno.

Ma l'accordo più importante (New York, ottobre 1972) è quello che previde lo sganciamento delle Compagnie dalla gestione diretta degli impianti e dei pozzi petroliferi. Con grande stupore di tutti i giornali, esse si fecero pagare le attrezzature, lasciarono la rendita completamente ai produttori e mantennero una partecipazione di tipo azionario: l'operazione ebbe il doppio effetto di fornire denaro fresco per investimenti in nuove prospezioni, divenute convenienti ai nuovi prezzi, e mobilitare le risorse finanziarie proprie dei produttori per finanziare la crescita degli Stati Uniti tramite il flusso inverso dei capitali ottenuti con lo sfruttamento dei campi.

La guerra dell'ottobre 1973 portò ben altra acqua al mulino americano: il prezzo di riferimento del barile passò da 2,479 dollari a 11,651 (Genn. 1974), aumentò cioè di quasi cinque volte. A quei prezzi gli Stati Uniti erano virtualmente indipendenti dal punto di vista energetico perchè diventava conveniente lo sfruttamento di risorse altrimenti troppo costose (Alaska, carbone, scisti bituminosi, piattaforme marine), mentre per Europa e Giappone il colpo fu davvero difficile da digerire. L'Inghilterra diventò autosufficiente con il petrolio del Mare del Nord, enormemente più costoso e di peggior qualità rispetto all'Arabian Light (33).

L'effetto più importante fu che una quota enorme del plusvalore mondiale ora si riversava sui paesi produttori e la maggior parte di tale quota ritornava nelle banche angloamericane. Oggi, a 40 dollari al barile, il conto aumenta, per i paesi industrializzati, di 180 miliardi di dollari ma pagati in minima parte dagli Stati Uniti. Il trasferimento avrà un aumento conseguente. Li chiameranno petromarchi e petroyen invece che petrodollari? Particolare significativo: dopo l'Inghilterra anche la Svizzera, tempio della libera circolazione dei capitali, congela i beni iracheni e kuwaitiani; "non si tratta solamente per il 'mondo civilizzato' di assicurarsi approvvigionamenti di petrolio a 'prezzo ragionevole', gli serve anche recuperare il denaro dato per i suoi acquisti e metterlo in luoghi sicuri, nelle proprie banche" (34).

Li hanno chiamati "shock petroliferi". Nei primi gli Stati Uniti non hanno fatto altro che assecondare una tendenza a loro favorevole, ma in quest'ultimo tutto lascia intravvedere la precisa politica di utilizzare un meccanismo ben conosciuto per tentare di uscire da problemi altrimenti insuperabili.

Tanto per fare un esempio, l'aumento del prezzo del petrolio di 20 dollari al barile accresce di 60 miliardi di dollari all'anno il valore delle estrazioni negli Stati Uniti e diminuisce di una somma conseguente il valore delle esportazioni dei suoi concorrenti: 1 dollaro al barile di aumento corrisponde a 1,3 miliardi di dollari di riduzione dell'eccedenza commerciale giapponese (35).

Truppe da investimento.

Inoltre, esiste una relazione biunivoca tra prezzo del petrolio e cambio del dollaro. La caduta della moneta americana, iniziata a giugno, si riflette sul prezzo del petrolio in altre monete, le quali si trovano più forti nell'acquisto in dollari svalutati. Se gli importatori acquistassero solo in dollari, il flusso di ritorno (dai paesi petroliferi agli USA) annullerebbe l'effetto sulla variazione dei cambi. Gli Stati Uniti, come importatori netti, sono avvantaggiati da un alto corso del dollaro, anche per racimolare capitali in sostegno del gigantesco deficit. Un aumento del prezzo del petrolio aumenta la quota di valuta estera che confluisce in America contribuendo a sostenere il corso del dollaro. Ciò è quello che effettivamente succede: gli afflussi finanziari verso gli Stati Uniti sono maggiori dei deflussi verso i paesi petroliferi, mentre per l'Europa e il Giappone è l'esatto contrario. Una politica di alti prezzi petroliferi in dollari, rafforza la moneta americana. Ci vuole un anno almeno perchè l'effetto si faccia sentire, ma l'aspettativa di questo effetto ha già rallentato la caduta del dollaro, guarda caso da agosto (36).

Altro aspetto dell'importanza degli effetti sui cambi è il comportamento del debito dei Paesi in via di sviluppo, fortemente influenzato dalle importazioni di petrolio. La ripartizione monetaria dei prestiti della Banca Mondiale è stata, al 30 giugno, del 31,6% in dollari, del 38,1% in monete dell'area del marco, del 25,7% in yen e del 4,6% in altre monete. Un aumento del prezzo del petrolio, cioè un aumento dell'esborso in dollari, aumenta il legame di questi paesi con Europa e Giappone perchè fa cadere il livello delle riserve in moneta americana (37).

Mandando le loro truppe d'occupazione gli Stati Uniti fanno anche un investimento a lungo termine, perchè la zona rappresenta, entro i prossimi 15 o 20 anni, l'85% delle risorse petrolifere della Terra. Infatti l'operazione non è tanto importante per quel 3% della produzione mondiale rappresentata dal Kuwait, ma, dato il rapido esaurimento dei pozzi occidentali, per il controllo della produzione futura. Tra il 1974 e il 1990 l'83% del nuovo accrescimento delle riserve provate si è effettuato in Medio Oriente. Le riserve conosciute del Mare del Nord finiranno entro 13 anni, e allora l'Inghilterra, oggi così accondiscendente, dovrà dipendere da zio Sam se vorrà circolare in automobile e far girare le sue fabbriche (38).

Non è escluso che la caduta della Tatcher sia da mettere in relazione con il tentativo di recuperare un'autonomia rispetto agli Stati Uniti proprio alla luce dei giochi in corso. Forse l'Inghilterra si accorge in ritardo della storica fregatura alla quale portò l'incondizionato appoggio agli Stati Uniti durante la Seconda Guerra Mondiale. Ma avvicinarsi all'Europa oggi, con una Germania che si appresta a farne la politica attraverso la Bundesbank, significa soltanto passare da una subordinazione all'altra, da uno schieramento all'altro: la corsa è persa per sempre.

Churchill non era soltanto un feroce teorizzatore del massacro di civili, ma anche un politico ottuso la cui lungimiranza era come quella di un bulldog.

Noi abbiamo la convinzione che i problemi sollevati dalla crisi sono comunque insuperabili e auspichiamo che il rumore di guerra possa portare le masse oppresse della regione e del mondo e quindi anche il proletariato, a una nuova capacità di sovversione dell'ordine esistente.

Strategia petrolchimica.

Il petrolio non è solo un combustibile. E' anche la base per un'enorme quantità di prodotti chimici di importanza vitale per le economie moderne. In peso ne viene estratto sei volte più del ferro dalle viscere della Terra e una grande quantità serve alla produzione delle materie plastiche, a partire dai quattro principali intermedi, base per tutti gli altri derivati. Occorre farsene un' idea sommaria per giungere alla nostra conclusione.

Gli impianti petrolchimici più efficienti sono ovviamente i più moderni. Essi si trovano, o stanno per essere costruiti, fuori dai paesi a vecchio capitalismo. Sono estremamente concorrenti e, tra tutti, i più concorrenti sono quelli costruiti alla fonte della materia prima.

L'Iran e l'Iraq si sono distrutti a vicenda tali impianti, ma li stanno ricostruendo velocemente. Entro la metà del 1991 l'Iraq doveva terminare la costruzione di un nuovo impianto per la produzione di etilene (il più importante intermedio insieme con il propilene) della capacità di 420.000 tonnellate all'anno. Il Kuwait aveva in progetto un impianto gigante da 750.000 tonnellate di etilene e derivati per il 1995. Simili progetti sono in corso anche in Qatar e Abu Dhabi.

L'Arabia Saudita, oltre agli impianti esistenti (2 milioni di tonnellate di etilene) ha in progetto due impianti nuovi da 500.000 e 700.000 tonnellate, più l'ampliamento di un altro per 300.000 e un altro ancora di capacità non precisata. Attualmente l'ente petrolchimico saudita esporta 10 milioni di tonnellate all'anno di materiale base per la plastica. Tanto per fare un esempio, la produzione totale di plastiche e resine in Germania nel 1986 è stata di 7,943 milioni di tonnellate. Si capisce che i concorrenti sono preoccupati perchè "lo sbocco primario di queste produzioni non può che essere costituito dai mercati esteri, in particolare Europa e USA" (39).

In Estremo Oriente, dopo il Giappone, anche i paesi più piccoli stanno sviluppando la petrolchimica per esportazione. Qui la differenza è che la materia prima deve essere acquistata.

A parte l'incremento della produzione attestato su circa il 7% annuo, Taiwan ha incrementato le esportazioni di materia prima nel 1988 del 63,4%, mentre le esportazioni di manufatti, che erano a più 26,5% nel 1986 e più 11,1% nel 1987, sono calate, ma solo perchè molte aziende hanno trasferito direttamente le loro attività nella Cina Popolare per via del basso costo del lavoro. Comunque, la piccola repubblica produce ben 2,5 milioni di tonnellate annue e ne esporta 300.000 in forma diretta (40).

La Corea del Sud con un tasso di sviluppo annuo del 12%, nel campo delle materie plastiche è uno dei paesi con più alto incremento produttivo. Tra il 1975 e il 1979 passa da 424.000 tonnellate a un milione e, nel 1988, a 2,39 milioni. Entro il 1992 i nuovi impianti petrolchimici porteranno la produzione del solo etilene da 505.000 tonnellate a 2,1 milioni.

La Corea, come Taiwan, è ormai quasi autosufficiente per le macchine da trasformazione. Nel 1988 quasi l'85% delle macchine nuove installate era di produzione nazionale (41). Indonesia, Singapore, Malaysia, sono sulla stessa strada.

Soltanto per quanto riguarda il polipropilene (prodotto finale dal propilene) entro il 1995 entreranno in funzione nel mondo impianti nuovi per una capacità globale di 6,6 milioni di tonnellate e "lo sviluppo della produzione nei paesi del Medio ed Estremo Oriente più l'America Latina, potrebbe far diminuire le esportazioni dei produttori europei e nordamericani fino al 57% del livello attuale" (42). Non è una cifra da poco in un settore strategico dell'economia come quello delle materie plastiche. Non c'è da stupirsi che la tentazione di controllare alla fonte almeno in parte queste realtà foriere di sconquassi economici sia irresistibile per chi ha i mezzi per farlo.

Un marxismo approssimativo non è marxismo.

A questi temi non sembra si presti molta attenzione tra le varie correnti che si richiamano in qualche modo al marxismo.

Tra le pubblicazioni della variegata sinistra che abbiamo potuto leggere nel frattempo, non ne abbiamo trovata una che affronti il problema particolare collegandolo alle necessità dell'accumulazione, cioè all'essenza dell'imperialismo, non come volontà di potenza bensì come stadio necessario alla salvaguardia dell'esistenza stessa del capitale. Come dice Lenin, insomma. Alcune peccano di approssimazione, ma molte hanno dimostrato di essere al di sotto degli stessi borghesi (che pure sono handicappati da una cecità di classe) nell'afferrare il nocciolo delle questioni.

Dopo il primo slancio in difesa dei sacri diritti calpestati, ormai nessun giornale borghese è disposto a concedere credito al governo americano rispetto alla santa crociata. Quasi tutti i maggiori periodici, compresi quelli americani, ammettono ormai che non è in ballo il solo petrolio, nè tantomeno la libertà del Kuwait, e nemmeno il problema di polizia internazionale per tenere a bada le borghesie emergenti nel periodo intermedio susseguente alla fine della guerra fredda. Diffusissime e seriose riviste come "Time", altre volte accese sostenitrici della politica governativa, prendono le distanze dalle confuse motivazioni ufficiali della preparazione bellica. I borghesi sanno dove va a parare l'operazione "Scudo del Deserto" e, anche se non possono ammettere le loro difficoltà storiche, una parte di loro denuncia le vistose contraddizioni della situazione temendo seriamente di scatenare forze incontrollabili.

E' anche questo il significato di alcuni interventi del segretario dell'ONU quando disse, per esempio, che su quella strada si andava verso la guerra mondiale. Solo che non è certo una guerra mondiale l'eventuale blitz contro l'invasore iracheno. Sarà sicuramente guerra mondiale se il previsto mezzo milione di soldati schierati nel deserto dovesse scattare per imporre militarmente, politicamente ed economicamente il ricatto dell'America nei confronti dei suoi massimi concorrenti. Non è più l'epoca del Vietnam, quando gli "alleati" ingollavano di buon grado porcherie come la provocazione del Golfo del Tonchino o l'approntamento dei cosiddetti villaggi strategici versione asiatico-yankee dei lager nazisti. Persino la Chiesa, per millenaria esperienza se non per padronanza del metodo scientifico, prende in contropiede i rivoluzionari nostrani ammettendo senza mezze misure che i movimenti militari nel Golfo servono a mantenere l'egemonia americana contro Europa e Giappone (43). E "La Stampa" un mese dopo: "Nella vicenda del Golfo non è in gioco soltanto l'indipendenza del Kuwait. E' in gioco soprattutto la sorte dell'Europa, la sua capacità di esistere come forza politica e militare unitaria in difesa dei propri interessi" (44) . I giornalisti non parlavano così in agosto, sull'onda dei diritti calpestati, ma i loro governi hanno fatto in fretta a dimostrare nei fatti che del Kuwait non importava niente a nessuno. La vera invasione, più grande e gravida di svolgimenti futuri è quella dell'Arabia Saudita.

Questo fatto i fogli di varia sinistra non l'hanno registrato. Non hanno intravvisto che nel deserto arabico lo scontro è fra America e i suoi concorrenti e non tra America e Iraq. Non sono riusciti a evitare la solita indifferenza verso i contendenti e verso l'esito dell'eventuale guerra; oppure il solito appello accorato quanto patetico alla "rivoluzione proletaria" che, sola, può scongiurare il pericolo di guerra; oppure la profonda analisi che porta alla salomonica conclusione: l'imperialismo è aggressore sia quando è grosso sia quando è piccolo; oppure, infine, l'osservazione che i capitalisti sono pronti ad accantonare le loro divergenze per coalizzarsi contro il nemico capitalista del momento "come dimostra l'enorme numero di paesi che si sono accodati agli USA". Non ci siamo. L'unica, vera coalizione capitalistica funzionante dal 1871 è quella controrivoluzionaria. Le coalizioni belliche non hanno mai fatto accantonare a nessuno gli interessi divergenti e la concorrenza.

Non pensiamo sia necessario in questa sede confutare le varie tesi. Chi vuole si procuri i giornali e confronti da sè con quello che andiamo dicendo su questa crisi almeno dalla comparsa del nostro lavoro sulla sua natura cronica e senile. Ma una osservazione è d'obbligo: il marxismo non è stiracchiabile a proprio uso e consumo. Come tutti i metodi scientifici, esso è uno strumento formidabile per la conoscenza del mondo fisico e dei suoi fenomeni. Discostarsi dal metodo significa rinunciare per ciò stesso a capire che cosa succede nel mondo. Questa è la spiegazione della strabiliante varietà di interpretazioni degli avvenimenti del Golfo, della totale incomprensione di una mobilitazione apparentemente assurda, accompagnata da un tran tran diplomatico apparentemente ridicolo.

Indifferentismo pasticcione.

Eppure non è strano che gente che si proclama marxista rivoluzionaria si proclami anche indifferente verso chi possa rimanere vincitore o sconfitto in uno scontro come quello in atto. E' nell'ordine di una concezione corrente ridurre i preparativi di guerra a uno scontro fra imperialismi maggiori e minori (USA-Iraq, ma per favore!) per il controllo dei pozzi petroliferi attenendosi alla realtà immediatamente visibile e non, invece, cercando di risalire al lungo scontro che oppone i maggiori imperialismi e che li porterà a un'altra guerra mondiale se non esploderà la rivoluzione a bloccarli. E' riduttivo limitarsi a considerazioni generiche sul lascito del passato colonialista, sorvolando sul fatto che la realtà consolidata ha nel frattempo contrapposto stati contro stati senza che nessuna vera rivoluzione nazionale portasse al potere una borghesia in grado di rappresentare la spinta anti-imperialista necessaria per scatenare veramente la "rabbia degli oppressi". E nella zona, in un'area vastissima, di oppressi ce ne sono, eccome. Sono decine di milioni di proletari, sottoproletari, espropriati di ogni genere e trapiantati senza patria e senza riserve che vivono accrescendo una miscela esplosiva di tensioni. Ma come possono esplodere queste tensioni se è finito per sempre il compito rivoluzionario della borghesia e non si intravvede la ripresa rivoluzionaria del proletariato? Non è evidente che siamo ancora ben lontani da un autonomo risveglio delle masse alla rivoluzione e che è indispensabile una serie di sconvolgimenti in grado di far esplodere catastroficamente le contraddizioni dell'assetto attuale del mondo? E non è più importante questo esplodere a cui peraltro stiamo assistendo che un milione di litanie sul "ritardo" della classe operaia? Ci si dimentica che "le rivoluzioni non si fanno, si dirigono", nel senso che esse non scoppiano e non si svolgono secondo la volontà di chi le desidererebbe, ma che occorre una direzione in grado di condurle in porto una volta che i fatti materiali le rendono possibili. E' nella normalità della visione immediatista degli avvenimenti dimenticare che le rivoluzioni prima devono essere possibili, poi devono evitare di fallire appropriandosi di un programma adatto allo scopo. Ed è normale che la maggior parte di questi "analisti", senza un'ombra di modestia, si autoproponga, con zelo del tutto fuori luogo, come guida organizzata e centralizzata di quel proletariato che dovrebbe opporsi alla guerra ma che in questo momento non solo subisce un "ritardo", ma proprio non è politicamente partecipe, neppure in modo superficiale, nei grandi cambiamenti in corso. La rivoluzione ideale si nutre di ricette alle quali la si vorrebbe far aderire, questa la critica di Marx all'immaturità utopistica, mentre la rivoluzione reale è lo sbocco catastrofico di un accumulo di cause materiali e sociali alle quali il partito rivoluzionario dà l'indirizzo "scientifico", cioè quello esente da interpretazioni soggettive degli individui.

Fosse all'ordine del giorno questa rivoluzione, capiremmo, al di fuori del partito, ondate di entusiasmo in grado di travolgere certi "distinguo" che pur sarebbero necessari per non fare fesserie in campo tattico, come Lenin insegna. Ma è proprio perchè la rivoluzione subisce un "ritardo" storico che l'indifferenza in campo politico-militare è assurda e inspiegabile se non con uno straordinario lassismo teorico.

Il peggior prodotto dell'imperialismo è l'anti-imperialismo di maniera.

Sapete perchè riteniamo "ottima" la situazione attuale, come dicemmo all'epoca del crollo di Berlino? Perchè esplodono le contraddizioni tra i maggiori imperialismi senza che questi siano pronti, sul terreno, a farsi la guerra generale. Solo così la Sinistra ha sempre pensato che fosse possibile per il proletariato risalire l'abisso in cui l'ha gettato l'opportunismo (il "ritardo", se volete) sopprimendone gli slanci rivoluzionari. Lo sfascio del mondo borghese e l'impossibilità di risolvere la crisi dell'accumulazione con la guerra generale è lo scenario più favorevole alla ripresa della lotta di classe. E' per questo che auspichiamo, attraverso l'eliminazione delle monarchie del Golfo, ma anche attraverso l'invasione americana dell'immenso territorio saudita e dei luoghi santi dell'Islam, l'esplosione delle tensioni locali che non può certo avvenire per un'improvvisa illuminazione della classe operaia occidentale.

Noi ci appelliamo volentieri ai militanti di qualunque organizzazione che, in buona fede, sacrificano tempo ed energie in questa situazione di inevitabile disorientamento; li invitiamo ad affrontare i problemi secondo il metodo marxista che sta alla base di tutta l'azione della Sinistra, ma è certo che non concediamo nessuna attenuante alle tesi di quei capetti che riducono il grave problema della valutazione degli scontri interimperialistici a "fare il tifo" per l'uno o per l'altro contendente, pretendendo persino che chi non è indifferente vada a menare le mani per quello per cui "tiene", come fecero "gli ex militanti della Lega dei Comunisti" che combatterono per il Nord nella Guerra Civile Americana! (45) .

A parte simili amenità, la rilassatezza teorica si vede anche nell'incomprensione, nonostante Lenin e due guerre mondiali, del fenomeno dell'imperialismo.

Solo questo lassismo può spiegare la definizione, per esempio, di Kuwait come "paese imperialista" con Iraq e Arabia Saudita alla stessa stregua dei paesi imperialisti veri e propri. Secondo la concezione classica nessuno dei tre paesi si può definire tale. Nei più generali schieramenti ogni paese può svolgere funzioni sub-imperialiste, come Israele o come l'Iran di Reza Pahlevi, ma la caratteristica dell'imperialismo è quella di avere una base territoriale, economica, militare in grado di dominare l'economia, il territorio, la popolazione, addirittura la "cultura" di altri paesi. Già la Germania è un paese che soffre di una contraddizione enorme tra la sua necessità di espansione e la difficoltà storica di effettuarla in modo classicamente imperialista: figuriamoci il Kuwait.

Il Kuwait ha un Prodotto Interno Lordo di 20 miliardi di dollari e investimenti all'estero per 120 miliardi, 30 nei soli Stati Uniti. Gli Emirati traggono dalla rendita petrolifera 2 ,5 miliardi di dollari e hanno investimenti all'estero per 30-35 miliardi (46). Il KIO, ufficio kuwaitiano di investimenti con base a Londra, può operare benissimo anche se non esiste più per il momento la sua base territoriale. E' una finanziaria internazionale come tante altre, non un sistema finanziario con tutto l'armamentario politico e militare di un imperialismo, altrimenti il sultano del Brunei, che risulta l'individuo col più alto rapporto reddito/risorse, è più imperialista degli Stati Uniti (47).

Si finisce in quest'assurdo perchè si insegue la cronaca invece di guardare i rapporti materiali di forza che alimentano questa cronaca. Le guerre, dice Lenin, "sono l' indispensabile quadro in cui può attuarsi l'accumulazione iniziale o successiva del capitale moderno". Indispensabile, capito?

Il KIO funziona benissimo senza guerra, l'imperialismo americano, europeo o giapponese alla lunga no. Questo fa una differenza totale. E ancora una volta dobbiamo constatare come in fondo la maggior parte di coloro che si dichiarano marxisti non siano in realtà che degli idealisti travestiti, per i quali la rivoluzione è risultato di volontà e coscienza, e non di determinanti complesse che si svolgono nella storia con la partecipazione ultima anche di volontà e coscienza. Ecco allora che, come risultato, la cosiddetta analisi non parte dalla ricerca delle radici materiali del grande intrico degli interessi mondiali, ma da ciò che i protagonisti dicono di sè stessi e dei loro avversari. Una ben meschina figura per dei futuri direttori di rivoluzioni.

Note

(1) Cfr. Le Monde Diplomatique, ottobre 1990, "Fauteurs de guerre?".

(2) Cfr. Mondo Economico, 25.08.1990, "Petrolio, la crisi fa bene all'URSS".

(3) Cfr. Prometeo n. 13, agosto 1949, "Aggressione all'Europa". Il generale Patton. forte di una superiorità schiacciante, nel 1945 portò l'attacco della VII armata americana ben oltre le disfatte linee tedesche fino in Cecoslovacchia, facendosi interprete più o meno consapevole, contro gli ordini, della tendenza storica del capitalismo statunitense.

(4) Quaderni Internazionalisti n. 1, La crisi storica del capitalismo senile, pag. 110.

(5) Id., pag. 112.

(6) Id., pag. 151.

(7) Mondo Economico, 25.08.1990, "Il mondo fa la guardia al petrolio".

(8) Cfr. Mondo Economico, 24.11.1990.

(9) Cfr. La Repubblica, 08.12.1990, "GATT, il grande poker dei bugiardi".

(10) Cfr. Mondo Economico, 01.12.1990.

(11) Cfr. Le Monde Diplomatique, ottobre1990, "Un gendarme ambigu".

(12) Ivi.

(13) Cfr. Mondo Economico, 08.09.1990, "Una politica monetaria sul filo del barile".

(14) Cfr: La Repubblica, 13.09.1990, "Negli USA la recessione è già entrata in casa".

(15) Le Monde Diplomatique, settembre 1990, "Fièvre pétrolière ou gangrène généralisée?".

(16) Ivi.

(17) Cfr. Eletronics News, ottobre 1990.

(18) Cfr. Mondo Economico, 22.09.1990.

(19) Id., 22.09.1990.

(20) Id., 08.09.1990. "L'altalena del dollaro".

(21) Le Monde Diplomatique, ottobre 1990, " Le rêve américain n'est plus ce qu'il était".

(22) Id., novembre 1990, "Le risque et la raison".

(23) L'esuberanza tedesca di capitali è notevole ma realtiva. In realtà la Germania è sempre stata stroncata dai suoi rivali prima che potesse esibire credenziali di vero paese imperialista nel senso di Lenin, e questo proprio perché il gigante industriale stenta storicamente a diventare un influente gigante politico-finanziario fuori della sua area linguistica. La stessa cosa vale per il Giappone.

(24) Cfr. Mondo Economico, 11.08.1990, "I cento giorni di Berlino tra promesse e realtà".

(25) Id., 25.08.1990, "Il miraggio del mercato all'Est".

(26) La Repubblica, 09.11.1990, "Il triste buy back dell'America".

(27) Wall Street Journal, 13.08.1990, "Japanese investors are likely to continue shunning the U.S. treasury bond market".

(28) Financial Times, 12.11.1990, "Wall Street pared for cut in rates".

(29) The Economist, 17.11.1990, "When money comes home".

(30) Ivi.

(31) Cfr. Mondo Economico, 15.09.1990, "Lo sbarco in Inghilterra".

(32) Id., 08.09.1990, "Il calo dei consumi".

(33) J. M. Chevalier, La nuova strategia del petrolio, Il Formichiere, 1975.

(34) Le Monde Diplomatique, settembre 1990, "L'effondrement d'un ordre arabe archaïque".

(35) Id., ottobre 1990, "Un gendarme ambigu".

(36) Cfr. Mondo Economico, 24.11.1990, "Sui tassi di cambio pesa l'effetto Golfo".

(37) Id., 29.09.1990, "Il rischio del cambio nella strategia del debito".

(38) Cfr. Le Monde Diplomatique, ottobre 1990, "Le pétrole et l'injuste partage".

(39) Macplas, ottobre 1990, "Petrolchimica in Medio Oriente".

(40) Id., luglio 1990, "Taiwan in sintesi".

(41) Id., settembre 1990, "Corea in sintesi".

(42) Id., ottobre 1990, "Il mercato del polipropilene".

(43) Cfr. Famiglia Cristiana n. 36, 1990, "Chi ci guadagna".

(44) La Stampa, 19.10.1990, "Quello strano silenzio dell'America".

(45) Cfr. Rivoluzione Internazionale, CCI, n. 66, pagg. 7-11. La tesi cmpleta è enunciata drasticamente così: "Sempre il tradimento dei migliori compagni (In questo caso sarebbe Bordiga, N.d.R.) è cominciato quando si è voluto cercare fuori dalla classe e dalle sue lotte un aiuto esterno in grado di controbilanciare le deficienze proletarie". Vecchia storia: si affibbia all'interlocutore una tesi inventata di sana pianta e poi si ricamano sciocchezze su di essa. Di questo tipo di deficienza c'è purtroppo inflazione.

(46) Cfr. Mondo Economico, 06.10.1990.

(47) Cfr. LE Monde Diplomatique, settembre 1990, "La finance Koweitienne peut se passer des revenus du pétrole".

Lettere ai compagni