26. La Guerra del Golfo e le sue conseguenze (2)
Kurdistan.
Può darsi che prima del ricevimento di questa lettera i compagni ricevano dai giornali anche una spiegazione razionale del bacio fra i leader curdi e Saddam Hussein. In mancanza di fatti possiamo presumere che ci si stia accorgendo che il disinteressato aiuto americano potrebbe essere peggio delle bombe chimiche di Bagdad.
Diciottomila soldati americani sono direttamente impegnati nella "difesa" dei profughi curdi. Altre migliaia di soldati inglesi, francesi, italiani e turchi accorrono per attrezzare campi di raccolta, ospedali, cucine.
Di fronte al pericolo di un altro scontro militare, gli Stati Uniti spediscono al governo di Bagdad un ultimatum per il ritiro delle truppe. Gli aiuti invadono il Nord dell'Iraq e già ci sono pressioni per spingersi nel Curdistan iraniano dove sono accampati ancora più profughi.
Il portavoce del pentagono si rivolge al giornalista con "slancio". La ricognizione aerea ha localizzato le zone idonee all'impianto dei campi negli altopiani dove c'è acqua e terra fertile. "Tutto funzionerà come un orologio, i campi saranno pronti tra dieci, quindici giorni. Ne sorgeranno almeno sei o sette, ciascuno con una capienza di centomila profughi" (14). Il funzionario è patriotticamente soddisfatto.
Centomila è il numero di abitanti di città come Udine, Novara o Piacenza. Questi americani sono ben organizzati. Prima trasportano da mezzo mondo quasi seicentomila uomini in poco tempo con tutto il loro armamento pesante, la logistica, i comfort, costruendo dal niente nel deserto un apparato militare da far impallidire i vari D-Days. Poi schiacciano ineffabilmente "il quarto esercito del mondo" in quattro giorni. Poi in dieci giorni, massimo due settimane costruiscono sei o sette città da centomila abitanti, sia pur costituite da tende e prefabbricati.
Bisognerà passare la voce a quelli della valle del Belice.
Le truppe del genio e i rangers "avranno bisogno di strade e ferrovie per il trasporto dei soccorsi" dice lo stesso portavoce, "quindi occuperanno centri logistici come Maswil". Quest'ultima è una cittadina cui si può accedere dalla Siria.
Al Sud un'altra zona franca sarà istituita per gli sciiti in una fascia di 15 miglia a ridosso della frontiera con il Kuwait, per ora con un campo capace di 50.000 profughi. A Nord-Est, oltre il confine con l'Iran, ci sono oltre un milione di profughi provenienti dalla zona di Kirkuk.
I guerriglieri curdi si installeranno nei campi come hanno fatto i guerriglieri palestinesi in Libano e in Giordania. Non appena la situazione diventerà routine, diventeranno routine anche la disperazione e l'assistenza, il terrorismo e l'antiterrorismo, i "santuari" e il bombardamento degli stessi, le conferenze internazionali e il loro fallimento, l'esasperazione della questione nazionale e l'impossibilità di risolverla.
L'operazione Haven è presentata come una operazione umanitaria. Però bisognerebbe spiegare perchè almeno due milioni di persone hanno imboccato la strada delle montagne ritrovandosi in punti obbligati senza vestiti pesanti, senza viveri di ogni sorta, sapendo di andare verso iraniani che sparavano in aria e turchi che sparavano addosso.
La spiegazione ufficiale è la repressione irachena e questo sarà senz'altro vero. Ma la repressione contro i Curdi c'è da anni e mai aveva provocato un esodo paragonabile. Molti saranno i disertori che fuggono di fronte a possibili corti marziali, ma i più sono stati fatti prigionieri dagli alleati e solo 2.500 sono fuggiti verso il nord entrando in Turchia prima che l'esodo incominciasse (15).
In realtà due fattori si sono combinati: la guerra con la successiva ribellione e repressione e l'indicazione precisa fatta circolare ad arte che in determinate zone si sarebbero formati dei campi difesi dalle forze alleate, con possibilità di avere cibo e riparo su montagne ancora innevate. Solo così si spiega l'uniformità dell'esodo, il relativo ordine di arrivo in punti prefissati, la tempestività dei piani di aiuto e l'incredibile pianificazione costruttiva dei campi da centomila abitanti l'uno.
Solo così si spiega la rabbia con cui la gente abbandonata ad arte per dar tempo alla macchina propagandistica di fare il suo lavoro, aggredisce i giornalisti occidentali: "ogni tanto i rifugiati scoprono un reporter in mezzo alla gente, allora gli si accalcano intorno e si trova qualcuno che esprime la collera di tutti in inglese: 'Perchè Bush ci ha fatto questo? Ci ha traditi. Perchè ci ha detto che potevamo sollevarci? Perchè non abbatte gli elicotteri?' Le domande sono sempre le stesse, ovunque le stesse" (16). Tutti i giornalisti presenti ai punti terminali dell'esodo hanno registrato gli stessi attacchi sulle promesse non mantenute, sul tradimento e così via.
Cinico sfruttamento della disperazione.
La storia degli elicotteri è la dimostrazione principe che la situazione è stata creata appositamente a tavolino. Non ha senso il contrordine a Schwarzkopf di fermarsi quando per mesi la grancassa propagandistica aveva puntato sulla testa di Saddam Hussein e sulla distruzione della capacità militare irachena. Non ha senso il teatro inscenato dal comandante in capo quando ha ricevuto l'ordine, dato che anche un deficiente avrebbe capito di che cosa si trattava (e "Orso" non è un deficiente, ha recitato bene la sua parte, militare e non). Non ha senso soprattutto l'ordine di abbattere gli aerei e di lasciar volare gli elicotteri, specie in zone montagnose dove gli aerei non servono a nulla in attacchi a terra contro gli insorti. Gli elicotteri erano il mezzo di persuasione indiretta di Bush per ottenere sostanziose colonne di profughi, e ancora una volta le obiettive convergenze iracheno-americane sono entrate automaticamente in funzione nonostante la guerra.
Il cinico sfruttamento della disperazione e della sofferenza di un'intera popolazione prosegue sulle pagine patinate dei rotocalchi e sugli schermi televisivi. L'obiettivo scruta nella folla e ne trae soprattutto immagini di donne e bambini. Bambini affamati, malati, morti e avvolti in scialli colorati sull'orlo di piccole fosse esibiti come credenziale per la diplomazia da mettere in moto affinché la creazione del problema curdo appaia conseguente e naturale.
Ma chi si prendeva la briga di pensare ai Curdi quando non servivano ed erano non meno di adesso schiacciati dalla triplice repressione turco-irachena-iraniana?
Nascerà una Questione Curda tingendosi di tabù politico-nazionali come quella Palestinese?
I Curdi sono venti-venticinque milioni, stanziati per il 30% in Iraq, il 23% in Iran, il 21% in Turchia e il resto in Siria e URSS.
La maggior parte vive in gruppi tribali, spesso nomadi, con pochi rapporti fra aree lontane. Anche se molti vivono in aree urbane come Mosul e Kirkuk in Iraq, Urmia in Iran ed Erevan in URSS, la struttura sociale si fonda ancora generalmente sulla tribù retta da capi naturali. Non esiste una letteratura scritta e la tradizione orale si tramanda in una serie di dialetti anche molto diversi fra loro.
I Curdi hanno una tradizione storica guerresca e un fiero spirito d'indipendenza che li ha portati a lottare contro chiunque tentasse di sottometterli. Durante i primi califfati (divennero musulmani già nel VII secolo) formarono una sorta di aristocrazia militare di cui fece parte anche il famoso Saladino. Capitolarono per ultimi di fronte ai Mongoli e infine vennero inglobati nell'Impero Ottomano non senza resistenze e comunque con una certa autonomia.
La nazione curda rimase perciò quasi indipendente fino all'inizio del secolo scorso quando, di fronte allo sfaldamento dell'Impero, i tentativi di indipendenza effettiva, condotti senza centralizzazione e tra le rivalità dei clan, furono seguiti da feroci repressioni e deportazioni in massa.
Durante la rivoluzione dei Giovani Turchi vi fu un risveglio nazionalistico e nacque anche una stampa curda, ma con la Prima Guerra Mondiale riprese la repressione, la deportazione in massa verso l'Anatolia e furono disperse le tribù ribelli.
Nel 1920 il trattato di Sèvres contemplava la creazione di uno stato curdo, ma già nel 1923 il Kurdistan ottomano veniva diviso fra Turchia, Siria e Iraq. La ribellione curda nei confini Turchi fu schiacciata definitivamente nel 1930, ma essa riprese subito ai confini tra l'Iran e l'Iraq, condotta dallo sceicco Barzani.
Subito dopo la Seconda Guerra Mondiale Barzani tentò con l'aiuto dell'URSS di creare uno stato indipendente in territorio iraniano, ma esso venne cancellato dall'intervento militare di Teheran nel 1947.
Usati per le rispettive politiche da Iran e Iraq, i Curdi subìrono alterne vicende, sconfitti soprattutto dall'arretratezza sociale che non ha mai permesso una vera coesione nazionale, ma sconfitti anche dall'indifferenza interessata con cui il loro problema veniva affrontato a livello internazionale.
Autonomia statale impossibile.
Il problema nazionale curdo, che probabilmente si porrà all'ordine del giorno nelle vicende di questo dopoguerra mediorientale, va affrontato come al solito con l'occhio alle questioni di principio.
Il marxismo criticò la pretesa socialdemocratica di offrire autonomia linguistica e "culturale" alle minoranze nazionali all'interno di uno stato unico, battendosi invece per l'autonomia totale. Essa non poteva e non può essere risultato di concessioni da parte della stessa borghesia, ma risultato rivoluzionario.
Nel caso di lotta di liberazione nazionale o formazione dello stato nazionale, si tratta di rivoluzione borghese a cui il proletariato aderisce con fini propri; nel caso di lotta per il potere del proletariato contro la borghesia, si tratta di rivoluzione proletaria che ha il compito di risolvere in prima persona anche dei compiti che sarebbero borghesi. In una nostra formuletta l'abbiamo chiamata "rivoluzione doppia" ed è nient'altro che l'estensione del concetto che troviamo già in Marx di "rivoluzione in permanenza" (1848).
"Sono formule borghesi e controrivoluzionarie quelle della liberazione e dell'uguaglianza di tutte le nazionalità, che è impossibile sotto il regime capitalista. Tuttavia sono forze che concorrono alla caduta di esso le resistenze delle nazionalità oppresse, e quelle che le piccole potenze 'semicoloniali o protette oppongono ai grandi colossi statali del capitalismo" (17).
L'effettiva autonomia statale del Kurdistan è impossibile. E' diventata un problema insolubile nell'ambito della società capitalistica giunta allo stadio dell'imperialismo.
Tuttavia la lotta del popolo curdo, come quella di altri popoli, può concorrere alla caduta del capitalismo stesso specialmente se si svolgesse in un contesto generalizzato di ribellione antimperialista, anche se la vittoria finale dipende dallo sviluppo della rivoluzione nelle metropoli e quindi dallo sviluppo del partito rivoluzionario.
Quando esisteva l'Internazionale, i delegati d'Oriente stabilirono che non bisognava aspettare che maturassero le condizioni per la rivoluzione borghese e quindi, della rivoluzione proletaria. Ci sarebbero voluti secoli. Essi proclamarono di volersi affiancare alla rivoluzione proletaria occidentale e al suo partito e "attuare anche nei loro paesi la dittatura delle masse non abbienti e il sistema dei Soviet" (18).
Oggi non esiste nessuna possibilità che una cosa del genere succeda. Se mai dovesse profilarsi all'orizzonte la formazione di un Kurdistan, essa passerebbe secondo il disegno delle potenze che avessero interesse a organizzarla, utilizzando per i propri scopi apposite partigianerie.
Palestina.
La guerra del Golfo, pur cambiando la prospettiva geostorica della regione, non ha apportato cambiamenti nella sostanza della Questione Palestinese in sè. Essa si pone in generale esattamente come la Questione Curda e del resto come molte altre questioni nazionali irrisolte e che rimangono irrisolvibili senza un cambiamento radicale della situazione mondiale. In particolare invece vi sono delle differenze.
Il fatto che l'OLP e le altre organizzazioni palestinesi abbiano appoggiato l'Iraq durante la guerra è irrilevante dal nostro punto di vista politico. Dal punto di vista pratico il risultato è che la politica partigianesca di capi intriganti ha consegnato migliaia di proletari palestinesi inermi alla vendetta feroce dei governi fiancheggiatori dell'America.
La peculiarità della Questione Palestinese risiede nel fatto che non ci troviamo qui in presenza di minoranza oppressa all'interno di uno stato unitario, ma di un popolo che è stato fatto sloggiare dalla sua terra per lasciar posto a un altro popolo che vi si è installato. La questione si complica con l'intervento dell'imperialismo che utilizza quest'ultimo stato come avanguardia armata in tutta l'area mediorientale.
Un'ulteriore complicazione è dovuta al fatto che la storia della vicenda nazionale sia palestinese che sionista ha provocato, tra scontri militari, interventi stranieri, appoggi interessati, teorizzazioni nazional-popolari, isterismi religiosi e anche letteratura politica, una specie di sacralizzazione che rende difficile un approccio razionale alla questione.
Insomma, l'argomento è diventato tabù e ormai lo si affronta da tutte le parti con una sorta di falso rispetto obbligato.
L'argomento però non è difficile da riportare ai suoi elementi di base, sfrondandolo dalle incrostazioni sedimentate in troppi anni: è soltanto complesso.
All'origine della questione si intrecciano tre elementi: la caduta e lo smembramento dell'impero ottomano, il mandato della Società delle Nazioni all'Inghilterra e il sionismo.
L'immigrazione ebraica assunse rilevanza demografica alla fine del secolo scorso con l'intensificarsi delle persecuzioni nell'Europa centro orientale, mentre il protettorato dell'Inghilterra sull'Egitto gettava le basi della successiva politica inglese sulla Palestina.
La presenza inglese in Egitto rappresentava un elemento essenziale nella determinazione dei futuri schieramenti di guerra. La Turchia sarebbe stata inevitabilmente contro l'Inghilterra e di conseguenza con la Germania.
Data la premessa l'Inghilterra, alla vigilia e durante il conflitto, doveva necessariamente legarsi sia ai movimenti nazionalisti arabi in funzione antiturca, sia agli ambienti sionisti internazionali in funzione antitedesca.
Dopo la guerra ne risultò assecondata l'immigrazione ebraica e, per converso, in una politica di classica doppiezza imperialistica, fu assecondato anche l'appoggio agli arabi per la sempre più invadente presenza ebraica nella regione.
Verso la fine degli anni '20 Ebrei e Palestinesi incominciarono ad organizzarsi sul piano militare e la situazione non fece che peggiorare, prima con l'ondata di immigrazione dalla Germania nazista, poi con l'avvicinarsi della Seconda Guerra Mondiale e lo sviluppo dell'attività petrolifera in Medio Oriente con relative preoccupazioni strategiche inglesi.
Durante la guerra gli Stati Uniti marciarono spediti nel sostituirsi all'Inghilterra come unica potenza mondiale e nel 1942 l'organizzazione sionistica mondiale rivendicò il diritto di costituire uno stato ebraico indipendente in Palestina.
La dichiarazione, ma soprattutto le azioni militari conseguenti, resero impossibile, dopo la guerra, ogni mediazione, e cadde nel vuoto la proposta dell'ONU di spartire la Palestina in due stati nazionali distinti con Gerusalemme come zona internazionalizzata.
Nel 1948 fu proclamata la costituzione di Israele, gli Arabi attaccarono e furono respinti, 600.000 palestinesi furono forzati con violenza a lasciare le loro terre.
La Questione Palestinese in senso stretto ha inizio da allora.
Da queste radici occorre affrontare l'analisi sulla natura dello stato di Israele e sulla lotta di liberazione per la Palestina.
Dato che l'esercito israeliano non rappresenta una forza d'invasione straniera in senso classico, ossia colonialista tanto per intenderci, una lotta di liberazione non può risultare vincitrice liberando il suolo nazionale, obbligando cioè l'invasore alla strada del ritorno, ma soltanto eliminando l'avversario.
Le paure del Pascià.
La complicazione per quanto riguarda la tattica rivoluzionaria nasce da questo fattore originale della Questione Palestinese: da una situazione materiale irrisolvibile al di fuori di un contesto rivoluzionario generalizzato, nasce un sillogismo formalmente ineccepibile ma dialetticamente sbagliato, la parola d'ordine della distruzione di Israele.
Formalmente ineccepibile: siccome gli Ebrei sono venuti sull'onda di una politica sionista sostenuta con le armi dell'imperialismo e hanno conquistato le nostre terre buttandoci fuori, nostro compito storico è di riprenderci le terre con le armi buttando fuori imperialisti e sionisti. Siccome la nostra debolezza e la forza dell'avversario sommate non ci permettono di condurre una guerra di liberazione nazionale, la nostra tattica deve necessariamente ripiegare verso forme di "resistenza" guerrigliera e anche verso forme di terrore portato nel campo avverso. Anche perchè, d'altra parte, lo stesso avversario si è avvalso abbondantemente del terrorismo, anzi, per un certo periodo è stata la sua arma principale.
Il discorso formalmente logico sulla lotta di liberazione si arricchisce di elementi "ragionevoli", come quello esemplificato da Abdul Rahman Azzam Pascià, il primo segretario generale della Lega Araba: "Il nostro fratello ebreo è andato in Europa e in altre contrade d'Occidente ed è tornato qualcosa d'altro... L'ebreo, nostro vecchio cugino, torna con idee imperialiste, o materialiste, o reazionarie, o rivoluzionarie e cerca di inculcarle qui con l'aiuto britannico, americano e, da parte sua, con il terrorismo. Non è più il vecchio cugino. Il sionista, il nuovo ebreo, vuole dominare e pretende di avere una missione civilizzatrice nei confronti di una razza arretrata. Questa è sempre stata la pretesa di ogni potenza che vuole colonizzare e dominare. Non siamo reazionari e non siamo arretrati, anche se siamo ignoranti. La differenza fra ignoranza e conoscenza è dieci anni di scuola. Siamo una nazione forte e vitale, in piena rinascita. Possediamo un retaggio di civiltà e di vita spirituale" (19).
E' tutto vero. Ebrei e Arabi sono figli dello stesso padre, Abramo, anche se di due madri diverse. La Nazione Araba costruiva giardini irrigati e biblioteche, città con servizi pubblici e architetture ardite quando l'Occidente non riusciva a mettere i cessi nei palazzi dei re, costruzioni che d'altronde stavano in piedi solo per la massa dei muri di sostegno. Ma nazione fa rima con rivoluzione, sia pure alla prussiana, dall'alto, e il capitalismo che rende possibile il proletariato non è questione di dieci anni di scuola, ma di sconvolgimento di vecchi ordini sociali. Il pascià non si accorge, ma nell'elenco degli attributi dei "nuovi ebrei" che ora, dice, sono polacchi, russi, tedeschi, inglesi, infila in mezzo al resto anche il materialismo e la rivoluzione, ed è forse questo che gli fa più paura di tutto. Del resto noi abbiamo scelto la citazione apposta: non solo il pascià, ma anche la smidollata borghesia palestinese ha un'ancestrale paura di una rivolta che si tinga dei colori di classe.
Le rivoluzioni non guardano in faccia nessuno, nè ebrei capitalisti nè tantomeno anacronistici pascià. E qui salta fuori l'inghippo che nessuna forza borghese potrà mai superare: il capitalismo penetra nelle aree ancora dominate dalle vecchie società con potenza storica ed è inutile opporgli la ragionevolezza della giustizia e della libertà.
Solo il maturare di una forza contraria e altrettanto efficace potrà scalzare il sionismo insieme con il suo tutore imperialista. Ma come potrà maturare una forza così grande?
Intanto la forza delle masse oppresse può essere ingigantita dalla dispersione e dall'indebolimento relativo dell'avversario imperialista. Per questo noi abbiamo sempre affermato che teorizzare una rivoluzione "pura" è un cattivo esercizio di pratica marxista. Occorre accorgersi che anche nei paesi "avanzati" esistono aree arretrate dove vivono persone al di fuori dei rapporti capitalistici moderni, che si tramandano "stimmate antiche", vere isole barbariche in una civiltà di produzione ipertrofica. "Tuttavia anche questi barbari potrebbero diventare, contro questa civiltà, uno dei proiettili della rivoluzione che la deve sommergere (...) Occorre accorgersi che oltremare, nei paesi gialli, neri e olivastri, vivono sterminate collettività di uomini che svegliati dal fragore del macchinismo capitalista, sembrano aprire il ciclo di una loro lotta di libertà, indipendenza e patriottismo come quella che ubriacava i nostri nonni, ma entrano invece come fattore notevole nel conflitto delle classi che la presente società reca nel suo seno, che più e più a lungo sarà soffocato, tanto più ardente divamperà nel futuro" (20).
Guardiamo all'Europa assediata dai suoi vicini bianchi "poveri" e dai suoi vicini neri "ultrapoveri", mentre il proletariato razzola ancora tra le citate leniniane briciole che cadono dalla tavola imperialista. Arrivano i "barbari" a sconvolgere il soporifero sviluppo europeo e non mancheranno di trasformarsi in proiettili.
La Questione Palestinese è strettamente legata al generale conflitto tra le classi che si sta facendo strada in campo mondiale ed è sbagliato, addirittura suicida pensare di risolverla in altri contesti, cercando scorciatoie che non esistono.
Nonostante la lotta del popolo palestinese prosegua sui binari assurdi fissati dalla propria dirigenza borghese inconseguente, l'esigenza oggettiva di un collegamento della lotta nazionale con la lotta di classe generale compare qua e là fra le righe delle tesi più diverse.
Argomenti marxisti in bocca altrui.
Gheddafi, che è meno fesso di quanto lo voglia far apparire la propaganda israeliana o americana ("la resistenza palestinese è stata spazzata via dagli Arabi in cooperazione con Israele"), ha una concezione "universale" della causa palestinese; per lui la guerriglia palestinese deve essere l'avanguardia della unificazione rivoluzionaria araba la quale deve sommergere in un grande dato di fatto l'insignificanza numerica sionista. L'obiettivo è di cancellare l'entità sionista dalla Palestina, nella quale Ebrei e Arabi vivranno "come fratelli" sulla stessa terra "come hanno fatto per secoli" (21), dopodichè dovrebbero anche sparire le particolarità nazionali. Nel suo famoso libretto verde afferma che "il particolarismo nazionale, nella stessa misura in cui è necessario alla nazione, è minaccevole per l'umanità". Distingue fra minoranza inquadrata in un'altra nazione e minoranza senza nazione, entrambi con diritti non usurpabili, ma soprattutto con "problemi politici ed economici (che) si possono risolvere solo nell'ambito della società delle masse" (22), vale a dire per via rivoluzionaria "dal basso".
Non è il caso, qui, di indagare quale sia precisamente la via rivoluzionaria proposta dal presidente libico, basti sottolineare che il problema serpeggia, spinto in superficie da rapporti materiali che dimostrano come la lotta di liberazione nazionale di per sè abbia fatto il suo tempo e non lasci spazio a tappe intermedie fra rivoluzione borghese e rivoluzione comunista. Qua e là il tema, quindi, viene raccolto, anche se in modo parziale.
In tutt'altro contesto, prima del "Settembre Nero" del 1970, il Fronte Democratico di Hawatmeh aveva già nel proprio programma una concezione molto vicina a quella marxista. Nato dalla critica alla politica borghese dell'ala maggioritaria della Resistenza e dalla critica della politica piccolo-borghese del Fronte Popolare da cui si scisse, il Fronte Democratico espresse subito l'esigenza di collegare la Questione Palestinese alla più generale rinascita araba per via rivoluzionaria.
Fu la prima organizzazione a darsi un programma esplicitamente marxista con aspetti internazionalisti, anche se ovviamente attingeva a ciò che il panorama offriva. Infatti prese contatti con i Trotzkisti europei, con il Partito Comunista Iracheno e con l'ala "marxista" del Movimento Nazionalista Arabo. Fu anche la prima organizzazione che si pose il problema sindacale senza fare distinzione fra arabi ed ebrei, come fu l'unica organizzazione a sollecitare incontri con i marxisti israeliani e a collegare la rivoluzione araba alla rivoluzione del proletariato occidentale, spingendosi fino a proclamarsi partito espressione delle masse lavoratrici e a organizzare legami con altre organizzazioni che lottavano non solo contro i regimi feudali, ma anche contro quelli di Egitto, Algeria, Iraq. Nel 1970 il Fronte aveva denunciato il Settembre Nero come risultato della politica ufficiale dell'OLP e dei regimi arabi tesa ad eliminare la resistenza palestinese, intoppo all'intesa tra questi e Israele.
Ciò dimostra che alla rivoluzione gli argomenti non mancano e che c'è una tendenza a fissarli in strumenti operativi con la nascita di gruppi che si fanno portavoce. Ma tali gruppi possono giungere solo fino a dove la maturità della situazione e la mancanza di un partito rivoluzionario internazionale gli permette di giungere. Infatti nel 1971 il Fronte Democratico, invece di andare per la sua strada, era già classicamente impegnato nel confronto con le altre organizzazioni dell'OLP contro gli "errori di destra" che avrebbero impedito l'unità fra i combattenti, nel 1972 era già sulla via dell'autocritica e dell'avvicinamento ai regimi di Siria e Iraq, nel 1973 si allineava con Al Fatah, nel 1974 abbandonava la critica al "revisionismo" dei partiti comunisti arabi e nell'ottobre lo stesso Hawatmeh guidava una delegazione del Fronte a Mosca.
Abbiamo citato due poli estremi, un capo di stato che inserisce ingenui riferimenti comunistici in una sua teoria per la rivoluzione universale e un agguerrito anche se minuscolo gruppo di militanti che, dopo aver intuito alcuni elementi della giusta soluzione, è costretto a compiere una parabola discendente verso la politica tradizionale borghese.
Li abbiamo citati non tanto per sottolineare elementi di correttezza nelle specifiche tesi con le quali evidentemente non abbiamo nulla da spartire, quanto per mettere in evidenza le ragioni materiali che mettono all'ordine del giorno l'esigenza della rivoluzione tout court. Le stesse ragioni materiali che in Occidente obbligano certi esponenti borghesi a occuparsi sotto mentite spoglie di "categorie" marxiste pur proclamando che sono false.
Il sionismo non è colonialismo.
Queste ragioni materiali, che poi altro non sono se non il grado di maturità ormai raggiunto per la rivoluzione, impongono ai marxisti la massima chiarezza nella discussione sulle lotte per la definizione di questioni nazionali irrisolte.
Intanto non possiamo accogliere per buona l'affermazione di Rahman Azzam Pascià secondo cui il sionismo sarebbe da assimilare al colonialismo.
Il colonialismo permette lo sfruttamento delle risorse di un paese per trasferirle alla madrepatria. Invade di merci a basso costo nuovi mercati, espropria i vecchi produttori ma nello stesso tempo impedisce la formazione di un mercato interno indipendente, quindi di una borghesia e di un proletariato numeroso.
Inoltre, per rimanere allo schema di Lenin ne "L'Imperialismo", il trasferimento di plusvalore e di ricchezza naturale, lo sfruttamento del lavoro altrui, ingenera nella classe operaia delle metropoli il fenomeno dell'"aristocrazia", per cui il mancato sviluppo delle condizioni rivoluzionarie nelle colonie si accompagna all'infiacchimento delle capacità di lotta nelle metropoli.
La lotta anticoloniale è rivoluzionaria ed estende la possibilità rivoluzionaria della stessa classe operaia dei paesi colonialisti. Il partito rivoluzionario appoggia la lotta di liberazione nazionale. I proletari vi partecipano anche se con intenti e fini propri.
Israele non è uno stato coloniale. Semmai, invece di esportare plusvalore ne attira per la sua attività di repressione militare e per la sua funzione di baluardo dell'imperialismo. Se vogliamo inventare una definizione, Israele è uno stato pirata. Come Drake, il baluardo d'Inghilterra, o Morgan, processato per la sua brutalità ma fatto governatore, entrambi cavalieri della corona per i loro favori, Israele conduce la sua guerra nel doppio intento di fare i propri interessi mentre fa quelli degli altri. Con la differenza che, invece di versare dividendi alla regina per la patente della guerra corsara come Drake, intasca la paga del mercenario e basta.
Nessuno potrebbe scrivere di gesta epiche sullo sfondo di una situazione incancrenita che nell'area ha prodotto dei degni protagonisti: a capo della borghesia d'Israele troviamo il becero terrorista Shamir, mentre a capo della borghesia avversa rompe le tasche da troppi anni l'ambiguo terrorista Arafat.
Israele è uno stato capitalista moderno industrializzato. I suoi limiti sono rappresentati dalla sua funzione per conto dell'imperialismo americano. Se salta la sua funzione debbono saltare anche i suoi limiti. Ha un proletariato proprio che non riesce a districarsi dalla funzione del suo stato e quindi non può lottarvi contro.
Il vero proletariato è rappresentato dai palestinesi, più o meno come in Sudafrica i neri. Lo sviluppo di una Palestina per i marxisti non passa attraverso il rigetto di ciò che oggi è Israele. Rigettiamo la sua funzione, ma rimanga lo stato industrializzato. Non ce ne importa niente se i singoli elementi della popolazione sono circoncisi all'ombra della moschea o all'ombra della sinagoga. Ma teniamo moltissimo a che i templi di tutti i tipi diventino il più presto possibile dei bei monumenti da ammirare come oggetti di storia e non di culto esasperato.
Il proletariato palestinese ha dato e può ancora dare la sua impronta alla lotta contro Israele. A patto che si rafforzi sempre più il legame, anche non soggettivo, con la rivoluzione. Dalla battaglia di Amman a Tall el Zaatar, all'Intifadah, i palestinesi hanno sempre condotto una lotta dai connotati urbani, ben diversa da quella guerrigliera terzomondista dei movimenti di liberazione (23). Nello stesso Kuwait i Palestinesi rappresentavano quasi la metà della popolazione della capitale prima che la sconfitta li costringesse all'esodo.
Sarebbe deleterio cancellare questo patrimonio con il farsi ricondurre alle tiritere delle conferenze internazionali come quella che potrebbe scaturire dalla situazione postbellica o, peggio, a un idilliaco quanto improbabile e reazionario "ritorno alla terra" (24).
La creazione di uno stato palestinese secondo i piani che possono nascere nelle cancellerie delle potenze o all'ONU non sarebbe altro che la sanzione giuridica di un dato di fatto. Con poche differenze già quelli che ci sono rappresentano il disegno di ciò che già succede sul terreno, cioè la divisione della popolazione dei cosiddetti Territori fra Gaza e la Cisgiordania, con esclusione per sempre dei Palestinesi che lì non sono già stanziati.
Una soluzione del genere sarebbe la più deleteria per i Palestinesi stessi, nonostante il citato Hawatmeh dichiarasse subito dopo la guerra del Kippur che occorreva imporre una entità autonoma palestinese "su non importa quale parte del territorio gli Israeliani evacueranno" per proseguire di lì la lotta e conquistare tutto il paese. Un'entità autonoma sarebbe come un Bantustan sudafricano dove attingere manodopera a basso costo senza permettere l'accesso stabile dei Palestinesi al paese industrializzato. E anche l'azione militare sarebbe comunque inficiata dal semplice meccanismo giuridico che permetterebbe la guerra aperta stato contro stato in caso di "aggressione" armata dei Palestinesi (25).
La guerra del Golfo non scioglie neppure in parte la Questione Palestinese, anzi, la aggrava con la sconfitta, con la brutale repressione e con l'aggiunta della parallela Questione Curda, se non se ne aggiunge anche una sciita.
Potrebbe però profilarsi una situazione favorevole a diminuire il peso di remore nazionalistiche, razziali e religiose che la Questione si trascina: vale a dire la diminuzione del peso di Israele come baluardo imperialista e quindi come stato capitalista industrializzato impedito nel suo sviluppo. Ciò non comporterebbe un avvicinamento di soluzioni impossibili, ma farebbe maturare i rapporti fra le componenti delle società dell'area verso l'esigenza rivoluzionaria.
Israele.
Se non ci fossero stati gli americani con dollari ed armi, Israele non ci sarebbe. Per quanto sia ozioso mettersi a ipotizzare la storia con i "se", non si può fare a meno di notare che Israele è uno stato artificiale che fonda la sua origine e il suo sviluppo su di un capitalismo di stato moderno e accentratore.
Da una parte la questione è accademica perchè bisognerebbe spiegare allora come farebbe l'imperialismo a dominare senza operazioni adatte al dominio, ma dall'altra è utile da porre per evidenziare come il dirottamento di grandi quantità di plusvalore su un'area così piccola non abbia potuto produrre una vera industrializzazione con relativo numeroso proletariato. Vale a dire, appunto, una situazione artificiale, un "trapianto di capitalismo su una tabula rasa economica e sociale" (26).
Senza contare gli armamenti, Israele ha ricevuto in aiuti dal 1948 alla guerra del 1967, più di 7 miliardi di dollari che sono stati utilizzati in massima parte per rafforzare la propria condizione di gendarme. Per un confronto prendiamo la cifra totale giunta in 16 paesi Europei con il Piano Marshall dal 1948 al 1954: 13 miliardi di dollari (27).
Vuol dire che per ogni europeo sono stati investiti 11,6 dollari all'anno lungo sei anni, mentre per ogni israeliano ne sono stati investiti 274,5 per 17 anni. E il flusso di dollari continua tutt'ora. Non c'è bisogno di essere marxisti per capire che con investimenti simili qualunque deserto, non solo quello israeliano si sarebbe messo a produrre.
La guerra del Golfo ha portato gli americani sul suolo del Medio Oriente ed è presumibile ci restino per molto tempo, si vedrà a quale titolo. La funzione di Gendarme di Israele ne sarà diminuita in modo drastico.
Il vero terrore della borghesia israeliana, più dei missili iracheni, è questo: che si inneschi un processo politico-militare in grado di utilizzare l'argomento del pericolo iracheno abbinato al pericolo di una situazione instabile dovuta al problema palestinese-curdo-sciita, pretesto per una presenza diretta di truppe, osservatori ONU, diplomazia varia.
Infatti un processo del genere, ridimensionando il ruolo israeliano, sarebbe in grado di ridimensionare drasticamente anche il flusso di dollari che rappresentano la paga del mercenario (28).
Nella degenerata situazione mediorientale, una componente importante è stata certamente quella dei vantaggi materiali che la borghesia israeliana ottiene con il perdurare dell'instabilità, del terrorismo e della tensione. Così è del tutto naturale che per garantirsi questi vantaggi materiali la società intera si atteggi a martire e castigatrice, contribuendo con fior di servizi segreti e reparti militari al mantenimento della situazione ottimale per chiedere soldi, armi e appoggi internazionali.
Ed è proprio la differenza abissale fra la qualità professionale degli addetti ai lavori e il marasma politico interno a sottolineare come non ci sia più bisogno di grandi capi carismatici, bensì di docili strumenti da manovrare.
La guerra del Golfo, portando così massicciamente i soldati americani su suolo arabo, ridimensiona lo spauracchio di Israele come bastione armato dell'imperialismo.
Un paese che non ha vera industria, che non ha un'economia in grado di fornire la logistica ad una guerra contro masse arabe circostanti, che quindi non è in grado di sopportare una guerra che duri più di una settimana, che oltretutto non ha neppure un esecutivo espresso da una classe al potere in grado di indirizzare gli eventi, tutto ciò senza una grande potenza alle spalle non è un bastione ma uno spaventapasseri.
Molto prima della guerra del Golfo esisteva un vero bastione filo-americano con estensione territoriale, risorse e popolazione sufficiente a far fronte ad eventuali sollevazioni non gradite. Si tratta dell'Iran di Pahlevi, ma si tratta anche di un bastione che, preparato per affrontare situazioni esterne e comunque minato dall'erompere della rivolta, non ha potuto resistere alla sollevazione interna che l'ha distrutto come tale.
Dire "bastione israeliano dell'imperialismo" ha significato come formula esemplificativa, ma è sempre stato chiaro che in caso di grave pericolo di invasione Israele avrebbe dovuto fare affidamento sull'intervento dei suoi tutori per salvarsi.
Anche in caso di aggressione verso i paesi Arabi Israele non avrebbe la forza sufficiente per sostenere una avanzata in profondità. Alla fine della guerra del Kippur, l'interruzione delle linee di comunicazione della Terza Armata egiziana è potuta avvenire solo in vista della fine imminente delle ostilità. Mai i paracadutisti di Sharon avrebbero potuto tenere le posizioni, per il semplice fatto che Israele non poteva sviluppare la logistica sufficiente. La stessa controffensiva è avvenuta in primo luogo grazie ad un massiccio ponte aereo americano, e poi per la certezza che le potenze avrebbero comunque reso possibile uno sbocco non catastrofico.
Per quanto l'esercito israeliano abbia i migliori soldati del mondo, le armi più sofisticate e i servizi informazioni siano i più efficienti, la stessa fisionomia del paese non permette uno stato di guerra serio con un centinaio di milioni di arabi che lo circondano.
Il bastione imperialista, l'avamposto americano, il mostro sionista, come succede spesso nelle battaglie degenerate dell'epoca capitalistica, non è altro che uno spauracchio creato dalle forze che lo trovano comodissimo per giustificare la loro inerzia storica.
Siamo prima di tutto comunisti.
Pure schierandoci con tutte le forze con le masse palestinesi in lotta per la loro autodeterminazione, non siamo assolutamente disposti a sostenere parole d'ordine come "distruzione di Israele" con il significato che gli viene dato dalle borghesie arabe. Distruzione di Israele per noi non significa nulla se non segue la precisazione che con questo si intende distruzione dello stato borghese di Israele, come diremmo di quello d'Italia, di Brasile o di Siria.
In mancanza di ciò valgono le considerazioni che i marxisti fanno quando le borghesie sono in guerra tra loro.
Che sia disfatta quella più potente e reazionaria in grado di esprimere meglio il suo controllo sul proletariato. Oppure vinca quella che meglio rappresenta le possibilità di sviluppo dell'industria e del proletariato industriale, quindi della rivoluzione. Oppure ancora che vinca quella che è in grado di eliminare i residui delle vecchie società, che sia in grado di far erompere senza compromessi le forze produttive del moderno capitalismo.
La guerra del Golfo l'hanno vinta gli Stati Uniti e questa è una dannazione per ogni rivoluzionario anche perchè non l'hanno vinta soltanto contro l'Iraq ma anche contro ogni altra forza che possa diminuire la potenza americana.
Provocatoriamente, prima dello scoppio della guerra, noi avevamo auspicato che vi venissero trascinate forze tali da sconvolgere i vecchi equilibri imperialistici, a tal punto da permettere una drastica semplificazione della carta geografica del Medio Oriente. Era un auspicio accademico per esemplificare una situazione vantaggiosa per il proletariato e l'esito stesso dello scontro ha chiarito quanto fosse distante una simile possibilità e, nello stesso tempo, quanto sia poi stata disastrosa la conclusione contraria, la libanizzazione probabile di nuove aree in cui non cambia nulla, anzi, la situazione peggiora con la creazione di nuovi fattori di confusione, violenza, diplomazia internazionale, fattori pilotabili in un girone infinito dove guadagna solo l'imperialismo che tira le fila.
Eppure non sarebbe stato uno sbocco del tutto impossibile se la situazione fosse durata a lungo in modo da lasciare tempo per l'introduzione di variabili non del tutto assenti dalla realtà.
Non era così assurda una nuova sistemazione delle frontiere fra Turchia, Iran, Siria, Israele o Giordania. Sarebbe bastato che lo schieramento "alleato" si frantumasse nel momento in cui raggiungeva il culmine dell'incertezza tra intervento e non intervento, quando Germania e Giappone avevano reso incandescente il fronte della diplomazia segreta e la Francia incominciava a incrinare la compattezza di facciata dei restanti.
Una guerra più complicata, meno "chirurgica", con massiccio coinvolgimento di truppe non era impossibile, lo stesso Pentagono aveva previsto un tetto di un milione di uomini se la guerra avesse preso un'altra piega.
E l'incertezza della situazione già palese quando le masse arabe premevano sui governi e questi erano costretti a fare concessioni se pur verbali, sarebbe diventata determinante in caso di isolamento americano.
Non era impossibile che la pressione delle masse arabe, il confronto diretto fra gli interessi contrastanti degli imperialisti e quindi il timore di accelerare la tendenza al conflitto generale, sfociassero in un grande calderone diplomatico in cui, sullo sfondo di conquiste parziali, veti incrociati, macerie e morti lasciati da una guerra non così decisiva com'è stata, avesse luogo una nuova spartizione tra gli avvoltoi.
In fondo si sarebbe trattato della liberazione di tendenze in atto da molto tempo.
Israele ha già di fatto inglobato i "Territori" e il Libano del Sud. La Siria occupa il resto del Libano con 30.000 soldati fissi. I Palestinesi potevano sollevarsi in Giordania a fianco della popolazione restante e questa volta probabilmente avrebbe potuto funzionare una nuova edizione della dottrina Sharon (29).
Siamo per l'autodeterminazione dei popoli, per la separazione se essi lo vogliono, e va bene. Ma prima di tutto come comunisti, se fossimo palestinesi, ebrei, armeni, curdi o irlandesi, saremmo rivoluzionari internazionalisti assolutamente contrari allo spezzettamento del Globo Terracqueo in mille particolarismi che per noi non hanno senso.
Un esempio classico.
Lenin pone la questione citando ad esempio la separazione del 1905 fra la Svezia dominante e la Norvegia dominata con una limpidità che demolisce ogni incertezza: l'operaio svedese poteva schierarsi contro la separazione voluta dai Norvegesi senza per questo cessare di essere un buon comunista e senza abbracciare per questo la causa dell'aristocrazia svedese, ma sarebbe stato "un mascalzone socialsciovinista indegno di militare nel partito" se avesse negato ai Norvegesi il diritto di risolvere questo problema da sè, senza gli Svedesi. L'operaio norvegese poteva schierarsi contro la separazione purchè fosse chiaro che non stringeva la mano all'operaio reazionario svedese che negava la libertà di autodeterminazione dei Norvegesi (30).
Israele non è uno stato colonialista (31). E' uno stato capitalista moderno e industrializzato la cui borghesia opprime una parte della popolazione che a suo tempo è stata espropriata della sua terra. L'usurpazione dei territori altrui non è una specifica caratteristica israeliana e la questione storica che ha posto non è risolvibile nè dalla diplomazia nè dalla guerra nazionale, nè tantomeno dalle guerre che l'imperialismo potrebbe provocare nella zona.
L'operaio occidentale può essere contrario alla polverizzazione non solo della Palestina, ma di tutto il Medio Oriente senza per questo cessare di essere un buon rivoluzionario, purchè non neghi agli interessati il diritto all'autodeterminazione, altrimenti sarebbe anche lui un "mascalzone socialsciovinista".
Quando non si sapeva ancora se ci sarebbe stata la guerra e come si sarebbe svolta, un'ipotesi poteva essere quella di profondi cambiamenti, non solo possibili, ma anche auspicabili. Se Israele, come la Siria, l'Egitto, l'Iraq ecc. fosse stato coinvolto nella possibilità di annettere territori e avesse allargato per assurdo i suoi confini fino a, poniamo, raggiungere l'estensione del regno di Davide e Salomone, come dice qualche sionista incosciente (32), ebbene, noi diciamo che sarebbe stato interessante vedere come se la cavavano i soldati-poliziotti ad inglobare una ventina di milioni di arabi. Lo stesso Israele sarebbe esploso, scomparso sotto la pressione di problemi infinitamente più gravi di quelli attuali che avrebbero innescato una guerra sociale in grado di cancellarlo. La Grande Israele, la Terra, Eretz Israel non sarebbe più stato Israele. Per sopravvivere sarebbe dovuto diventare qualcos'altro, perchè sarebbe stato costretto a sviluppare la sua economia dalla attuale situazione assistita a quella di un vero paese produttivo sfruttando, come tutti, il proletariato invece di renderlo improduttivo in enclave tenute sotto la minaccia delle armi. In questo caso, qualsiasi versione di Intifadah avrebbe perso immediatamente i connotati nazionalistici per assumere quelli della lotta di classe.
La cancellazione dell'entità sionista dalla Palestina non può che avvenire nell'ambito della costituzione di uno stato in cui il proletariato ebraico e palestinese si uniscano per abbattere le proprie borghesie e quindi farla finita rivoluzionariamente con ebraismo e arabismo. E comunque, per quanto ciò possa far storcere il naso ai nazionalisti, è meglio un numeroso proletariato palestinese sfruttato da una borghesia ebraica e quindi messo in grado di fare una rivoluzione vera, piuttosto di una massa palestinese assistita, repressa, falcidiata, schiavizzata all'estero e in patria, senza diritti di nessun tipo. Se una guerra o un rivolgimento qualsiasi mettesse Israele in grado di fare questa svolta, questo sarebbe un risultato importante. Anche perchè siamo certi che la borghesia araba non sarebbe certo più tenera. Uno degli argomenti propagandistici preferiti da Israele è proprio il fatto che di palestinesi ne hanno ammazzati mille volte di più i governi arabi di quanto lo stesso stato sionista sia riuscito a fare.
In ogni caso la parola d'ordine della distruzione di Israele intesa come eliminazione della presenza della popolazione ebraica a qualsiasi titolo sul suolo palestinese per i comunisti è non solo un errore, ma anche una sciocchezza che assumerebbe connotati razzistici.
L'operaio occidentale, come quello mediorientale, buoni comunisti, possono riconoscere in via di principio (ma non è un principio comunista) il diritto all'autodeterminazione, ma sanno benissimo che nessuna borghesia al mondo è più in grado di concederlo. Quindi evitano di prendere in giro il prossimo con parole d'ordine irrealizzabili e, come i militanti dell'Internazionale settant'anni fa, chiamano all'appello rivoluzionario proletari e oppressi di tutti i climi.
Prospettive.
Qual'è allora la prospettiva più favorevole per i marxisti riguardo la situazione mediorientale se l'onnipresenza dell'imperialismo rende impossibile una vera indipendenza non solo ai piccoli stati ma anche ai grandi e consolidati paesi amici o nemici?
"Quel che importa al marxista non è di misurare il grado d'indipendenza degli stati (...) del resto l'indipendenza economica e politica intesa in senso assoluto è un concetto astratto, non applicabile neppure ai massimi stati dell'imperialismo i quali, nonostante tutte le manifestazioni di potenza, non possono isolarsi dal mercato mondiale (...) perchè ci si dovrebbe fermare di fronte a certe palesi forme di soggezione politica ravvisabili in determinati stati asiatici di recente formazione? L'essenziale, quello che veramente importa al marxista, è vedere se, nonostante le innegabili interferenze imperialiste, gli ex paesi coloniali rompano i vecchi rapporti produttivi e mettano in moto il meccanismo di accumulazione capitalista (...) le influenze politiche dell'imperialismo forse che impediscono la demolizione dei vecchi rapporti feudali e l'instaurazione dei nuovi rapporti capitalistici? Se i fatti costringessero a rispondere di sì, che l'imperialismo bianco cacciato dalla porta è rientrato dalla finestra e paralizza o annulla il movimento di industrializzazione (...) allora bisognerebbe negare ogni contenuto rivoluzionario ai grandi mutamenti politici avvenuti nel continente asiatico. I fatti invece dimostrano che, nonostante l'imperialismo, le rivoluzioni antifeudali asiatiche sono un fatto storico reale" (33).
Alla base di ogni ragionamento sull'origine delle guerre, sul loro svolgimento e sugli sviluppi cui possono dare origine, deve esserci questa considerazione. Da una parte l'imperialismo apporta i suoi metodi di dominio e di produzione, dall'altra impedisce lo sviluppo di un vero mercato indipendente con il fossilizzare problemi che esso usa come strumento di controllo. Se la guerra riesce a sollevare dallo stato fossile i problemi e li scaglia nell'attualità di una storia in movimento, allora c'è anche la possibilità che abbiano una soluzione favorevole alla rivoluzione.
Tutto il Medio Oriente soffre di una fossilizzazione di problemi irrisolti e usati non solo dall'imperialismo ma anche dalle inerti borghesie locali. Lo stesso stato di Israele avrebbe tutti i vantaggi a non essere una pedina americana.
Siccome la guerra del Golfo non ha avuto esiti contrari alla politica classica degli Stati Uniti e non sarà quindi possibile l'innesco di un processo di semplificazione dei problemi, come una diversa distribuzione dell'utilizzo delle risorse petrolifere, una minore polverizzazione delle popolazioni, la soluzione anche "dall'alto" di contenziosi nazionali, non potrà portare effetti positivi diretti.
Rimangono alcune possibilità indirette.
Sordo accumulo di nuove tensioni.
La guerra ha costretto all'esodo almeno quattro milioni di persone, tra proletari e diseredati iracheni e stranieri. Una massa umana che in parte non potrà tornare e comunque non nel giro di breve tempo. Una parte considerevole sarà cambiata con altri proletari, specialmente in Kuwait, dove il governo ha già stabilito che almeno un milione di posti di lavoro saranno rinnovati e mai più ai palestinesi.
Si tratta di un movimento di forza lavoro di portata biblica, maggiore di quello che ha portato la diaspora palestinese. Le sue conseguenze non sono prevedibili, ma certamente l'impatto sociale di centinaia di migliaia di senza riserve che piombano fra le masse misere dei paesi d'origine con la carica di esperienza e di rabbia accumulate, non potrà che accrescere le tensioni sociali, mentre altri proletari andranno a occupare i posti vacanti facendo a loro volta l'esperienza del lavoro salariato e della vita urbana. Altri milioni che saranno sradicati da condizioni di arretratezza atavica e che saranno gettati nel girone infernale dell'accumulazione senza poter partecipare al luccichio che il mondo gli sciorina spudoratamente davanti agli occhi.
E' diminuito nel mondo il consumo relativo di petrolio, ma il persistere dell'embargo all'Iraq e della mancata produzione kuwaitiana avrà delle conseguenze non appena la produzione dei paesi che hanno coperto il deficit ritorneranno alla produzione normale.
Se dovesse esserci un nuovo consistente e non temporaneo aumento del prezzo, ben difficilmente le economie dipendenti di Europa e Giappone potranno far finta di nulla e permettere agli Stati Uniti di intascare il differenziale come paga del poliziotto.
I paesi arabi concorrenti tra loro che sono stati investiti dagli effetti della guerra, sia per la diretta presenza delle truppe straniere, sia per la loro partecipazione alla guerra, vedranno moltiplicati i motivi di conflitto con relativa tentazione di risolverli per via armata. E gli eserciti, si sa, sono insieme fonte di blocco sociale e di modernizzazione forzata.
L'Iraq ha perso la guerra ma ha conservato quasi intatta la sua forza militare. Se gli americani hanno permesso questo significa che a loro serve così. Distruggere completamente l'esercito iracheno significava non tanto andare contro le direttrici dell'ONU, per quel che valgono, ma lasciare la strada libera all'Iran come futura potenza locale, con tutta la sua rabbia antiimperialistica.
Serve non distruggere la potenza irachena per impedire l'ascesa della Siria e dell'Egitto, per giustificare la presenza di basi militari americane con truppe e armamenti, della flotta più grande mai radunata dalla Seconda Guerra Mondiale.
Se la prospettiva è questa, il ruolo di Israele dovrebbe essere ridimensionato. Già non abbiamo mai ceduto alle tentazioni di demonizzare il piccolo stato come avamposto imperialistico, ma vediamo ancora ridotta la sua funzione di spauracchio degli americani. Se dall'esasperazione di questa immagine la borghesia israeliana traeva indubbi vantaggi in rendite venali, il maturare di nuovi rapporti nell'area, la presenza diretta americana, toglieranno ulteriormente spazio allo spauracchio per darlo, con vantaggio di tutte le componenti sociali, alla funzione dello stato capitalista in quanto tale, auspicabilmente in grado di dedicarsi all'agricoltura moderna e all'industria invece che alla repressione interna ed esterna. Volente o nolente lo stato ebraico dovrà fare i conti con questa realtà, perchè si tratta di una realtà che marcia inesorabilmente, nonostante esso faccia di tutto per esorcizzarla e rallentarne l'affermazione politica e sociale: come in Sudafrica, la finzione razziale e nazionale dovrà fare i conti con quella di classe, salteranno fuori i de Klerk e i Mandela, un po' traditori delle rispettive partigianerie, ma pragmatici sanzionatori dello stato di cose classista finchè non nasceranno altri movimenti, per noi più importanti di quelli nazionali, in grado di collegarsi con le masse occidentali e fare finalmente del deserto un giardino in grado di permettere una vita decente per tutti e non solo a mandare all'estero propagandistici pompelmi.
Delle tre prospettive che si delineano per i palestinesi al di fuori del contesto rivoluzionario la peggiore di tutte sarebbe quella che prevede la spartizione del territorio tra arabi ed ebrei. Non per niente è la soluzione più accarezzata dalle varie conferenze internazionali e anche da una gran parte delle borghesie arabe. I palestinesi sarebbero divisi in tre tronconi tra Gaza, la Cisgiordania e probabilmente una zona a Nord di Haifa come prevedeva la risoluzione 181 dell'ONU del 1947. Separati in territori non comunicanti i palestinesi non sarebbero in condizioni migliori di adesso e comunque la situazione sarebbe tale per cui il conflitto con Israele sarebbe ad un livello più teso a tutto vantaggio di quest'ultimo.
La soluzione più "reazionaria", quella di dare la Giordania ai palestinesi, accarezzata dall'ex ministro israeliano della difesa Sharon dopo l'evidenza del significato della battaglia di Amman del 1970, paradossalmente sarebbe la più favorevole ad uno sviluppo moderno del popolo palestinese finalmente insediato su di un territorio unitario, ma è semplicemente impossibile da realizzare, a meno di una guerra o comunque di fatti che sconvolgano completamente gli equilibri attuali. Lo spostamento dell'asse di interesse immediato americano verso l'Iraq, le zone petrolifere e gli equilibri con arabi ed europei, può portare come risultato alla terza soluzione, la sconfitta degli elementi ciechi e oltranzisti della società israeliana, la diminuzione della pressione nazionale, lo sviluppo dell'economia interna in termini di industrializzazione e non solo di edilizia e servizi gonfiati dal capitale americano, la liberazione della forza lavoro costretta al coprifuoco nei ghetti e la conseguente crescita della pressione di classe interna.
L'Europa e il Giappone, come concorrenti degli Stati Uniti, sconfitti da questa guerra perchè costretti controvoglia ad essere aggiogati al carro americano, avranno come contropartita naturale l'appoggio a tutte le questioni che mettono in contraddizione l'avversario. Già oggi agiscono in modo sotterraneo su tutti i fronti, dalla concorrenza commerciale al rifiuto di finanziare il deficit americano, dalla corsa agli investimenti all'Est, al sistematico disimpegno di fronte agli accordi internazionali. In Medio Oriente più che altrove cercheranno di scavare il terreno sotto ai piedi al terribile zio Sam in modo da renderlo sempre meno terribile e dargli il colpo di grazia. Ma questo vuol già dire automaticamente guerra.
12 maggio 1991
Note
(14) La Repubblica, 18.04.1991 pag. 11. Cfr. anche Time n. 17, 1991, pag. 15.
(15) Cfr. R.I.D., maggio 1991, "Guerra del Golfo, vincitori e vinti".
(16) Time cit., pag. 14.
(17) I fattori di razza e nazione nella teoria marxista, ed. Quaderni Internazionalisti, pag. 121.
(18) Id., pag 143.
(19) M. Vignolo, Gheddafi, Islam, petrolio e utopia, Rizzoli, pag. 87.
(20) I fattori di razza e nazione... cit., pag. 174: "Pressione 'razziale' del contadiname, pressione classista dei popoli colorati".
(21) M. Vignolo, op. cit., pag. 88.
(22) Moammar Gheddafi, Il Libro Verde, Tripoli 1984, pagg. 123 e 155.
(23) Cfr. Il Programma Comunista, nn. 17, 18, 19 del 1977: "Dove va la resistenza palestinese?".
(24) "I Comitati Popolari intervengono attivamente nel campo dell'economia, in particolare nel settore agricolo, incoraggiando il ritorno alla coltivazione della terra, il boicottaggio dei prodotti israeliani e del lavoro salariato in Israele". Da un documento di Al Ard, La Terra, che propone la creazione di una microeconomia cooperativistica nei territori occupati.
(25) Cfr. Il Programma Comunista, nn. 4 e 5 del 1977: "Per l'unità degli sfruttati in Medio Oriente".
(26) Id., n. 7 del 1953: "Capitalismi nati statali".
(27) Id., n. 11 del 1977: "La crisi non risparmia Israele".
(28) "Quando un paese non giunge a produrre neppure il 60% del suo PNL, deve essere considerato come un'entità economica senza radici". ATLASECO, Atlante economico mondiale, ed. 1990.
(29) Sharon, attuale ministro israeliano dell'edilizia ed ex ministro della Difesa, teorizzatore dell'aiuto israeliano ai Palestinesi durante il Settembre Nero invece che all'élite beduina che salvò re Hussein di Giordania.
(30) Lenin, Opere complete, vol. XXIII pag. 50: "Intorno a una caricatura del marxismo".
(31) "Israele rappresenta l'infiltrazione imperialista di nuovo tipo in Asia e in Africa". Questa è la definizione ricorrente, tratta da un testo palestinese, che fa assimilare Israele ad uno stato colonialista. Da La lotta del popolo palestinese, Feltrinelli, pag. 145.
(32) "La frontiera settentrionale dovrà essere il versante della catena di monti prospiciente la Cappadocia; la frontiera meridionale il canale di Suez. Il nostro motto sarà: la Palestina di Davide e Salomone". T. Herzl, citato in La lotta del popolo palestinese, cit., pag. 226.
(33) Il Programma Comunista, n. 14 del 1954, "Atti di nascita del capitalismo asiatico".
Fine