27. Il Diciotto Brumaio del Partito che non c'è (2)
La manovra di Pulcinella
L'Italia è il paese che meno prende sul serio le cose che esso stesso inventa. Gli ammortizzatori sociali più estesi che esistano sono introdotti solo per criticarli subito dopo, come la Scala Mobile, argomento per il piagnisteo industriale da vent'anni. Come la Cassa Integrazione, diventata lo scaricabarile ufficiale dell'industrialismo finanziario sopravvivente con i soldi pubblici. Come il vecchio Patto del Lavoro, firmato fra le "parti" e subito oggetto di manifestazioni contrarie. Come il nuovo Patto del Lavoro, firmato da Trentin e subito rinnegato con tanto di dimissioni e appoggio agli scioperi "autoproclamati".
Anche questa volta l'Italietta non si smentisce. Ma facciamo un passo indietro.
Gli Stati Uniti hanno per più di dieci anni impedito alla loro grave crisi di esplodere all'interno dei loro confini semplicemente esportandola tramite l'ineffabile comodità di avere l'unica moneta che sia nello stesso tempo riferimento universale e riserva per le banche centrali altrui.
La crisi generale, ingabbiata momentaneamente dai potenti apparati statali che la tenevano lontana, per quanto possibile, dai loro centri, si era riversata sui paesi più deboli. Di alcuni paesi piombati letteralmente nel caos e nella fame, come quasi tutta l'Africa, non si è curato quasi nessuno. Del crollo dell'Est europeo invece si è discusso molto: ed è ovvio, sono i "nostri" confini. Scrivemmo a suo tempo che quella crisi era incominciata nelle banche e nelle fabbriche occidentali.
L'unificazione della Germania aveva messo indubbiamente in crisi il governo tedesco prima ancora che fosse sancita. I problemi ad essa connessi si sommavano ai problemi derivanti dalla necessità di penetrare tempestivamente negli altri mercati disastrati dell'Est. La Germania aveva investito nell'ultimo anno, da sola, più di quanto avessero investito tutti gli altri paesi messi insieme.
Che cosa c'entra tutto questo con l'Italia?
La Germania, di fronte alla crisi di opulenza che giungeva dall'America e dal Giappone cui si sommava quella che giungeva per motivi opposti dai suoi stessi confini, fu messa nell'alternativa di decidere se fare come gli Stati Uniti approfittando della forza relativa del Marco, o di fare come gli altri paesi, cioè varare dei provvedimenti interni di austerità. All'origine della polemica fra il cancelliere Khol e l'allora capo della Bundesbank Poehl vi era questa doppia possibilità. Il cancelliere sosteneva la linea "americana", mentre il banchiere sosteneva la linea "interna".
L'opzione interna significava investire a lungo termine raccogliendo i capitali necessari tramite il blocco dei salari e della spesa all'Ovest, bloccare il livello di vita dei cittadini dell'Est congelando a un cambio basso la parità tra le due monete, integrare gradualmente le due economie. Questa via fu scartata dalle forze sociali che ebbero il sopravvento sull'onda del nuovo ruolo tedesco in Europa.
Vinse il governo con la linea "americana" inaspettatamente aiutato dalla posizione assunta dai sindacati, responsabili verso l'economia, ma forti di iscritti e di capitali investiti, quindi sostenitori di una linea nazionale che non fosse in contraddizione con gli interessi degli affiliati.
I sindacati tedeschi rifiutarono il blocco salariale e il governo concesse di buon grado gli aumenti, fingendo di capitolare di fronte alla minaccia dell'IG Metall di proclamare lo sciopero generale dell'industria. La classe operaia lottò generosamente, anche se, ancora una volta, per obiettivi collegati alle esigenze del capitale.
Poehl era già stato sconfitto e il Marco cambiato uno a uno tra Est e Ovest. La Treuhand aveva già catalogato il patrimonio orientale per la grande asta immobiliare. Il Capitale aveva già decretato che all'Est non si costruiva ma si demoliva, non si lavorava ma si sopravviveva keynesianamente. Con i capitali che sarebbero venuti dall'estero in un mini piano Marshall sostenuto da alti tassi d'interesse; con una rivalutazione del Marco in grado di coprire le spese da effettuare all'estero; con un sostegno statale alle esportazioni penalizzate; con un totale controllo dell'inflazione tramite il costo del denaro ma soprattutto tramite un reale abbassamento medio dei salari, dato che quelli dell'Est sono di circa il 40% più bassi di quelli dell'Ovest.
L'opzione esterna, quella "americana", ribaltò i problemi sugli altri paesi europei, nessuno escluso. I più colpiti furono Italia e Inghilterra, i paesi a capitalismo più vecchio. L'Inghilterra sta ancora subendo il colpo passivamente; l'Italia ha accelerato il processo politico in corso: nel volgere di tre o quattro anni, dicono gli esperti, la manovra in corso assommerà a 450 mila miliardi. I soli interventi a difesa della lira durante la battaglia monetaria (acquisto di lire in picchiata contro valute in ascesa) e la successiva svalutazione hanno dimezzato il valore della manovra finanziaria, ma hanno raddoppiato la velocità di aggregazione delle forze che costituiranno il nuovo governo d'ordine.
Il debito consolidato si aggira intorno al milione e mezzo di miliardi, con un costo di gestione di 150.000 miliardi all'anno. In più c'è il deficit pubblico, che è più o meno alla stessa altezza. Ma il deficit non è il problema più grave: sono le sue cause a destare preoccupazione, e non per motivi morali di "sperpero del pubblico denaro".
Il deficit dello Stato in un paese moderno (inteso come deficit spending, cioè politica deliberata di finanziamento in disavanzo, ovvero sostegno manovrato dell'economia e dell'occupazione) ci offre infatti lo specchio del disequilibrio fra profitto d'imprenditore e interesse, ovvero di quanto manca al profitto per raggiungere il "rendimento" dell'interesse medio, rappresentato dal rendimento dei titoli di stato. L'ammontare totale di quanto è servito a stimolare l'economia rappresenta l'ammontare totale di quanto i possessori di capitali non si sono sentiti di investire nell'industria nello stesso periodo. Il finanziamento in disavanzo è la politica dello Stato moderno e il cosiddetto parassitismo non ne è che un aspetto secondario. Tale politica è la base delle teorie keynesiane, ma, mentre all'origine esse la prevedevano come transitoria per l'ottenimento di risultati a medio termine, oggi è diventata la regola permanente degli stati.
È impossibile ripianare un simile deficit senza intervenire massicciamente sulla genesi del profitto e questo non si può fare con semplici politiche monetarie, bisogna intervenire a livello del plusvalore.
La manovra economica del governo Amato è quindi un semplice provvedimento di transizione, un trampolino di lancio su cui si misurano le forze vere che stanno maturando e che entreranno in campo aperto non appena sarà chiarita la direzione in cui dovranno andare.
Il segreto della manovra Amato è il segreto del governo transitorio: tutti parlano di maggiore democrazia sapendo che occorre meno democrazia nella diffusione del plusvalore. Tutti parlano di partecipazione diretta del popolo alle elezioni sapendo che sarà un governo che dovrà totalitariamente indirizzare gli investimenti. Tutti parlano di politiche monetarie e di liberalizzazione dell'economia sapendo che saranno varate politiche di piano statali per un'economia totalmente guidata dall'alto.
Sfascismo e fascismo
L'Italietta dai due milioni di aziende (400.000 in Germania, dove però le aziende con più di 200 addetti sono la metà) e dalle ottocentomila licenze di commercio (in Inghilterra sono però dieci volte meno) è anche il paese con più alto numero di professioni individuali nel mondo industrializzato. Il paese in cui l'agricoltura è sempre più relegata ad attività marginale di persone che hanno un'altra attività principale, quindi sempre più parcellizzata.
Se tutto questo era funzionale al sistema che abbiamo tratteggiato più sopra, ora si tratta di "demolirlo" per sopravvivere come concorrente di più giovani e agguerriti avversari. Le virgolette sono d'obbligo in un paese dove l'unica demolizione ammessa è quella dell'ambiente e dove ogni passaggio storico ha il marchio gattopardesco da duemila anni almeno.
La "demolizione" era incominciata con i soliti convegni da cui trapelava qualcosa solo per gli addetti ai lavori, ma da qualche anno l'argomento è piano piano passato ai grandi organi di informazione.
Tra gli industriali incominciò De Benedetti, subito dopo il grande crack borsistico del 1987, con operazioni internazionali a largo respiro finanziario condotte all'insegna di un non celato accento polemico verso la "politica" italiana. Prendeva corpo la campagna industriale contro il "corrotto" sistema dei partiti.
Le cronache personalizzarono molto gli avvenimenti, come al solito, ma il capitalismo italiano si trovava realmente in difficoltà in quanto tale. All'interno non sopportava più i legami che esso stesso aveva creato per espandersi nel dopoguerra, mentre verso l'estero soffriva di mancanza di concentrazione, quindi potere finanziario, o almeno di una politica statale di supporto. La finanziaria di De Benedetti aveva per esempio tentato un'operazione grandiosa con la scalata alla Societé Générale de Belgique che da sola rappresentava un terzo del Prodotto Interno belga e controllava 1200 aziende. L'operazione doveva essere il trampolino di lancio per una internazionalizzazione completa della finanziaria di De Benedetti: il Belgio era una non-nazione, ma al tempo stesso al centro diplomatico della futura apertura europea dei mercati; l'operazione non avrebbe dovuto stuzzicare i nazionalismi forti e il capitale era disperso fra un'infinità di piccoli possessori, tanto che si potevva essere azionista di riferimento con il 3-4% delle azioni. La debolezza del gruppo De Benedetti rendeva necessaria una serie di condizioni per evitare il confronto con capitali più agguerriti.
L'operazione aveva qualcosa di grandioso in confronto alla limitatezza del capitale italiano, ma fallì banalmente per mancanza di soldi: per scalare il colosso il capitale privato italiano non era abbastanza forte e dovette apoggiarsi alla finanza altrui (gruppo Suez); al momento della vittoria gli interessi in gioco furono così alti che la ragion di Stato provocò il voltafaccia del partner e quindi la sconfitta. Si prevedeva di spendere 6-700 miliardi per il controllo azionario e se ne spesero 1500 senza ottenerlo. La ragion di Stato non era quella belga ma quella francese. Era chiaro che, una volta controllata la SGB, lo scalatore poteva estendere il suo controllo ai compagni di cordata, primo fra tutti la francese Suez. Inspiegabilmente quest'ultima incominciò a scalare per conto suo e gettò sul tavolo capitale sufficiente per controllare il 51% del gruppo. Tirate le somme, a De Benedetti e soci restava il 48%. Era successo che il governo francese era intervenuto direttamente attraverso la banca Lazard per evitare scalate italiane in casa sua. Ciò non sarebbe successo se prima dell'Opa (offerta pubblica di acquisto) fosse stato possibile rastrellare più azioni sul mercato con azioni congiunte del capitale nazionale, come del resto si usa fare tra i veri grandi.
De Benedetti con il suo gruppo diventa così uno dei punti di riferimento attorno cui si combatte la battaglia di crescita del capitale privato italiano per una presenza internazionale. Per via del suo dinamismo ( e del possesso di un giornale da un milione di copie) l'imprenditore-finanziere diventa portabandiera della lotta contro la "partitocrazia". Nel 1985 De Benedetti aveva acquistato dall'IRI la SME, gruppo alimentare italiano, l'unico in grado di diventare in futuro un serio concorrente dei colossi internazionali superando la suddivisione in ditte familiari. Anche in questo caso mancò la forza di mantenere una linea coerente di concentrazione del capitale: l'allora presidente del consiglio in persona, Craxi, fece naufragare l'acquisto già avvenuto. Probabilemente con ragione dal punto di vista formale, il pretesto fu il prezzo pagato, non ritenuto congruo dal governo.
Questi episodi ripetuti rendevano la guerra inevitabile: per esempio, tra la FIAT, l'IRI e lo stesso partito di Craxi fu battaglia durissima per la presidenza dell'ente che avrebbe unificato Telettra e Italtel in un potenziale gigante delle comunicazioni. Alla fine la FIAT vendette la Telettra ai francesi, dato che in quel campo nessuno da solo era forte abbastanza da competere sul piano internazionale. Il risultato, gravissimo per un paese capitalistico moderno, è che non esiste un'industria delle telecomunicazioni nazionale degna di questo nome in Italia.
L'aggressività accompagnata ad una debolezza intrinseca del capitale privato italiano si manifestò in altri episodi, come quello che vide protagonisti da una parte Gardini-Ferruzzi e, dall'altra, il capitale di stato (con la solita "partitocrazia" tra i piedi) per l'acquisto di Enichem. Gardini, che non ha mai brillato per la sua diplomazia, dichiarava che ne aveva abbastanza, che in Italia non si poteva fare politica industriale, che se ne andava all'estero.
Percorrendo la cronaca si vede che il ben lubrificato meccanismo politico della ricostruzione si era tramutato in un freno all'ulteriore concentrazione. Persino il gruppo Fiat, che sul piano interno era riuscito a prendere tutto il settore automobilistico, in campo internazionale non riuscì a sfondare nel settore delle potenti partecipazioni del gruppo Perrel mentre, nello stesso periodo, falliva l'acquisizione della Continental da parte di Pirelli. La stampa internazionale annotava con ironia che forse gli italiani erano un po' tirchi, dato che erano fregati soprattutto da un fattore elementare e per niente "politico" come invece insinuavano: le loro offerte erano troppo basse.
Non era ovviamente solo un problema di cassa. Agnelli, sempre rimasto in ombra come capo della FIAT, si unì al coro gettandosi nella mischia tramite il suo luogotenente Romiti e sparò a zero sul sistema dei partiti che comprometteva la politica industriale (e si sentì rispondere da Andreotti che la Fiat aveva preso un bel po' di miliardi dallo Stato senza farne un granché di produttivo).
Questo coro fu ripreso con grande rumore dai tre giornali nazionali, il Corriere della Sera, La Repubblica e La Stampa. Non ha nessuna importanza se dietro questi ultimi due vi sono due dei capitalisti citati: avrebbero reso il servizio anche senza il suggerimento diretto del padrone.
La morale è che il capitale italiano ha un'alta efficienza individuale, ma poca concentrazione, soprattutto lo Stato ha distribuito troppo la "ricchezza" e quindi non esiste capitale a sufficienza per operazioni di grande respiro, per un'ulteriore concentrazione e quindi accumulazione. Al capitale italiano occorreva un "patto tra produttori". Anche se pochi lo chiamavano così all'origine, era maturato nei fatti il bisogno di realizzare un ulteriore, macabro tentativo di legare il proletariato al capitalismo-zombi. Un nuovo patto tra forza lavoro e industria per tagliare l'erba sotto i piedi dello "spreco" e del "parassitismo", fino a quel momento funzionali e benvenuti.
Nell'industria italiana la ripartizione del valore aggiunto fra salariati e azionisti, tolte altre quote distribuite ad altre entità, è circa il 65% contro il 35% (in Inghilterra le cifre sono simili; dati da International Management). In Germania è il 92% contro l'8%. Siccome il singolo azionista in Italia intasca meno che il suo collega tedesco, ciò significa che vi sono troppi azionisti per singola industria, mentre in Germania pochi azionisti si dividono una torta di gran lunga minore ma con fette individuali ben più consistenti.
Significa anche un'altra cosa, ed è più importante: la base produttiva è più numerosa e, siccome al lavoro va una percentuale maggiore, rimane meno per altre attività, mafie comprese, mentre lo Stato attraverso la contribuzione diretta e quindi più controllata, intasca di più.
È un semplice problema di efficienza nella distribuzione del cosiddetto valore aggiunto tra salariati, azionisti e Stato. Questo ragionamento fanno gli Scalfari e i Romiti quando parlano di inefficienza dello Stato, della corruzione del sistema dei partiti, di riforme istituzionali e di costo del lavoro.
Ma la situazione italiana, come abbiamo fatto notare, non è arretrata, l'inefficienza è già il risultato di una maturità eccessiva del capitale e solo una grande forza centralizzata e totalitaria potrebbe controllare i fatti economici e quelli sociali che deriverebbero da tale controllo.
È per questa ragione che vogliono uno Stato forte, un partito dell'ordine e una nuova morale del lavoro, cioè un nuovo fascismo sotto veste parlamentare democratica. Non è forse la democrazia parlamentare il miglior involucro per lo sfruttamento capitalistico? Ma come si fa a prendere decisioni della portata necessaria tramite la chiacchiera parlamentare?
È per questa ragione che gli avversari della corrente dell'ordine le hanno appioppato il nome azzeccato di "sfascista". Perché essa tende a sfasciare l'ordine decennale della distribuzione del valore per un nuovo ordine che contempli anche uno stimolo alla sua produzione ormai compromessa.
Il partito che non c'era, ora c'è
Su La Repubblica dell'11 ottobre si celebrava il convegno dei 12.000 "popolari" di Segni con questo titolo: "Benvenuto al partito che non c'era". Prodi aderiva tra le ovazioni, massimo sostenitore delle privatizzazioni, proprio lui che è stato il massimo rappresentante della statizzazione. Il nuovo partito, ancora senza struttura e senza programma, faceva sua la teoria prodiana della salvaguardia del valore aggiunto. Ovazioni anche per La Malfa, capo del Partito Repubblicano.
Mentre si svolgeva il convegno, Martelli, vicesegretario del Partito Socialista, proponeva a Torino una "Lega Nazionale per le riforme" e il capo della Lega vera, Bossi, incominciava la sua marcia per non farsi sorpassare: prima la sconfessione del secessionismo e del razzismo campagnolo, poi la marcia reale verso Sud, verso i voti di tutti e quindi verso la tanto odiata politica "nazionale".
Capolavori della politica-politica italiana! Bossi, capo della Lega secessionista, il partito del localismo sfrenato che sfoggia sui suoi gagliardetti il motto "Roma ladrona", ripercorre la strada già vista di un altro particolarismo, quello nazionale di Mussolini, fino a scimmiottare la Marcia su Roma adeguandola ai tempi, cioè mettendogli sopra il ragù democratico dell'ideologo Miglio.
Abbiano pazienza i nostri lettori, specialmente quelli di altri paesi, se nel contesto abbiamo fatto e facciamo qualche nome delle comparse che si profilano sull'attuale scenario capitalistico. Il non conoscerle non ha nessuna importanza, i nomi hanno qui solo funzione pratica per la descrizione degli avvenimenti.
Democrazia invocata da tutti, quindi, vera carta di credito per l'odierno successo. E non è strano, se l'ambizione sociale media del popolo è quella del piccolo borghese preso in mezzo fra le classi che tendono a scontrarsi, come abbiamo visto in timide avvisaglie.
La formazione del partito nuovo procede quindi sulla strada della mediazione sociale, la cui ideologia è quella delle classi medie.
"Il democratico," dice Marx nel 18 Brumaio, "poiché rappresenta la piccola borghesia, cioè una classe intermedia, in seno alla quale si smussano in pari tempo gli interessi di due classi, si immagina di essere superiore, in generale, ai contrasti di classe. I democratici riconoscono di avere davanti a sé una classe privilegiata, ma essi, con tutto il resto della nazione che li circonda, costituiscono il popolo. Ciò che essi rappresentano è il diritto del popolo; ciò che li interessa è l'interesse del popolo".
Al popolo dunque il partito nuovo si deve rivolgere, e niente è più democratico di un referendum popolare. Al Referendum, dunque, si affidi il futuro della democrazia, la "demolizione" dell'ordine esistente, il repulisti verso la vecchia nomenklatura.
Su questo terreno, è certo, fioriranno le migliori prospettive di studio per la realizzazione del massimo valore aggiunto tanto caro a Prodi. Leggendo con terminologia marxista: valore aggiunto uguale salario più plusvalore. I quali, oggi, sono nella seguente proporzione: 644.846 miliardi al salario e 782.496 al plusvalore, senza naturalmente commentare l'ulteriore divisione tra lavoro produttivo e non produttivo (Conto della distribuzione del PIL, Relaz. gen. Bilancio, 1992).
Su questo terreno democratico tutti i protagonisti della politica-politica si trovano d'accordo, bisogna cambiare, rinnovare, promuovere, riformare. Con referendum o senza, con i metodi della democraticissima Svizzera che di referendum ne fa centinaia, o con i metodi dell'ancor più democratica Inghilterra, che delega a prestigiose commissioni lo studio degli interventi necessari. Quello che conta è che si rimanga nella democrazia: faremo decidere la politica internazionale di questa portaerei proiettata sul Mediterraneo in mezzo ai conflitti del mondo intero da un referendum popolare tra le massaie, gli ingegneri, i filosofi, i proletari e i coltivatori diretti? O lo faremo decidere dagli avvocati della democrazia seduti in commissione parlamentare? Con la proporzionale o con il suffragio diretto?
Il popolo deciderà in ogni caso e la democrazia è salva, come è stata salvata quando, votando per il divorzio, il popolo decise di sancire con la legalità borghese il dato di fatto del fallimento della famiglia come istituzione; come quando decise di acquistare l'energia elettrica dalla Francia, a due passi, perché qui le centrali nucleari erano pericolose; come quando decise per una soluzione da malthusianesimo individuale sul numero dei componenti la specie umana in quest'area del globo.
Naturalmente l'Opposizione (con la maiuscola) è soddisfatta nella misura in cui partecipa alla definizione del rinnovamento, niente è più proficuo per un'opposizone che stare il più appresso possibile ai grandi problemi del Paese.
Come osserva Marx nel 18 Brumaio citato: "Non si deve dunque immaginare che la Montagna [l'Opposizione], decimata, spezzata, umiliata dal nuovo regolamento parlamentare [dalle batoste elettorali] fosse troppo infelice. Se il 13 giugno [le precedenti elezioni] aveva eliminato i suoi capi, esso aveva però fatto posto a uomini di second'ordine, che la nuova situazione lusingava. Se la loro impotenza in parlamento non poteva più venir messa in dubbio, essi erano dunque in diritto di limitare la loro attività a scoppi di indignazione morale e declamazioni rumorose. Se il partito dell'ordine fingeva di vedere in essi l'incarnazione di tutti gli orrori dell'anarchia [del socialismo reale], essi potevano quindi essere in realtà altrettanto più banali e moderati".
Guai a toccare il significato profondamente morale dell'Opposizione. Giù le mani dalla democrazia e dal popolo. Che non si osi mettere in dubbio i Valori scaturiti dalla Resistenza ecc. Altrimenti "mostreremo quello che siamo, Nous verrons!" disse la Montagna.
Vedremo. Ma intanto sappiamo. Quando Luigi Bonaparte abolì il suffragio universale i democratici non seppero far altro che propugnare "une calme majestueuse". Quando Mussolini mise in pericolo il Parlamento, i democratici sfoggiarono la pagliacciata dell'Aventino al grido triviale di "Viva il Parlamento".
Per adesso Viva il Parlamento, dunque, viva il cretinismo, viva la schizofrenìa insita in un rapporto malato con una realtà in movimento che dei fiumi di parole non sa che farsene. Solo perdendo i contatti con il mondo fisico puoi, senza battere ciglio, dire oggi il contrario di ciò che hai detto ieri, sapendo che, con la massima indifferenza, dirai domani il contrario di ciò che hai detto oggi.
Craxi era il massimo sostenitore del presidenzialismo, cosa che, logicamente, presupporrebbe l'elezione diretta, almeno come in America. Diventa invece il massimo sostenitore della proporzionale adesso che è un po' in disgrazia. I sinistrissimi del Manifesto si fanno sostenitori di Craxi per la proporzionale, mentre la logica vorrebbe che fossero contro il presidenzialista antidemocratico al di là dei meccanismi elettorali. Avanzano persino dei dubbi sulla democraticità dei giudici antitangentisti, definendoli dei "Rambo" della Magistratura, trovandosi "illogicamente" in compagnia sia del Popolo democristiano, sia dell'Avanti socialista, fogliacci dell'odiato regime.
Ma la logica c'è, ed è tutta elettorale: il meccanismo uninominale tenderebbe a far sparire i partiti come Rifondazione cui il Manifesto si collega, ecco dove finiscono gli alti principii, per esempio, dell'ex ultrarivoluzionaria Rossanda.
Non appena il democratico e, ancora di più, l'ultrademocratico si accorge che il "potere" trama contro le sue stesse frange per mettere un po' d'ordine in tempo di crisi, ecco che sbraita e si fa garantista verso il comodo, vecchio tran tran.
Niente più di una reale stroncatura delle mezze classi, della loro ideologia e dei loro metodi dopo che saranno stati utilizzati, darà l'idea precisa del successo del nuovo partito in formazione.
Profeti e chierici di un'economia demente
Profeti sono gli economisti che tentano di trovare un futuro al capitalismo, chierici sono i servitori del verbo dei profeti, l'aggettivo "demente" è della Sinistra.
Wassily Leontief, profeta da premio Nobel per un suo metodo ripreso da Quesnay e Marx, cita in un articolo l'intervento del presidente della Società di Econometria:
"I risultati conseguiti dalla teoria economica negli ultimi vent'anni (ne son passati altri venti dalla data dell'articolo, n.d.r.) sono imponenti e per molti versi pregevolissimi. Ma è innegabile che c'è qualcosa di scandaloso nello spettacolo che ci offrono così tante persone dedite a raffinate analisi di situazioni economiche per le quali non danno giustificazioni idonee a far supporre che possano mai verificarsi o mai si siano verificate".
I modelli, spiega l'autore, sono formalmente perfetti, ma hanno il difetto di rappresentare il "tentativo di sopperire alla debolezza lampante della base di conoscenze disponibili con l'impiego, dilatato al massimo, di tecniche statistiche sempre più sofisticate".
Detto in altri termini, l'economia politica invece di indagare sui meccanismi reali che producono gli effetti visibili, si allontana sempre di più dal metodo scientifico e si affida a tecniche sofisticate di rilevazione della realtà per cercare di capirla a posteriori. Questo è il metodo che chiamammo "dell'esorcismo", in quanto tendente a esorcizzare le crisi tramite proposte volontaristiche e moralistiche. Leontief stesso, nonostante abbia come antenato il gigante Quesnay e abbia ben letto Marx, è l'ideatore di un modello per la salvezza del mondo, commissionato dall'ONU e raccomandato alla buona volontà dei governanti. Inutile dire che il consiglio è: correggete il capitalismo eliminando le sue contraddizioni (ineliminabili, per noi).
La borghesia, "impotente nella difesa del suo potere, nella conservazione del suo sistema economico che va in pezzi e nello stesso dominio del pensiero dottrinale, si rifugia in deformi tecnologismi da robot per ottenere in questi stupidi modelli formali automatici una sua sopravvivenza e sottrarsi alla certezza scientifica [della sua morte]" (dalle Tesi di Napoli, 1965).
Nelle nostre Tesi si sfiora l'argomento, probabilmente riferendosi al fiorire dell'econometria americana verso la metà degli anni '60. Esse precedono di dieci anni l'articolo di Leontief, ma ne aggiungono la spiegazione sociale.
Tornando al nostro titoletto, oggi i profeti hanno detto la loro secondo lo "stupido modello formale automatico": bisogna che la società produca più valore aggiunto. Che, detto in altri termini, significa più lavoro salariato produttivo e più plusvalore (quest'ultimo da suddividere classicamente: profitto + interesse + rendita); più sfruttamento e meno sprechi.
I chierici, suddivisi in tre parti uguali e distinte, hanno detto la loro dandosi la mano in un accordo successivamente chiamato "Protocollo del 31 luglio sul costo del lavoro". Per aumentare il valore aggiunto, si è stabilito, occorre ristrutturare lo Stato e il mondo della produzione.
Governo, industria e sindacati hanno perciò sottoscritto (sintesi):
1) Blocco dei salari con la fine dell'indicizzazione.
2) Blocco della contrattazione aziendale (tranne che per le aziende in crisi).
3) Blocco dei salari nel pubblico impiego.
4) Un solo livello contrattuale (con parziale difesa del potere d'acquisto in caso di "prolungata discontinuità contrattuale").
5) Omologazione dei trattamenti fra settore pubblico e privato (al livello più basso, ovviamente, che è quello privato).
6) Politica tariffaria sui servizi pubblici.
7) Monitoraggio e autoregolamentazione dei prezzi liberi.
8) Rimozione degli ostacoli alla concorrenza fra fornitori e appaltatori dei lavori pubblici.
9) Semplificazione della materia fiscale e aumento del gettito attraverso l'allargamento della base contributiva.
10) Valorizzazione dei contenuti della legge 223 (legge sulla "mobilità", cioè sugli ammortizzatori sociali, sulla flessibilità del lavoro e sui licenziamenti).
11) "Task force" della Presidenza del consiglio per l'intervento a sostegno dell'occupazione e del "patrimonio professionale" nelle aree più in crisi.
12) Politiche a favore degli investimenti. Scoraggiamento del risparmio fine a sé stesso, promozione del "capitale di rischio" attraverso un sostegno alla Borsa, promozione di nuovi investitori istituzionali (fondi pensione, borse locali, fondi chiusi). Stanziamenti diretti per l'innovazione tecnologica, la ricerca e lo sviluppo.
Non si capisce perché Trentin, in veste di capo del maggiore sindacato e sottoscrittore entusiasta dell'accordo, abbia poi dato le dimissioni di fronte alle proteste della stessa struttura sindacale.
Il protocollo del 31 luglio è di cristallina impostazione keynesiana, esso tende a livellare i salari al basso, risparmiare sugli "eccessi" nei settori privato e pubblico, demolire ampi settori di piccola borghesia sopravvivente su traffici poco produttivi, e utilizzare le risorse così racimolate per investire in vista di nuovi posti di lavoro a basso costo.
Il protocollo del 31 luglio è il coronamento, per quanto perfettibile dal punto di vista borghese, della spinta materiale ormai in moto da tempo, proveniente dagli Stati Uniti del dopo-Reagan, non digerita dall'Inghilterra post tatcheriana, perfettamente applicata dalla Germania unificata.
Un sindacato ultracorporativo come quello italico doveva vedere nel protocollo un vero e proprio invito a nozze, mentre invece si è spaccato cadendo in una crisi gravissima che potrebbe avere interessanti prospettive dal nostro punto di vista.
La nostra spiegazione è questa: i modelli degenerati borghesi sono sempre più basati sull'osservazione superficiale, per quanto sofisticata, della realtà oggettiva (ipertrofia statistica). Essi non possono tener conto della lotta di classe in quanto la prospettiva sociale indicherebbe la "dimostrazione scientifica" della morte del capitale.
Il sindacato moderno (non solo quello italiano), che si integra nelle funzioni di salvaguardia dell'economia e che potrà essere superato soltanto in un fortissimo movimento di classe che darà vita a organismi completamente diversi, subisce fino in fondo la sua contraddizione: non può che aderire alle tesi borghesi, ma deve fare i conti con la classe che avrebbe il compito di difendere e che in realtà contribuisce invece a tenere sotto controllo.
L'economia politica è quella della fase imperialistica, non può ritornare indietro rispetto al modello keynesiano, quello dell'intervento statale a sostegno della produzione e della distribuzione. Ma non può nemmeno superare tale modello, espressione della "fase suprema del capitalismo": non esiste nulla di capitalistico oltre la fase suprema, esiste solo un cambiamento di società.
I chierici della chiesa capitalistica sono stretti in una contraddizione storica e non possono uscirne. Se sposano la salvaguardia dell'economia devono agire sulla salvaguardia dei tassi di accumulazione, quindi sul rialzo dei tassi di profitto, quindi sulla compressione degli elementi che compongono il capitale costante e su quelli che compongono il capitale variabile. Se non possono, come non possono, toccare il capitale costante, il cui livello è dato dallo sviluppo delle forze produttive di una determinata società, devono agire sul capitale variabile, cioè sul salario.
L'infernale formula del saggio di profitto lascia quest'unica strada: abbassare il salario medio portandolo vicino ai livelli inferiori, aumentare il numero dei salariati in modo da distribuire il "reddito" e non far crollare i consumi, abbassare la composizione organica in vasti settori della produzione, in modo da mantenere la media con l'innalzamento degli investimenti nei settori "strategici" di un paese e, infine, eliminare i rami parassitari cresciuti sull'onda della distribuzione facile del plusvalore nei tempi delle vacche grasse.
I chierici attuali sono destinati a fare la fine dei mediatori, cioè dei ruffiani: essere schiacciati fra la rivolta del proletariato e quella delle mezze classi espropriate. Non per nulla cercano disperatamente di riciclarsi con una nuova verginità nelle assemblee di base e nell'appoggio a lotte che solo qualche mese fa avrebbero ferocemente stroncato. Non per nulla il capo della CGIL, Trentin, si barcamena come può fra l'elogio da Giuda agli scioperi spontanei e la responsabilità sincera verso il capitalismo. Non per nulla il vociare di tremila bottegai riuniti a convegno viene trattato dai media alla stessa stregua dell'urlo di rabbia di milioni di lavoratori in piazza. Come diceva giustamente un titolo de La Repubblica: la società italiana deve sbrogliarsela "Tra la Vandea leghista e il tumulto dei Ciompi".
La nuova Vandea e il vecchio capitalismo
Il tumulto dei Ciompi fu antenato alla lotta di classe moderna, il paragone finisce lì: non siamo agli albori della manifattura del XIV secolo, bensì nell'industrialismo decadente. Però le vandee hanno le loro costanti: sono comunque l'effetto del cambiamento. Non ci sarebbe la controrivoluzione se non ci fosse la rivoluzione.
La rivolta vandeana non nacque nelle campagne come generalmente si dice, ma nacque nelle città dove la rivoluzone aveva lavorato a fondo. Se furono i contadini a darle forza fisica, fu la resistenza del vecchio regime sommata alle contraddizioni dei rivoluzionari borghesi ricchi a darle la forza morale. La causa monarchica e quella religiosa si sovrapposero a un movimento materiale, come sempre. La campagna offrì la manodopera, ma furono le lavandaie di Parigi a sollevarsi per prime, perché da Marsiglia non arrivava il sapone. In città, del resto, si moriva di fame e furono gli operai a reclamare il blocco dei prezzi assediando la Convenzione. Reclamarono anche una imposta progressiva sul capitale dei borghesi ricchi, il salario minimo e un esercito rivoluzionario per far applicare le misure. La critica alla rivoluzione era da una parte per il suo affossamento, dall'altra per l'estensione fino alle massime conseguenze.
La città è il cuore della politica borghese, la culla della rivoluzione e della controrivoluzione. Dalla controrivoluzione vandeana la rivoluzione si salvò mobilitando le truppe cittadine e fu dalle città portuali che i borghesi rivoluzionari evitarono il mortale contatto con l'Inghilterra monarchica (e concorrente). Ma evitarono anche la critica operaia della rivoluzione stessa. A Parigi gli operai minacciarono l'insurrezione a maggio del '93 e già nell'autunno i loro portavoce sarebbero stati decapitati per molto meno.
Nel mondo moderno ogni movimento politico riceve l'impronta urbana e prendemmo in giro, come corrente, gli scopritori di un fascismo agrario, presunto specchio di un passato che voleva tornare sulla scena.
Il fascismo fu un serio e moderno fattore di controrivoluzione borghese che si servì di tutta una serie di elementi sociali minacciati dal proletariato, allora in fase di attacco e dalle condizioni economiche del dopoguerra.
Tra il 1921 e il 1924, rileviamo dal "Mussolini" di De Felice, il 64% dei finanziamenti al Partito Fascista provenne dalle società industriali e commerciali, il 25% dai privati e l'11% dagli istituti di credito e assicurativi. Finanziamento urbano, quindi.
Della cifra complessiva di tale finanziamento il 46,3% fu raccolto nelle sole tre province di Milano, Bergamo e Brescia che fornirono anche il 54% dei crediti industriali e commerciali, mentre la sola Milano fornì il 40% del denaro proveniente dagli istituti di credito.
La nuova Vandea leghista, per quanto farsesca, ha le sue roccaforti nelle aree urbane e coinvolge anche strati del proletariato, tanto da poter dar vita quasi subito ad un embrione di sindacato corporativo le cui enunciazioni ricordano molto la fascista Carta del Lavoro di Bottai.
Sotto il motto "Roma ladrona" e vario folklore ancora in via di dirozzamento, si rispecchia l'esigenza borghese di snellire le procedure parlamentari e l'affermata necessità di demolire l'attuale Stato per lasciargli "soltanto" la moneta, l'esercito e la politica internazionale, più o meno come recitava il programma del PNF al paragrafo sullo Stato: "Lo Stato va ridotto alle sue funzioni essenziali di ordine politico e giuridico... Per conseguenza debbono essere limitati i poteri e le funzioni attualmente attribuiti al Parlamento". Persino "il decentramento amministrativo per semplificare i servizi e facilitare lo sfollamento della burocrazia" è previsto dal fascismo accentratore e nazionalista, teorico dello Stato forte e dell'unità nazionale.
Ma l'esigenza corporativa non è solo riflessa dalla Lega. Il passaggio senza ombra di pudore di capi sindacali a funzioni direttive nell'ambito dello Stato è un materiale marchio di fabbrica dello Stato moderno nato dal New Deal mondiale che è stato chiamato fascismo. Marini come ministro del lavoro, Benvenuto come manager delle finanze, Lama come vicepresidente del parlamento e, recentemente, un accorato sollevarsi di appoggi borghesi a Trentin, capo di un sindacato di cinque milioni di iscritti, bersagliato da pietre, insulti e pugni da quelli che dovrebbero essere i suoi seguaci.
Non diceva nulla di diverso il programma fascista del '21: "Le corporazioni vanno promosse secondo due obiettivi nazionali fondamentali: come espressione della solidarietà nazionale e come mezzo di sviluppo della produzione... Il PNF si propone di agitare i seguenti postulati a favore della classe operaia e impiegatizia (segue elenco di misure sociali e)... l'affidamento della gestione di industrie o di servizi pubblici ad organizzazioni sindacali che ne siano moralmente degne e tecnicamente preparate".
Non ha inventato nulla il moderno sindacato tedesco impostando la politica della Mitbestimmung e neppure quello italiano che traduce letteralmente codeterminazione intendendo patto fra produttori per gestire la fabbrica in modo efficiente e responsabile, in linea con le esigenze dell'economia nazionale.
Alla rabbia popolana in via di emancipazione contro la politica romanesca è venuta in aiuto la magistratura con l'operazione "Mani pulite" in una tattica per ora parallela cui non tarderanno ad aggregarsi forze sociali diverse man mano convergenti. La polemica contro i partiti corrotti fu uno dei cavalli di battaglia del fascismo che, sempre nello stesso documento declamava: "Il PNF intende elevare a piena dignità i costumi politici così che la morale pubblica e quella privata cessino di trovarsi in antitesi nella vita della nazione. Esso aspira all'onore supremo del governo del paese, a restaurare il concetto etico che i governi debbono amministrare la cosa pubblica non già nell'interesse dei partiti e delle clientele ma nel supremo interesse della nazione".
Il partito fascista, che si fregiava dell'aggettivo "rivoluzionario" quando occorreva, propugnava anche l'intervento dello Stato nell'economia, ma che fosse "tale da stimolare le energie produttive del paese, non già da assicurare un parassitario sfruttamento dell'economia nazionale da parte di gruppi plutocratici". Il professor Prodi poteva citare questo passo nel suo intervento alla convention referendaria del nuovo partito popolare. Ma ce n'è anche per il presidente del Consiglio Amato: obiettivo del fascismo è "il risanamento dello Stato e degli enti pubblici locali, anche mediante rigorose economie in tutti gli organismi parassitari o pletorici e nelle spese non strettamente richieste dal bene degli amministrati o da necessità di ordine generale.
Ed è prevista anche la cessazione di sovvenzioni ad enti e clientele "incapaci di vita propria", la privatizzazione di industrie statali (salvo poi percorrere la strada inversa), la cessazione di lavori pubblici "concessi per motivi elettorali", la disciplina delle "incomposte lotte degli interessi di categorie e di classi", il divieto di sciopero nei servizi pubblici e l'istituzione di tribunali arbitrali con rappresentanze dello Stato, dei capitalisti, dei lavoratori e, nel caso dei pubblici servizi, dei delegati del pubblico pagante.
l fascismo era una cosa e la Lega o il partito trasversale un'altra, se non altro sul piano della serietà storica, d'accordo, l'abbiamo detto. Ma la base su cui nascono e crescono è la stessa, quindi devono essere gli stessi i programmi, come abbiamo visto. E chi volesse combatterli sul loro piano dovrà sciorinare programmi analoghi, governi, partiti, sindacati integrati, uomini forti spediti dal destino o professori in doppiopetto usciti dalla Bocconi. L'economia politica non fa che presentare un unico ritornello: plusvalore, plusvalore...
La vecchia Vandea esplose nelle città e si servì della campagna per cercare di imporre la controrivoluzione. Fu schiacciata dal Terrore della rivoluzione borghese.
Le nuove Vandee esplodono nelle città percorse dalla crisi in reazione al diminuito flusso del plusvalore verso le classi medie. Non hanno da temere per ora nessun Terrore rivoluzionario. Saranno utilizzate per ciò che possono offrire, voti, facce nuove e sangue fresco alla controrivoluzione imperante, manodopera da eventuale Guardia Bianca.
Purtroppo per ora non hanno come contraltare un movimento operaio che imponga la sua impostazione del problema economico: la fine dell'economia politica e del plusvalore da trasformare in capitale.
Santa democrazia
Non c'è antitesi fra democrazia e fascismo.
Per spiegare il suo Contratto Sociale, Rousseau, la cui statua cadeva a Lione per mano vandeana, disse che la democrazia non poteva essere realizzata se non da un popolo di dei. Rousseau, citato tra i padri della democrazia è, in fondo, antidemocratico: la sua visione della società ha piuttosto un contraddittorio legame con il comunismo primitivo ("stato di natura"), mediato dai moderni rapporti sociali che tendono a spezzare quelli antichi ("gli uomini non possono creare nuove forze ma soltanto unire e organizzare quelle che esistono azionandole con un solo impulso). Di qui il Contratto Sociale, le cui clausole sono totalmente determinate dalla natura dell'atto ("Queste clausole, ben interpretate, si riducono tutte ad una sola, e cioè alla cessione totale di ogni associato con tutti i suoi diritti alla comunità tutta; poiché ciascuno dona l'intero sé stesso, la condizione essendo uguale per tutti, nessuno ha interesse a renderla più pesante per gli altri").
Il fascismo diede la sua versione del Contratto Sociale: lo Stato corporativo. Tutti erano legati dall'interesse comune, le classi erano eliminate per decreto.
Questo legame tra la borghesia moderna e i suoi antenati è importante. Rousseau è il padre pedante dell'ottimo utopista Fourier e nonno del degenerato utopista Proudhon, rappresentante, quest'ultimo, di tutte le successive ubbìe dei pronipoti che vogliono un capitalismo senza i suoi insopprimibili difetti.
In via di principio il fascismo non rifiutava la democrazia, ne dava un'interpretazione revisionata. Nella polemica con la Conferenza Internazionale sul Lavoro tenutasi a Ginevra, Giuseppe Bottai difendeva lo Stato corporativo come la vera realizzazione della democrazia ("una nuova democrazia risorge, auspicata dal Duce"): nessuna delle nazioni che criticavano il regime del lavoro fascista aveva raggiunto un grado di assistenza sociale paragonabile, né un'attività sindacale altrettanto "costruttiva".
Il fascismo andò al potere con le elezioni e cadde formalmente per un voto. Al suo sorgere presentò un programma democraticamente accettabile tanto che Togliatti proclamava dalle pagine di Lo Stato operaio (n. 8) nell'agosto del 1936: "Fascisti della vecchia guardia, giovani fascisti! Noi comunisti facciamo nostro il programma fascista del 1919, che è un programma di pace, di libertà, di difesa degli interessi dei lavoratori, e vi diciamo: lottiamo uniti per la realizzazione di questo programma".
Tra le altre cose, a proposito di democrazia, l'ineffabile Palmiro rinfaccia al fascismo di non aver rispettato il suo stesso proposito di modificare i meccanismi democratici, come l'eliminazione del Senato ("questa stupida ed inutile incrostazione reazionaria è stata mantenuta in piedi") e il mantenimento del meccanismo elettorale proporzionale.
In realtà il programma fascista aveva abbandonato molto presto l'idea che si potesse governare in emergenza con la proporzionale. La rappresentanza che scaturisce da un sistema proporzionale deve essere legata da forti interessi e da una situazione politica stabile altrimenti il gioco delle correnti che possono attraversare i confini dei partiti annulla ogni possibilità reale di prendere decisioni importanti.
Il 1919, anno di lotte formidabili e di confusione dello Stato, fu anche l'anno che diede il via all'instabilità governativa. Nitti auspicava una coalizione fra popolari e socialisti, ma Turati e Meda non si coalizzarono, aggravando il regno del non-governo. I governi si susseguirono, prima Giolitti e poi Bonomi, ma la situazione di non-governo non venne modificata e l'episodio dell'occupazione delle fabbriche cadde in un vuoto totale dell'esecutivo, rappresentato in quel momento solo da Giolitti e dall'esercito.
Il cambiamento di programma è ben sintetizzato dal sindacalista giornalista Panunzio (art. Abbasso la proporzionale!, febb. 1921, raccolto in Stato nazionale e Sindacati): "Il peggior governo, sia pure quello dello Zar, è sempre, in senso assoluto, migliore di nessun governo. Dal 1919 noi non abbiamo in Italia un governo e, peggio, non abbiamo la possibilità di un governo. Ciò si deve alla proporzionale... Per avere un governo, un governo qualsiasi, che non sia quello che effettivamente ci regge e che è l'odioso e non più sopportabile governo della sottana di don Sturzo, è d'uopo abolire la proporzionale, ritornare al collegio uninominale col sistema maggioritario".
La spiegazione per la soppressione della proporzionale non ha nulla di morale, non fa parte cioè dell'"ideologia" fascista, è anzi, dice Panunzio, semplicemente tecnica. Egli sarebbe, per questi motivi, a favore dell'abolizione del parlamento o almeno di una delle due camere, certamente comunque del numero dei deputati: "non si capisce la riduzione di tutti i servizi e di tutti gli impiegati, e l'intangibilità del numero dei legislatori. Bisogna fare economie" (Art. Forma e sostanza nel problema elettorale, 1922, op. cit.).
Bossi non sarebbe scontento di sottoscrivere. E potrebbe trarre lumi per superare la sua contraddizione fra federalismo e unità nazionale anche da un altro articolo.
A conferma dell'interessante legame "evoluzionistico" fra democrazia e fascismo, il citato Panunzio confessa le origini proudhoniane del sindacalismo fascista e, naturalmente, l'originario autonomismo federalista: "Il sindacalismo ieri centrifugo, pluralistico, periferico, deve farsi centripeto, monistico, centrale, statale. È la dialettica delle forze politiche, ed è oggi una vitale necessità del processo storico" (Contro il regionalismo, op. cit.).
La spiegazione del cambiamento di rotta è data da cause materiali dello sviluppo e non da un cambiamento di idea, segno che il fascista in questo caso è più materialista di tanti rivoluzionari da operetta. L'immagine è del più schietto futurismo alla Marinetti: non possono l'elettrificazione, la macchina a vapore, le ciminiere delle fabbriche, i treni che attraversano il paese, gli aeroplani che solcano i cieli, conciliarsi con il ritorno "all'economia paesana e cittadinesca di Proudhon, il che sarebbe, per i miei personali gusti estetici, l'ideale degli ideali [...] se la vita moderna non rinnegate e non maledite, ma volete invece mantenere e sviluppare, ne dovete prendere, buone e cattive, le conseguenze" (id.). Viene in mente La Malfa, quando dice di sacrificare il suo ideale di partito al bene comune, ben sapendo che la sua scelta per un sistema uninominale cancellerebbe il Partito Repubblicano e la sua tradizione confondendolo in un movimento più ampio. Ma, andando oltre la misera attualità italiana, viene in mente ben altro.
Magnifico! Il fascista in cuor suo è proudhoniano, cioè federativo e cooperativista, partigiano di un cambiamento che non preveda la lotta di classe; ma alla fine, come i tardi utopisti, deve fare i conti con la società industriale moderna ed è costretto a essere accentratore e statalista. Ma questa è la descrizione dello stalinismo! E non dice nulla che, per esempio un Craxi, raffigurato in orbace e stivaloni dalla satira nazionale sia un ammiratore di Proudhon e del socialismo individualista e anarcoide di Garibaldi, che però divenne il "dittatore delle due Sicilie".
"Proudhon rifugge dalla conclusione della battaglia politica in quanto la sua posizione sulla trasformazione sociale è monca, non contiene il superamento integrale dei rapporti capitalisti di produzione, è concorrentista, è localmente cooperativa, resta bloccata alla visione borghese dell'azienda e del mercato. Egli gridò che la proprietà era un furto, ma il suo sistema, restando un sistema mercantile, resta un sistema proprietario e borghese [...] L'utopismo è da contestare ai Proudhon-Stalin, che vogliono emancipare il proletariato e conservare lo scambio mercantile" (tratto da I fondamenti del comunismo rivoluzionario, 1957).
La dialettica unione fra centralismo e amministrazione locale è risolta dall'utopia fascista con il teorizzare una burocrazia centrale snella ed efficiente e una rete di servizi pubblici affidata allo Stato Sindacale, rispondente alla politica centrale ma organizzata capillarmente nella società cooperativa. Come dire: Partito, Soviet e Colcos o, il che è ugualmente antimarxista, Comune locale, Consiglio e cooperativa. La politica unitaria dei federati non è meno centralistica e totalitaria se il loro sistema economico è il capitalismo moderno. O sono poco centralizzati i governi degli Stati Uniti d'America e delle ex Repubbliche Sovietiche?
Vecchia polemica che vide Marx e i marxisti contro il capostipite Proudhon, ma poi anche contro Bakunin, Lassalle, Dühring, Sorel, Gramsci e tutta la moderna varietà dei successori, riesplosi nel '68, oggi latenti, pronti domani a una nuova epidemia. Neppure Rosa Luxemburg riuscì a sottrarsi del tutto a questa influenza malefica.
Democrazia o no, nei "dibattiti" che si sono sentiti in questi mesi non scaturisce nulla di nuovo rispetto a polemiche di settant'anni fa tra democrazia e fascismo. Come dicevamo all'inizio il vero problema è quello di modificare il regime in modo che sia facilitato il formarsi delle decisioni. Soprattutto che queste decisioni non vengano bloccate dalle chiacchiere ma vengano applicate in fretta: l'indirizzo centralizzato dei fattori economici in tempi di crisi non può attendere i tempi parlamentari.
La nuova Alleanza Democratica che si sta formando è ancora indecisa, almeno ufficialmente, rispetto a quale strada imboccare, se quella di un riaggiustamento di tipo inglese con uninominale secca e obbligo materiale di due schieramenti che alla fine saranno uguali e contrapposti; oppure quella francese con l'elezione diretta del presidente (che comporta però una possibile confusione all'italiana per quanto riguarda il capo del governo, quindi eleggibile secondo La Malfa in modo diretto a mo' di correttivo).
C'è una terza via, che sarebbe quella che sta maturando e che nessuno ha il coraggio di affrontare per primo; che da tempo serpeggia facendo prove che vengono abortite e poi riprese: la via dello Stato Sindacale appena ricordata.
Il keynesismo "perfetto", ultima spiaggia
Ci capita a volte di contrapporre Keynes all'economia classica dell'equilibrio. Ci sorge anche il sospetto che Keynes debba molto a Marx, anche se non l'ha mai ammesso. Ovviamente non siamo keynesiani, se non altro perché Keynes ha contribuito a mettere la maschera a ossigeno al capitalismo invece di lasciarlo crepare. Ma si poteva fare l'operazione solo partendo dalla legge del valore di Marx.
Bisognerà un giorno approfondire la questione. Nel frattempo oltre all'ossigeno si sono perfezionate droghe più o meno efficaci che comunque vengono iniettate in dosi giganti nelle vene del mostro per mantenerlo artificialmente in vita.
Per quanto sia ripugnante questo tipo di accanimento terapeutico, bisogna studiarlo da vicino, dato che aspiriamo ad essere gli esecutori storici dell'eutanasia.
La droga più potente non è di tipo tecnico ma di tipo sociale. Non è il keynesismo con le sue manovre sui tassi e l'intervento dello Stato sulla spesa, ma quello che ormai per comodità chiamiamo opportunismo, anche se oggi ha perso anche il riferimento alle sue lontane radici. Opportunista era chi cercava vie più opportune, sempre ritenute più brevi, verso la rivoluzione. Le scorciatoie in realtà si sono rivelate sentieri che alla rivoluzione non arrivavano mai, fino a cancellare la stessa parola dal lessico quotidiano.
La spartizione degli organismi di controllo dell'intera società è oggi un fatto globale e si avvale di strumenti perfezionati. Abbiamo già parlato dell'Aventino, dobbiamo aggiungere quel che per noi fu la crisi Matteotti, durante la quale il parlamento si sollevò nella difesa di sé stesso, confermando che non era la democrazia che importava, ma lo strumento: "è poco dire che questo sporco istituto del parlamento non serve a noi. Esso non serve più a nessuno... Dicemmo che si trattava di un movimento sindacale di categoria dei deputati di professione, che vedevano in pericolo privilegi e proventi e ricorrevano allo sciopero... Se il parlamento servisse ad amministrare tecnicamente qualche cosa e non soltanto a fare fessi i cittadini, su cinque anni di massima vita non ne dedicherebbe uno alle elezioni e un altro per discutere la legge per costituire sé stesso" (da Il cadavere ancora cammina, maggio 1953).
Il nuovo parlamento che ci stanno cucinando dovrà risolvere un problema che è già sul tappeto ma non ha ancora trovato la forza politica che lo trasformi ufficialmente in legge: dato che in ultima istanza qualunque esecutivo dovrà agire sulla forza lavoro e sulla possibilità di cavarne plusvalore, occorrerà liberarla completamente da ogni vincolo, estendere la mobilità dei lavoratori tra tutti i settori e le aree industriali ovunque si trovino, legare il salario minimo alle esigenze dell'economia e controllare la tendenza del salario a crescere in quei settori industriali trainanti o protetti per ragioni strategiche.
Anni fa la Fondazione Agnelli proponeva una specie di Agenzia del Lavoro come serbatoio controllato della manodopera disponibile, finanziato equamente fra Stato e industria, gestito dai sindacati. Vi confluirebbero i costi di centinaia di milioni di ore di cassa integrazione ogni anno. Sarebbe un elemento formidabile di controllo sociale, oltre che una "causa antagonistica alla caduta del saggio di profitto".
Attualmente l'INPS gestisce la quasi totalità delle pensioni e tutti gli ammortizzatori sociali. L'ente non è affatto un carrozzone burocratico e inefficiente come si crede, o almeno, non lo è più. È perfettamente in grado fra poco di gestire il fondo integrativo pensioni che dovrebbe sostituire il Trattamento di Fine Rapporto. Si tratta di migliaia di miliardi. È in grado di gestire una banca dati centralizzata su tutte le attività lavorative e assistenziali del paese. Può recuperare denaro attraverso la vendita dei servizi basati su tale conoscenza. Può diventare un elemento essenziale del nuovo Stato sindacale corporativo.
La legge 223 sulla mobilità, l'accordo del 31 luglio, la manovra finanziaria, le privatizzazioni, la crisi sindacale, la revisione costituzionale e i movimenti trasversali che tendono a spazzare le resistenze della vecchia nomenklatura, sono tutti elementi dello stesso movimento generale verso l'ulteriore esperimento keynesiano.
La crisi del capitalismo non è dovuta a mancanza di produzione, bensì a troppa produzione, non a mancanza di capitali, ma a troppi capitali. Solo che la produzione non viene venduta e i capitali non trovano valorizzazione.
Vi sono in Italia dieci milioni di persone in età di lavoro che non lavorano. La media salariale è abbastanza alta, ma il salario della stragrande maggioranza è basso, troppo basso. Uno dei capisaldi fondamentali del keynesismo è la propensione marginale al consumo: più il "reddito" è basso, maggiore è la propensione al consumo. Più il reddito è alto, maggiore è la propensione al risparmio. Ma risparmio non significa automaticamente investimento. Se prescindiamo dai risvolti psicologici (propensione individuale al consumo o al risparmio) che fanno della teoria keynesiana una non-legge, osserviamo che, comunque sia, risparmio e investimento si comportano di fatto nel modo descritto da Keynes. Mentre scriviamo, in Italia vi sono 1.800.000 miliardi di lire congelati in attività finanziarie al di fuori dell'industria privata, vale a dire in titoli di stato e azioni od obbligazioni di enti pubblici. La privatizzazione tanto cara a Prodi ha il fine immediato di sganciare dallo Stato 27.000 miliardi di lire, molto poco. Ma non è che il primo passo per smobilitare l'enorme massa di capitali privati finiti a sovvenzionare il debito pubblico.
La manovra ha dimensioni gigantesche e non riguarda solo l'Italia: si tratta nientemeno che contrastare a livello mai visto la legge del valore, indirizzando dall'alto non solo i flussi di capitale con manovre sui tassi, ma anche i meccanismi della formazione dei prezzi, primo fra tutti quello della merce forza-lavoro.
Se il capitale riesce a smuovere i suoi servitori e le loro organizzazioni vecchie o nuove che siano, vedremo edizioni aggiornate dei vecchi fascismi a livello mondiale. Se fallisce, e ce lo auguriamo, vedremo la ripresa della lotta di classe.
Los Angeles è il mondo
I modelli dell'economia prekeynesiana partivano dal presupposto che la situazione analizzata fosse in equilibrio, senonchè l'equilibrio non esiste nel mondo capitalistico.
Dopo la Prima Guerra Mondiale gli economisti esprimevano nei loro modelli la nostalgia della stabilità precedente; ma se questa stabilità fosse esistita non vi sarebbe stato il 1914, né il dopoguerra e la Rivoluzione, né la Controrivoluzione borghese, né la Controrivoluzione opportunista.
Un merito di Keynes fu di spezzare i modelli precedenti con l'introduzione del concetto di dinamica economica. Il presente non è un equilibrio ma un passaggio, il passato è irrevocabile e il futuro dipende da quello che è successo e succede.
Per le ragioni che abbiamo detto la borghesia non poteva accettare fino in fondo tali conclusioni, esse dimostravano che senza correttivi il capitalismo non funzionava più. La Seconda Guerra Mondiale, dando vita a un ciclo cinquantennale di ripresa, fu di per sé un universale correttivo e Keynes fu accantonato dai suoi discepoli interessati al mantenimento delle loro cattedre e pagati per sponsorizzare l'eternità del capitalismo sulla base del temporaneo successo.
Man mano che il ciclo economico si allontanava dalla guerra e la ricostruzione si compiva, gli economisti tradussero Keynes a loro modo e suggerirono ai governi di "scavare buche al solo scopo di riempirle", metafora per lavori pubblici inutili o armamenti o spese spaziali ecc.
È una legge quasi naturale: la grande maggioranza della popolazione sta al di sotto della media del reddito di un paese, qualunque sia il livello di questa media. È un altro modo per dimostrare che la crescita economica non accresce il benessere della maggior parte delle persone, ma relativamente lo peggiora. "Scavare buche per riempirle" è un modo per peggiorare la condizione media non solo relativamente ma in assoluto, se non si trova il modo di reinvestire il capitale con profitto. Ma questo è un circolo vizioso: già "si scavano buche per riempirle" perché il capitale da solo non ce la fa a valorizzarsi.
Ecco che cosa sta succedendo nel mondo in generale e cos'è esploso a Los Angeles questa primavera in particolare. Secondo il settimanale U.S. News & World Report il benessere "medio" delle famiglie americane è salito di 2.700 dollari l'anno dal 1977 al 1989, ma questa media comprende l'innalzamento del reddito di 200.000 dollari per l'1% delle famiglie soltanto. Il 95% dell'aumento complessivo del reddito è andato al 5% delle famiglie e il resto l'ha diviso comunque la classe medio-alta, visto che la maggioranza delle famiglie ha avuto un peggioramento reale del 5,3% nello stesso periodo e addirittura coloro che sono considerati "poveri" hanno visto il reddito reale scendere del 10,4% (citato da La rivolta sotto le ceneri, in Rassegna sindacale n. 24 del 1992).
Altro che neri, razzismo o teppismo sociale delle mafie. A Los Angeles è esplosa una situazione che è semplicemente più acuta di quella, analoga, esistente in molte aree dei paesi imperialisti e tutti i governi si stanno preparando per affrontare il problema. Decine di milioni di uomini stanno facendo il salto verso l'insicurezza sociale e già la borghesia vorrebbe rialzare muri più numerosi e più alti di quelli che rappresentavano la Cortina di Ferro e che erano appena caduti nel tripudio generale.
La controrivoluzione comporta l'integrazione delle organizzazioni operaie nello Stato e il proletariato, senza difesa, si vede smantellare quelle che un tempo furono conquiste. Il peggioramento che ne deriva per le condizioni di vita provoca l'insofferenza sociale e la rivolta, quindi nuovi tentativi di integrazione. Clinton ha vinto le elezioni americane con un programma vagamente sociale e molti paesi discutono di politica dei redditi nella keynesiana accezione di redistribuzione dei redditi, dopo che la debolezza della classe li ha concentrati verso l'alto e falcidiati verso il basso. Anche la lotta economica del proletariato tende a volte alla redistribuzione del reddito, ma per noi ovviamente è un'altra cosa. In senso keynesiano "redistribuzione" significa controllo ferreo dell'economia, investimenti, posti di lavoro, bassi salari ma per molti operai. Anche la Chiesa appoggia questa tendenza e la chiama "solidarietà, unico orizzonte di apertura al futuro", come in Polonia. Il 3 Dicembre scorso la Conferenza episcopale, braccio capillare del cristianesimo romano, ha stigmatizzato la demolizione dello Stato sociale criticando i governi: lo Stato sociale va ripensato, non distrutto, dato che di solo mercato non si vive perchè attraverso a esso "passano logiche di prevaricazione e di dominio". La Chiesa ha 2.000 anni di storia alle spalle, sciocco sarebbe sottovalutare le sue dichiarazioni ufficiali. La solidarietà sociale è l'unico orizzonte, ma perchè esso sia realistico "occorre rilanciare un grande movimento associato dei lavoratori [...] Il sindacato non può diventare una grande organizzazione burocratica, ma deve essere espressione dei lavoratori e difenderne i diritti" (citato da La Stampa del 4 dic. '92). La Chiesa entra nelle case di milioni di famiglie di tutte le classi, avverte con sensibile istinto storico il maturare delle ragioni materiali per l'esplosione della spontaneità proletaria e anticipa le los Angeles del futuro.
In questo contesto la manovra economica del governo Amato sarebbe semplicemente antistorica se risultasse fine a sé stessa, utile solo a risparmiare sulle spese e a drenare capitale presso la popolazione. Nessun regime si uccide con le sue mani, fosse pure quello di Pulcinella nel Bel paese. La manovra attuale è solo un enorme tampone per bloccare il disastro, poi verrà la vera politica economica, la sovrastruttura per applicarla e gli strumenti per controllare il proletariato ancora una volta chiamato a versare pluslavoro per salvare il "cadavere che ancora cammina".
Nel frattempo saranno sorci verdi anche per il variegato "popolo" che "vive al di sopra dei propri mezzi" e avrà ben altro contro cui sbraitare che la minimum tax.
La sovrastruttura necessaria a controllare la ulteriore sopravvivenza del capitale è già in fase di formazione e non ha da inventare nulla di nuovo. Già dall'immediato dopoguerra dicemmo che l'inquadramento sindacale in epoca imperialista è il supporto necessario al capitalismo per sopravvivere. Esso è irreversibile, nel senso che è il risultato dell'evoluzione storica dei rapporti fra capitalisti e lavoratori, dal divieto per principio agli albori del movimento operaio, fino all'inquadramento non solo legale, ma auspicato e utilizzato dalla stessa borghesia.
Lo Stato si arroga il diritto di reprimere o controllare le organizzazioni operaie perché non ammette la lotta di classe. Quando la lotta di classe dimostra di essere insopprimibile, lo Stato ha solo due strumenti: la polizia e l'assorbimento delle spinte di classe nell'ambito delle leggi e delle regole interclassiste.
Lo spiega bene Bottai, il citato teorico dello Stato corporativo fascista:
"Il problema della libertà sindacale non può trasferirsi e risolversi sulla questione dell'intervento del potere pubblico nella vita delle associazioni [...] Il regime liberale, quando non accede al concetto di una particolare legislazione, affida le associazioni alla materna tutela della polizia. È solo quando la legislazione speciale nasce, che il diritto di associazione si delinea e vigoreggia; ma è solo allora che il diritto di controllo dello Stato sul sindacato si tramuta da controllo di fatto in controllo giuridico. All'intervento diretto o indiretto del sindacato nelle funzioni dello Stato è naturale che corrisponda un intervento diretto o indiretto dello Stato nelle funzioni del sindacato [...] Nell'interno poi del sindacato legalmente riconosciuto, tutti gli interessi si esplicano con sicurezza, essendo il congegno sindacale italiano squisitamente rappresentativo" (da L'ordinamento corporativo dello Stato cit.).
Il ragionamento di Bottai non fa una grinza. Il sindacato attuale reclama un intervento negli affari dello Stato da quando si è ricostituito, a guerra ancora in corso. Ha firmato patti espliciti ma ha soprattutto fatto una politica reale di appoggio agli interessi nazionali, da vero fiancheggiatore dello Stato borghese. È perfettamente lecito da parte dello Stato prevedere un controllo e un utilizzo reciproco della rispettiva influenza.
Se è irreversibile il processo che ha portato il sindacato a questa funzione, non è affatto irreversibile il legame che questo processo ha creato fra classe operaia e sindacato e Stato. Quando storicamente siano necessarie vaste organizzazioni proletarie che si muovano su saldo terreno classista, esse si formano o sulla distruzione di quelle vecchie, o parallelamente ad esse, svuotandole di ogni contenuto.
I comunisti lavorano ovviamente nell'ambito sindacale, in qualunque forma esso si presenti, sempre che in questo ambito si raccolga la partecipazione significativa dei proletari e non sia puro velleitarismo. Ma nello stesso tempo non si stupiscono e tantomeno si indignano di fronte ai normali funzionamenti del capitalismo, di fronte allo sfruttamento e al tentativo di "far pagare alla classe operaia il costo della crisi". La soluzione del problema non è di natura morale, sta nei rapporti di forza, soprattutto non sta nel pagare che cosa e da parte di chi, ma nel rovesciamento dei rapporti sociali.
È certo che nel prossimo futuro le necessità del capitale chiameranno tutte le forze sociali a far quadrato intorno al tentativo di innalzare la curva cadente del saggio di profitto. È altrettanto certo che il sindacalismo attuale accorrerà all'appello, non prima di aver ristabilito un controllo su una classe operaia che sta abbandonando non solo l'attività sindacale, morta da un pezzo, ma anche il sostegno economico che permette ai funzionari e alle sedi di sopravvivere. Non è certo che la classe proletaria stia al gioco fino in fondo.
Per compiere l'opera si sta chiedendo da parte delle più avvedute correnti sindacali l'aiuto dello Stato, cioè una legislazione adatta a "rilanciare la democrazia in fabbrica", quindi la fiducia dei proletari (con l'abrogazione e sostituzione del famigerato articolo 19 della legge 300 sulla lottizzazione dei consigli di fabbrica):
"Un'epoca è finita e la riforma dell'intero sistema della rappresentanza sindacale appare non solo come un'inderogabile richiesta del mondo del lavoro, ma anche come una condizione necessaria di un nuovo assetto istituzionale (dal documento scaturito all'Assemblea Nazionale dei delegati FIOM del 12 nov. 1992).
L'abbraccio fra le "parti sociali", l'intervento reciproco nelle rispettive sfere di influenza, si sta dunque facendo stretto come all'epoca di Bottai. Se da una parte siamo preparati a questo come corrente, dall'altra abbiamo la consapevolezza che ogni passo compiuto dalla borghesia nel consolidare il suo potere senza maschere è un tratto in più dello scavo della vecchia talpa sotto le fondamenta del capitalismo.
Per noi l'aumento del famigerato Prodotto Interno Lordo non è un indice di miglioramento di vita, né il buon funzionamento dello Stato può essere un obiettivo nostro, né la democrazia in sé; non plaudiamo ai colpi di ramazza della magistratura, consapevoli che si tratta di regolamenti di conti fra avversari di una stessa classe e non ci interessa dal punto di vista morale se i possessori privati di 1.800.000 miliardi di titoli di stato "ricattano" lo Stato piegandolo ai loro interessi. È il loro Stato, è la loro magistratura, sono i loro capitali, è la loro società. Fanno il loro mestiere di classe, cui possiamo solo contrapporre un coerente lavoro in funzione di un ritorno alla battaglia da parte della classe avversa.
Perciò se denunciamo spietatamente il coro di quelli che vorrebbero il capitalismo senza i suoi terribili "difetti", ci vogliamo anche distinguere, per tradizione della Sinistra, dal coro di quelli che dell'indignazione e del pianto fanno il loro cavallo di battaglia; questo atteggiamento è duro a morire tra le fila di coloro che si richiamano ancora al marxismo e qua e là compaiono articoli-appello contro l'ennesimo "attacco alle condizioni di vita del proletariato". È lavoro pratico rivoluzionario spiegare che non si può avere il capitalismo senza questi effetti del suo funzionamento nello stesso tempo in cui si lavora nel sindacato o fuori di esso per difendere o migliorare le condizioni di vita o di lavoro:
"Il falso marxismo si compendia nella tesi che il lavoratore può conquistare posizioni utili [ai fini rivoluzionari]: a) nello Stato politico con la democrazia liberale; b) nella azienda economica con aumenti di salari e rivendicazioni sindacali. E ciò parallelamente al crescere dell'accumulazione del capitale. Il falso marxismo corteggia la dottrina che l'aumentata produzione è aumento di ricchezza sociale ripartita tra 'tutti'. Ha tradito totalmente la legge basilare del marxismo.
Sorge da questa chiarificazione, da una parte, lo studio economico teorico della modernissima accumulazione, dall'altra una conclusione sulla strategia della lotta di classe. Abbiamo pertanto coi dati della storia di essa impreso a mostrare questo: al centro del falso marxismo e al vertice del tradimento sta la teoria della 'offensiva' padronale borghese capitalistica" (da Lotta di classe e "offensive padronali", B.C. n. 40 del 1949).
Torino, novembre 1992
Fine