34. Astratti, schematici, rigidi e pure settari (1)

Un'intervista ad Amadeo Bordiga

Il fatto di mettere in circolazione il testo qui riproposto, cui aggiungiamo due significative lettere personali, si integra nel lavoro complessivo che da anni stiamo conducendo. Sin dalle prime nostre Lettere ai compagni abbiamo cercato di richiamare l'attenzione sulla necessità di evitare cadute di attenzione teorica e trattenere impulsi d'impazienza dovuti alle circostanze in cui eravamo costretti ad operare. Pensiamo che sia utile per tutti i compagni e i lettori di oggi poter fare un "ripasso", su di un particolare testo di Bordiga, a proposito di che cosa significhi marxisticamente possedere un metodo. Su questo concetto, spesso deformato, e sul termine spesso usato impropriamente, il lettore troverà una nota apposita in appendice.

Le circostanze in cui si lavorava all'inizio, difficili per i motivi che sono stati abbondantemente spiegati nelle Lettere, rappresentarono un incentivo ad aggrapparci al patrimonio della Sinistra. Per noi le questioni di metodo sono state perciò pane quotidiano, dato che abbiamo dovuto lottare su più fronti, e i testi in questione rispondono bene ad alcuni problemi ricorrenti cui abbiamo sempre dovuto far fronte, non sempre e solo per volontà nostra, in modo drastico. Il metodo marxista è quindi una potente cartina di tornasole per la verifica della possibilità di lavoro e della stessa convivenza tra organizzati.

Nell'intervista a Bordiga sono concentrati sei decenni di lotta contro l'opportunismo e di storia del proletariato mondiale. Il vecchio compagno, malato ma non certo rassegnato di fronte alla fine imminente, lucidissimo come se stesse tenendo una riunione a nuove leve che non sanno, spiega come si affrontano le famigerate questioni legate alle "azioni concrete in situazioni concrete" (1).

Bordiga muore nel luglio del 1970. Nel novembre del '69 aveva rilasciato un'intervista registrata a Sergio Zavoli ed Edek Osser, della RAI, che andrà poi in onda nel novembre 1972 nel corso del programma televisivo Nascita di una dittatura (2). La vicinanza tra l'intervista e la morte, il fatto che Bordiga non abbia mai voluto nella sua vita incontrare giornalisti (3), e l'evidente indirizzo che egli impone alle domande, ha fatto a volte parlare, anche tra di noi, di una specie di "testamento di Bordiga". Ma se si tiene presente che un testamento rappresenta le "ultime volontà", l'espressione non è corretta. Non si tratta per nulla di "volontà", bensì di bilancio storico riguardo la validità di un metodo contrario alle espressioni di volontà individuale. E tantomeno si può parlare di "ultime parole", dato che sono le stesse cose che Bordiga poteva dire mezzo secolo prima e che in effetti disse e scrisse. Perciò la successione temporale riguarda solo il dato anagrafico e la resistenza biologica della poderosa macchina rivoluzionaria che Amadeo rappresentava.

L'intervista è allora l'ultima di tante testimonianze tese a confermare la continuità e l'invarianza nella dottrina, come a gettare un ponte verso le nuove generazioni. Lasciare un "testimone" di staffetta, appunto, senza fermarsi, perché la rivoluzione non si ferma mai, anche se, in confronto ai pochi militanti che rimangono sulla breccia nei momenti difficili, molti deviano, scompaiono, tradiscono, senza contare che tutti, senza eccezione... devono adeguarsi al ciclo biologico dell'organismo. Nel testo Lezioni delle controrivoluzioni, Bordiga scrive: "Il marxismo non è la dottrina delle rivoluzioni, ma quella delle controrivoluzioni: tutti sanno dirigersi quando si afferma la vittoria, ma pochi sanno farlo quando giunge, si complica e persiste la disfatta". Quei pochi erano fatti di materiale ben temprato, oggi introvabile, eppure ancora meno che pochi hanno resistito fino alla fine. Nell'intervista si rivendica la necessità di una durezza dovuta al materiale costitutivo e ancor più alla tempra di esso nel fuoco delle avversità. Di fronte ad esse Bordiga scriveva esortazioni del genere: "Mi spezza il cuore il grido di desolazione, ma il fatto più grave non è la fessificazione [di un episodio], bensì la lentezza con cui la vostra pelle evolve verso lo spessore di quella del rinoceronte". E' un invito a non essere elastici e concretisti, ma astratti, schematici, rigidi e pure settari, se necessario; insensibili al vento che tira e non banderuole; panzer inattaccabili e non "pellesottile", com'era chiamato un pur formidabile compagno per certe sue debolezze (fumava, beveva, aveva "stravizi sessuali" e aveva reazioni passionali di fronte alle difficoltà: tutto ciò l'aveva portato alla morte che era ancora giovane).

Il secondo documento qui pubblicato, una brevissima lettera a Terracini, precede l'intervista in ordine di tempo, essendo datata marzo 1969 (4). In due righe Bordiga ribadisce la sua intransigenza "cocciuta e settaria" e, per non scrivere un trattato sui movimenti sociali di quel periodo, rimanda il vecchio amico-avversario alla lettura di un testo sul rapporto tra gli intellettuali e il marxismo. In quell'articolo, attraverso quattro sintetici punti, si evidenziano sia i capisaldi rivoluzionari sulle determinazioni rivoluzionarie e la "cultura", sia le deviazioni che derivano dal disconoscimento di uno qualsiasi di essi (5).

Il terzo documento, del 1952, si spiega da sé. Oltre ad esservi ripresi gli argomenti sul ritornello del dogmatismo bordighiano che risalgono al 1912, vi si trova un anticipo di quello che sarà il "Filo del Tempo" Fiorite primavere del Capitale, del 1953, che è servito da spunto alla nostra scorsa Lettera 33 intitolata Militanti delle rivoluzioni. Il nesso con gli argomenti trattati in questa nostra ultima Lettera è evidente: non si analizza il maturare di una rivoluzione con metodo concretista, ma astraendo dalle azioni immediate delle classi e soprattutto da ciò che esse esprimono in forma ideologica. Se ne ricava che la tattica del partito rivoluzionario non deriva da una becera predicazione di ricette basate su fatti contingenti ma da un grande schema astratto comprendente una realtà che gli uomini singoli normalmente non vedono, che è manifestata solo attraverso le tendenze storiche delle classi e per di più solo in certi momenti particolari della storia.

Infine una noticina su un particolare forse secondario ma significativo: l'intervista che, in quanto tale, non poteva essere anonima, è firmata "ingegner Amadeo Bordiga". Egli lo faceva spesso, anche in lettere private, quando non voleva apparire come colui che parlava in veste di "capo" rivoluzionario. Quando le ragioni anagrafiche resero evidente che occorreva "passare il testimone", risultò che gli insegnamenti sulla personalità non erano stati ben recepiti dal partito e, ad un vecchio militante che lo faceva notare, rispondeva: "E' vero che il partito non è omogeneo se per tenerlo insieme bisogna far ricorso alla ammirazione per il grande Amadeo. Dato che io sia un capo geniale, è proprio senza capo geniale che deve funzionare il partito quale sempre lo abbiamo pensato. [...] Male quindi che i compagni non siano educati a capire che non è un argomento decente quello che dice: Amadeo pensa così. L'altro male è che la disciplina al Centro sia condizionabile dalle opinioni o dalla stima del compagno singolo sulla persona di quello che al Centro è addetto" (6).

In alcune di queste lettere traspare la speranza di veder sorgere forze nuove, magari da forgiare ma in grado di camminare da sole. Amadeo ha posto un'ultima firma da compagno qualsiasi come per dire: noi abbiamo fatto questo, adesso rimarrete soli, senza il grande burbero che vi controlla, fateci vedere di che cosa siete capaci voi. E' una sfida in grado di polverizzare i già deboli militanti di oggi, ma che dovrà essere accettata per forza.

Sulla scarsa diffusione di un testo importante

L'intervista a Bordiga è nota, ma poco diffusa e ancor meno conosciuta. Anche la lettera a Terracini, per quanto possa sembrare insignificante di fronte ad altre ben più corpose, merita di non essere dimenticata, come la lettera a Salvador, che è poco conosciuta fuori dalla cerchia dei vecchi compagni. Più che sull'origine dei testi, può essere utile soffermarsi sui motivi della loro scarsa diffusione anche nell'ambito ristretto dei gruppi e dei "partiti" richiamantisi alla tradizione della Sinistra.

Nella sostanza nulla differenzia questi scritti dai tanti lavori teorici e dai tanti semi-lavorati svolti da Bordiga nel corso della sua pluridecennale esperienza di militante comunista. Né compaiono in essi aspetti contraddittori con quanto affermato e difeso in altri testi o nel corso di altre polemiche. Anzi, nello scorrere le risposte dell'intervista o le poche righe delle lettere, salta subito agli occhi la capacità di sintetizzare il valore e la continuità di un'esperienza e la coerenza di una dottrina dalle iniziali battaglie della frazione astensionista in seno al Partito Socialista fino al delineamento dei compiti che attendono e toccheranno alla pur ridotta compagine marxista e rivoluzionaria nella situazione che si verrà a creare dalla fine della fase espansiva dell'accumulazione capitalistica del secondo dopoguerra e dalla crisi susseguente che si andrà vieppiù manifestando dalla metà degli anni settanta in poi.

Da ciò deriva che anche i dubbi su ipotetici sintomi di senescenza, ravvisati nella concessione dell'intervista, manifestati a quell'epoca da alcuni compagni, erano del tutto privi di fondamento e, essi sì, sintomo di uno scollamento ormai intervenuto tra la pratica dell'organizzazione formale che a quella tradizione intendeva richiamarsi e la capacità/necessità di indagine dialettica e scientifica autenticamente marxista che in quelle poche pagine veniva ancora una volta ribadita con tanta forza, sicurezza ed energia.

Non ritorniamo ancora una volta sulle vicende che determinarono le molte fratture all'interno del Partito Comunista Internazionale prima del suo disastroso éclatement (7) agli inizi degli anni ottanta, così come all'ambito dell'immaginazione letteraria sarebbe meglio relegare le ipotesi sulle ragioni del progressivo allontanamento dello stesso Bordiga dalle file di quella compagine a partire dal 1966; certo è che, al di là delle singole testimonianze o delle polemiche di gruppo più o meno sterili, la mancata ricezione delle indicazioni date in quel contesto, come in altri scritti ascrivibili alla continuità della Sinistra Italiana con la teoria marxista rivoluzionaria (quella di Marx, Engels e Lenin tanto perché sia chiaro), si accompagnava sempre più a tentativi maldestri e fuorvianti di avvicinamento di quella che si diceva essere la curva del partito a quella del movimento. In altre parole attivismo contro ribattitura dei chiodi.

Ancor più, forse, questi, come altri scritti, testimoniano una sorta di solitudine che circondò Amadeo non solo negli ultimi anni di vita, ma anche nel corso degli anni burrascosi dell'attività di restaurazione della teoria e della tattica marxista del dopoguerra. Alcuni accenni, e anche qualcosa di più, presenti soprattutto nella sua corrispondenza con i compagni a lui più vicini suggeriscono l'immagine dell'attività di un compagno rispettato e seguito, ma non sempre del tutto compreso sul piano del metodo e della tattica, anche dopo la separazione del 1951 che diede vita a due partiti.

La difesa di un anonimato intransigente o al contrario la rivendicazione del nome dell'autore nel caso della ripubblicazione degli scritti di Bordiga, ha così spesso costituito il modo per gli epigoni, nel corso degli anni, di lodare i santi (a parole) e trafficare con i fanti (nella pratica). In entrambi i casi teoria, metodo e indicazioni tattiche che ne derivavano venivano lasciati all'Empireo, e nella realtà si finiva per trattare quel patrimonio come un bagaglio troppo ingombrante da trasportare ovunque e quindi destinato ad essere alleggerito, sfoltito e magari anche attualizzato.

Paradossalmente (ma non troppo per chi abbia seguito il metodo marxista), isolate difese della integrità del lavoro di Bordiga nel grande arco storico e la sua proiezione verso il partito di domani, vennero dall'esterno del lavoro militante, da vecchi compagni ormai disgustati dal politicantismo o da giovani lettori toccati dal demone del comunismo, come quando, nel 1982, uscì una pubblicazione che rivendicava con forza e chiarezza l'ortodossia e il settarismo di quello che viene visto come programma rivoluzionario e non come sfizio intellettuale: "Si è voluto vedere in Bordiga l'ultimo esponente del veteromarxismo, intendendo con ciò un marxismo non solo ortodosso - giudizio questo con il quale egli stesso avrebbe pienamente concordato - ma di un marxismo ormai superato dai tempi, inadeguato a interpretarli, cioè il sopravvissuto resto fossile di un mondo del tempo passato. In realtà Bordiga è stato il teorico comunista rivoluzionario a noi più contemporaneo, anzi troppo in anticipo sui tempi, propugnado soluzioni teoriche e politiche inaccettabili agli occhi della quasi totalità dei suoi contemporanei e in parte anche quelli del nostro tempo. [Egli] fu fin troppo poco 'figlio del suo tempo', guardando al suo presente con gli occhi del futuro" (8). Nessuno dei partiti o gruppi "bordighisti" rivendica più il Bordiga proiettato nel futuro, ligio al Manifesto di Marx: egli e il suo lavoro vengono trattati come i ricordi del nonno, in gamba, ma morto e sepolto (9). Nel testo citato, per quanto scritto individualmente e al di fuori dell'esperienza militante, c'è un riferimento più vivo che non nei pretesi ortodossi, riferimento concreto e non solo scomodo bagaglio degno tutt'al più di qualche farisaica genuflessione o di qualche pappagallesca ripetizione.

C'è sintomo negli scritti qui riproposti di un Bordiga cosciente di tutto ciò? Parrebbe proprio di sì.

Teoria, metodo, tempi, tattica

Sia nell'intervista che nelle lettere non compaiono recriminazioni di sorta, né per quanto riguarda gli uomini né per quanto riguarda i tempi. Gli avvenimenti sono frutto di determinazioni ferree, gli uomini non fanno quel che vogliono e i tempi non si accelerano né si fermano con la propria volontà. A Terracini Bordiga dice: quando avevamo l'età degli studenti di adesso, abbiamo fatto del nostro meglio; abbiamo, anche al "traditore" di un tempo, c'è da riflettere sul materialismo. E a Ceglia che si rammarica di aver preso i "torinesi" ordinovisti nel'21 chiede: spiegare marxisticamente che cosa significa "si doveva". A Terracini parla di una crisi rivoluzionaria possibile: i tempi sono quelli del passaggio espansione-congiuntura tra la fine degli anni sessanta e l'inizio degli anni settanta. Il ciclo dell'espansione seguito alla Seconda Guerra Mondiale sta volgendo al termine. La compressione del lavoro vivo in fabbrica, sia dal punto di vista salariale che da quello dell'orario e dei ritmi, sta provocando un aumento delle lotte operaie, mentre parametri e paraventi keynesiani entrano per la prima volta in crisi.

Ebbene, sembra dire Amadeo in un dialogo tutt'altro che inverosimile coi compagni di allora, di fronte a questa situazione realistica (10), non c'è alcun bisogno di nuovi strumenti teorici ed organizzativi, non servono nuove parole d'ordine né occorre stabilire che certi vecchi soggetti politici siano invece una novità che ci permette di stabilire nuovi patti d'alleanza.

Dall'esigenza di questa riaffermazione deriva l'impostazione di tutta l'intervista, rivolta com'è a ripercorrere la storia del movimento comunista italiano e internazionale dal 1917 al 1970, e delle lezioni della rivoluzione e della controrivoluzione.

Si badi bene alla struttura dell'intervista: 21 domande e risposte riguardano il periodo che va dal 1917 al 1928, ovvero al VI Congresso dell'Internazionale, al quale Bordiga non partecipò, e 2 sole agli "invarianti" della teoria, tattica e disciplina comunista.

Confondere questa sproporzione, apparente, di spazio dedicato all'uno e all'altro tema con uno squilibrio reale dovuto a problemi di "regia televisiva" sarebbe errato.

L'insieme del lavoro di restaurazione teorica e di difesa monolitica del marxismo portate avanti dalla Sinistra Comunista e da Bordiga, prima e dopo il secondo conflitto mondiale, non andò mai separato dalla concreta esperienza della lotta e della battaglia contro il capitalismo e le mille varianti del riformismo e dell'opportunismo.

L'excursus sul periodo della formazione e della nascita del PCd'I, delle battaglie in seno all'Internazionale e contro il fascismo ha piuttosto la funzione di preparare l'esposizione, contenuta appunto nelle due ultime risposte, dei cardini di un'invarianza di categorie e di riferimenti teorici collaudata e verificata nell'arco di tempo che va dall'apparire dei primi bagliori rivoluzionari scaturiti a cavallo del primo conflitto imperialista all'affermarsi di una controrivoluzione armata di ideologia borghese e di plotoni di esecuzione sul, e soprattutto dentro, il movimento proletario internazionale.

Soltanto dall'acquisizione dell'esperienza della rivoluzione e della controrivoluzione, e soprattutto di quest'ultima, e dal suo inquadramento all'interno di una prospettiva rigidamente deterministica e intransigentemente dialettica è possibile far derivare tutto il lavoro svolto dalla Sinistra negli anni del secondo dopoguerra, e anche durante il corso del conflitto, e la sua continuità con la teoria e la tattica del marxismo rivoluzionario.

Continuità che contraddistingue il lavoro e le posizioni intransigenti di Bordiga e della Sinistra Comunista italiana da quelle altre correnti (consigliaristi tedeschi e olandesi, trotzkismo) e da quei militanti e teorici (Korsch, Pannekoek, Gorter, Luckacs e molti altri ancora) che, più opponendosi allo stalinismo che difendendo la teoria marxista e quindi la rivoluzione, finirono spesso col cadere in contraddizione con sé stessi, se non addirittura col diventare strumenti inconsapevoli della controrivoluzione perdendo ogni legame con gli originari presupposti teorici.

Fin dal 1926, con la lettera a Karl Korsch, Bordiga sembrò rendersi conto dei rischi, tutt'altro che virtuali, cui sarebbe andata incontro un'opposizione internazionale tenuta insieme soltanto dalla necessità di contrastare la "bolscevizzazione" dell'Internazionale e dei partiti comunisti. Scriveva infatti in quella lettera: "Ho poi l'impressione - mi limito a vaghe impressioni - che nelle vostre formulazioni tattiche, anche quando sono accettabili, date un valore troppo preponderante alle suggestioni della situazione oggettiva, che può oggi sembrare volta a sinistra. Sapete che noi, sinistri italiani, siamo accusati di negare l'esame delle situazioni: questo non è vero. Tuttavia noi miriamo alla costruzione di una linea sinistra veramente generale e non occasionale, che si ricollega a se stessa attraverso fasi e sviluppi di situazioni distanti nel tempo e diverse, fronteggiandole tutte sul buon terreno rivoluzionario, non certo ignorandone i caratteri distintivi oggettivi" (11). Al di là della critica allo stalinismo e del richiamo a una pur solida tradizione marxista, molte erano le posizioni che già allora differenziavano la Sinistra italiana dalle altre correnti di opposizione: sulla questione del partito, della tattica, del centralismo, della democrazia e della natura sociale dell'URSS, solo per citare le più importanti.

Mantenere un'impostazione chiara e distinta significò allora porre le basi non solo per la salvaguardia di una ristretta compagine di militanti, ma anche quelle per la ripresa e la continuazione di un lavoro di restaurazione teorica ineludibile, anche negli anni dell'isolamento più completo e nei momenti più bui dello sbandamento proletario.

L'attività, forzatamente ridotta, degli anni successivi, tutta tesa a rinsaldare l'insieme dei capisaldi teorico-programmatici del marxismo, fu condotta all'insegna della lotta in difesa dell'invarianza, affinché non "si accettasse la banale idea che il marxismo è una teoria in continua elaborazione storica e che si modifica col corso e la lezione degli eventi. Invariabilmente è questa la giustificazione di tutti i tradimenti le cui esperienze si sono accumulate, e di tutte le disfatte rivoluzionarie" (12).

Scambiare la restaurazione teorica in nome dell'invarianza marxista per un'assenza di lavoro pratico è assurdo. L'individuazione di caratteristiche specifiche legate a cambiamenti che, per quanto poderosi, non coinvolgono la classica visione geostorica della tattica, indurrà individui, gruppi e partiti a pericolose innovazioni nelle rispettive prassi, cioè a inevitabili e disastrosi atterraggi nel campo dell'opportunismo, come dimostra per esempio l'enorme confusione intorno all'appoggio a sedicenti movimenti di liberazione dall'imperialismo. Altrettanto disastrosi incontri con l'opportunismo saranno provocati dai pruriti attivistici dell'immediatismo, che fa scambiare il rigore marxista per attendismo e intellettualismo senza giungere a vedere che esso si è forgiato nella e per la battaglia, non in eburnee torri.

Ma tant'è; di ciò non è certo possibile incolpare la chiarezza espositiva o la consequenzialità dell'opera di Bordiga, il quale ha già dato una risposta appropriata sull'argomento: "Jateve a cuccà! Siete impotenti anche a caricare la sveglia" (13).

Invarianza dei capisaldi

Leggiamo nella lettera a Terracini che Bordiga si aspetta una rivoluzione monopartitica ovvero, come al tempo della rottura col PSI prima e del contrasto con le direttive dell'Internazionale poi, che non può essere diretta da un'alleanza o fronte unito del partito del proletariato rivoluzionario con i partiti borghesi e piccolo borghesi, autoritario o democratico che sia il regime imperante.

Da ciò deriva che la sua anima deve essere monoclassista, non nel senso sociologico che tanto piace ad operaisti e bolscevizzatori, ma nel senso del rifiuto di ogni contaminazione con le ideologie borghesi fatte proprie dalle classi medie e dalla gioventù detta studente che, fin dal '68, aveva mandato Bordiga su tutte le furie per il suo tentativo di rappresentare richieste giovanilistiche e piccolo borghesi come classiste (14).

Anche in questo caso: Fronte Unico proletario sì, Fronte Unito con l'opportunismo e la piccola borghesia no! Senza alcun bisogno di creare nuovi organismi o sindacati per sopperire con la volontà a ciò che ancora non può esistere.

Una rivoluzione che deve essere, infine, plurinazionale, non nel senso del coinvolgimento di più nazioni in quanto tali, ma nel senso di un movimento mondiale anazionale che eviti il ricorrente abbaglio di vedere in ogni lotta di liberazione dai vincoli dell'imperialismo una nuova via specifica al socialismo, ed in ogni situazione nazionale, cioè locale, una necessità tattica altrettanto locale e specifica, in contrasto con il concetto marxista di tattica applicata secondo grandi aree geostoriche, di cui si parla in tanti testi della Sinistra (15).

Ma non sarebbe sufficiente dimostrare una preparazione marxista ortodossa col seguire pedestremente le prescrizioni della dottrina se non si assumesse anche un pratico atteggiamento nel metodo di lavoro sia nell'organizzazione che nei contatti quotidiani con il mondo "esterno" ad essa.

Nelle ultime due risposte dell'intervista, come si è già detto precedentemente, sono vigorosamente spiegati e ribaditi alcuni caratteri fondamentali della concezione marxista del mondo assolutamente inseparabili da tutto il resto. Chi separa questi caratteri da tutta la costruzione, la distrugge dalle fondamenta. Al corpo dottrinale del marxismo occorre accompagnare una concezione del partito e della sua prassi che comporti il rifiuto di tutte le sue possibili evoluzioni elastiche sia per quanto riguarda la dottrina sia per quanto riguarda la tattica. Non sono permesse dal marxismo oscillazioni secondo il "mutevole avvicendarsi delle situazioni politiche e dei rapporti di forza tra le classi sociali" (16).

Il settarismo va inteso, e in quanto tale rivendicato, come vigorosa reazione al tentativo di diluire il rapporto di stretta disciplina della organizzazione centralizzata del partito "in un legame equivoco, che a volta a volta consenta che elementi o gruppi di base si diano liberamente a sperimentare o a proporre, per l'insieme del partito, azioni incontrollate e improvvisate". Il settarismo di Bordiga non è sinonimo di esoterismo, cioè il maneggio di materiale e cognizioni negate ai non adepti della religione o della setta. Dato che il comunismo non nasconde i suoi fini e i suoi mezzi, giusto il Manifesto, la rivendicazione settaria si spiega con la difesa dei caratteri peculiari e non mercificabili del marxismo, il rifiuto di atteggiamenti pratici che si risolvono in azioni (tattica) "suggerite dalle opportunità fallaci che vengono ad offrire ai dotati di agilità politica i creduti o pretesi fatti nuovi sorgenti dal mutare delle situazioni, ossia a permettere, al posto della serietà inflessibile che deve avere l'impegno del militante rivoluzionario, una serie di evoluzioni acrobatiche"(17).

Schematismo dottrinario e astrattismo contro empirismo e concretismo

Dalla inflessibile difesa della dottrina rivoluzionaria, deriva in modo direttissimo la rivendicazione dell'astrattismo e dello schematismo dottrinario contro il concretismo.

Nel riprendere il discorso, più sopra accennato, sulla inelasticità della teoria ovvero sulla necessità di difendere e salvaguardare il corpus dottrinale e la scienza del marxismo nella loro interezza, senza necessità di aggiunte e revisioni teoriche, Bordiga trasforma le accuse così spesso usate contro la Sinistra dall'opportunismo, a partire da Gramsci (18), in attributi positivi, pienamente rivendicabili, anzi, come caratteristica indispensabile del buon rivoluzionario e del buon partito.

Le revisioni, le correzioni, i completamenti hanno sempre rappresentato la fossa in cui la rivoluzione veniva seppellita, a cominciare dalla Seconda Internazionale, i cui innumerevoli teorici marxisti (alcuni di statura gigantesca rispetto ai molluschi di questi tempi) avevano scatenato l'usanza di quel chiodo fisso che è l'aggiornamento della teoria, vero cancro della rivoluzione.

Immancabilmente destinate al fallimento dal punto di vista degli insegnamenti e della tattica che il partito della rivoluzione poteva trarne, tali revisioni hanno però condotto il più delle volte alla riscoperta e alla rivalutazione, anche se mascherate, di elementi del pensiero economico borghese, sia classico che volgare (19).

Lo schematismo dottrinario cui fa riferimento Bordiga è lo stesso che già lo animava negli anni delle giovanili battaglie in seno al PSI in nome di una tattica intransigentemente rivoluzionaria che, fin dai primi anni venti nella sua critica di Antonio Graziadei (20), egli intendeva fondare non su una qualsiasi volontà ma sulla necessità del superamento dei rapporti di produzione capitalistici data dallo sviluppo naturale delle contraddizioni insite in essi.

La scoperta e la necessità di tale trapasso è data una volta per tutte infatti nella teoria del valore di Marx e nella sua susseguente originale scoperta delle leggi del plusvalore nel processo genuinamente capitalistico di produzione.

"La scoperta del contrasto delle forme di produzione colle forze produttive, da cui sorgono i conflitti di classe e le rivoluzioni, è un risultato di quella analisi colla quale soltanto il marxismo può individuare e distinguere le varie forme economiche, e sopra tutte il capitalismo. I concetti di conquista violenta del potere e di dittatura proletaria sono derivati da quello di una crisi catastrofica del capitalismo, inerente alla sua stessa natura economica, di uno sfruttamento esasperato delle masse. Nessuna parte del programma comunista avrebbe trovata origine storica senza l'impiego dell'arma della critica proletaria contro le menzogne dei difensori dell'ordine borghese (...). Lo scetticismo in veste di cacadubbismo scientifico, e la parvità di spirito che si mostra nel preoccuparsi di non apparire "sorpassati" secondo le mode banali della scienza accademica, sono troppo lontani da quella disposizione alle lotte implacabili da cui noi dobbiamo trarre l'apologia della violenza e della dittatura rossa, gridata non dalle torri del Kremlino gloriosamente conquistate al proletariato, ma dalle non meno gloriose posizioni tenute malagevolmente in faccia alla tracotanza dell'avversario tuttora dominante (...). Potrebbe passare attorno a noi ancora una volta la raffica della sconfitta a toglierci ogni palpabile punto di appoggio nelle posizioni già guadagnate: non per questo dovrebbe venir meno nel nucleo più fedele delle nostre schiere la preparazione ideale e materiale alla lotta da rinnovare incessantemente. Perciò noi vogliamo radicata la nostra convinzione della bontà delle armi che impugneremo senza esitare, sulle basi della costruzione critica che ad essa ci condusse, sviscerando la natura della società borghese e del suo necessario soccombere fin da quando essa appariva una imprendibile e inviolabile fortezza" (21).

Schematismo dottrinario, quindi, radicato nella ferma convinzione che la teoria critica data una volta per tutte nell'opera di Marx sia l'unica guida sicura che il proletariato e il suo partito possono trovare per orientarsi, nell'azione rivoluzionaria come, e forse più, durante i periodi di controrivoluzione.

Val la pena di sottolineare come tutti gli scritti della Sinistra, dalle origini ai Fili del tempo fino ai più ampi lavori sulle forme di produzione, sulla struttura economica e sociale russa e sul corso del capitalismo mondiale furono sostanzialmente destinati alla battaglia, allo scontro con le forze nemiche. Non vi fu mai separazione tra restaurazione teorica e battaglia politica, né tanto meno si sognò che la teoria si fosse fermata da qualche parte o a qualche specifica data. Era il lavoro di critica del turpe esistente che la ravvivava e la confermava, venendo a sua volta continuamente rafforzato e reso più efficace, preciso e idoneo ai compiti da svolgere proprio dal rispetto del patrimonio teorico e del metodo in esso contenuto.

Soltanto in questa accezione è possibile cogliere che la scienza economica marxista è il programma rivoluzionario, costituendone contemporaneamente la base irrinunciabile, la bussola, il sestante, ovvero qualcosa di diverso dalla famigerata frase malamente attribuita a Lenin secondo la quale il marxismo non sarebbe "un dogma bensì una guida per l'azione". In questo senso è possibile comprendere come nel lavoro della Sinistra non sia riscontrabile una qualche specifica teoria su questioni singole, separata dal corpo principale della critica marxista dell'esistente.

Lavoro teorico quindi, ma non teorizzazione; definizione di una metodologia dettata dai fini e dalla teoria, ma nessuna scoperta di fasi o evoluzioni nuove e impreviste.

E' da tutta l'opera della Sinistra che noi ricaviamo la ferma convinzione che, mentre non è più possibile rinunciare al patrimonio che essa ci ha trasmesso per comprendere i compiti dei rivoluzionari e il divenire catastrofico del capitalismo, proprio perché essa ha costituito l'unica corrente comunista che non abbia mai perso di vista l'integrale visione deterministica connessa alla concezione marxista dei rapporti di produzione, allo stesso tempo non è sufficiente rivolgersi alla fonte diretta di tale dottrina, ovvero all'opera di Marx, ignorando le indicazioni metodologiche per la sua lettura e comprensione contenute nell'opera della Sinistra.

Questo se ci si vuole mantenere nel cammino della rivoluzione, perché in caso contrario occorre accettare il rischio garantito di ripercorrere tutti gli errori, i travisamenti e i tradimenti che in nome del marxismo sono stati operati e che la Sinistra ha già combattuto con Lenin e dopo di lui.

Potrebbe apparire contraddittorio il fatto che colui che più intransigentemente ha operato in questa direzione di critica, di battaglia e di metodo rivendichi a sé e alla corrente di cui fa parte un astrattismo di cui è stato spesso accusato dagli opportunisti di ogni grado e sfumatura (22).

Eppure è proprio la possibilità di tradurre il reale in schemi che permette il rigore in dottrina, che permette di condannare il concretismo, punto di partenza per ogni tipo di empirismo, per ogni scivolone innovativo, per ogni istanza riformistica e, quindi, controrivoluzionaria. Sono proprio le necessità dello scontro titanico con il capitalismo, sia sul piano della confutazione dialettica di oggi che del suo rovesciamento di domani, che impongono ai marxisti la via dell'astrazione:

"Ad ogni passo Marx mostra la finalità, non di descrivere freddamente il fatto capitalista, ma di avanzare il proposito e il programma della distruzione del capitalismo. Non si tratta soltanto di battere quella vecchia sudicia leggenda opportunista (23), ma di mostrare che tutta l'opera marxista ha natura di polemica e di combattimento, e quindi non si perde a descrivere il capitalismo e i capitalismi contingenti, ma un capitalismo tipo, un sistema capitalistico, sissignori, astratto, sissignori, che non esiste, ma che corrisponde in pieno alle ipotesi apologetiche degli economisti borghesi. Quello che importa è infatti l'urto - urto di classe, urto di parte, non banale diatriba di scienziati - tra le due posizioni: quella che vuole provare la permanenza, l'eternità della macchina capitalista, e quella che ne dimostra la prossima morte. Sotto questo profilo conviene al rivoluzionario Marx ammettere che davvero gli ingranaggi siano perfettamente centrati e lubrificati dalla libertà della concorrenza, dal diritto per tutti a produrre e consumare secondo le stese regole. Questo nella vera storia del capitale non fu, non è e non sarà, e i dati di partenza sono enormemente più favorevoli alla nostra dimostrazione: tanto meglio. Se, per farla corta, il capitalismo fosse arrivato a campare l'altro secolo restando scorrevole e idillico, la dimostrazione di Marx crollava: splende di potenza in quanto il capitalismo vive sì, ma monopolista, oppressore, dittatore, massacratore, e i suoi dati economici di sviluppo sono proprio quelli che doveva avere partendo dall'iniziale tipo puro; giusta la nostra dottrina contro quella dei suoi serventi" (24).

Alla faccia di ogni tipo di banalizzazione sociologica e delle novità che sarebbero comparse dopo la stesura dell'opera di Marx !

La fine del capitalismo e la teoria della classe rivoluzionaria, sono inscritti già nel patrimonio genetico degli attuali rapporti di produzione. Tale fine è dimostrata non solo dal carattere transitorio del capitalismo in generale, in quanto modo di produzione inserito in una serie storica, ma anche dallo sviluppo incessante di elementi di comunismo nel suo seno, vera anticipazione della società futura (25) . Tutta l'opera della Sinistra è stata rivolta a non perdere di vista e a difendere la chiave di lettura del DNA economico e sociale, difficoltà bio-chimica impossibile da superare per qualsiasi attivista, innovatore e impaziente preteso rivoluzionario come per qualsiasi studioso problematico e storicizzante del movimento operaio.

Forse non occorrono altre spiegazioni per capire come mai questa intervista non sia stata accolta con favore neppure nelle file dei piccoli partiti formali che, nelle intenzioni, vorrebbero continuare il percorso della Sinistra.

Più di un quarto di secolo è trascorso da quest'ultima messa a punto. I compagni che intendono lavorare sulla base di un marxismo genuino devono chiedersi da quale parte e quando, da allora, si è mai stati in grado di far proprio l'insegnamento che oggi affidiamo a una delle nostre Lettere. Devono chiedersi come mai è così difficile uscire dal dilemma fra ripetizione pappagallesca e sport della critica e del superamento, dilemma che obbliga a due strade che portano entrambe lontano dalla critica e dall'azione marxiste. Per conto nostro, strumenti come questi non sono per nulla arrugginiti e li mettiamo a disposizione dei compagni affinché il maggior numero di essi possa farli propri.

Una intervista ad Amadeo Bordiga

1. Nel novembre 1917 lei partecipò, a Firenze, ad un convegno clandestino della corrente "intransigente rivoluzionaria" del partito socialista. In quell'occasione lei incitò i socialisti ad approfittare della crisi militare per prendere le armi e portare l'attacco decisivo alla borghesia. Che esito ebbe la sua proposta? Era matura fin da allora, secondo lei, la situazione rivoluzionaria in Italia?

Sì, ero presente, nel novembre 1917, alla riunione clandestina di Firenze della frazione "intransigente rivoluzionaria" che dirigeva quale maggioranza il partito socialista italiano fin dal 1914. La direzione era informata della convocazione di Firenze: non la sconfessò, ed era anche rappresentata.

Fu in tale riunione che mi incontrai per la prima volta con Antonio Gramsci, che mostrò il più grande interesse alla mia esposizione. Conservo ancora l'impressione che egli, con la sua non comune intelligenza, da un lato approvasse e condividesse pienamente le mie tesi marxiste radicali, che sembrava ascoltare per la prima volta; dall'altro ne accennasse una sottile, precisa e polemica critica, come già risultava dai sostanziali dissensi tra il settimanale Il Soviet di Napoli, da me diretto, e la sua rivista di Torino, L'Ordine Nuovo. Questi dissensi ci erano chiari fin da quando, con un breve articolo, manifestammo il nostro saluto all'annuncio della nascita della rivista di Torino, pur avendo constatato che il suo dichiarato concretismo dimostrava una tendenza gradualista che sarebbe certamente sfociata in concessioni ad un nuovo riformismo, ed anche opportunismo di destra.

La mia ricostruzione del gioco delle forze si riferiva, fin d'allora, non alla sola Italia, ma a quello internazionale di tutta l'Europa. E' chiaro che io svolsi a fondo la condanna della politica dei partiti socialisti francese, tedesco, ecc. che avevano apertamente tradito l'insegnamento marxista della lotta di classe passando alla perniciosa politica della concordia nazionale, dell'unione sacra e dell'appoggio alla guerra condotta dai loro governi borghesi. Questa condanna si basava, dottrinalmente, sulla denunzia spietata della falsa chiave con cui si voleva giustificare ideologicamente l'adesione alla guerra dell'Intesa contro gli imperi centrali, in cui era confluito il nostro nemico giurato: l'interventismo militare italiano. Base essenziale di questa posizione, era il rifiuto della fallace preferenza, che volevano dare i guerrafondai di tutti i paesi, ai tipi democratico-parlamentari dei regimi borghesi, rispetto a quelli scioccamente definiti feudali, autocratici e reazionari di Berlino e di Vienna, in un silenzio compiacente su quello di Mosca. Svolsi, coerentemente a quanto andavo facendo nel movimento già da vari decenni, la critica propria di Marx e di Engels, che mostrava come fosse una prospettiva stupida quella che attendeva dalla vittoria militare dell'Intesa una futura Europa democratica.

Confermo senz'altro che la mia posizione di allora coincideva con ciò che Lenin definì: disfattismo e negazione della difesa della Patria. Proposi la grandiosa prospettiva che ivi la rivoluzione proletaria avrebbe potuto trionfare, ove le armate del corrispondente stato borghese fossero state sopraffatte bellicamente da quelle degli stati nemici, vaticinio che la storia ha confermato nella Russia del 1917. Confermo quindi che, a Firenze, proposi che si approfittasse delle sventure militari dell'Italia monarchica e borghese per dare slancio alla rivoluzione di classe.

Tale proposta non corrispondeva alla politica di allora della direzione del Partito, ferma sulla disgraziata formula di Lazzari "né aderire né sabotare", sebbene i presenti alla riunione, che fin d'allora configuravano una sinistra del Partito Socialista, mostrassero apertamente di accettarla. Non era sufficiente, per noi, il merito del Partito italiano di non aver aderito alla politica di guerra del governo, e quindi di non aver votato mai la fiducia in esso, né i richiesti crediti militari. Tale linea non poteva estendersi alla negazione anche del sabotaggio, ossia di quello che Lenin chiamò poi "trasformazione della guerra degli stati in guerra civile tra proletari e borghesia". La prospettiva da me caldeggiata non era dunque esattamente quella che in Italia fossero già mature le condizioni per attaccare a mano armata il potere delle classi possidenti, ma l'altra, molto più ampia e poi giustificata dal corso degli avvenimenti storici, che nel quadro della guerra in Europa si potesse e dovesse sul fronte opportuno (ciò che Lenin chiamerà "l'anello più debole della catena) fare esplodere lo scontro rivoluzionario, che non avrebbe mancato di estendersi a tutti gli altri paesi. L'accennato, falso merito del partito italiano nel restare equidistante sia dal plauso alla guerra che dal suo sabotaggio rivoluzionario sarà, al momento della fondazione di una nuova Internazionale, che riscattasse la fine vergognosa della seconda (cosa che io a nome dei socialisti di sinistra nel convegno di partito tenuto a Roma, nel febbraio del 1916 avevo già espressamente prospettato), ancora pretestuosamente invocato da Serrati e dai suoi seguaci che si opponevano alla espulsione della destra riformista (e in realtà socialdemocratica e anche socialpatriottica). Ciò è ben dimostrato dal fatto che il PSI considerò come un crimine da non commettere l'imbocco dell'unica via strategica che (fin da quando Lenin, appena rientrato in Russia, enunciò le sue classiche tesi dell'aprile 1917) risponde alle previsioni dottrinali e alle finalità storiche proprie del marxismo rivoluzionario. Quindi è assodato in linea storica che, se i convenuti di Firenze avessero dovuto deliberare, sarebbe stata senz'altro abbracciata la virile tesi del siluramento con tutti i mezzi dell'azione e della politica di guerra dello stato capitalista. Poiché le conclusioni di una consultazione avente carattere di base avrebbero dovuto impegnare gli organi centrali del Partito, alla mia proposta avrebbero dovuto seguire, in un sano movimento, le necessarie misure di attuazione. Ma non si poteva sperare che ciò facesse la Direzione, già compromessa sia dal rifiuto del maggio 1915 a proclamare lo sciopero generale nazionale contro la mobilitazione, da noi allora richiesto; sia dalla già qui deplorata formula del "non aderire né sabotare"; sia, ancora, dal fatto di avere tollerato, proprio in quello svolto della guerra, che il gruppo parlamentare socialista seguisse il suo capo Turati nel lancio della parola d'ordine difensivista: "La Patria è sul Grappa", che era comportamento ben poco diverso da quello dei socialtraditori francesi e teutonici.

2. Nel 1919, l'Italia fu scossa da violente manifestazioni. Perché non prese vita, nonostante la propaganda socialista e la forza numerica del partito, un moto popolare rivoluzionario? Le masse erano disposte e preparate a combattere? Che cosa mancò perché la parola d'ordine rivoluzionaria fosse lanciata?

Terminata la guerra con la vittoria di Vittorio Veneto, magnificata ma non sostanziosa né feconda di notevoli successi, si accentuò in tutto il paese quella situazione di disagio e di crisi economica che, come ogni socialista anche non estremista continuamente afferma, tormenta i ceti lavoratori anche in tempo di totale pace tra gli stati borghesi, ma si inasprisce di gran lunga per tutti gli effetti della guerra; a partire dallo svellimento violento dei lavoratori dal tranquillo ambiente della loro opera produttiva - anche se poco ricompensata - che li fa poi cadere nella miseria accentuata insieme alle loro famiglie. Questo stato immancabile di diffuso malcontento non provocò nelle masse proletarie il recupero di quella coscienza storica collettiva che purtroppo lo stesso Partito aveva largamente perduta; la risposta, ovvia, fu il ritorno di vere ondate di rivendicazioni e di agitazioni per miglioramenti immediati, anche salariali, che fecero tremare il terreno sotto i piedi dei borghesi, ma non per ciò stesso suscitarono nei proletari il potenziale necessario ad impostare oggettivamente la lotta armata per il trionfo della loro dittatura.

Oggi, la formula esatta non è quella che nel 1919 tutto era maturo per la rivoluzione socialista in Italia; ma è, preferibilmente, l'altra: conclusa la Prima Guerra Mondiale, i partiti proletari avrebbero potuto prendere la testa di un movimento offensivo vittorioso, che non vi fu solo perché quei partiti tradirono il loro stesso patrimonio ideologico e la visione loro propria delle lotte storiche che avrebbero chiusa l'era capitalistica. Era quindi il vero momento e lo svolto fatale per ricostruire il movimento proletario e socialista, restaurando le sue vere basi di dottrina, di programma e di strategia. Fu a questo compito che si accinsero senza indugio Lenin e l'Internazionale Comunista e, con essi, la sinistra del movimento italiano che dimostrò - e può oggi ancora dimostrare - di avere le carte in tutta regola con la linea storica gloriosa della Rivoluzione anticapitalista mondiale, partita dal manifesto del 1848 di Marx ed Engels.

3. Al sedicesimo Congresso del partito socialista di Bologna, nell'ottobre 1919, lei intervenne come capo della frazione cosiddetta "astensionista", che sosteneva la necessità di non partecipare alle elezioni per dedicarsi al progetto rivoluzionario. Perché vi era, secondo lei, incompatibilità fra le due linee di condotta? Qual era il vantaggio della linea che lei sosteneva?

Al sedicesimo congresso socialista, tenuto a Bologna al principio di ottobre del 1919, la frazione comunista astensionista (che aveva per organo il giornale Il Soviet, fondato a Napoli nel dicembre 1918, subito dopo la fine della guerra in Europa) non si distingueva dalle altre correnti soltanto per la proposta di non partecipare alle imminenti elezioni generali politiche e al parlamento che ne sarebbe uscito, ma anche perché era la sola a schierarsi sulle "tesi" affermate nel Congresso costitutivo della Terza Internazionale Comunista, tenuto a Mosca nel marzo di quell'anno, nelle quali si traduceva la grandiosa esperienza storica della Rivoluzione di Ottobre 1917 in Russia. Fra quelle tesi, era in prima linea la conquista del potere politico non attraverso le forme democratiche borghesi, ma con l'avvento della dittatura rivoluzionaria del proletariato e del suo partito di classe marxista. La prospettiva della grande campagna elettorale, e del prevedibile successo del solo partito che veramente si era opposto alla sanguinosa e rovinosa guerra del 1915, era respinta perché aveva il carattere di un diversivo alla tensione determinatasi nelle masse italiane a causa del sacrificio immenso di sangue, sui campi di battaglia, e della situazione di grave crisi economica che caratterizzava il dopo-guerra. Essa quindi contraddiceva apertamente ogni possibilità e speranza d'incanalare quella tensione, quel disagio, quel malcontento diffuso, nella sola direzione che, come la storia stessa andava insegnando, poteva condurre, non tanto nella sola Italia ma in tutta l'Europa, allo sbocco socialista e rivoluzionario. Tali tesi fondamentali, sulle quali era già ben orientato tutto il movimento della frazione astensionista, organizzato fin dal primo periodo con buona diffusione uniforme in tutte le parti d'Italia, non potevano ovviamente presentate e sostenute davanti alle altre correnti del congresso, che invece si appagavano della previsione del largo successo elettorale, che forse avrebbe permesso al partito, nella manovra parlamentare, di far passare taluni provvedimenti che avrebbero potuto in parte lenire le angustie e corrispondere alle ansiose attese delle masse lavoratrici. Un simile risultato avrebbe significato bruciare definitivamente gli aspetti favorevoli della situazione di allora e chiudere la sola via su cui, d'allora in poi, l'intero movimento delle classi sfruttate avrebbe dovuto esercitare la sua pressione: avrebbe cioè tarpato le ali alla ripresa della vera coscienza rivoluzionaria della classe operaia e dello stesso suo partito. Infatti, la destra riformista apertamente condannava le vitali tesi comuniste; e la grossa corrente che si diceva "massimalista", se non rifiutava chiaramente quei princpii, non vedeva come gli stessi, formando un preciso programma storico, dovessero essere dettati non solo al partito come insieme, ma anche a ciascun suo organo e a ciascuno dei suoi aderenti e militanti anche individuali che, in caso di ostinata opposizione, avrebbero dovuto essere esclusi dalle file del Partito. Solo per tale via si poteva giungere alla ricostruzione di un nuovo movimento Internazionale che non fosse insidiato, ineluttabilmente, dal pericolo del ripetersi della orrenda catastrofe dell'agosto 1914, e poteva essere curata la malattia infettiva dell'opportunismo social-democratico e minimalista.

Fin dal Congresso di Bologna, dunque, per la frazione astensionista era posta la rivendicazione di spezzare l'unità del Partito Socialista. Proprio per il rilevante numero dei suoi iscritti e dei prevedibili futuri elettori, quell'unità illudeva i fautori della tattica elezionista su un grave errore: che si potesse marciare verso il socialismo proletario pur ripudiando l'impiego della violenza e della forza armata, e la grandiosa misura storica della dittatura, la cui chiave consisteva nel privare di ogni diritto elettorale e democratico (e anche di ogni libertà di organizzazione e di propaganda) tutti gli strati della popolazione che non fossero formati da autentici lavoratori.

A questo punto, trovo opportuno ricordare un precedente di fatto che mi sembra, anche a tanta distanza di anni, rivestito di vero valore storico. La tesi centrale della nostra frazione non era l'antielezionismo, ma era invece la scissione del Partito, che lasciasse da una parte i veri comunisti rivoluzionari e dall'altra i seguaci del "revisioniamo" dei principii di Marx circa la inevitabile esplosione catastrofica del conflitto e l'urto tra le opposte classi sociali, già prima della guerra preconizzato dal tedesco Bernstein. Per mettere alla prova la nostra tesi, al congresso avanzammo ai capi della frazione massimalista elezionista, tra cui si annoveravano Serrati, Lazzari e Gramsci, una precisa proposta che tendeva a sostituire un unico testo, ben più chiaramente antirevisionista, a quello da loro preparato; in esso noi avremmo accettato che non si parlasse di boicottaggio dell'attività elettorale, mentre essi avrebbero accettato la nostra tesi base della scissione del Partito. La nostra proposta fu nettamente respinta dai massimalisti. A questo proposito voglio ricordare che poco dopo Lenin, scrivendo il suo testo contro l'estremismo come malattia infantile del comunismo, dichiarò di aver ricevuto e letto alcuni numeri del Soviet e di apprezzare il nostro movimento come il solo, in Italia, che avesse compreso la necessità della separazione tra comunisti e socialdemocratici, attraverso la scissione del Partito Socialista.

4. Nel 1920, al II Congresso dell'Internazionale di Mosca, la sua tesi "astensionista" si scontrò con quella "elezionista" di Lenin. Il parere di Lenin prevalse e l'Internazionale decise la partecipazione del partito socialista italiano alle elezioni. Ritiene anche oggi che la decisione dell'Internazionale sia stata un errore? Anche se nel '21 le elezioni furono un grande Successo per il Partito Socialista?

Al Secondo Congresso dell'Internazionale Comunista, iniziato a Leningrado nel giugno 1920 e poi proseguito a Mosca nella ex-sala del trono del palazzo del Cremlino, il Partito Socialista Italiano, che pretendeva di essere già, dal Congresso di Bologna, una sezione formalmente aderente all'Internazionale Comunista, inviò una delegazione che fu ammessa con voto deliberativo e che era composta da Serrati, Bombacci, Graziadei e Polano (per la federazione giovanile), la quale raggiunse la Russia con un treno speciale, inclusa in una più vasta delegazione proletaria italiana di cui facevano parte: D'Aragona e Colombino, dei sindacati; Pavirani, della Lega delle Cooperative, e alcuni altri che naturalmente non furono chiamati a partecipare al Congresso mondiale. Quanto a me, che ero esponente della frazione astensionista italiana e che non ero incluso nella delegazione del Partito, il mio intervento fu voluto ed organizzato dallo stesso Lenin a mezzo del suo delegato di allora in Italia, di nome Heller (chiamato tra noi Chiarini), il quale venne più volte a Napoli per predisporre il mio viaggio che si svolse, fra difficoltà di dettaglio che non è il caso di riferire, sull'itinerario: Brennero-Berlino-Copenaghen-Stoccolma-Helsingfors-Reval e, infine, Leningrado. Intervenni fin da quella prima seduta in cui Lenin pronunziò un memorabile discorso acclamato per oltre un'ora. Data la mia particolare posizione, partecipai a tutto il seguito dei lavori del Congresso a Mosca con voto solo consultavo. A Mosca, fu subito deciso che sarei stato ammesso come correlatore sulla questione del parlamentarismo, che era già all'ordine del giorno col relatore Bucharin; la decisione venne presa dall'Esecutivo e dal suo presidente Zinoviev. Si svolse, in primo tempo, l'altra importante discussione sulle condizioni di ammissione dei partiti che ne facevano domanda all'Internazionale Comunista: vi erano opposite tesi, che poi divennero i celebri "21 punti di Mosca", e furono demandate ad una commissione nella quale venni incluso. Ebbi così la possibilità di risollevare una proposta di Lenin, il quale aveva avanzato il rigoroso ventunesimo punto che, imponendo di rivedere i programmi dei singoli partiti, era vitale per il problema del Partito italiano, in parte legato al programma socialdemocratico di Genova del 1892. Su questo tema parlai anche nell'assemblea plenaria sempre sostenendo, contro il parere degli altri italiani e di tutti gli elementi di destra, le soluzioni più drastiche e radicali. La discussione sul tema del parlamentarismo fu aperta da Bucharin, che illustrò il proprio progetto di tesi, mentre successivamente io presentai il mio, contrario alla partecipazione elettorale. Il punto di vista di Bucharin fu ribadito da una dichiarazione di Trotzky, seguita da altri oratori e anche da Lenin il quale criticò apertamente le mie tesi e le argomentazioni su cui si poggiavano. In una recente pubblicazione nella rivista di Marsiglia Programme Communiste, mi sono sforzato di rendere fedelmente la parola e il pensiero di Lenin sull'argomento. Con l'abituale vigore egli disse: "Se è compito fondamentale del partito rivoluzionario prevedere le mosse e il gioco dei poteri statali nemici, come possiamo rinunciare ad un punto di osservazione così prezioso quale è il Parlamento, in seno a cui tutta la politica del domani dei vari Stati viene storicamente anticipata?".

La decisione del Congresso, a notevole maggioranza, fu senz'altro favorevole alle tesi della partecipazione alle elezioni parlamentari nel senso che vi dovessero e potessero accedere tutti i partiti socialisti e comunisti nazionali, e non già il solo partito italiano come sembrerebbe dal contesto della domanda. Alle elezioni generali italiane del 1921 partecipò non solo il Partito Socialista, che non chiedeva di meglio, ma anche il Partito Comunista d'Italia costituito poco dopo il II Congresso di Mosca.

Questi successi elettorali non avvantaggiarono per nulla il movimento verso la rivoluzione in Italia, come avrebbe dovuto avvenire secondo la linea Bucharin-Lenin che preconizzava l'effetto rivoluzionario dell'ingresso nel Parlamento; a questa tesi mi opposi allora e mi opporrei adesso, dopo una lunga esperienza storica: specialmente quella della Germania, dove fallirono i moti tentati nella primavera del 1921 e nell'autunno del 1923, dando così torto alla strategia prescelta a Mosca. Tornando per un momento al voto del Congresso di Mosca è forse bene dire che io stesso invitai a non dare il voto alle mie tesi non pochi delegati che si opponevano alle elezioni con argomenti non marxisti ma che derivavano piuttosto da debolezza e simpatia per i metodi libertari e sindacalisti rivoluzionari seguiti anche allora da alcuni gruppi in Germania, Olanda, Inghilterra e Stati Uniti. Come ho detto, nel voto sulle condizioni di ammissione era stato già precisato che in Italia, come in ogni paese, si dovessero escludere dalle nostre file non solo i riformisti formanti una destra non rivoluzionaria, ma anche la corrente che Lenin chiamò "centrista" e che si può identificare in Germania con i seguaci di Kautsky, e in Italia proprio coi massimalisti e serratiani.

Note

(1) Argomento che affrontiamo anche con la pubblicazione del grosso volume sul "Comitato d'Intesa". Mentre nell'intervista del 1970 sono condensati sessant'anni di storia in venti pagine, nel volume si ha l'opposto: pochi mesi di storia del 1925 sono dilatati su più di 400 pagine. L'osservazione importante è che in un caso e nell'altro, a distanza di mezzo secolo, i chiodi da ribadire sono gli stessissimi.

(2) L'intervista fu pubblicata su Storia Contemporanea n. 3 del settembre 1973.

(3) "Il Punto si è servito di roba vecchia: le fotografie furono fatte due o tre anni fa e non fu un infortunio: la fotografia in cui avanzo si chiama quella 'del calcio nel culo'. Visto il fotografo che scattava corsi e gli detti un pugno, lui per salvare la macchina si volse fulmineo e fuggì; e dato che in velocità non potevo certo misurarmi non potetti che assestargli tra le risate degli astanti una classica pedata nel didietro. La fotografia finì a 'Publifoto' ove chiunque sia sufficientemente fesso la può acquistare" (Da una lettera ad un compagno, Napoli, 5 gennaio 1957).

(4) La lettera è pubblicata in F. Livorsi, Amadeo Bordiga, Scritti scelti, Feltrinelli. Umberto Terracini fu membro della prima direzione e del comitato esecutivo del PCd'I con Bordiga, Fortichiari, Grieco e Repossi nel 1921. Del gruppo dell'Ordine Nuovo fu il più vicino alle posizioni della Sinistra. Fu relatore con Bordiga per le Tesi di Roma del 1922 sulla tattica del Partito Comunista. Rappresentante fisso del PCd'I presso l'Esecutivo dell'Internazionale Comunista, rifiutò all'inizio la tattica frontista dell'IC. Negli anni successivi si allineò alle posizioni di Mosca. Fu incarcerato nel 1925 e condannato dal tribunale speciale fascista a più di vent'anni di carcere. Per le sue posizioni critiche fu espulso dal PCI nel 1941 mentre si trovava al confino a Ventotene. Dopo aver partecipato alla resistenza fu riammesso nel partito, nel quale dal 1948 fino alla morte fu senatore e membro del Comitato Centrale. Bordiga aveva con lui rapporti cordiali, come del resto ebbe con tutti gli avversari che non si dimostravano carogne.

(5) Cfr. Gli intellettuali e il marxismo, articolo della serie "Sul filo del tempo", Battaglia comunista n. 18 del 1949, ora in Il battilocchio nella storia, ed. Quaderni Internazionalisti.

(6) Le citazioni sono tratte da due lettere a Ceglia, un vecchio compagno che fu responsabile sindacale in Puglia per il PCd'I e che risiedeva da molti anni in Piemonte.

(7) Sulle vicende distruttive riguardanti il partito e sul cosiddetto éclatement cfr. le nostre Lettere dell'epoca e quella, più recente, intitolata Dieci anni.

(8) Liliana Grilli, Amadeo Bordiga: capitalismo sovietico e comunismo, La Pietra, 1982, pag. 268.

(9) Cfr. Karl Marx, Manifesto del Partito Comunista, Einaudi, pag. 147.

(10) Basti pensare alla previsione, che risale alla metà degli anni settanta sulla base dei lavori sul corso del capitalismo mondiale, di una possibile rottura degli equilibri economici e sociali nell'epoca imperialistica, ribadita nella data del 1975 che rappresenta una sintesi simbolica, ripresa anche nella lettera a Terracini.

(11) Amadeo Bordiga, lettera a Karl Korsch del 28 ottobre 1926, in A. Bordiga, Opere scelte, op. cit. pag 197.

(12) Partito Comunista Internazionalista, Riunione di Milano del 7 settembre 1952, "La 'invarianza' storica del marxismo", in Sul filo del tempo, n.1, 1953.

(13) Amadeo Bordiga, Raddrizzare le gambe ai cani, in Per l'organica sistemazione dei principii comunisti, ed. Quaderni Int.

(14) Cfr. "Nota elementare sugli studenti ed il marxismo autentico di sinistra", Il programma comunista, n 8, 1-15 maggio 1968.

(15) Si tratta di un concetto basilare per la definizione della tattica rivoluzionaria: essa può variare soltanto in base a tempi che sono vere epoche storiche e luoghi che abbracciano interi continenti. Gli elementi locali, che chiamiamo "integratori della tattica", non modificano il tipo di tattica obbligata in ambito geostorico.

(16) Vedi più avanti la risposta n.22 del questionario-intervista.

(17) Ibidem .

(18) "Nel discorso che il compagno Bordiga ha tenuto a Napoli manca ogni indicazione del lavoro pratico e delle parole d'ordine concrete, aderenti alla realtà, che il partito avrebbe dovuto svolgere e indicare; manca un'analisi realistica dei caratteri che ha rivestito la crisi politica sviluppatasi in seguito all'assassinio Matteotti. Ciò dipende anche dal fatto che il compagno Bordiga si è tenuto lontano dal lavoro pratico del partito, non ha voluto porre a disposizione del partito le sue capacità e le sue energie" (A. Gramsci, Il congresso di Napoli, in Lo Stato Operaio n. 33 del 9 ottobre 1924). Cominciano così gli attacchi contro la pretesa incapacità della Sinistra ad essere più concreta. Da lì a rivedere anche le cause della scissione del 1921 dal PSI il passo sarà breve: "Il Congresso di Livorno, la scissione avvenuta al Congresso di Livorno furono riallacciati al Secondo Congresso dell'Internazionale Comunista, alle sue 21 condizioni, furono presentati come una conclusione necessaria delle deliberazioni formali del Secondo Congresso. Fu questo un errore e oggi possiamo valutarne tutta la estensione per le conseguenze che esso ha avuto. In verità le deliberazioni del Secondo Congresso erano l'interpretazione viva della situazione italiana, come di tutta la situazione mondiale, ma noi, per una serie di ragioni, non muovemmo, per la nostra azione, da ciò che succedeva in Italia, dai fatti italiani che davano ragione al Secondo Congresso... noi, però, ci limitammo a battere sulle quistioni formali, di pura logica, di pura coerenza, e fummo sconfitti, perché la maggioranza del proletariato organizzato politicamente ci diede torto, non venne con noi". (A. Gramsci, Contro il pessimismo, ora in L. Paggi, Le strategie del potere in Gramsci, Editori Riuniti, 1984, pag 200).

(19) Marx, nella sua attenta disamina del pensiero economico prodotto dalla borghesia svolta soprattutto nelle Teorie del plusvalore ovvero in quello che avrebbe dovuto costituire il quarto volume del Capitale, riteneva classici autori come Adam Smith e David Ricardo, veri fondatori della moderna economia politica, avendo l'uno scoperto nel lavoro la fonte di ogni ricchezza e l'altro la teoria del valore e, nel suo cinismo, la necessità capitalistica della produzione per la produzione. Insieme al loro predecessore Quesnay, essi costituiscono per Marx gli unici economisti borghesi degni di essere ritenuti padri e scopritori di una teoria degna di questo nome (destinata comunque ad essere rimessa sui piedi, come la filosofia hegeliana, dalla critica esercitata su di essa). Tutti i successivi teorici della pseudo-scienza economica borghese, a cominciare da Malthus, non saranno che economisti volgari, incapaci cioè, anche nei casi in cui si siano dimostrati capaci di cogliere aspetti sfuggiti ai classici, di sollevarsi da un sostanziale empirismo e spesso destinati a negare anche le scoperte più significative dei classici pur di difendere ad ogni costo l'ordine sociale esistente.

(20) Antonio Graziadei, all'epoca militante del PCd'I, aveva svolto la critica della teoria del valore di Marx con Prezzo e sovraprezzo nell'economia capitalistica, Torino, Ed. F. Bocca, 1924. Bordiga ne aveva confutato il contenuto in una serie di articoli comparsi con il titolo La teoria del plusvalore di Carlo Marx base viva e vitale del comunismo ne l'Ordine Nuovo, nn. 3-4, 5 e 6 del 1924, ora in Vulcano della produzione o palude del mercato? Ed. Quaderni Internazionalisti.

(21) A. Bordiga, La teoria del plusvalore di Carlo Marx, op.cit.

(22) Per esempio: "Considerato nel modo più generale, il bordighismo si presenta come un modello politico-organizzativo puramente razionalistico, come un tentativo di costruire una dottrina di un partito rivoluzionario sulla base di un sistema di regole ricavate per deduzione (...). Bordiga faceva della pedagogia. Registrava l'avverarsi di una previsione e attendeva che si realizzassero le condizioni più favorevoli per la applicazione del suo piano prestabilito di costruzione del vero partito, del partito purissimo, del partito cui la sua stessa costruzione dovrebbe garantire la vittoria nell'avvenire" (Appunti per una critica del bordighismo, in Lo Stato Operaio n. 4, aprile 1930, pp. 255-259). Se non fosse per il pessimo uso dei termini, questo sarebbe già un riconoscimento, non una critica. Di lì a pochi anni certe finezze sarebbero state sostituite da crasse calunnie. Sulla stessa rivista, Emilio Sereni avrebbe scritto: "Bordiga si era fatta una specialità nel raccogliere attorno a sé, oltre che dei piccoli borghesi déclassés, gli elementi più equivoci e corrotti del lumpenproletariat napoletano. Divenendo una spia e un agente al servizio del fascismo, questo bandito non ha fatto altro che seguire l'onorata carriera del guappo, del camorrista" (da Lo Stato Operaio, 1938, ora in E. Rea, Mistero Napoletano, Einaudi, Torino, 1995, pag.74).

(23) Quella secondo cui i marxisti non operano astrazioni. Bordiga riferisce di uno Stalin che dice: "Marx non amava astrarsi dallo studio della produzione capitalistica" (vedi nota seguente).

(24) A. Bordiga, Dialogato con Stalin, in Il programma comunista, dal n. 1 al n. 4 del 1952, ora nel volume dallo stesso titolo edito dai Quaderni Internazionalisti.

(25) Un esempio sintetico: in Italia lavorano 22 milioni di persone (dati del 1995) su una popolazione in età di lavoro (più di 15 anni e meno di 65) capitalisticamente considerata di 40 milioni: se tutti lavorassero l'orario di lavoro sarebbe dimezzato a quattro ore. Ma il periodo lavorativo normale medio non supera i trent'anni e quindi un buon quarto di quelle quattro ore è da togliere: tre ore medie a testa. Questo è il calcolo sulla base del capitalismo. Con il lavoro sociale e senza lo sciupìo capitalistico si scende forse a meno di un'ora. Calcolo un po' grezzo ma, la si giri come si vuole, l'ordine di grandezza è quello.

Lettere ai compagni