37. Utopia, scienza, azione (6)
Rapporti all'incontro tra compagni e lettori. Roma, 25-27 aprile 1997

"La fine del lavoro"

Dal punto di vista della maturità economica della società in vista di un suo passaggio a una successiva forma socialista o comunista, si può dire che questa maturità è stata raggiunta da molto tempo: nel 1847, all'epoca del Manifesto del Partito Comunista, era già storicamente data, oltre che coscientemente accertata da parte dei comunisti.

E non è mai stata posizione marxista rivoluzionaria quella di vedere la necessità di un'ulteriore crescita, di un più ampio sviluppo delle forze produttive in ambito sociale capitalistico sviluppato, prima che le forze della rivoluzione potessero e dovessero rovesciare politicamente il capitalismo. Non a caso, in più testi della Sinistra si dice, con una formidabile forzatura linguistica, che la forma capitalistica è già morta, non esiste già più. Eppure, dopo un secolo e mezzo, la forma capitalistica non è stata ancora travolta, mentre le forze produttive non hanno cessato di incrementarsi, di crescere: il cadavere ancora cammina.

Crediamo che sia importante cercare di spiegare il perché il cadavere ancora cammini malgrado storicamente l’occasione di una sua definitiva sepoltura si sia già determinata da tempo.

Quale premessa facciamo un po’ di ginnastica intorno ad alcune categorie marxiane legate alla produttività.

Partiamo dalla legge della caduta tendenziale del saggio medio di profitto:

Legge della caduta tendenziale del saggio medio di profitto

Essa mette in relazione, nella formula del saggio del profitto, l'andamento al numeratore del plusvalore con quello al denominatore del capitale totale investito o, in una forma più facile da comprendere, l’andamento al numeratore del saggio di sfruttamento (p/v), con quello degli elementi al denominatore della stessa formula algebrica, riconducibili alla composizione organica del capitale (c/v).

Storicamente, necessariamente e naturalmente il capitalismo ricerca un miglior andamento del profitto principalmente attraverso l'introduzione di nuova tecnologia, di nuovi macchinari e di nuova organizzazione che consentano un più alto sfruttamento della forza lavoro (quindi, un innalzamento del saggio di sfruttamento), ossia consentano di applicare la forza lavoro in quote sempre maggiori per il capitale, per la quota di plusvalore nell’insieme del prodotto finale; in altri termini ogni innovazione tecnologica nella produzione tende ad innalzare la quota di lavoro eccedente rispetto a quella di lavoro necessario.

Ma lo stesso processo di innovazione tecnologica che innalza il saggio di sfruttamento, così benefico per l’andamento del profitto, introducendo maggior investimento di capitale in macchinari e dunque aumentando la quota di capitale costante sul capitale totale investito, spinge contemporaneamente in alto la composizione organica del capitale. E’ proprio questo tipo di dinamica che comporta in sé la tendenziale caduta del saggio medio di profitto: per ottenere masse crescenti di p, di profitto, è necessario mobilitare masse più che proporzionalmente crescenti di capitale, di investimento.

Naturalmente questo processo, necessario in quanto non si tratta di scelta a cui il singolo capitalista o il sistema nel suo insieme possa sottrarsi per volontà soggettiva, comporta (se lo vediamo in un periodo medio-lungo) una crescita ininterrotta della forza produttiva sociale. Il perseguimento da parte del singolo capitale di un migliore rendimento, di un maggior profitto, comporta un investimento maggiore in ristrutturazione, in macchinari, in tecnologia, ecc. e questo comporta, a livello del sistema complessivo, un continuo innalzamento delle forze produttive presenti nella società.

Questo processo continuato comporta una difficoltà, la tendenza al ribasso del saggio medio del profitto, perché normalmente provoca un innalzamento della composizione organica, come già ricordato.

Però, l'innalzamento della produttività non è in diretta correlazione con la composizione organica, non ne è direttamente funzione: la composizione organica è un rapporto di valore fra i due elementi costitutivi del capitale investito, cioè il capitale costante e il capitale variabile. Quello che, invece, misura la forza produttiva sociale non è un rapporto di valore ma è un rapporto fisico: è la composizione tecnica del capitale, cioè il rapporto fisico che c'è fra gli addetti reali alla produzione, gli operai, la quantità di macchine che essi sono in grado di azionare, la quantità di merci, di prodotti, di valori d'uso che sono in grado di produrre, di realizzare.

Questo ultimo rapporto fisico è il vero indicatore della forza produttiva, che certo è cresciuto continuamente per tutto l’arco evolutivo della società umana, ed è cresciuto in maniera addirittura straordinaria nel recente arco di vita del capitalismo pieno, cioè dal macchinismo in poi.

Non altrettanto rapidamente, non in maniera direttamente proporzionale cresce la composizione organica. Perché? Perché gli stessi processi che portano all’accrescimento della forza produttiva (e quindi alla svalorizzazione dei singoli prodotti che vengono realizzati nel sistema capitalistico), portano anche alla svalorizzazione dei mezzi di produzione stessi, dei beni della sezione I di Marx, quelli che vanno a costituire il capitale costante nei successivi cicli di produzione. Insomma, quella stessa aumentata forza produttiva che, applicata nelle sfere di produzione dei beni di consumo di massa, dei cosiddetti beni-salario, li svalorizza contribuendo ad innalzare ad un tempo il saggio di sfruttamento e la composizione organica e, applicata nelle sfere di produzione dei mezzi di produzione, ne provoca la svalorizzazione tendendo a contenere la crescita della composizione organica o addirittura a farla decrescere.

E' un fenomeno complesso e contraddittorio che Marx aveva ben presente: una delle cause antagonistiche alla caduta del saggio del profitto che Marx illustra e discute nel terzo libro del Capitale. In determinati periodi, la svalorizzazione dell'elemento costante del capitale investito è così forte che può far diminuire la composizione organica, pur continuando la composizione tecnica del capitale a crescere forsennatamente, nella corsa obbligata ad una maggiore produttività del lavoro.

E' quello che sembra essere successo nel corso di questi ultimi due decenni nel capitalismo delle metropoli occidentali: dopo la rivoluzione delle macchine a vapore alla fine del '700 e la rivoluzione elettrica alla fine dell'800, la cosiddetta terza rivoluzione tecnologica del capitalismo, quella legata all'informatica e alle telecomunicazioni, sembra aver avuto un impatto così rilevante, continuativo ed esteso sulla media delle sfere dei mezzi di produzione del capitalismo mondiale, da aver temporaneamente risollevato le sorti del saggio medio di profitto.

In una nostra riunione di quasi 15 anni fa, nel novembre del 1983, si mise al centro dell'attenzione, partendo dai dati aggregati che la statistica corrente ci metteva a disposizione, l'andamento non del saggio di profitto, che non è facile misurare direttamente, ma del saggio di accumulazione, che è più direttamente desumibile dai dati degli incrementi della produzione industriale dei diversi paesi (ne erano stati presi in esame sei, i principali: USA, Giappone, Germania, Francia, Inghilterra e Italia): ne uscì un bel tabellone che, seguendo il movimento di questo saggio desunto dai dati statistici disponibili dall'inizio del '900, evidenziava come le curve oscillanti dei singoli paesi avessero andamenti radicalmente contrastanti fino a tutti gli anni sessanta (anche per i diversi ruoli e successi nelle guerre mondiali), mentre altrettanto chiaramente evidenziava come si fossero messi, con l'inizio degli anni '70, in sincronia. Tutto quell'oscillare, abbastanza isterico, di curve era confluito in un andamento uniforme in cui la singola curva si distaccava dalle altre di pochissimi punti percentuali (o anche decimi di punto).

Questo era il primo fenomeno che evidenziammo: la sincronizzazione dei cicli di accumulazione a livello mondo, almeno fra i principali paesi. Come secondo fenomeno rilevante osservammo che questa sincronizzazione si era manifestata su valori prossimi allo zero, cioè i tassi di accumulazione dei principali paesi si erano uniformati in una fascia di valori compresi circa fra il -4% e il +4% annui.

Questo a decorrere dai primi anni '70, ma con un collo di bottiglia impressionante nel '75: tutte le curve in corrispondenza di tale anno passano pressoché nel medesimo punto; il che ci dà l’occasione per una breve parentesi relativa alla fin troppo citata "erronea" previsione della Sinistra, la quale aveva fissato intorno al 1975 un punto di svolta del sistema capitalistico, per cui ci si poteva aspettare una crisi rivoluzionaria proprio sulla base di cause materiali, cioè della uniforme maturazione delle contraddizioni di accumulazione del sistema capitalistico mondiale. Ebbene, se tale previsione non ha evidentemente trovato conferma dal punto di vista del successo rivoluzionario, che non c'è stato, ha però dimostrato la formidabile capacità di ante-vedere nella struttura economica della forma capitalistica: il capitalismo sarebbe arrivato a un punto di cattivo funzionamento, di inceppamento complessivo dei meccanismi di accumulazione. E questo inceppamento complessivo, non più differenziato nel tempo e nello spazio, almeno nelle aree principali, ci parve evidente al punto che in un nostro lavoro su questi temi parlammo, esagerando forse un po', di cardiogramma piatto del capitalismo.

A venti anni di distanza dal "fatidico" 1975 non si può non constatare che il cadavere ancora cammina: il cardiogramma era quasi piatto perché in realtà si sono materialmente rideterminate delle possibilità di profitto, delle capacità di riprendere ad effettuare degli investimenti profittevoli per il capitale. La spiegazione nei suoi termini generali ci è nota da sempre: non c'è nessuna possibilità di una trasformazione nella continuità, di tipo evolutivo, da una forma sociale come il capitalismo a una successiva, solo perché ne sono mature e stramature tutte le pre-condizioni materiali; senza una potente rottura politica e sociale il passaggio ad una nuova forma economica non avviene e tutte le contraddizioni che qui stiamo mettendo in evidenza nel funzionamento del capitalismo, sono in nuce state sempre presenti, non sono una novità: in un certo senso si può dire che i marxisti le sanno a memoria e si sforzano solo di ritrovarle nel tempo.

Il "banale" fatto che non ci sia stata la rottura sociale rivoluzionaria ha fatto sì che necessariamente il capitalismo sia potuto e dovuto andare avanti.

Questo in termini generali. Ma quali sono state le forme specifiche che hanno fatto sì che il capitalismo sia riuscito ad andare avanti e a superare relativamente quella forma di appiattimento della sua capacità di accumulazione? Noi crediamo che sia stato proprio quell'elemento di cui si diceva prima, cioè questa nuova rivoluzione tecnologica ha costituito una cura di ringiovanimento per il capitale, per le sue condizioni di profittabilità, nella misura in cui ha svalorizzato in maniera massiccia e piuttosto generalizzata il capitale costante nei principali settori produttivi. Vedremo più avanti alcuni esempi concreti in questo senso.

Esaminiamo adesso un esempio, con dati arbitrari, che ci aiuti a sviluppare il filo delle nostre considerazioni: supponiamo una situazione iniziale (riga 1 della tabella) in una certa sfera produttiva, ad esempio quella della produzione di automobili: la situazione degli elementi di valore, capitale costante, capitale variabile, plusvalore, e dei loro rapporti (saggio di profitto, saggio di sfruttamento e composizione organica), e la situazione degli elementi tecnico-fisici, quali il numero di addetti e il numero di auto prodotte, e del loro rapporto (produttività misurata in auto per addetto), e infine un valore unitario dell'auto.

Ipotizziamo adesso una serie di variazioni per esaminare cosa succede.

Un caso tipico è l'introduzione di nuove tecnologie nella sfera stessa, cioè nuove macchine, nuovi apparati produttivi che portino a un massiccio aumento di produttività nel settore; per divertirsi a fare degli esempi concreti: togliamo lo stabilimento FIAT Mirafiori sostituendolo con quello di Melfi. Ma noi, nella riga 2 della tabella, abbiamo fatto un’ipotesi più arbitraria: un raddoppio di produttività interna nel settore, perché ad esempio si introducono robot in determinati punti, ecc. L'effetto di questo tipo di accadimento nella sfera è pienamente in sintonia con la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto: c'è un aumento di investimento di capitale costante, c'è una diminuzione del valore unitario del bene in questione (l'auto), c'è un aumento del plusvalore, ma c'è una diminuzione del saggio di profitto. Tutto quadra con le nostre attese in questo tipo di scenario.

  c v p s(%) p/v(%) c/v(%) N° addetti N° auto N° auto per addetto Variazione produttività (%) Valore 1
1 4.000 1.000 2.000 40 200 400 100 350 3,5 = 20
2 7.000 900 2.100 @
26,6
@
233,3
@
777,8
100 700 7 100 @
14,9
3 3.500 950 2.050 @
46,1
@
215,8
@
368,4
100 350 3,5 = @
18,6
4 3.400 620 1.480 @
36,8
220 480 70 350 5 @
42,9
@
15,7
5 3.000 950 2.050 @
51,9
@
215,8
@
315,8
100 350 3,5 = @
17.1

Note per la lettura della tabella:
1. I dati sono assolutamente arbitrari, senza alcuna pretesa di verosimiglianza.
2. Le righe non rappresentano situazioni in relazione logico-cronologica, ma:
. la prima rappresenta un’ipotetica situazione di partenza;
. le altre sono tutte da confrontare con la prima, rappresentando situazioni variate rispetto a quella.
3. La diminuzione del valore v della forza lavoro è spiegata dalla diminuzione del valore dell’auto, ritenuta anche un bene salario.
4. Per comprendere le variazioni del valore C del capitale costante occorre tener presente che nella situazione di partenza si è supposta una situazione di uguale peso fra il capitale fisso (ammortamento impianti) e capitale circolante (materie prime).

Ipotizziamo ora, riferendoci alla riga 3 della tabella, che aumenti la produttività in una sfera a monte, nella sfera, per esempio, di produzione della lamiera, ritenendola, sempre arbitrariamente, la principale materia prima nella produzione di auto. Ecco, se c'è un massiccio aumento di produttività, e quindi una forte svalorizzazione della lamiera, a parità di condizioni produttive nella sfera di produzione delle auto, emerge prepotentemente la terza causa antagonistica alla caduta del saggio di profitto identificata da Marx: "ribasso di prezzo degli elementi del capitale costante"; questo comporta un beneficio dal punto di vista capitalistico all’interno della sfera di produzione, cioè un innalzamento del saggio di profitto, proprio perché, non essendo variate le altre condizioni produttive, comporta una riduzione della composizione organica. Nei rami di produzione di attrezzature ciò comporta una ulteriore riduzione del valore di quel particolare tipo di merci e quindi una diminuzione generalizzata della composizione organica del capitale.

Riferendoci alla riga 4 della tabella, esaminiamo un altro scenario legato all'introduzione di innovazioni produttive non legate a nuove macchine, ma a nuovi metodi produttivi. In questi ultimi anni ci hanno scassato le orecchie (e altro) parlandoci di "sistemi di qualità", di sistemi alla giapponese, di "re-engineering", di "qualità totale": è indubbio che il modello Toyota (se lo si vuole chiamare così nel settore dell'auto), più o meno enfatizzato, mitizzato, rappresenta lo sforzo che il capitalismo ha fatto per riorganizzare in maniera più efficiente e produttiva la produzione anche nei settori di meccanica pesante, metalmeccanica, ecc. A Torino da anni ci sono i giapponesi in veste di consulenti alla FIAT, in America le grandi case costruttrici hanno sposato a pieno questo modello: insomma esso sta sconvolgendo e modificando la vecchia organizzazione (cosiddetta scientifica) del lavoro, quella fordista-taylorista (39).

Anche se in pratica l’introduzione di nuovi metodi non va mai disgiunta dall’introduzione di nuovi apparati tecnologici, si riuscirebbe in teoria a produrre più macchine anche con lo stesso apparato tecnico-produttivo abbinato a nuovi metodi lavorativi, si potrebbero avere dei miglioramenti di produttività; e questo senza che cresca necessariamente in forma propria il capitale costante.

Infine, seguendo la riga 5 della tabella, vediamo che variazioni si possono avere nella sfera produttiva in esame a fronte di vere e proprie innovazioni tecniche, di invenzioni. Il concetto di automobile è chiaro a tutti: quell'affare montato su ruote che è in grado di portarci a spasso; tuttavia nel misurare la produttività in quel particolare ramo della produzione sulla base del numero di "automobili per addetto", si deve tenere conto di un’importante considerazione: confrontando un'automobile di trent'anni fa con una del giorno d’oggi, vediamo che essa in sé svolge la stessa funzione utile, è comparabile come valore d'uso; ma la sua struttura tecnica interna è variata in maniera assai significativa. Se effettivamente consideriamo una macchina di media cilindrata di trent'anni fa e una di adesso, di pari "fascia" di utilità (numero di posti, capienza del vano bagagli, ecc., anche se in quella odierna ci sono molte più funzioni accessorie per giustificare il mantenimento di prezzi alti: il lunotto termico, i sedili reclinabili, gli alzacristalli elettrici...), è certo che misuriamo un peso in chili o quintali delle due macchine assai diverso: la vecchia macchina si basava su telaio e lamiera, la nuova si basa su una monoscocca in lamiera sottile, con largo utilizzo di plastica.

Per fare un esempio più evidente, sempre relativamente a quest’ultimo scenario: le sedie su cui posiamo il sedere durante le riunioni. Entriamo in quella sfera di produzione, confrontiamo una sedia attuale in plastica stampata con una di cinquanta anni fa, e misuriamo la produttività in termini di sedie per addetto in una "seggioleria" qualunque: probabilmente troviamo degli indici di innalzamento della produttività eccezionali: anche mille volte superiore. E' però evidente che è completamente diverso il discorso dal punto di vista del valore, del tempo di lavoro umano contenuto, del valore trasferito, del capitale complessivamente rappresentato in una seggiola. Se essa è fatta di legno, ha un telaio, una sua selleria, ha dell'imbottitura, ha dei chiodi piantati, è un oggetto piuttosto complesso; se la seggiola è invece costruita in plastica con un bello stampino, come quelle che abbiamo sotto i nostri occhi, è un'altra cosa. E' certo che l'operaio di una "seggioleria" moderna potrà produrre anche 1.000 seggiole al giorno con un macchinario adeguato; ma è altrettanto certo che il valore del capitale circolante, cioè della materia prima, che egli trasferisce nel prodotto oltre il tempo di lavoro, è enormemente inferiore a quello trasferito dal "seggiolista" tradizionale.

Se per esempio un tempo in una seggiola si cristallizzava mezza giornata uomo, perché un operaio riusciva a farne due al giorno, e si aveva quindi una notevole valorizzazione, sarà stato pur vero che nella seggiola si cristallizzava contemporaneamente anche un valore (legno, chiodi, stoffa, imbottitura) di una certa entità. Adesso, nell'ipotesi delle sedie di plastica, un operaio ne farà anche mille al giorno, e dunque in ciascuna seggiola si cristallizza ben poco in termini di valore aggiunto, un millesimo di giornata uomo. Ma anche in termini di capitale costante, di materia prima, si trasferisce in una seggiola ben poco (in plastica saranno meno di 1.000 lire).

Quanto detto è a titolo indicativo, è solo per dare il senso del tipo di indagine che è stata fatta.

Dopo questi esempi riprendiamo il filo del discorso iniziato: è vero che la formidabile crescita di forze produttive dell’epoca capitalistica ha messo il sistema sotto la spada di Damocle della caduta tendenziale del saggio di profitto. E' anche vero che, storicamente in alcune fasi, e in questa fase particolarmente, il capitale è riuscito a reagire, svalorizzando in maniera generalizzata anche la quota costante del capitale.

Si è accennato all’inizio alla fin troppo citata rivoluzione tecnologica in corso, legata principalmente all’informatica e alle telecomunicazioni. Ci sono effettivamente degli effetti notevoli, nella sfera dei mezzi di produzione e si potrebbero fare mille esempi; vediamone uno a caso.

In tutti i settori industriali, fino a non troppi anni fa, un reparto produttivo importante era quello dei disegnatori, vuoi per la parte progettuale dei prodotti, vuoi per la documentazione; l'investimento per addetto sui disegnatori, anche solo in termini di tecnigrafo, mobiletto di legno con le penne a china, carta millimetrata, ecc. era relativamente considerevole (per dare un’idea dimensionale ricordiamo che negli anni '70 alla FIAT il reparto disegnatori era ancora composto da parecchie centinaia di persone che lavoravano a mano sui tecnigrafi). A un certo momento, negli anni '80, ci fu in questo specifico settore un enorme innalzamento di produttività legato all’introduzione dei sistemi di disegno elettronico (CAD, CAM, ecc.) sulle prime "workstation grafiche", con conseguente espulsione di quasi tutti i disegnatori. Erano macchine che comportavano un investimento per addetto notevolmente superiore rispetto ai tempi del tecnigrafo, dell’ordine dei 100 milioni/uomo; in altri termini, in piena sintonia con la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto, si ebbe un deciso innalzamento della composizione organica per aumentare la produttività. Oggi le stesse funzioni di disegno automatico con quella stessa produttività, o magari anche molto accresciuta, le si ottengono con un investimento per addetto di 4, 6, 10 milioni al massimo, riducendo drasticamente la composizione organica.

Generalizzando si può affermare che la vera e propria smaterializzazione di interi processi di produzione, anche nei casi in cui il prodotto-merce mantiene una sua fisica consistenza, ma soprattutto nei casi i cui il prodotto merce finale si sostanzia in un enorme numero di bit senza alcuna fisicità tangibile, come nei settori dell'informazione, della documentazione, del disegno, della progettazione, della pubblicità, ecc., ha portato effettivamente a un alleggerimento della componente c del capitale, e questo ha consentito la ripresa del profitto.

A scapito di cosa? Intendiamo dire: è certo che con questo il sistema capitalistico non ha trovato la formula dell'eterna giovinezza, anzi queste fasi di generalizzata innovazione tecnologica, di rivoluzione tecnologica vanno a scapito di qualcosa, nel corso storico del capitalismo. Di cosa? Innanzi tutto vanno a scapito della capacità che ha il capitale complessivo sociale di occupare forza lavoro; un problema che, di riffa o di raffa, è al centro dell'attenzione di sindacati, di movimenti politici, di politologi, filosofi, consulenti, dei tanto citati borghesi illuminati, perché ormai, come uno spettro, agita i sogni un po' di tutti. Questa enorme riconversione tecnologica dell'apparato produttivo dei paesi sviluppati ha partorito un bebè di difficile gestione sociale: l'espulsione dal mondo del lavoro, non temporanea, non verso il parcheggio nell'esercito industriale di riserva, ma definitiva, strutturale, di decine di milioni di salariati. Nei paesi OCSE le statistiche ufficiali parlano di 35-40 milioni di disoccupati. Nessuno, nemmeno tra gli analisti borghesi, si aspetta un rientro strutturale, sistematico, continuativo da questi numeri, anzi si parla sempre più spesso di una tendenza ad una loro ulteriore crescita.

Senza arrivare a conclusioni teoriche definitive, abbiamo fatto a partire dal 1983, col nostro primo quaderno, alcuni lavori che hanno suscitato non poche perplessità e che a noi stessi hanno presentato difficoltà non indifferenti: ci riferiamo al lavoro di formalizzazione matematica che si incernierava sulla parabola (in senso matematico) del plusvalore. E’ un lavoro noiosetto il giusto per la maggior parte dei compagni e che non vogliamo certo riprendere qui. Però un elemento ne usciva chiaro: per il marxismo numero di addetti alla valorizzazione del capitale e massa del plusvalore non sono entità disgiunte e disgiungibili; la capacità che il capitalismo ha di fare innalzare lo sfruttamento relativo del lavoro, incrementare il plusvalore relativo, far crescere la giornata eccedente rispetto alla giornata necessaria, può compensare storicamente, entro certi limiti, l’eventuale calo assoluto di addetti, di proletari inglobati nel processo di valorizzazione del capitale. Ma solo entro determinati limiti, e questo Marx lo aveva ben presente. Naturalmente oggi non siamo ancora al punto in cui "non si riesce a estrarre da un operaio tanto plusvalore quanto prima si estraeva da cento", però parliamo di 35, 40 milioni di proletari da cui la macchina capitalistica dei paesi più sviluppati non estrae più plusvalore. Certo c’è da tener conto che con l'enorme crescita di produttività, sicuramente c'è un'enorme crescita del plusvalore relativo che da ogni singolo operaio si riesce a estrarre.

Da questa relazione fra numero di addetti alla valorizzazione del capitale per il capitale, quindi alla produzione di plusvalore, e massa del plusvalore prodotto, noi arrivammo in forma di induzione teorico-matematica alla conclusione che c'è un punto oltre il quale ci potrebbe essere anche una riduzione della massa del plusvalore, non solo del saggio di accumulazione, ma della massa assoluta del plusvalore (40) . Ad un tale punto ci siamo già arrivati? Ci si sta arrivando? Ci arriveremo? E’ compatibile con la stessa sopravvivenza del sistema capitalistico un fatto di questo genere? Sono problemi pesanti e aperti. Noi a suo tempo abbiamo affermato di sì, che un fatto del genere è teoricamente concepibile: certo non sarebbero condizioni normali, di miglior funzionamento per il capitalismo, quelle in cui la massa complessiva del plusvalore prodotto in ogni ciclo non crescesse o addirittura decrescesse. Però, perché funzioni il capitalismo, perché si effettuino degli investimenti di capitale, la cosa essenziale è che il singolo capitale investito misuri un accrescimento di plusvalore; e questo anche in presenza, eventualmente, di una decrescita complessiva della massa del plusvalore sociale, ovvero con l'espulsione parallela dal ciclo di accumulazione di altri capitali che non riescono più a investirsi.

Osserviamo di passaggio: da questi problemi ne deriva un altro, che dovremo affrontare e che spesso ci è stato posto anche dall'esterno: che quando noi parliamo di questi dati (occupazione, investimenti, PIL) parliamo sempre della parte più sviluppata del mondo, ma ci sono molte altre aree che, pur a un livello inferiore di capitalistico sviluppo, sono comunque già abbondantemente sviluppate dal punto di vista capitalistico e sfornano plusvalore a pieno ritmo: è certo che in Corea, a Formosa, nella stessa immensa Cina, la curva dell'accumulazione sarà oggi molto più brillante che nel mondo a vecchio sviluppo, la massa del plusvalore sarà in continua crescita, vista la giovinezza di quei sistemi capitalistici. Per grosse cifre sembra comunque che il numero di nuovi addetti, in quei paesi emergenti, non compensi la perdita di posti di lavoro nei paesi più sviluppati.

Va comunque osservato che il capitalismo si sviluppa in ambiti nazionali, e in alcuni di questi ambiti, i più vecchi e sviluppati, le difficoltà di accumulazione di cui stiamo trattando si sono già in parte manifestate e sono da spiegare.

Il primo costo di questo rinverdimento delle condizioni di profittabilità per l'investimento capitalistico, lo abbiamo già fatto presente: il capitalismo non riesce più a occupare, e quindi a sfruttare, la stessa quantità di uomini, di proletari, che è stato in grado di sfruttare nella sua storia precedente. Nel capitalismo è sempre esistita la tendenza alla crescita della forza produttiva, e ciò ha comportato la conquista di nuovi spazi per il profitto; di conseguenza si è sempre verificata la tendenza ad un aumento della composizione organica; ma questa tendenza è stata sinora più che compensata dall'allargamento della base produttiva, e dal correlato allargamento del proletariato industriale, o comunque del proletariato in senso complessivo, per cui la massa del plusvalore prodotto non ha cessato mediamente di aumentare. Sembra che si passi adesso a una tendenza stabilizzata alla decrescita del numero di addetti alla valorizzazione del capitale: è una novità assoluta, osservabile da qualche anno nei paesi sviluppati.

Dal punto di vista del singolo capitalista può solo far fregare le mani il fatto di avere un altissimo rendimento produttivo con pochissima forza lavoro occupata, un altissimo saggio di sfruttamento, specie se le condizioni medie di produzione nel settore sono meno evolute e consentono l’acquisizione di profitti e di sovrapprofitti in maniera tangibilmente soddisfacente per il capitalista. Però quelle condizioni di vantaggio competitivo non possono essere definitive in nessun settore, neanche per un Luciano Benetton: prima o poi tutto il settore abbigliamento adotterà quelle stesse tecniche e questo si rifletterà semplicemente in un abbassamento generalizzato del valore di quelle merci e quindi tenderà a schiacciare il tasso di rendimento del capitale (saggio del profitto) in tutto il settore.

Il problema della capacità del sistema nel suo complesso di "offrire lavoro" è già un problema sociale abbastanza drammatico oggi: tutto lo stuolo dei politici borghesi, tutti gli scienziati illuminati che gli fanno da consulenti, pongono affannosamente il problema di un futuro descritto in termini foschi, a meno che non vengano trovate delle soluzioni "politiche" all'espulsione progressiva di forza lavoro. Di queste fosche previsioni se ne potrebbero citare tante: quelle di Ruffolo e Gallino in Italia, quelle di Rifkin e Alain Minc all'estero; ne riportiamo una che è abbastanza sintomatica dell'atteggiamento di questi signori: è tratta dal lavoro di un americano, farcito di mille esempi fascinosi e a volte fuorvianti. In esso non solo non si prevede il riassorbimento nel prossimo futuro di questa forza lavoro espulsa, ma si prevede un peggioramento radicale nella misura in cui i fenomeni di razionalizzazione, chiamiamola di efficienza produttiva, penetreranno anche nei settori che in passato ne garantivano il parziale riassorbimento: i settori del famoso "terziario avanzato" (servizi, amministrazione pubblica, ecc...).

"...Sebbene ancora in fase embrionale, la terza rivoluzione industriale ha già portato alla marginalizzazione di decine di milioni di lavoratori nell’agricoltura, nell’industria e nel terziario. Le nuove tecnologie hanno aperto la strada a una rivitalizzazione del sistema economico globale lungo le linee dell’alta tecnologia, con una concomitante riduzione della forza lavoro globalmente necessaria per produrre beni e servizi. Eppure, l’attuale ondata di automazione e di re-engineering rappresenta solo il pallido simulacro di una trasformazione tecnologica che è destinata ad incrementare enormemente la produttività negli anni a venire rendendo ridondante e irrilevante nell’economia un numero sempre crescente di lavoratori." (J.Rifkin, La fine del lavoro, 1995 pag. 266).

Lasciamo perdere certe proiezioni fantasmagoriche riportate in questi lavori (si suppone un 70% di inoccupati fra gli adulti in età di lavoro!); a noi qui interessa il segnale di come venga vissuto dalla borghesia il problema della disoccupazione crescente. Esso è drammatico proprio dal punto di vista delle amministrazioni capitalistiche, perché mette in realtà fuori uso tutto il meccanismo con cui la borghesia era riuscita a contenere la grande crisi rivoluzionaria di inizio secolo: la messa a punto delle politiche fasciste (o keynesiane che dir si voglia) tese a garantire sia il controllo sociale, sia la stabilizzazione del funzionamento economico della macchina capitalistica, si basava sul fatto che, tramite attività pubbliche di deficit spending, l'assunzione diretta da parte dello Stato di servizi che prima erano prerogativa delle associazioni di mutua assistenza, la costruzione del sistema pensionistico, sanitario, scolastico statale, tutto ciò aveva anche garantito un volano di uniformità e di continuità nella produzione di reddito e quindi nella capacità di consumo interna dei singoli paesi. E' nota la "regola" di Keynes (lasciamo perdere quanto sia fondata teoricamente): bisogna creare domanda per rimettere in moto, ridare fiato all’economia capitalistica, alle prese con la lunga depressione degli anni '29-'35; ebbene oggi questa regola risulta di difficile o impossibile applicazione, vista la rapidità con cui l’economia "economizza" sul lavoro in tutti i settori, produttivi e improduttivi.

Abbiamo accennato prima alla smaterializzazione della produzione, realizzata grazie alle continue invenzioni e innovazioni tecnologiche che la scienza, ormai completamente ridotta a forza produttiva per il capitale, ha continuato a sfornare a getto continuo; il risultato concreto di questo fenomeno generalizzato rende difficile la comparazione fra valori d’uso anche a distanza di poche decine di anni: abbiamo sopra ricordato alcune notevoli modifiche riscontrabili in beni "durevoli" quali le automobili. Ma molto più vistose sono le distanze fra capi di abbigliamento in lana di qualche anno fa e gli attuali capi in fibre sintetiche come il pile; o fra un 33 giri in vinile di una decina di anni fa e un odierno CD; e addirittura clamoroso è il raffronto fra un calcolatore degli anni cinquanta, che occupava locali per centinaia di metri quadrati, con decine di metri lineari di mobili metallici contenenti pannelli pieni di componenti (pensiamo solo alle memorie in uso fino agli inizi degli anni '70, un nucleo di ferrite per ogni bit!), nastri magnetici o dischi rigidi a bassa capacità, ecc. con un attuale server, adatto a reggere elaborazioni per decine o centinaia di posti di lavoro, con centinaia di Mbyte di memoria centrale e decine di Gbyte di disco, e confondibile dimensionalmente con un qualunque personal computer.

Se così difficile è il raffronto fra valori d’uso corrispondenti, altrettanto difficile risulta il confronto della reale produttività nel tempo: il numero di calcolatori (di una data potenza) prodotti per addetto è cresciuto, nell’epoca dei microprocessori e dei circuiti integrati, di alcune migliaia di volte, mentre il contenuto materiale unitario degli stessi calcolatori è sceso sicuramente di qualche centinaio di volte. E considerazioni qualitativamente simili si potrebbero fare riguardo alle sfere di produzione in cui la plastica ha preso il posto del legno, il pile il posto della lana, ecc...

Insomma l’accresciuta forza sociale della produzione, misurabile nella geometrica crescita dei valori d’uso prodotti, non ha comportato una proporzionata crescita di valore del capitale costante né nella sua componente di capitale fisso (impianti e macchinari), né in quella di capitale circolante (materie prime, energia, ammortamenti).

In pratica: l'alleggerimento proprio in termini di peso delle merci, da un lato, dall'altro la sostituzione o il potenziamento di molto dell'apparato impiantistico con una merce a basso costo qual è oggi l'informatica, hanno funzionato da "cura di ringiovanimento" per il capitalismo: si svalorizza una parte significativa del capitale costante c, si espellono milioni di lavoratori, abbattendo di conseguenza il capitale variabile v. Ma alla fine il costo di questa ritrovata "vivacità" del sistema capitalistico sembrerebbe chiaro: se calano sia c che v , cala il capitale che è capace di investirsi, e questa è una contraddizione specifica in cui si dibatte, in questa fase, il capitale.

D'altronde, ai fini del "buon rendimento" della produzione di plusvalore, l'innalzamento della produttività ha comunque una caratteristica e un limite che Marx aveva già notato: esso determina sempre un contemporaneo incremento di plusvalore, ma non in maniera proporzionale; anzi, in maniera tanto meno che proporzionale quanto più è già matura, sviluppata, la produttività precedente media della società. Riportiamo dai Grundrisse (Einaudi, Nue, vol. I pag. 294) solo il passo in cui Marx fa l'esempio più eclatante del suo ragionamento, supponendo una situazione di forza produttiva già evolutissima, in cui il lavoro necessario fosse già ridotto a uno su mille (non è probabilmente il caso attuale, ma sicuramente in certi settori siamo già al 700-800% di saggio di sfruttamento); si noti che qui Marx parlando di "forza produttiva" si riferisce esclusivamente a quella delle sfere di produzione di beni di consumo:

"Se il lavoro necessario fosse già ridotto a 1/1.000, il valore eccedente totale sarebbe = 999/1.000. Se a questo punto la forza produttiva aumentasse di mille volte, il lavoro necessario si ridurrebbe a 1/1.000.000 di giornata lavorativa e il valore eccedente totale ammonterebbe a 999.999/1.000.000 di una giornata lavorativa; mentre prima di questo aumento della forza produttiva esso ammontava solo a 999/1.000 o 999.000/1.000.000; sarebbe quindi aumentato di 999/1.000.000...".

Cioè sarebbe aumentato di meno di un millesimo. Nel seguito del passaggio citato Marx sbaglia i calcoli, ma rimane dimostrato che in quelle condizioni, già molto evolute, un aumento di mille volte della produttività comporterebbe un miglioramento per il capitale, nell'estrazione di plusvalore relativo, di un millesimo scarso. La "mon-tagna" di crescita di mille volte della produttività, partorirebbe il "topolino" di incremento di un millesimo del plusvalore prodotto!

Il discorso è portato al paradosso, ma è molto utile per capire l’aspetto che qui Marx vuole far risaltare: la crescita delle forze produttive, che pure il capitale non può fare a meno di provocare, ha effetti "benefici" decrescenti via via che le condizioni medie di produzione del capitale maturano. Marx lo riassume così (ibidem pag. 295):

"Il plusvalore del capitale non aumenta in ragione del moltiplicatore della forza produttiva, ossia del numero di volte in cui aumenta la forza produttiva (posta come unità, come moltiplicando); aumenta invece in ragione dell’eccedenza della frazione di giornata di lavoro vivo, che all’origine rappresenta il lavoro necessario, rispetto a questa stessa frazione, divisa per il moltiplicatore della forza produttiva...".

E ancora (ibidem pag. 296):

"...Quanto più grande è il valore eccedente del capitale prima dell’aumento della forza produttiva, quanto più grande è cioè la quantità di lavoro eccedente o valore eccedente del capitale presupposto, o, in altri termini, quanto più è già ridotta la frazione di giornata lavorativa che costituisce l’equivalente dell’operaio, che esprime il lavoro necessario, tanto minore è l’aumento del valore eccedente che il capitale ottiene dall’aumento della forza produttiva. Il suo valore eccedente aumenta, ma in rapporto sempre minore rispetto allo sviluppo della forza produttiva. Quanto più il capitale è quindi già sviluppato, quanto più lavoro eccedente esso ha creato, tanto più deve aumentarsi in misura formidabile la forza produttiva per valorizzarsi, ossia per aggiungere plusvalore, solo in misura modesta - poiché il suo limite rimane sempre il rapporto fra la frazione della giornata che esprime il lavoro necessario e l’intera giornata di lavoro. Esso può muoversi solo entro questi limiti. Quanto più è già ridotta la frazione riguardante il lavoro necessario, quanto maggiore è il lavoro eccedente, tanto meno un qualsiasi aumento della forza produttiva può diminuire sensibilmente il lavoro necessario; giacché il denominatore è enormemente aumentato. l’autovalorizzazione del capitale diviene più difficile nella misura in cui esso è già valorizzato. L’aumento delle forze produttive diverrebbe indifferente per il capitale; e lo diverrebbe anche la valorizzazione stessa, poiché le sue proporzioni si sono ridotte al minimo; ed esso avrebbe cessato di essere capitale".

In altre parole si tratta di quanto dicevamo prima: il beneficio per il capitale, in termini di incremento di plusvalore, non si verifica in ragione diretta dell'innesto di nuova forza produttiva, ma in ragione di quanto tale innesto "migliora" la situazione precedente di divisione della giornata lavorativa fra lavoro necessario e lavoro eccedente.

Crediamo si possa dare per scontato che la media di tale rapporto nei paesi sviluppati sia notevolmente inferiore rispetto a un secolo e mezzo di distanza, quando Marx scriveva (si noti: inferiore perché si tratta di rapporto fra le parti della giornata lavorativa, fra lavoro necessario al numeratore e lavoro eccedente al denominatore; dunque superiore in termini di saggio di sfruttamento). Marx non faceva mai degli esempi numerici a caso: se nei suoi esempi astratti prendeva normalmente il 100% come valore del saggio di sfruttamento, era perché stimava che circa tali fossero le condizioni raggiunte in Inghilterra nella sua epoca. Riferendosi agli anni '50, nei Dialogati Amadeo stimava a sua volta che ormai il lavoro necessario sulla giornata totale alla Mirafiori fosse sotto le due ore al giorno. Oggi sarà certo ancora diminuito: non siamo al 1/1.000 del paradosso di Marx, ma sicuramente siamo già in una situazione di partenza in cui nuovi innesti di forza produttiva danno dei risultati diretti di valorizzazione per il capitale relativamente blandi.

In compenso hanno dei risultati sociali molto vistosi, cioè l'espulsione continua di milioni di lavoratori dal ciclo di valorizzazione del e per il capitale, con le conseguenti difficoltà dal punto di vista della circolazione delle merci e della realizzazione del valore.

Deriviamo da qui un'osservazione marginale: nell'ultimo secolo di vita del capitale c'è già stato più di una volta un massiccio trasferimento della capacità d'impiego della forza lavoro umana. Innanzitutto dal vecchio settore primario, dall'agricoltura, che ancora agli inizi di questo secolo, in tutti i paesi occidentali, occupava la maggioranza della popolazione attiva: oggi in tutti questi paesi la forza lavoro è ormai ridotta al 2-3% del totale. Però, per lunghi decenni, questa espulsione è stata compensata da un assorbimento di contadini nelle fabbriche con un aumento dei "colletti blu", gli operai industriali. Anche quel ciclo di espansione assoluta del numero di addetti nel settore industriale o secondario, è terminato già con gli anni '50-'60. Da allora c'è stato un progressivo decrescere, e ultimamente un precipitoso calo della capacità di impiego di forza lavoro in tutti i settori industriali.

Per anni gli economisti borghesi si sono cullati e beati nelle statistiche di breve periodo che fornivano la comoda illusione che questo andamento fosse di nuovo compensato dallo sviluppo di un altro settore, il terziario, cioè dalla produzione di servizi di qualunque genere, poi dallo sviluppo del terziario avanzato. I servizi commerciali, finanziari, le assicurazioni hanno in effetti registrato per anni un incremento di attività e di addetti vorticoso, tale da compensare complessivamente la caduta di occupazione nei primi due settori e complessivamente garantire una tenue ma continua crescita del numero di addetti complessivo, quantomeno proporzionale alla popolazione. Ormai anche l’espansione del terziario è un ricordo e, con l’introduzione principalmente di informatica e di telecomunicazioni, stiamo assistendo (e più assisteremo nei prossimi anni) ad una drastica contrazione occupazionale in tutto il settore.

E infine la storia passata ha assegnato un ruolo rilevante per la stabilità dell’occupazione al rigonfiamento dell'apparato statale e in genere dell'amministrazione pubblica (non produttiva): si sanno tutti i luoghi comuni su questa grande capacità di assorbimento. Ora vediamo che anche lo Stato e tutto il settore pubblico sono nel "mirino" per quanto riguarda l'aumento della produttività: che si tratti delle nuove condizioni di competizione mondiale legate alla concorrenza del modello asiatico o che si tratti di qualunque altra causa variamente teorizzata, è un dato di fatto che tutti i paesi si stanno ponendo il problema della riforma del Welfare State e della razionalizzazione della macchina statale per renderla più efficiente; ovvero, hanno cominciato a rompere, anche giuridicamente, il tabù della non licenziabilità dei dipendenti pubblici.

Certo il fenomeno non è uniforme: negli Stati Uniti è avvenuto in un modo, in Italia in un altro, in Francia in un altro ancora... Ma dappertutto l'introduzione delle nuove tecnologie e di nuovi metodi gestionali nell'amministrazione pubblica, quando non un dato di fatto, sono diventate un progetto generalizzato, una parte di programma costante per qualunque forza politica: migliorare la qualità e abbassare i costi dei servizi pubblici.

E' evidente cosa può succedere, cosa sta succedendo, cosa succederà con l'introduzione di un po' di informatizzazione: la possibilità di crescita dell'efficienza in termini di "certificato per addetto" è impressionante e da molte parti si trovano descrizioni di scenari veramente apocalittici per i prossimi decenni, in relazione alla capacità di tenuta dell'occupazione nell'amministrazione pubblica; e le previsioni sono che non solo questa tendenza non si invertirà, ma che ci sarà un'accelerazione.

Noi siamo certi di un fatto: non stiamo descrivendo una forma nuova di capitalismo, non siamo in presenza di una "fase" che comporti innovazioni teoriche. Semplicemente, alcune contraddizioni del sistema capitalistico stanno acquistando preminenza fra le altre: c'è una enorme crescita nella composizione tecnica pur contenendo e spesso ridimensionando la composizione organica; questo fa sì che il singolo capitale riesca a misurare un mantenimento del saggio di profitto accettabile e a volte soddisfacente; ma contemporaneamente questo stesso fatto può comportare una riduzione relativa e assoluta dei salariati e, proseguendo nel tempo, potrebbe quindi comportare una sempre minore crescita o addirittura una riduzione della massa di plusvalore prodotta in ogni ciclo. Mentre il sistema resta efficiente per il singolo capitale, diventa inefficiente per il complesso dei capitali: una parte crescente di capitale non può più investirsi in forma di capitale vero e proprio.

Che cosa comporterà questo insieme di fenomeni, è un altro tema aperto. Sicuramente ha comportato e sta comportando un'esportazione in forma finanziaria di capitali verso nuove aree: Cina, India, Asia sud-orientale. Tale movimento può compensare questo esubero crescente, questa massa di capitale che non riesce più a valorizzarsi in forma propria nelle aree tradizionali di capitalismo? Può trovare impiego profittevole, nelle quantità volute nelle nuove aree?

Quando noi facemmo un esame, pur se non approfondito, del problema la nostra risposta fu no: la massa di capitale su cui si sta ragionando è troppo grossa ed è troppo rapida la diffusione delle condizioni di produttività nella "globalizzazione" dei mercati. Per spiegarci meglio: non è che in quelle aree il capitale trovi condizioni "vergini" in cui potersi investire con alta densità di lavoro e bassa densità di capitale: se per raccogliere il caucciù si può ricorrere a strumenti invariati dal neolitico, la sua lavorazione è automatica; se si investe, anche in zone oggi non molto sviluppate, in pochissimo tempo si arriva alla stessa maturità di condizioni di produzione che esistono nei paesi imperialisti. Non è che si possa pensare di andare a investire in Cina per produrre là a basso costo, per esempio, sgabelli tipici di bambù, probabilmente ancora manufatti da qualche abile "sgabellista", che annoda velocemente fasciame di bambù o altro materiale, magari aiutandosi con qualche macchina abbastanza elementare: è evidente che entro poco tempo (e forse lo stanno già facendo) la gran massa della produzione cinese di sgabelli e seggiole avverrà con lo stampo per la plastica, per soddisfare i bisogni di "sedere" anche di un miliardo e più di cinesi.

Sin qui abbiamo cercato di evidenziare quali siano oggi alcune connotazioni caratteristiche delle difficoltà di accumulazione e di valorizzazione del capitalismo. Abbiamo poi accennato quali conseguenze sociali ciò provochi, cioè una espulsione massiccia, costante e definitiva di salariati dal ciclo della produzione. Ma quello che appare più importante ai nostri occhi non sono tanto gli scenari apocalittici di cui parlano gli studiosi borghesi cui prima abbiamo fatto riferimento (dopo parleremo della divaricazione totale tra il nostro approccio e il loro), ma il fatto che in queste "novità" si ri-manifesta, come già si manifestava un secolo e mezzo fa, il contrasto evidente (attuale, non solo potenziale) che ormai esiste tra il livello raggiunto dalle forze produttive e l'ambito di rapporti giuridici, statali, di produzione che le ingabbiano. Ormai, tutte le politiche di cui si sta parlando sono palesemente inadeguate al controllo del capitale e concorrono a contenere le forze produttive, quando addirittura non concorrono a frenarle.

Ci sono dei casi sintomatici di prodotti la cui vendibilità sul mercato è garantita puramente e semplicemente da una convenzione (e forzatura) giuridica. Si pensi ai prodotti software: non c'è assolutamente niente che giustifichi il costo attuale della licenza per un programma, se non la norma legale che tende a impedire che un utente si impossessi gratuitamente di un tal prodotto, per avere il quale basta premere un tasto di un qualunque calcolatore. Via Internet, poi, se ne potrebbe avere la disponibilità per un numero di utenti illimitato, con la sola precondizione che ciascuno abbia un PC disponibile. Se il software riesce a essere una merce che rende sovrapprofitto, è solo perché vengono fatte convenzioni internazionali e leggi statali che puniscono chi semplicemente usa questi prodotti, che materialmente costa poco produrre e ancor meno, anzi niente, riprodurre. Nella telefonia si potrebbero fare esempi altrettanto validi: l'utilizzazione di sistemi di comunicazione di tipo telefonico viene pagata e bollettata ad un prezzo che nulla ha ormai a che vedere coi costi effettivi (tant’è che mentre qui aumenta la tariffa urbana a tempo, negli USA la telefonata urbana è gratuita): mettiamoci pure il costo della ricerca e dei satelliti, ma la parte più "costosa" di una telefonata è ormai probabilmente legata al sistema tecnico-amministrativo del conteggio degli scatti!

Ci sono altre numerose famiglie di prodotti di questo genere, il cui prezzo di mercato è sostenuto dalla forzatura giuridica: si pensi alla musica, agli spettacoli prodotti in forma analogica o digitale su nastro, CD ecc. Chiunque potrebbe copiare un formato digitale di qualsiasi tipo da Internet senza nessun costo materiale per nessuno (a parte gli scatti telefonici) e sono delle leggi che lo impediscono perché c'è il copyright (oppure c’è la griffatura dell'originale per non consentire di riprodurre dalla matrice altre copie a costo quasi-zero).

Il contrasto delle forze produttive con i rapporti di produzione è evidenziato anche da un altro fatto: la perdita di posti di lavoro sta producendo una politica sindacale e governativa alla "ricerca del tempo perduto", la creazione di posti di lavoro, il tentativo di tornare a qualcosa che non esiste più. Ormai c'è un contrasto stridente tra una economia che espelle forza lavoro in continuazione, pur essendo la forza produttiva per molti versi frenata, e un meccanismo di gestione sociale che si basava un tempo su un rapporto stabile tra occupazione, garantita anche da abbondanti commesse statali, e Stato, grande regolatore di una massa quasi pienamente occupata, in termini tali da poter lubrificare la realizzazione del plusvalore tramite un’ampia e diffusa capacità di acquisto delle merci. In questo rapporto stabile si identificava il modello che sinteticamente possiamo definire keynesian-fascista. Questo modello di gestione sociale non è adesso più possibile, si arrabattino pure quanto vogliono: non avendone a disposizione di alternativi, vanno ad arrampicarsi sui vetri della creazione del lavoro inutile pur di tenere in piedi la convenzione sociale che per arrivare al beneficio di poter consumare il prodotto sociale, occorre avere un bollino che garantisce che si è sudato, che si ha lavorato; pur di tenere in piedi, stampellandola malamente, la relazione valore-lavoro, che è uno dei cardini di questo modo di produzione, ma che non è più tanto adeguata a far funzionare come un tempo l'intero meccanismo di riproduzione sociale.

E allora si vedono cose abbastanza grottesche dal nostro punto di vista: inventare forme di lavoro totalmente inutili, e chiamarle socialmente utili, per non dover dire di erogare gratuitamente reddito, per cercare di contenere questa forza materiale, questa talpa che scava e che afferma che la produzione e la riproduzione sociale non possono più essere basate sull'applicazione intensiva della fatica, dello sfruttamento del lavoro umano in forma massificata.

Certamente ci sono molte altre spiegazioni del grande incremento del no profit, oltre a quella su riportata, ma è certo che anche quelle che vengono avanzate dalle varie fondazioni borghesi sono assai parziali. Di fatto, tenendo per buone le loro stesse cifre, oggi basta il 20-30% della popolazione in età di lavoro per riprodurre l’intera società (in Italia siamo modernissimi: 36%); questo, malgrado gli sforzi più o meno idealistici dei sindacati negli anni scorsi, non diventa una riduzione al 20%-30% della giornata lavorativa media, ma diventa il super sfruttamento di una minoranza e la marginalizzazione di tutti gli altri. Come si può risolvere la contraddizione? Facendo fare - dicono - attività non legate alla valorizzazione del capitale agli altri, creando e ampliando la sfera dei "lavori socialmente utili".

In una nostra lettera abbiamo citato uno di quei borghesi che si sentono illuminati, Giorgio Ruffolo, il quale narrava la favoletta di re Dagoberto e del suo regno felice. Diceva: vorrà dire che quanti saranno esclusi dalle attività produttive, perché in soprannumero, si dedicheranno alle attività squisitamente improduttive, l'esecuzione di Mozart, la pulizia dei centri storici o l'apertura dei musei e delle biblioteche, le attività per il tempo libero, per il divertimento. E saranno pagati, secondo un piano razionale, con i proventi dei settori produttivi. Ma qui casca l'asino: perché mai tali attività dovrebbero essere svolte senza applicare la forza produttiva sociale che la società è in grado di sviluppare? E' un tentativo di metterle una gabbia che non reggerà alla prova delle cose. Torniamo all'esempio della musica: nella produzione di dischi, alcune case di produzione realizzano già adesso musica per via sintetica, cioè registrano separatamente buoni esecutori, ne campionano i suoni per mezzo di calcolatori, eseguono il missaggio di voci e strumenti, creano addirittura voci e strumenti, ecc. Se questo vale là dove si deve vendere un CD sul mercato, chissà perché per la borghese concezione del tempo libero si dovrebbero mettere in moto milioni di persone a strimpellare con l'arco o a... spazzare le strade con la scopa di saggina. Che lo facciano per il loro gusto, non per avere diritto ad un sudato tesserino di consumo, pur di non accettare la prospettiva sociale, già fondata sui dati di fatto dell’oggi, di una società in cui la relazione valore-lavoro non sia più la norma vigente. E i nostri esperti, con le "sinistre" in testa, si arrampicano su vetri sempre più lisci: se per pulire e manutenere una autostrada si utilizzano giganteschi macchinari, perché per pulire i centri storici si dovrebbero mandare disoccupati-boy scout col secchiello e la paletta? Se li si manda, D'Alema annuente, si ottiene di far finta che ci sia uno sbocco lavorativo per una gran quantità di giovani disoccupati, ma dal punto di vista sociale ciò è completamente inutile.

Comunque lo si mascheri c’è un dato di fatto: una enorme liberazione di tempo di lavoro, potenzialmente reso disponibile per la specie umana nel suo complesso, non fa che crescere nella società, mentre dialetticamente si manifesta all'onore del mondo capitalistico come un inferno di sfruttamento sempre peggiore per una minoranza di lavoratori sfruttati nel ciclo di produzione e una alienazione cronica per una massa di senza riserve, marginalizzati, più o meno definitivamente esclusi dal mercato del lavoro; questa è la forma in cui oggi si manifesta questa contraddizione. Ma la disponibilità di tempo è ormai un prodotto storico da cui la società capitalistica non potrà più mediamente recedere.

Dai Grundrisse (ibidem pag. 720) citiamo ancora:

"La creazione di molto tempo disponibile per la società in generale e per ogni membro di essa (ossia di spazio per il pieno sviluppo delle forze produttive dei singoli, e quindi anche della società) oltre il tempo di lavoro necessario, questa creazione di tempo di non-lavoro si presenta, al livello del capitale, come di tutti quelli precedenti, come tempo di non-lavoro, tempo libero per alcuni"

E questo è sotto gli occhi di tutti: questo tempo disponibile che si libera nella società non si distribuisce equamente ma si manifesta nella forma, dialetticamente antitetica, del tempo libero per alcuni: nel nostro caso, poi, il tempo libero è spesso disoccupazione.

"Il capitale vi aggiunge il fatto che esso aumenta il tempo di lavoro eccedente dalla massa con il ricorso a tutti i mezzi dell’arte e della scienza, perché la sua ricchezza consiste direttamente nell’appropriazione di tempo di lavoro eccedente; giacché il suo scopo è direttamente il valore, e non il valore d’uso. Esso è quindi, senza volerlo, strumento di creazione delle possibilità di tempo sociale disponibile, [strumento] per la riduzione del tempo di lavoro dell’intera società a un minimo decrescente, sì da rendere il tempo di tutti libero per lo sviluppo personale. Ma la sua tendenza è sempre, da un lato, quella di creare tempo disponibile, dall'altro di convertirlo in lavoro eccedente. Se la prima cosa gli riesce troppo bene, [cioè la crescita della produttività e quindi la creazione di tempo disponibile], esso soffre di sovrapproduzione e allora il lavoro necessario viene interrotto perché il capitale non può valorizzare alcun lavoro eccedente. Quanto più si sviluppa questa contraddizione, tanto più diviene chiaro che la crescita delle forze produttive non può più essere vincolata all'appropriazione di lavoro eccedente altrui, ma che invece la massa operaia stessa deve appropriarsi del suo lavoro eccedente."

Qui, come in tantissimi altri passi, Marx ci dice che a un certo punto questa contraddizione, insita nel sistema capitalistico, prelude e allude alla trasformazione comunistica della società; riporta alla contraddizione tra sviluppo delle forze produttive e gabbia dei rapporti di produzione non più sufficienti a contenerle.

Tutto questo ha, evidentemente e in maniera definitiva, superato ogni politica sindacale basata sulla vecchia parola d'ordine "il posto di lavoro non si tocca". Non ci saranno più ritorni indietro, se non parziali, momentanei, effimeri: si possono fare mille manifestazioni per i centomila posti di lavoro, Berlusconi può sparare le sue balle sulla creazione di un milione di posti di lavoro, ma sono chiaramente posti di lavoro o effimeri o inutili.

Come ricordavamo stamani, le posizioni classiste non sempre si coniugano con la coscienza di sé, con l'obiettivo chiaro. Il luddismo, il movimento operaio che si batteva contro l’introduzione delle macchine, di fatto era la manifestazione concreta di un forte antagonismo sociale con cui la classe operaia cominciava ad avere coscienza. Certo, oggi come oggi, qualunque movimento di classe si manifesta in forme di per sé improprie, destinate a rimanere nell'ambito del controllo borghese ottenuto attraverso i sindacati ufficiali e le loro appendici corporative o velleitarie. Che possibilità avevano i minatori inglesi del 1980 o i minatori tedeschi del 1997 di tenere aperti i pozzi delle miniere di carbone resi inutili e improduttivi? Oggi è meno importante di prima l'acciaio e quindi il carbone che serve per gli altoforni, anche tenendo conto che si produce molto coke dal petrolio. La produzione di acciaio ha scandito la produzione di tutto quello che adesso è già lavoro morto, presente sulla crosta terrestre capitalistica; l'alleggerimento dei prodotti richiede, in termini assoluti, meno acciaio. D'altra parte, l'introduzione di nuove tecniche di estrazione e lo sfruttamento di cave a cielo aperto in altre parti del mondo (che tra l'altro richiede meno salariati nell'inferno delle gallerie) aveva prodotto la benefica chiusura delle miniere più letali per i proletari. La manifestazione di questo tipo di lotte è senza sbocco; esse rappresentano certo il tentativo di conservare qualcosa che c'è, soprattutto il lavoro, ma ha un significato peggiore di quello che avrebbe una lotta contro l'introduzione dei robot o dei calcolatori. La lotta di classe conoscerà dunque una sua ripresa magari con obiettivi parziali, magari sbagliati dal punto di vista di classe, ma la sua importanza sarà rivelata dall'ampiezza dello scontro e dal superamento delle attuali formazioni sindacali e delle loro politiche. In questo slancio dovrà essere superato anche il contenuto, la rivendicazione immediata.

Per concludere è opportuno precisare quanta distanza esista, nell’affrontare il tema della "fine del lavoro", fra noi e gli studiosi borghesi, che pure, sempre più numerosi sottolineano il problema, sponsorizzando varie soluzioni. Noi pensiamo che non ci sia nessun meccanismo di tipo naturale, evolutivo, per cui l'accumulo di certe contraddizioni dei meccanismi di funzionamento del sistema capitalistico, per propria capacità interna, possa provocare un "naturale" e morbido passaggio in altra formazione sociale. Ovvero: il fatto che molti pensatori e consulenti borghesi inquadrino alcune delle contraddizioni evidenti del funzionamento del capitalismo in questa fase storica, non comporta affatto che si arrivi alle stesse conclusioni: loro pensano principalmente a evitare le possibili (e per loro indesiderate) conseguenze sociali e si sforzano di trovare miracolosi rimedi, che risolvano queste stesse contraddizioni, per esempio con l’estensione a volontà del terzo settore, del no-profit o altro.

Noi invece, sappiamo bene due cose: primo, che il passaggio ad una nuova forma sociale avviene storicamente solo quando le contraddizioni latenti sul piano economico tra forza produttive e rapporti giuridici di produzione, assumono la forma dispiegata di uno scontro sociale sufficientemente radicale, esteso e forte da arrivare, in presenza del partito, a una conclusione politica.

Secondo: che in assenza di questo non ci sarà nessuna trasformazione sostanziale: le contraddizioni specifiche più evidenti si risolveranno in altre più profonde; il sistema economico supererà le sue contingenti maggiori difficoltà, adattandosi in un qualche modo; così come nel 1975, al momento dell'elettrocardiogramma piatto dell'accumulazione capitalistica, non c'è stata automaticamente nessuna trasformazione sociale del modo di produzione in una forma superiore.

La scienza marxista ci dice che se le contraddizioni della struttura economica non si concretizzano in uno scontro sociale dispiegato, in manifestazioni di lotta di classe aperta, formazione e manifestazione del partito proletario, rivoluzione politica, dittatura della classe proletaria, senza tutto questo non ci può essere assolutamente "novità" sociale vera. Marx rivendicava orgogliosamente in questo la sua vera originalità.

Note

(39) Nell'uso comune il termine "taylorismo" è ormai utilizzato come equivalente di "fordismo", ovvero la produzione secondo rigidi schemi sequenziali e operazioni parcellizzate. Niente è più distante dalle concezioni dinamiche di Taylor che intendeva semplicemente introdurre elementi razionali a sostituzione di quelli empirici. I metodi odierni, in effetti, non sono altro che una coerente applicazione dei concetti tayloristi, cioè l'esasperazione di quel "sistema integrato di funzioni" introdotto da Taylor e che Lenin riteneva positivo anche per le basi della società futura.

(40) Nel Quaderno citato giungevamo alla conclusione che 1) la curva di accumulazione, cioè la curva che esprime la dinamica generale del valore del capitale merce complessivo annualmente prodotto, deve giungere storicamente ad un flesso; 2) esiste perciò un massimo storico della massa di plusvalore prodotta in ciascun anno di riproduzione; 3) esiste un massimo storico per il numero totale di proletari che possono ancora vendere la loro forza lavoro sul mercato capitalistico. I dati disponibili già allora dimostravano che il punto di flesso, almeno nei paesi più sviluppati come gli Stati Uniti, era stato raggiunto. Ciò è in coerenza con le molte ricerche precedenti della Sinistra sui saggi decrescenti di accumulazione nel "corso del capitalismo mondiale".

Fine

Lettere ai compagni