40. Globalizzazione (2)

Sussunzione dell'industria alla finanza

La finanziarizzazione è dunque un fenomeno di capitalismo maturo, mentre la statalizzazione diretta è un fenomeno di capitalismo giovane. Infatti tutte le economie dei paesi poveri (o ricchi solo in materie prime) hanno un alto indice di intervento diretto dello Stato. Il tempo di rotazione del capitale nei processi di produzione e di circolazione influenza la produzione di plusvalore, quindi è ovvio che, negli stadi meno sviluppati della produzione capitalistica, le opere su larga scala richiedenti un lungo periodo di lavoro, e quindi una notevole anticipazione di capitale, vengano intraprese direttamente dallo Stato. Qualche volta con impiego di manodopera comandata a corvée, in certi casi ricorrendo addirittura a lavoro forzato, come in Russia e in Cina. In situazioni particolari, la sete di plusvalore fa estendere questo fenomeno anche ai paesi ultrasviluppati, come nel caso della Germania nazista o, recentemente, nel caso del sistema carcerario statunitense privato.

La forma iniziale di capitalismo di stato, in origine legata al mercantilismo delle Repubbliche Marinare, poi via via estesa alla rete mercantile che si consolidò con Venezia, con la finanza tedesca, con l'imperialismo olandese ecc. (24), oggi può apparire come concentrazione diretta, nelle mani dello Stato, di proprietà, finanza e dominio del mercato, ma in realtà costituisce per i capitali in cerca di remunerazione una riserva di energie indispensabile per intraprese aziendali e speculazioni finanziarie private. Il processo attuale di privatizzazione, quindi, indotto dalla ricerca incessante di plusvalore da parte del Capitale determinata dalla caduta del saggio di profitto, è funzionale a raccogliere capillarmente molti piccoli capitali privati per concentrarli alla fine nelle mani di pochi capitalisti o fondi d'investimento. Questa ulteriore fonte della finanziarizzazione dell'economia è indispensabile, perché il singolo possessore di capitale non potrà mai avere i mezzi per conoscere l'andamento dei mercati globali e indirizzare somme sufficienti a valorizzarsi. Ovviamente questo risultato non è garantito neppure a chi ha tali mezzi, ma rimane il fatto che il piccolo capitalista sarà remunerato con criteri interni e il fondo d'investimento o il grande capitalista potranno invece cercare remunerazione "globale". La finanziarizzazione è quindi funzionale al consolidamento di una massa impotente di piccoli investitori presso cui effettuare la raccolta e di una oligarchia finanziaria in grado di indirizzare i capitali raccolti là dove la redditività sia prevista più alta che altrove. E' questa oligarchia, per esempio, che gravita intorno al debito estero mondiale e che interviene ogni qual volta la Banca Mondiale debba organizzare una catena di raccolta per un prestito:

"Nessun affare all'interno del paese - scrive la rivista Die Bank - arreca neppure approssimativamente i benefici dati dalla mediazione nell'emissione di un prestito estero".

L'esplosione del mercato dei titoli ha avuto come conseguenza anche la sua automatizzazione. Siccome la stragrande maggioranza di essi è trattabile secondo schemi fissi nella routine quotidiana degli scambi, i grandi operatori finanziari raggruppano le operazioni secondo criteri immessi nei programmi dei computer. Ne risulta che la maggior parte della routine non è più seguita dagli uomini ma è lasciata in mano alle macchine, le quali sono anche in grado di avvertire quando i mercati varcano certe soglie di sicurezza e perciò di bloccarsi chiamando gli umani a prendere in mano la situazione.

Il cammino verso l'autonomizzazione del valore nella sua forma finanziaria attuale è stato lungo, ma è irreversibile. Il vincolo monetario, determinato dalla necessità di avere un equivalente generale per tutte le merci, appare caratteristico d'ogni produzione mercantile, in quanto la moneta, ancor prima che strumento di dominio classista è, di fatto, un indispensabile mezzo di scambio. Una volta instauratosi alla scala sociale, il capitalismo reca, tuttavia, decisive novità rispetto alle epoche precedenti: la crescita impetuosa del credito si trasforma nell'illusione di un più facile e veloce rendimento finanziario rispetto ai cicli produttivi, scatenando in breve, di là dal controllo statale (Banca centrale), una erratica circolazione di denaro cui seguono ogni sorta di titoli. La sussunzione dell'industria alla finanza globale è completa.

Nonostante ciò, al vincolo monetario interno restano sottoposte le varie strutture economiche nazionali. Per cui, data l'universale circolazione di merci e capitali, ciascuna moneta nazionale deve, com'è ovvio, poter essere scambiata sul mercato mondiale. Dalla mancanza di una specifica fiducia verso una specifica moneta nazionale discende l'obbligo di una moneta internazionale su cui riversare la fiducia, cui riferire di volta in volta le diverse valute locali.

Globalizzazione della moneta

Con la fine del metallismo e la progressiva smaterializzazione della moneta (soppressione del gold standard) s'afferma, in ambito borghese, l'illusorio convincimento che l'autorità centrale, o uno dei suoi organi, basti a vigilare la massa dei mezzi di pagamento e il volume degli stock valutari. Secondo il criterio imperante, il nuovo sistema valutario si configura, insomma, come un insieme di istituzioni regolatrici della quantità di moneta e statalmente centralizzate. Tuttavia non sono gli Stati che riescono a dominare il Capitale, bensì il contrario, perché proprio lo Stato moderno si trasforma in servizio generale per le esigenze del Capitale.

Nel XIX secolo, ciascuna Banca centrale gestiva moneta con base aurea, ovvero banconote liberamente convertibili in oro. Esisteva, perciò, una moneta-merce, l'oro, che rappresentava l'unità di misura universale. Quando le riserve presero a costituirsi in forma di divise nazionali non più convertibili in oro (ciò che avvenne per la sterlina nel 1931 e per il dollaro nel 1971), sorse l'esigenza di stabilire un'altra unità di misura, che permettesse, finalmente, la serie delle equivalenze monetarie.

Ora, la moneta di credito ha duplice natura: è mezzo di pagamento (proprio come i biglietti di banca) ed è mezzo di finanziamento (massime per prestiti a lungo termine). Da una parte consente lo scambio delle merci; dall'altra, causa il cumulo inarrestabile di debiti/crediti, scaturigine di una circolazione finanziaria con caratteri suoi propri, distinta dalla circolazione mercantile semplice.

Attraverso prestiti e acquisti di titoli e azioni, viene scambiato denaro contro crediti o diritti (merci sui generis, per dirla con Marx); si determina, allora, una circolazione finanziaria che, a differenza di quanto avviene per la circolazione semplice, non subisce direttamente la legge del valore; e più si mondializza questa circolazione, più gli oggetti della circolazione sembrano staccarsi dalla necessaria radice da cui il Capitale prende corpo, cioè la produzione di plusvalore. La frenetica ricerca di guadagno attraverso la circolazione deve fare i conti lo stesso, beninteso, con la produzione e lo scambio di merci e servizi vendibili, ma assume inevitabilmente una crescente autonomia. Se potesse slegarsi del tutto dal capitale industriale, come pretende, essa negherebbe le stesse relazioni di credito, sino a inficiare la validità della moneta creditizia sulla quale è nata la variegata e numerosissima schiera di strumenti finanziari. Ma non può farlo, perché separarsi completamente dalla circolazione delle merci e dei capitali o dalla moneta come equivalente generale, significherebbe per essa diventare meramente speculativa e, alla fine, distruggersi da sola.

La smaterializzazione della moneta trasforma in semplice segno monetario la moneta-merce, ma conserva tuttavia, necessariamente, la relazione col valore delle altre merci. Definiti come segni di valore, i differenti tipi di moneta riproducono l'equivalente generale e sono fra loro convertibili, a condizione che ciascuno di essi verifichi, in ultima analisi, la legge del valore. La sottomissione della moneta nazionale alla legge del valore viene provata dalla convertibilità in altre monete nazionali. Una possibile regolamentazione è data dal continuo aggiustamento della moneta nazionale nei confronti di altre valute (svalutazione o rivalutazione) per mezzo di un'unità di misura universale.

Se la moneta-merce fosse ancora l'oro, la verifica della legge del valore non presenterebbe nessuna difficoltà. Ma di fatto l'oro non è più, per ragioni storiche, l'unica moneta universale e perciò l'autonomizzazione finanziaria, creandosi persino un lessico specifico, si impone alla percezione degli uomini in modo prepotente, specie ora che la mondializzazione degli scambi è un fatto naturale.

La moneta oggi dominante, il dollaro, fatte proprie alcune caratteristiche della moneta mondiale (strumento di circolazione, mezzo di riserva, mezzo di pagamento universale) rappresenta solo nominalmente una moneta-merce, cioè un'unità di misura universale come un tempo era l'oro, per cui non può verificare la legge del valore per ciascuna delle monete nazionali. Occorre tener presente che anche il dollaro è, prima di tutto, moneta nazionale e che perciò, date le caratteeristiche degli Stati Uniti, il mondo del dollaro è regolato in base a criteri originati dalla fiducia che il mondo ripone nella superpotenza americana più che dai rapporti effettivi di valore. Il segno di valore rappresentato dal dollaro (che è moneta non più convertibile in oro e neppure coperta da garanzie materiali se non, appunto, il potere economico e militare) è dunque il risultato del rapporto di forza fra monete nazionali e moneta dominante. E' ovvio che anche le antiche lettere di credito erano basate sulla fiducia nella potenza dei mercanti-banchieri benché la somma dei valori di cui erano portatrici sorpassasse di gran lunga quello delle riserve metalliche e delle merci fisicamente presenti nei magazzini; ma quello che ci interessa è sottolineare la globalizzazione di questo aspetto, per cui oggi esiste un solo grande titolare di "fiducia" per tutto il mondo.

In queste condizioni il denaro può fisicamente scomparire e diventare un mero segno compensatorio fra transazioni. Già vano fantasma sub specie di moneta scritturale, il danaro viene trasformandosi in entità del tutto impalpabile, resa da cifrette telematiche e fuori d'ogni possibile controllo. Le transazioni in moneta elettronica, sia tramite smart chip card o in Rete, assommano ormai a settemila miliardi di dollari all'anno, pari all'87% dell'intero prodotto lordo americano (25).

Ovunque, finita l'era delle grida fra broker scalmanati, le borse titoli e materie prime si scambiano tramite i circuiti di un'immensa rete di computer dove tutte le corbeille del pianeta sono in connessione diretta e simultanea lavorando incessantemente 24 ore su 24. A sequele interminabili di bit si ridurrà persino l'istituto bancario ad uso del semplice correntista, che si collegherà da casa sua facendo alla fine scomparire gli sportelli e forse anche le filiali:

"Sulla strada di un futuro senza sportelli, alcune banche hanno sperimentato forme che consentono di ridurre al minimo gli spostamenti e le perdite di tempo. Banque direct della Compagnie Bancaire (Paribas), First direct della Midland Bank, Banco directo della spagnola Argentario sono alcune esperienze, in campo europeo, di gestione a distanza del rapporto col cliente" (26).

Monopoli

Tra le teorie sulla morte del comunismo vi è quella dell'invecchiamento delle osservazioni di Marx, il quale avrebbe analizzato un capitalismo ottocentesco in cui vigeva la libera concorrenza, il capitale finanziario era poco sviluppato e non erano conosciuti fenomeni monopolistici e imperialistici della portata di quelli odierni.

Marx si dedicò alla ricerca delle leggi dinamiche del capitalismo e quindi del divenire di una società completamente diversa, come risultato della serie storica dei modi di produzione. Il suo lavoro va quindi giudicato in base a questa ricerca e alle sue premesse, non in base a considerazioni empiriche senza fondamento scientifico che appartengono soltanto ad un contesto di lotta di classe; d'altronde esse non richiederebbero neppure un commento, se non avessero presa anche su molti che si pretendono militanti comunisti senza essere in grado di capire ciò che scrisse Marx a proposito della dinamica dello sviluppo. Questa si individua per esempio nella maturità delle categorie capitalistiche presenti, non nel loro peso statistico; e si individua nel legame con l'imperialismo mondiale, non nella condizione particolare in cui versa la popolazione o simili. Marx per primo, proprio perché si occupò di una dinamica, evidenziò le differenze non solo fra i diversi periodi della sua epoca, ma soprattutto fra i diversi paesi, differenze che corrispondevano a tempi e addirittura a epoche, anche se osservate alla stessa data.

La teoria del comunismo, che si basa sulla possibilità di tradurre in termini quantitativi le grandezze di valore e sulla formalizzazione della dinamica cui soggiace la ripartizione di quest'ultimo, non ha mai preso sul serio la teoria borghese della libera concorrenza, smascherandola e dimostrandone l'infondatezza. Il carattere di monopolio di classe sui mezzi di produzione si ripercuote sull'economia e all'interno stesso della classe borghese.

Proprio il capitalismo recente dimostra che, nella ripartizione sociale del plusvalore, questioni di forza economica e politica creano situazioni di monopolio, per cui può esserci differenziale di profitto non solo a causa di innovazione e di capacità generale nella lotta per la concorrenza, ma a causa di posizioni di rendita. In Mai la merce sfamerà l'uomo si dice che la teoria della rendita non fu applicata soltanto all'agricoltura,

"ma a tutte le forze naturali; valgono quindi anche per la economia della macchina a carbone o benzina; di quella idroelettrica e della futura motrice nucleare, tutte attuali e prossime basi di sovrapprofitti e monopoli e di parassitismi redditieri, che aggravano la scompensazione della forma sociale capitalistica" (27).

In Vulcano della produzione, si precisa che, data l'origine della rendita in una ripartizione sociale di una parte del plusvalore a favore dei proprietari del suolo, ogni ripartizione forzata dovuta a monopolio si può rapportare alla rendita e trattare con gli stessi criteri teorici.

"La teoria quantitativa della questione agraria e della rendita è quindi la completa ed esauriente teoria di ogni monopolio e di ogni sovrapprofitto da monopolio, per ogni fenomeno che stabilisca i prezzi correnti al di sopra del valore sociale" (28).

Mentre la valutazione corrente del fenomeno monopolio, anche da parte "marxista", si colora di connotati moralistici tutto sommato legati alla negata libertà (di concorrenza), dal punto di vista scientifico è tutt'altra cosa e comporta la visione storica di ciò che il capitalismo diviene. Questo particolare modo di produzione abbassa storicamente l'indice del lavoro sociale necessario a produrre una data quantità di prodotto industriale. Ciò è altamente rivoluzionario, in quanto induce un abbassamento irreversibile della quantità di lavoro necessario all'intera società per riprodursi e vivere secondo le sue esigenze, vale a dire che induce una liberazione massiccia di tempo di lavoro.

Ma fin dagli albori del capitalismo, malgrado la diminuzione del saggio di profitto medio, è sempre necessario un sovrapprofitto da devolvere al monopolio del suolo, degli edifici, delle materie prime, di molte condizioni naturali e artificiali. Diminuisce la quantità di lavoro medio per produrre materie prime e alimentari, ma cresce la quantità di lavoro medio per acquistarli. Siccome queste caratteristiche della proprietà di classe non solo generano il monopolio, ma lo riproducono in tutta la vita sociale, ecco che la possibilità di liberare la specie umana dal tempo di lavoro viene paralizzata, come viene paralizzato lo sviluppo delle forze produttive.

E' stato perciò inevitabile che le determinanti materiali del capitalismo di transizione individuate da Lenin nell'Imperialismo avessero il loro sbocco naturale anche nelle forme sovrastrutturali di monopolio. La Sinistra non ebbe nessuna remora a chiamarle nuove forme sociali e politiche, dato che, a differenza degli innovatori opportunisti, nei suoi elaborati ne trattava sul filo di riconosciuti invarianti valevoli per tutto l'arco storico della durata del capitalismo. Queste nuove forme di capitalismo controllato, di collegamento dall'alto fra settori economici, di pianificazione come soluzione dei problemi infrastrutturali del capitalismo, di varo e gestione del monopolio di interi settori (che si accompagna, in altri settori, alla lotta al monopolio espropriatore scaturito dalla libera concorrenza), di manipolazione monetaria e di deficit spending in previsione di effetti moltiplicativi, si concretizzarono per la prima volta in Italia con il fascismo ed ebbero diffusione mondiale, coinvolgendo ancor più la Germania, la Russia staliniana, il Giappone e persino gli Stati Uniti.

Dal monopolio industriale a quello sociale

In questo processo la borghesia, da classe che deteneva il solo monopolio dei mezzi di produzione e dell'ideologia, diventa una classe che detiene anche il monopolio delle infrastrutture sociali, precedentemente cavallo di battaglia del movimento operaio (società di mutuo soccorso, cooperative, centri di vita sociale). La borghesia, da classe politicamente intesa come classe che agisce esclusivamente per la sua propria conservazione, diviene anche classe che si preoccupa della conservazione del suo antagonista, il proletariato, di cui ha assolutamente bisogno per la sua propria sopravvivenza. Oltre al monopolio dell'ideologia, quindi della "politica", la borghesia assume anche il monopolio della società, comprese le istanze riformatrici del suo avversario politico. E si incarica di organizzare essa stessa il proletariato, fondando sindacati operai e organismi industriali come elementi complementari di un'unica politica statale corporativa. Questo modello è da allora irreversibile e inserisce il proletariato sia nei piani statali di produzione e di concorrenza con gli altri Stati sia in quelli di conservazione capitalistica, cioè nella "politica" (29).

Mentre nella corrente attività parolaia dei rappresentanti borghesi vengono mantenute le antiche parole d'ordine sulla libertà, l'uguaglianza e la fraternità, le stesse che rappresentarono i fattori esplosivi di una classe rivoluzionaria nella sua ascesa, la prassi diviene come non mai quella della libertà conculcata (non nel senso del diritto ma nel senso di intelligenza venduta all'ammasso), della differenza economica come bene ideale, per di più ottenuto per mezzo della stessa fratellanza che può esserci tra le belve che abitano la giungla.

In tale contesto, concorrenza e monopolio non sono più elementi contrapposti delle alterne vicende conosciute dalla società capitalistica, e non sono più neppure nozioni antagonistiche, ma divengono elementi complementari, così come lo sono le classi stesse nello Stato corporativo. Se nella storia del capitalismo la dinamica locale vede uno svolgersi naturale dalla forma concorrenziale verso il monopolio, la dinamica globale vede non solo un movimento ciclico monopolio - concorrenza - monopolio - concorrenza ecc. ma una perfetta simbiosi dei due, per cui uno non può esistere senza l'altro. Per questo è una pura idiozia il gran lamento sulla demolizione del cosiddetto stato sociale: il meccanismo intrinseco del fascismo è di per sé stesso "stato sociale", e ogni nuovo provvedimento escogitato dai politici non può che riguardare una redistribuzione del plusvalore nella società per mantenerlo in efficienza, come tra l'altro insegnano proprio gli Stati Uniti, che nessuno sospetta di mancato liberismo capitalistico.

Il budget americano per il 1997 è stato di 1.600 miliardi di dollari, la maggior parte dei quali assorbiti dalle spese sociali che sono state così distribuite: 22% per le pensioni statali; 11% per le cure ospedaliere; 6% per l'assistenza medica; 6% per il sussidio alle famiglie povere; 6% per le pensioni federali e il sussidio ai contadini poveri. Il totale rappresenta il 51% del budget, vale a dire più di 800 miliardi di dollari. In Italia la spesa per la protezione sociale nel 1998 è stata di 482.000 miliardi di lire, pari al 52% della spesa complessiva delle amministrazioni pubbliche (paragonabile al budget americano). Come si vede, in proporzione non c'è gran differenza (30).

Il monopolio della protezione sociale diventa la regola, mentre intorno ad esso è lasciata proliferare in modo più o meno controllato l'industria dell'assistenza privata, quest'ultima fornitrice funzionale del primo di merci e servizi strapagati. E anche in questo caso l'aggettivo "privata" non è dei più appropriati, dato che l'intero mondo della produzione, specie nel campo della salute e dell'assistenza, è regolato dall'alto tramite un sistema permanente di leggi, incentivi e manovre economiche. Negli Stati Uniti è per esempio in corso il boom della polizia e della carcerazione privata con tutti gli annessi e connessi (dai bounty killer alla refezione carceraria, dall'elettronica per lo spionaggio alla sartoria specializzata in casacche e divise), per cui il crimine, oggi più che mai, è una reale fonte di valore che accresce i parametri ufficiali dell'intera economia.

Il monopolio, che si manifesti direttamente attraverso lo Stato oppure attraverso una liberalizzazione pianificata dallo Stato, non cambia di natura, ma solo di forma: nel primo caso si ha una ripartizione sociale diretta del plusvalore proveniente dai settori produttivi; nel secondo caso si ha l'appalto, la concessione o la regolamentazione legislativa, cioè la formazione di settori cui è lasciata la gestione di determinati servizi e produzioni che assorbono plusvalore attraverso lo Stato o se lo creano in quanto strutture aziendali che vendono servizi o altra merce corrispondente ai bisogni sociali (31).

In ogni caso siamo di fronte al fenomeno grandeggiante e irreversibile del controllo economico dall'alto, sempre funzionale alla creazione di valore, dato che il servizio pubblico gratuito è settore improduttivo e deprime l'andamento del PIL. Le attività sociali, strappate ormai da tempo alle prime organizzazioni operaie e al riformismo, coinvolgono pienamente le organizzazioni sindacali, che diventano così delle mere appendici dello Stato, strumenti affidabili in primo luogo di concertazione tra le classi, ma anche di stabilità del monopolio complessivo del sistema sociale da parte di una determinata classe, quella borghese.

La situazione appena descritta è il prodotto (e sta al vertice) di una dinamica storica il cui schema è ben descritto da Marx come ricorrente. Ma non si tratta di una ricorrenza che potrebbe essere semplificata con un cerchio, percorso il quale ci si ritrova al punto di partenza, bensì come una spirale che, oltre le due dimensioni, ha anche uno svolgimento in verticale, verso un punto limite. Il capitalismo nasce statale monopolista e imperialista grosso modo con le repubbliche marinare di mille anni fa, si fa potente con le flotte di Portogallo, Spagna, Olanda e Inghilterra, con le varie Compagnie delle Indie e con l'esplosione dei mercati e della "libera concorrenza"; diventa modo di produzione industriale e introduce le macchine, per cui tende a cadere il saggio di profitto; conosce i cicli di crisi; ristruttura, aumenta ulteriormente la composizione organica del capitale, centralizza ed espropria capitalisti; rientra in crisi ad un livello parossistico accentuando la concorrenza; infine ritorna statalistico, imperialistico, nascono i trust, il capitale si centralizza, internazionalizza, e spinge la concorrenza interna fuori dei confini statali, fino a coinvolgere l'intero globo nella ripartizione mondiale del plusvalore. A questo punto, cioè all'analisi del mercato mondiale e a quella del gioco fra le classi, doveva giungere il lavoro di Marx, che morì prima di portarlo a termine; un lavoro che avrebbe dimostrato, forse più chiaramente di quanto già non si intraveda, la dinamica a spirale, questa circolarità che porta ad un accumulo di forze e di contraddizioni ad un livello sempre più alto e che egli a più riprese definisce come forza dirompente della società futura.

Dunque l'espansione planetaria dello scambio mercantile e delle alterne vicende fra monopolio (statale o meno) e libera concorrenza è fatto ben anteriore all'epoca nostra (e a quella di Marx medesimo). Alla morte di Marx, nel 1883, il mercato era già pienamente "globalizzato": consumava merci, contro moneta convertibile, il 90% della popolazione mondiale; il Reich di allora dipendeva dal capitale internazionale almeno quanto, oggi, la Repubblica Federale Tedesca (32).

Assumendo con Marx che il paese industrialmente più avanzato non fa che mostrare a quello meno sviluppato l'immagine del suo avvenire, ricorderemo che il primo paese a divenire capitalista fu l'Inghilterra, che alla metà del XIX secolo, con l'introduzione del libero commercio e l'esercizio della funzione di "opificio" di tutto il mondo, determinò il primo monopolio globale, cioè delle merci e della moneta, in seguito minato dall'estendersi di dazi protettivi nei paesi capitalistici. Ma se il monopolio è una tendenza naturale dello sviluppo capitalistico, esso non poteva rimanere isolato: agli albori del XX secolo si formò un sistema di monopoli, che determinarono nei maggiori paesi capitalistici gigantesche eccedenze di capitale.

"La concorrenza ha consumato sé stessa" - scrive Bucharin. "A misura che essa si accentuava, progrediva la centralizzazione, poiché i capitalisti più deboli andavano più presto in rovina. In ultimo la concentrazione del capitale, provocata dalla concorrenza, uccise la concorrenza stessa. Al posto della libera concorrenza subentrò il dominio delle associazioni monopolistiche dei sindacati e dei trust" (33).

E afferma che nell'industria tessile americana, intorno al 1920, più del 50 per cento delle fabbriche era controllata dai trust, in quella del vetro il 54 per cento; in quella della carta il 60 per cento; in quella metallurgica l'84 per cento; in quella siderurgica l'84 per cento; in quella chimica l'81 per cento, e così via, giungendo alla conclusione che "l'intera produzione dell'America è ora concentrata nelle mani di due trust", quello del petrolio e quello dell'acciaio (dai quali, tra l'altro, dipendevano tutti gli altri). Nel 1913 in Germania il 92,6 per cento della produzione del carbone nel bacino renano-vestfalico era nelle mani di un solo trust, mentre il trust siderurgico produceva quasi la metà dell'acciaio e quello dello zucchero il 70 per cento per il mercato interno e l'80 per cento dell'esportazione, ecc. Con il fascismo e le politiche democratiche successive alla Seconda Guerra Mondiale, la siderurgia, l'energia, le comunicazioni, la chimica, i trasporti ecc. divennero in Europa monopolio totale degli Stati, per cui risorse essenziali furono messe a disposizione del Capitale e dell'accumulazione generale, a dimostrazione che la borghesia non correva soltanto verso forme di monopolio industriale, cioè dei mezzi di produzione, ma anche verso forme di monopolio sociale.

Era dunque impossibile che il fenomeno del monopolismo, di per sé per nulla recente nel processo del modo di produzione capitalistico, rimanesse isolato in certi periodi storici: esso doveva assumere forme sociali permanenti, magari nascoste da una "liberalizzazione" sottomessa al controllo delle cosiddette parti sociali e, soprattutto, a quello delle leve legislative ed economiche che servono a trattare ogni variabile come parte di un unico sistema dinamico. Tuttavia, il successo borghese nel controllo di alcuni parametri macroeconomici non ha nulla a che fare con un superamento dell'anarchia insita nel modo di produzione capitalistico. Essendo il capitalismo di per sé monopolio di classe, tutto il capitale si accumula sempre più come dotazione non di persone o ditte, ma di una classe dominante. E questa classe non può fare a meno, ne sia cosciente o no, di rispondere alle sollecitazioni che vengono da un mondo che si apre alla concorrenza globale, in cui non è più permesso non fare ciò che fanno tutte le altre borghesie, a cominciare dalle più forti e agguerrite. La concorrenza rimane concorrenza anche se esplode fra Stati oltre che fra aziende, anzi, diventa guerra spietata, che provoca l'eliminazione dei meno adatti, appunto come nella giungla, e induce nei più adatti organi di difesa e di offesa sempre più robusti. Il monopolio, privato o pubblico che sia, è la conseguenza inevitabile. Globalizzazione significa perciò anche evoluzione dell'assetto mondiale verso il monopolio del paese di gran lunga più forte, situazione che la Sinistra ha più volte analizzato per un quarto di secolo dal 1945 in poi.

Il rentier globale, o il monopolio della potenza

Questo punto di arrivo, che Lenin vedeva nel condominio di un pugno di paesi con a capo l'Inghilterra, è ulteriormente semplificato dalla vittoria americana del 1945, che spazza via gli altri imperialismi, trasformandoli da protagonisti che contavano qualcosa sulla scena storica in comparse a volte un po' patetiche. Da allora tutti i paesi hanno più bisogno del mercato americano di quanto gli americani abbiano bisogno di tutti i loro mercati messi assieme; da allora gli Stati Uniti non hanno successori nella sequenza storica dei paesi imperialistici tratteggiata da Marx (repubbliche marinare, Venezia, Portogallo, Spagna, Olanda, Inghilterra) ed è impossibile che una coalizione di paesi concorrenti fra di loro possa rappresentare una forza unitaria in grado di ereditare il trono americano.

La sequenza è stata esattamente quella prevista da Marx ed è stata inesorabile: morto e sepolto il laissez-faire (mai esistito al di fuori dell'ideologia: la sola potenza sociale in grado di servire sul serio il Capitale era ed è lo Stato) (34), dimostratasi inoperante la legge della mano nascosta che aggiusta ogni stortura, col keynesismo in tutte le sue varianti si demanda a forze sociali il controllo del fatto economico generale. Non poteva questo fatto non ripercuotersi a livello mondiale: il controllo del fatto economico in ambito internazionale è affidato a potenti organismi appositi, i quali non possono che dipendere dalle leggi del capitalismo e quindi dal capitalismo più forte. E' infatti un'assurdità "incolpare" il Fondo Monetario Internazionale o la Banca Mondiale di fare gli interessi americani, quando da tali interessi dipendono tutte le altre economie.

Come il borghese viene disertando la produzione materiale per farsi rentier, cedolista, trafficante in titoli di credito - per divenire, insomma, figura non più necessaria al meccanismo economico, decisamente soppiantata dall'anonimo capitale delle grandi società per azioni - così lo Stato più forte in ambito mondiale assume la missione globale di rentier, ricavandone anche forza esuberante da indirizzare verso compiti di polizia. Quando i democratici antifascisti dicevano (al tempo delle manifestazioni al grido di "Yankee go home", oggi alquanto passate di moda) che la politica americana è una politica fascista, lo dicevano nel fetentissimo senso partigianesco russofilo (dopo essere stati culo e camicia con il Yankee addirittura in guerra mondiale), ma paradossalmente avevano ragione. Non perché gli americani fossero ideologicamente fascisti, ché anzi, sono sempre stati i campioni della democrazia, dei diritti dell'uomo e via dicendo, ma perché il fascismo è progressivo rispetto alla democrazia, dato che nella storia viene cronologicamente dopo e nella maturità del Capitale anche. Ecco che allora il gendarme del mondo, assumendosi il problema del controllo economico tramite gli organismi internazionali, non può fare a meno di assumersi anche il controllo politico globale, realizzando fino in fondo la dottrina enunciata da Monroe, che stabilì la non ingerenza americana negli affari europei in cambio della non ingerenza europea negli affari americani ("l'America agli americani"). Ma quale può essere la natura della dottrina politica di una non-nazione che già dalle sue premesse storiche si pone come distruttrice delle nazioni? Perché l'America è stata l'affossatrice del colonialismo? Il capolavoro del monopolio politico americano ha la sua origine nel negare il territorio che serve come spazio vitale agli altri nel momento in cui l'America non ha più bisogno di spazio vitale in quanto territorio. Perché lo spazio vitale dell'America fa il giro del globo e non c'è truppa che possa "conquistarlo".

Ci sono armi più micidiali che non le truppe, e non è un caso che merci di natura particolare abbiano contrassegnato la nascita dell'imperialismo americano invertendo il flusso del commercio con l'Europa. In mezzo secolo l'America sfornò le invenzioni in grado di completare la rivoluzione industriale nata in Europa: il telegrafo, la macchina per cucire, la mietitrice, la macchina per scrivere, la lampadina, il telefono, il fonografo, l'aeroplano e… la Coca-Cola. Nello stesso periodo, nonostante i 600.000 morti e il blocco demografico dovuto alla guerra civile, la popolazione saliva da 30 milioni di abitanti a 90 milioni, la maggior parte composta di uomini disperati accorsi dall'Europa a fornire forza-lavoro.

Il centro americano di potere e di controllo è il prodotto necessario della maturità capitalistica, è il depositario delle funzioni che il Capitale demandava agli Stati delle borghesie nazionali e che ora non può far altro che demandare ad uno Stato che abbia il monopolio della forza, sia in senso potenziale (economia politica) che in senso attuale (guerra). Se Marx diceva:

"Trasformazione del capitalista realmente operante in semplice dirigente, amministratore di capitale altrui, e dei proprietari di capitali in puri e semplici proprietari, puri e semplici capitalisti monetari. Anche quando i dividendi che essi ricevono comprendono l’interesse e il guadagno d’imprenditore (…) questo profitto totale è intascato unicamente a titolo d’interesse, ossia un semplice indennizzo della proprietà del capitale, proprietà che ora è, nel reale processo di riproduzione, cosi separata dalla funzione del capitale come, nella persona del dirigente, questa funzione è separata dalla proprietà del capitale (…). Questo significa la soppressione del modo capitalistico di produzione, nell’ambito dello stesso modo di produzione, quindi è una contraddizione che si distrugge da se stessa, che prima facie si presenta come semplice momento di transizione verso una nuova forma di produzione" (35),

come dobbiamo interpretare l'ulteriore maturità del capitalismo (ulteriore massimo sviluppo della produzione sociale) che mette il paese più forte del mondo nelle condizioni del singolo capitalista rentier diventato inutile? A che punto è giunta la soppressione del capitalismo entro lo stesso modo capitalistico di produzione? Oggi a porsi domande à la Marx c'è da passare per matti, ma occorre insistere per non cadere al livello di coloro che sacrificano i frutti futuri per un effimero successo immediato.

Nuovo ordine mondiale

Nel suo processo di valorizzazione il capitale tende a trascendere le barriere e i pregiudizi nazionali, distruggendo qualsivoglia ostacolo allo sviluppo delle forze produttive, all'espansione dei bisogni, allo sfruttamento dell'uomo e della natura.

Nella citata definizione dell'OCSE, sulla globalizzazione come processo di progressiva interdipendenza ed integrazione tra i diversi paesi, troviamo implicita l'allusione a un novus ordo, cornucopia dispensatrice di "Ordine e Progresso", come recita il motto iscritto nel globo della bandiera del Brasile (a dire il vero un po' beffardo, stando alla crescita caotica e terribile di quel paese).

La Sinistra Comunista paragonò il nuovo ordine mondiale a quello vecchio, ma sottolineò una differenza essenziale, che è la stessa di cui Marx avverte più volte il lettore: attenti che "il capitalismo non è una 'cosa' ma un movimento" e quindi è sempre arbitrario parlarne in modo statico.

Il vecchio imperialismo si espandeva in terre quasi spopolate e vergini, su cui abitavano popolazioni che non avevano raggiunto lo stadio della produzione scientifica e quindi non avevano titoli per sfruttare le risorse del territorio. Minerali e vegetali erano di chi li poteva immettere nel ciclo capitalistico ed erano acquisiti (comprati o rapinati) secondo il diritto della produzione. Sfruttando le materie prime, i colonizzati e anche gli stessi coloni civilizzatori, il vecchio imperialismo esaltò i profitti del capitale in madrepatria e le diatribe fra vecchi imperialismi scoppiarono per la ripartizione del territorio fisico.

Il nuovo imperialismo ha lo stesso obiettivo di accumulare e di valorizzare il capitale in madrepatria, ma non agisce più in un mondo vergine e spopolato, bensì in quello attuale già acquisito ai meccanismi capitalistici più moderni e per di più straboccante di umanità oppressa e affamata. Esso non pianifica più occupazione di territori e non vi impianta più la sua stabile guardia armata, ma agisce attraverso il monopolio globale della massa finanziaria e della forza fisica tecnologicamente senza pari per ottenere lo steso scopo:

"altissimi profitti nel paese imperiale e relativo alto tenore di consumo e di vita in esso, in modo che sia assicurata la riproduzione incessante di 'risparmio' da investire" (36).

Per "risparmio" si intende ovviamente non quello dello Stato o delle famiglie, che in America non esiste (è il paese con il debito totale più alto che ci sia) ma il differenziale fra capitale investito e plusvalore di ritorno.

Ora, siccome tutti i paesi imperialistici, maggiori e minori, si trovano nelle stesse condizioni seppur subalterni rispetto agli Stati Uniti, ecco che la lotta per il controllo delle colonie, cioè dei territori, viene sostituita dalla lotta per la ripartizione del plusvalore prodotto nel mondo. Le cannoniere vengono sostituite da meno grossolani strumenti, e i proiettili non esplodono più direttamente sui corpi dei colonizzati, ma non per questo i danni alle popolazioni privilegiate dalle attenzioni del Capitale sono più lievi, mentre i nuovi colonizzatori non rischiano un fantaccino, demandando alle borghesie locali e ai loro eserciti i compiti di polizia ordinaria. Dei compiti di polizia straordinaria abbiamo più volte parlato (37).

Riguardo alla internazionalizzazione o globalizzazione del capitale, che sarebbe foriera di pace tra i popoli, sarà opportuno ricordare che anche oggi, come ai tempi di Lenin, si tratta di una vera e propria spartizione del mondo. Anche se non si tratta più della lotta per il territorio fisico ma di quella per il territorio economico, i capitalisti vi aderiscono volenti o nolenti con mezzi proporzionati alla potenza dei loro Stati. Non lo fanno per una qualche particolare malvagità, come sembrano credere gli anti-imperialisti di maniera, ma per la imprescindibile necessità del Capitale che deve impadronirsi di tutti gli aspetti della produzione nel mondo globalizzato, far diminuire di prezzo gli elementi del capitale costante e far fronte, così, alla caduta tendenziale del saggio di profitto. Solo che il processo non avviene più attraverso la conquista diretta della forza-lavoro e delle materie prime a basso prezzo, ma attraverso l'azione del capitale finanziario che, come s'è visto nell'ultima crisi asiatica, si impegna a fondo per azzerare i parametri economici (valore della forza-lavoro e valore degli elementi costitutivi del capitale costante) che lo sviluppo economico tende a far salire al livello dei vecchi paesi industrializzati.

Per questo diciamo che il monopolio finanziario e militare del nuovo imperialismo non permetterà ai paesi cosiddetti emergenti di emergere sul serio: l'America Latina, l'Asia, l'ex URSS, l'Africa, sono tutte aree destinate a svolgere un ruolo subordinato nei confronti del Capitale mondiale (quindi non solo americano) teso a valorizzarsi attraverso la conservazione del suo strumento più potente. In questa prospettiva non saranno certo i salari dei paesi emergenti a salire verso quelli delle metropoli imperialistiche, ma, al contrario, saranno i salari delle metropoli a confrontarsi sempre più spietatamente con quelli dei paesi emergenti. Gli imperialismi minori, che non hanno la potenza necessaria per svolgere in proprio questa funzione di salvaguardia del loro saggio di profitto, non sono per nulla alleati agli Stati Uniti, sono legati.

Ecco come si spiega la potenza economica e politica dell'America che, nonostante il continuo decadimento della produzione industriale, indice sensibile della caduta del saggio di profitto, sembra non conoscere limiti ad un ulteriore sviluppo, ad un ulteriore accumulo di potenza. Ma la forza apparente è nello stesso tempo una debolezza di enorme portata: non è più il mondo che dipende dalla "locomotiva" americana ma è l'America che dipende dal mondo. Il capitale finanziario è mero capitale fittizio quando non sia garantito dalla sicurezza di una immediata o futura estorsione di plusvalore, e non è detto che questa estorsione sia garantita dagli attuali meccanismi di controllo economico globale. Il Capitale stesso è diventato un'entità globale, come era nelle sue premesse storiche, e nessuna forza al mondo può controllarne l'anima distruttiva nei confronti della sua propria base.

Il compito storico del capitalismo - e questo è un assioma comunista - è quello di sviluppare le forze produttive; ma sappiamo che al tempo stesso, in conseguenza dei rapporti sociali che gli corrispondono, così facendo, il capitalismo stesso pone le premesse per il suo superamento. La produzione altamente socializzata e l'abbassamento del valore unitario delle merci prodotte nel mondo è la conseguenza dell'aumentata forza produttiva, ed è anche l'unica base possibile per la società futura, che Marx individuava come "passaggio dal regno della necessità a quello della libertà".

Questo passaggio è inscritto nelle caratteristiche del paese più evoluto e potente del mondo. Nonostante il suo inarrivabile potere di controllo, esso perde continuamente terreno su tutti i fronti. Proprio perché vive di rendita, esso è destinato a conservare questo privilegio con le unghie e con i denti, finché l'immensa quantità di capitale che rappresenta non diventerà effettivamente fittizio, cioè non sarà più garantito da plusvalore estorto in qualche parte del mondo. Il ciclo attuale non può essere infinito, è finito, e le cifre lo dimostrano.

Dal 1950 il prodotto mondiale è cresciuto, annualmente, del 4% circa; nello stesso tempo lo scambio di merci è aumentato di oltre il 6%. Ciò significa che, fatto 100 l'indice per entrambi al 1950, oggi il prodotto mondiale è a 683 e lo scambio di merci a 1738, vale a dire che è variato in volume due volte e mezza di più. Ma la quota di mercato detenuta dagli Stati Uniti non ha fatto che scendere dalla Seconda Guerra mondiale in poi, da più della metà a meno di un quarto. Ciò che però caratterizza negativamente il futuro capitalistico è l'immenso divario fra la circolazione di capitale in cerca di valorizzazione e quella di capitale che si muove per investirsi in luoghi già individuati. Nel 1995, quindi in un intero anno, l'export di capitale produttivo ammontava a 317,8 miliardi di dollari contro, secondo stime ufficiali, 1.500 miliardi di dollari che circolano ogni giorno, entro la rete computerizzata del mercato finanziario mondiale. E questa cifra, tanto per avere dei riferimenti, rappresenta il doppio rispetto al totale delle riserve valutarie OCSE, il quadruplo rispetto al costo del greggio estratto in un anno, oppure sessanta volte l'insieme degli scambi mercantili mondiali (38) . Tale cifra sale a non meno di 3.000 miliardi di dollari se si includono i giganteschi traffici della cosiddetta economia informale, i cui profitti, sia detto per inciso, superano abbondantemente i 1.000 miliardi di dollari l'anno, segno che per ora il flusso di plusvalore è in qualche modo garantito anche fuori dai flussi ufficiali. Ma è l'immensità delle cifre che non ha più rapporto con un'economia "normale" e più d'un economista borghese, sulla base di modelli più o meno realistici, già da anni mette in guardia contro questa situazione: Wall Street non può salire del 36% all'anno quando l'economia reale, cioè il valore prodotto ex novo in un anno cresce del 3%. Se la crescita borsistica attrae lo stesso capitali per alimentarsi, ciò significa che sono in atto meccanismi drogati in grado di esplodere in overdose.

A questo punto è facile immaginare, anche senza sofisticati modelli, gli effetti devastanti che avrebbe una perdita di controllo sul sistema, dato che la maggior parte degli Stati nazionali del mondo sono ridotti, obiettivamente, alla imbelle condizione di "albergatori" per il Capitale che, come dice Marx, "si libera in un determinato paese", e non hanno la minima possibilità di intervento autonomo per salvaguardare le proprie economie (39). Ciò è tanto evidente che, visti i recenti sconquassi in America Latina, Sud Est dell'Asia ed Europa orientale, molti fra gli stessi "speculatori" come i Soros o i Vender, invocano da un po' di tempo un più stretto controllo mondiale su economia e finanza da parte di governi e grandi organismi internazionali.

Persino i soci del Long Term Capital Management, importante fondo di investimento americano che finì sull'orlo della bancarotta facendo fare una figura meschina ai suoi economisti appena insigniti del premio Nobel, invocano regole, dopo essersi arricchiti grazie alla loro mancanza. Si richiedono, in altri termini, le migliori condizioni per la realizzazione dello scambio, attraverso l'abbreviazione del tempo di circolazione, che è quello in cui il capitale non si valorizza. Scrive il Financial Times:

"L'FMI e la Banca mondiale devono cominciare a interrogarsi sulla spiacevole possibilità che, in certi casi e nel caso di specifiche applicazioni, il controllo dei capitali può certamente essere la meno cattiva delle opzioni".

Ma quale forza al mondo è in grado di controllare le mosse del grande monopolio economico, finanziario, politico e militare americano? La meno cattiva delle opzioni sarà ancora il controllo americano sui capitali altrui.

Note

(24) Parlare di finanza tedesca (oppure olandese, veneziana, fiorentina o lombarda) è un eufemismo in quanto il sistema di traffici dei secoli XIV-XVI obbligava ad essere già allora "globali". La via delle banche antiche nella city di Londra si chiama ancora Lombard Street. La Lega Anseatica aveva filiali in tutta Europa, dalla Norvegia a Napoli, da Londra a Novgorod, mentre i grandi mercanti-banchieri tedeschi riuscivano persino ad influenzare la politica imperiale e papale, intrecciando i loro interessi con l'allora potentissima Venezia. Questa rete d'interessi si basava quasi esclusivamente su di un efficiente sistema di lettere credito e di cambio. Si parlava persino una specie di lingua franca internazionale.

(25) Cfr. J. Browring - S. Reiss, Vocabolario della globalizzazione, Atlantide Editoriale 1998.

(26) S. Baio - G. Ferramonti, Oltre la Banca: la finanza virtuale globale, ed. Spirali 1995.

(27) Nell'ultima pagina. Il testo della Sinistra Comunista è interamente dedicato alla teoria della rendita e a tutti i suoi aspetti modernissimi (ed. Quaderni Internazionalisti).

(28) Vulcano della produzione o palude del mercato? Ed. Quaderni Internazionalisti, cap. 35, "Sovrapprofitto e rendite". Un'obiezione potrebbe essere: e come mai succede che il monopolio, per esempio dell'energia elettrica, produce invece dei prezzi più bassi? Non è una contraddizione della legge? Quando lo Stato facilita l'accesso all'energia, significa semplicemente che sarà l'industria a beneficiare di prezzi correnti al di sotto del valore sociale; in questo caso lo Stato monopolista trasferisce plusvalore da un settore all'altro della società, per esempio tramite un'alta tassazione della benzina o dei tabacchi ecc.

(29) Siccome la produttività è altissima e siccome bastano pochi operai a produrre tutto il plusvalore necessario alla società, questa deve provvedere in qualche modo alla sua sovrappopolazione relativa, con lavori fasulli o con ammortizzatori sociali, in modo che non scoppino rivolte. Marx: guai a quella società che, come Roma Antica, invece di sfruttare i suoi schiavi dovesse giungere a mantenerli soltanto.

(30) Ovviamente la differenza è invece grande in rapporto al Prodotto Interno Lordo a causa della sproporzione fra le due economie: la spesa sociale negli Stati Uniti è il 10% circa del PIL (1997), mentre in Italia rappresenta il 25,7% (1998). In Inghilterra, nonostante il tanto sbandierato tatcherismo, la spesa sociale è al 28% (1998). La protezione sociale pesa su ogni americano per 5.700 dollari all'anno, mentre su ogni italiano e inglese pesa per circa 4.300 (tutti i dati sono dei Ministeri del Tesoro americano e italiano, meno la percentuale inglese, che è un dato del sindacato CISL).

(31) Guido Rossi, economista e teorico dell'economia di mercato (è stato alla guida di Montedison, Consob, Telecom) disse in un'intervista: "D'Alema e Ciampi devono rendersi conto che il libero mercato non esiste in natura, è una creazione del diritto, quindi della politica legislativa. La crisi russa l'ha ampiamente dimostrato. Tocca alla politica dare un mercato moderno a questo paese" (La Repubblica del 13 gennaio 1999, pag. 7).

(32) Non stupisca questo rapporto: dal XVII secolo in poi il mondo capitalistico ebbe un'esplosione demografica tale che risulta persino difficile disegnarne il grafico su coordinate a scala normale, mentre nel resto del mondo la popolazione cresceva ancora a ritmi pre-mercantili. Al tempo di Marx (1850) il mondo "sviluppato" aveva 350 milioni di abitanti e il resto 900 milioni. La nostra abitudine a pensare in termini di masse sterminate del cosiddetto Terzo Mondo risale solo all'ultimo dopoguerra, quando il mondo sviluppato aveva raggiunto 850 milioni di abitanti (diventati oggi solo un miliardo) contro un miliardo e mezzo di tutti gli altri paesi (diventati oggi ben cinque miliardi).

(33) In N. Bucharin ed E. Preobragenskij, L'ABC del comunismo, ed. Quaderni Internazionalisti.

(34) Ovunque – Marx spiega nel trattare il crudo argomento dell'accumulazione originaria – proprio lo Stato, come violenza concentrata e organizzata della società, ha favorito il trapasso dal feudalesimo al modo capitalistico di produzione. L'intervento statale in economia non è, perciò, fatto d'oggi, né del recente passato, ma rimonta a secoli e secoli addietro, segnando finanche tutta l'epoca "felice" del laissez-faire, laissez-passer (celebre formula di autore non loffio: quel Jean-Claude-Marie Vincent de Gournay da cui tanto apprese l'allievo Turgot).

(35) K. Marx op. cit. pagg. 518-520. Detto altrimenti: "In generale, il capitalismo ha la proprietà di staccare il possesso del capitale dal suo impiego nella produzione, di staccare il capitale liquido dal capitale industriale e produttivo, di separare il rentier, che vive soltanto del profitto tratto dal capitale liquido, dall'imprenditore e da tutti coloro che partecipano direttamente all'impiego del capitale. L'imperialismo, vale a dire l'egemonia del capitale finanziario, è quello stadio supremo del capitalismo, in cui tale separazione raggiunge dimensioni enormi" (V. I. Lenin, L'imperialismo, fase suprema del capitalismo, Newton Compton, pag. 84. Ovvero: "L'oligarchia finanziaria, che in poche mani concentra immensi capitali e li esporta e investe da un paese all'altro, fa parte integrante della stessa classe imprenditrice, il centro della cui attività si sposta sempre più dalla tecnica produttiva alla manovra affaristica. La produzione di ultra profitti ingigantisce man mano che ci si allontana dalla figura del capo d'industria, che per competenza tecnica arrecava innovazioni socialmente utili. Il capitalismo diviene sempre più parassitario, ossia invece di guadagnare e accumulare poco producendo molto e molto facendo consumare, guadagna e accumula enormemente, producendo poco e soddisfacendo male il consumo sociale" (A. Bordiga, Proprietà e capitale, Ed. Quaderni Internazionalisti, pag. 123).

(36) Cfr. Punti democratici e programmi imperiali, ora in America, ed. Quaderni Internazionalisti.

(37) Cfr. nostri lavori: La crisi storica del capitalismo senile, Guerre stellari e fantaccini terrestri, La guerra del Golfo e le sue conseguenze, I comunisti e la guerra balcanica.

(38) La lebbra borghese rimane quella, solo più estesa e maligna di quanto Marx, Engels, e Lenin persino, ebbero a conoscere: "Nel paese più 'commerciale' del mondo [l'Inghilterra] i profitti dei rentiers superano di cinque volte quelli del commercio estero! In ciò sta l'essenza dell'imperialismo parassita" (V. I. Lenin, op. cit. pagg. 127-128).

(39) La metafora sugli "Stati albergatori" è dell'Istituto di economia di Kiel, in Germania.

Lettere ai compagni