40. Globalizzazione (4)
Capitale dinamico e modelli effimeri
Come sembrano lontani i tempi in cui le industrie occidentali mandavano degli osservatori a Singapore, Taiwan o Hong Kong, per vedere se per caso ci fosse qualcosa da imparare dalla dinamica del mercato orientale. Niente più del successo spinge all'imitazione becera, e niente più dell'insuccesso fa emergere saccenti quanto oscuri maestri che pretendono di aver saputo tutto già da prima:
"Credo che le strutture asiatiche siano arcaiche, con imprese-conglomerati gestite come nel secolo scorso e con mercati troppo chiusi. In breve, un'economia che non stava al gioco dell'economia mondiale globalizzata. Ciò che chiedono oggi gli occidentali per poter continuare a concedere crediti e ad accordare fiducia a quei paesi, è che essi riformino le loro strutture [...] Tre o quattro anni fa nessuno credeva alla crisi. Non credo sia stato detto che i paesi asiatici erano un modello. Erano un sistema ultra chiuso che non sta al gioco dell'economia occidentale e mondiale [...] La crisi giapponese offre oggi un'enorme opportunità per le economie occidentali. Oggi, ci sono gli americani, i tedeschi e i francesi che comprano in Asia, in Indonesia, in Corea. Comprano perché la deflazione generalizzata ha fatto abbassare i prezzi a livelli tali che si può comprare di tutto [...] Non credo che quel modello avesse mai generato invidia in Occidente" (58).
Strutture arcaiche? Mercati chiusi? Quelle economie non erano un modello? E chi, di grazia ci ha rotto le tasche per un decennio con il "metodo Toyota", con la "produzione snella", "con la qualità totale", con la produzione "just in time", che i giovani manager occidentali rampanti andavano a studiare a Tokyo? E chi, di grazia, se la faceva sotto quando i giapponesi compravano a man bassa le aziende e i grattacieli americani? Ed erano forse fantasmi inesistenti quei sindacalisti che venivano nelle fabbriche a sciorinare paroloni sulla competitività delle nostre merci, sulla codeterminazione nell'ambito delle responsabilità produttive condivise, cercando di convincerci che la svolta epocale ci doveva far calare le brache? Ma se avevate simpatia persino per il piccolo nazismo democratico di Singapore! Noi non provavamo nessuna invidia per lo sfruttamento asiatico, ma i rappresentanti della grande corporazione del lavoro, la trinità governo-industria-sindacato, certamente sì, checché ne dica il giornalista. Forse non sa o non ricorda che libri come La macchina che ha cambiato il mondo, in cui l'industria giapponese era il modello, non solo erano dei best seller, ma lo erano soprattutto perché le aziende lo compravano a casse per i loro capi (59).
Ma ciò che dava ancora più fastidio era che tutti questi appetibili paesi non stessero al gioco del mercato globale, che tendessero cioè a tenersi il plusvalore, negando la loro partecipazione alla ripartizione mondiale, come aveva fatto il Giappone per molto tempo, riuscendovi in parte. E se la politica del FMI avrà successo, ciò non succederà più per un pezzo, forse addirittura mai più.
Quando, due anni or sono, gli Stati Uniti e il FMI affrontarono e risolsero in prima persona la crisi del Messico, il presidente Clinton impiegò 10 minuti a "convincere" il Congresso, che gli è sempre stato ostile, a stanziare 30 miliardi di dollari. Il piano fu operativo subito e quello fu praticamente il prezzo d'acquisto di quel paese, che perdette del tutto la sua residua indipendenza (ovviamente non ci scappa neppure una lacrima: i proletari messicani avrebbero tutto da guadagnare anche di fronte a un'annessione yankee vera e propria: il saggio di sfruttamento si misura in plusvalore su salario, non in fatica fisica e sofferenza).
Una soluzione del genere fu proposta dal Giappone che, nonostante la sua propria crisi, ha ancora una potenza economica ragguardevole e intendeva risolvere in casa i problemi dell'Estremo Oriente. Ma la proposta unilaterale di intervento giapponese presso i vari paesi dell'area asiatica in crisi – non solo riserve di materie prime, ma anche clienti primari – fu respinta dal FMI alla fine del 1997. All'inizio dell'anno successivo la crisi del Giappone si acuiva e il paese, a differenza che nel passato, quando si era risollevato più forte di prima ad ogni colpo, risultava chiaramente sconfitto in una guerra finanziaria le cui conseguenze appaiono sempre più devastanti.
Di fronte alla crisi, che è ovviamente utilizzata in loco per lanciare una campagna al fine di "raccogliere le sfide della globalizzazione", gli Stati affineranno le loro tecniche di intervento macroeconomico e quindi diventeranno sempre più modernamente "fascisti" (60).
Perciò, come del resto successe fin dal principio dell'applicazione dei metodi keynesiani, cioè prima che lo stesso Keynes ne scrivesse registrandone l'avvento, l'ingerenza statale in economia continuerà a recare ben più che una semplice "aggiunta di consumo", ma piuttosto mirerà a elevare la capacità produttiva del sistema economico agendo sul modo di applicazione del lavoro, tenderà cioè ad allargare la forbice tra pluslavoro e lavoro necessario, con il finanziamento, diretto o indiretto, dell'innovazione tecnologica, di nuovi metodi organizzativi e di infrastrutture in grado di velocizzare i trasporti o eliminare tempi morti ecc.
Inoltre, la moderna connessione tra Stato e Capitale finanziario (ben esemplificata nella gestione pubblica dei tassi d'interesse), è finalizzata alla creazione di moneta in base all'aumento della produzione, in modo da fornire all'apparato industriale una disponibilità di capitali tenuta artificialmente sempre più alta di quanto non lo sarebbe spontaneamente, per spingerla ad effetti ancora più marcati nei tempi di crisi, quando gli Stati più forti prestano il denaro all'industria senza praticamente costi d'interesse per stimolarne la ripresa.
Accumulazione decrescente, legge inesorabile
Il calo della redditività – inevitabilmente patito, in progresso di tempo, dal capitale destinato alla produzione a causa della legge della caduta tendenziale del saggio di profitto – obbliga ciascun borghese alla caccia affannosa, in ambito speculativo, di sovrapprofitti (assicurati proprio dal veloce spostamento di denaro, secondo convenienza, dall'una all'altra opportunità di investimento). Ciò provoca l'abbandono di "piazze" a favore di altre, per cui vi possono essere sconvolgimenti economici cui gli Stati rispondono intervenendo ulteriormente nell'economia. Ed è buffo che i sacerdoti mondiali del libero mercato siano in fin dei conti i massimi fautori dell'intervento statale in economia, avendo essi gli Stati come unici interlocutori cui consegnare i loro diktat economici e politici.
Ora, però, nessun capitalismo nazionale è in grado di moltiplicare all'infinito la propria macchina produttiva ovvero realizzare, per un periodo prolungato, massicci investimenti in impianti e attrezzature, eludendo la ferrea legge della decrescenza, per cui:
"Al di sopra di brusche variazioni del passo dovute a crisi generali e a guerre lontane e vicine, vinte e perdute, e ferma restando l'età storica dei vari capitalismi, il ritmo di incremento annuo decresce nettamente col tempo" (61).
E questo perché l'aumento lordo dev'essere diviso, come per ogni fenomeno di sviluppo in natura, per il volume o la massa precedente. Un esempio: in una fabbrica che produce dieci pezzi con dieci fresatrici e dieci operai, l'aumento della produzione derivato dall'uso di dieci fresatrici nuove con altrettanti nuovi assunti, sarà al massimo di altri 10 pezzi, cioè del 100%, mentre ulteriori dieci fresatrici e operai faranno salire la produzione complessiva di altri 10 pezzi, che, in confronto ai 20 precedenti rappresentano solo il 50% (altri 10 del 33%, poi del 25%, del 20% e così via).
Siccome le economie tigresche sono mediamente recenti e perciò si sono sviluppate partendo da livelli di produttività già alti rispetto alla media mondiale, ecco che il loro ritmo di sviluppo qualitativo è più lento di quanto fosse quello occidentale negli anni che segnano la crescita post-bellica. A fronte di crescite quantitative eccellenti (anche a due cifre, come abbiamo visto), il miglioramento intrinseco dei fattori della produzione negli ultimi anni è inferiore a quello occidentale della fase analoga. Dal 1966 al 1991 Hong Kong ha avuto un incremento annuo di produttività del 2,3%, Taiwan dell'1,9%, la Corea del Sud dell'1,6%, Singapore dello 0,3% (62). Dal 1950 al 1973, quindi in una fase di sviluppo corrispondente, la Germania ebbe un incremento annuo di produttività del 3,7%, l'Italia del 3,4%, la Francia del 3% e il Giappone del 4,1% (63).
Oltre all'effetto dovuto al punto di partenza situato più in alto (chiunque incominci un'attività industriale adotterà le tecniche disponibili più moderne), la bassa produttività è dovuta anche all'utilizzo massiccio di manodopera a basso costo nei settori a bassa composizione organica di capitale. Questo fatto, proprio perché costituisce una classica controtendenza all'abbassamento del saggio di profitto, non è indice di capitalismo arcaico ma modernissimo. Vale a dire che era arcaico nell'epoca in cui non era una controtendenza ma il modo normale di produrre le merci, ma non oggi quando il modo normale è quello della fabbrica automatica ad altissima composizione organica.
Sappiamo che però la fabbrica automatica può garantire altissimi profitti assoluti (e anche altissimi saggi di profitto in casi particolari), al capitalista singolo o in una produzione di nicchia, ma assolutamente mai all'economia nel complesso o anche ad un settore esteso (64). Ora, le tre Tigri più aggressive, Taiwan, Hong Kong e Singapore, hanno da tempo fatto il salto verso l'automazione e il terziario sul loro territorio, spostando le lavorazioni a bassa composizione organica le prime due nella Cina Popolare e la terza in Malaysia. Questi modelli di microimperialismo spontaneo hanno quindi sofferto delle stesse contraddizioni di cui soffrono i più grandi, solo che, a differenza dei giganti, i tigrotti non hanno la potenza sufficiente per controllare il flusso di capitali: mentre i capitalisti singoli si sono trovati con altissimi profitti, richiamando addirittura capitali esteri per le loro performance, le basi sociali nel loro complesso si sono trovate in crisi a causa del diminuito ritmo di accumulazione, aggravato dall'apprezzamento del dollaro sullo Yen e su tutte le monete asiatiche (65). Quando socialmente i nodi sono venuti al pettine (tra l'altro provocando anche violente lotte sindacali, che influiscono enormemente sulla percezione soggettiva degli investitori) gli operatori finanziari esteri, specialmente i fondi d'investimento, valutando la debolezza intrinseca della struttura finanziaria di cui abbiamo parlato prima e l'evidente debolezza produttiva che non avrebbe permesso un azzeramento rapido della crisi, se ne sono andati.
Dove? Soprattutto a Wall Street, confidando in due fattori: primo, sull'effetto al rialzo autoindotto nella Borsa americana dal loro stesso flusso; secondo, sulla capacità della potenza americana di controllare la crisi prima della sua esplosione (l'economia casinò ha dei limiti), di pilotare, tramite gli organismi mondiali, la ripresa in Asia dopo la selezione tra capitalisti e finanzieri e soprattutto dopo che i salari furono drasticamente ridotti.
EVOLUZIONE DELLE BORSE ASIATICHE | |||
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Piazza finanziaria | 30 giu 97 | 1 lug 98 | Variaz. % |
Tokyo | 20.905 | 16.363 | - 21,7 |
Hong Kong | 15.056 | 8.543 | - 43,2 |
Giacarta | 724 | 456 | - 37,0 |
Taipei | 9.030 | 7.549 | - 16,4 |
Seoul | 745 | 315 | - 57,6 |
Manila | 2.809 | 1.782 | - 36,5 |
Singapore | 1.987 | 1.095 | - 45,0 |
Kuala Lumpur | 1.077 | 471 | - 56,2 |
Bangkok | 527 | 267 | - 49,3 |
Fonte: Il Sole-24 Ore, 12 agosto 1998
In Giappone, nei primi mesi del 1998, le grandi catene di supermercati hanno ridotto le vendite del 50%, soprattutto per effetto psicologico, ma in altri paesi, come l'Indonesia, il potere d'acquisto medio è sceso realmente anche del 60% (con punte vertiginose: un chilo di riso che nell'agosto del 1997 costava 1.200 Rupie, nel gennaio del 1998 ne costava 6.000, mentre il dollaro passava da 2.400 Rupie a 10.000) e gli sfavillanti centri del consumo non sono stati tanto disertati quanto assaltati e saccheggiati dalle folle inferocite.
Nelle crisi viene azzerato capitale fittizio in quantità variabili a seconda della profondità e della durata. Ogni capitale fittizio è rapportabile, nel lungo periodo, a capitale eccedente e, Marx ci insegna, non c'è capitale eccedente senza eccedenza di merci.
Paesi in via di sviluppo?
"Eccedenza" è un termine ambiguo, che ha significato solo in rapporto a qualcos'altro: se per esempio in un ciclo economico vengono distrutti capitali e vengono prodotte meno merci, in media non abbiamo eccedenza affatto. Così, le merci sono eccedenti solo in rapporto alla capacità di consumo, e lo stesso consumo ha limiti solo nel valore della forza-lavoro e nella possibilità di espansione capitalistica. Dipende dai tempi e dalla traumaticità delle soluzioni, ma il capitalismo possiede, oltre alle retroazioni positive che tendono a farlo crescere fino ad esplodere, anche delle retroazioni negative che lo frenano riportandolo ad un precario equilibrio. Per questo lo si può analizzare solo in una dinamica, in un processo storico, e mai fotografandolo nei suoi attimi particolari, cosa che rischia di far cadere nella teorizzazione di un aspetto transitorio e insignificante e di trarne conclusioni contrarie a ciò che sta succedendo realmente. Scriveva Lenin:
"Senza dubbio, se il capitalismo fosse in grado di sviluppare l'agricoltura, che attualmente è rimasta assai indietro rispetto all'industria, e potesse elevare il tenore di vita delle masse popolari che, nonostante i vertiginosi progressi tecnici, vivacchiano dappertutto nella miseria e quasi nella fame, non si potrebbe parlare di un'eccedenza di capitale" (66).
Agricoltura o altro, qui Lenin vuol dire che il capitalismo non è una società che sappia e possa risolvere i problemi degli uomini e che il Capitale non conosce eccedenza assoluta finché vi saranno uomini che muoiono di fame o vivono in condizioni miserabili. Il fatto è che anche l'eccedenza relativa non è una condizione che si possa affrontare in termini di pianificazione delle risorse da parte di governi volonterosi o supergoverni mondiali, perché tale eccedenza risulta dalla necessità del capitalismo di mantenere intere aree del mondo, anche all'interno dei paesi sviluppati, nel sottosviluppo e nell'indigenza (e perciò nell'eccedenza di uomini). E' proprio tale natura del capitalismo che ci permette di affermare che tutta quella parte della Terra oggi tagliata fuori dall'espansione produttiva e sociale non lo è a causa di fattori soggettivi (malgoverno interno o mondiale), bensì a causa del consolidamento del capitalismo maturo e della sua necessità di differenziare le aree proprio mentre le conquista ai suoi meccanismi. Non è neppure moralismo, è semplicemente una sciocchezza fare l'equazione miseria = sottosviluppo; persino la Chiesa Cattolica ormai mette in guardia rispetto alla miseria che deriva dallo sviluppo.
La globalizzazione, che vuol dire, ricordiamolo, ripartizione mondiale del plusvalore estorto a saggi differenziati e storicamente decrescenti, imporrà sempre più lo sviluppo di certe aree a discapito magari di altre. Così le isole di sviluppo nei paesi sottosviluppati saranno sempre più funzionali all'utilizzo dello stesso sottosviluppo, non certo embrioni di decollo economico generale. Se ponessimo il caso di un deciso e generalizzato sviluppo capitalistico di paesi importanti come la Cina o l'India, dovremmo senz'altro mettere in conto una catastrofe economica dell'Occidente e del Giappone, che non potrebbero più avvalersi del benefico effetto della differenza dei saggi di profitto, ma dovrebbero accontentarsi dell'altissima produttività domestica a saggi decrescenti. Abbiamo già visto che molto prima del profilarsi di ipotesi del genere, entrano in gioco meccanismi di difesa, voluti o spontanei, per cui il confine tra guerra economica e guerra guerreggiata si fa sempre più sottile. Questo è il vero volto, tra l'altro, della guerra imperialistica attuale (67).
Se il capitalismo riuscisse a risolvere i problemi dell'indigenza di intere popolazioni del pianeta, esso, dice Lenin,
"non sarebbe più tale, perché tanto la disuguaglianza di sviluppo che lo stato di semiaffamamento delle masse sono essenziali e inevitabili condizioni e premesse di questo sistema di produzione. Finché il capitalismo resta tale, l'eccedenza di capitali non sarà impiegata a elevare il tenore di vita delle masse del rispettivo paese, perché ciò comporterebbe diminuzione dei profitti dei capitalisti, ma a elevare tali profitti mediante l'esportazione all'estero, nei paesi meno progrediti".
Lenin è naturalmente ancora legato alla funzione del vecchio imperialismo che mira a nuovi paesi perché, come abbiamo visto,
"In questi ultimi, il profitto ordinariamente è assai alto, poiché colà vi sono pochi capitali, il terreno è relativamente a buon mercato, i salari bassi e le materie prime a poco prezzo" (68).
Ciò che però ci interessa è l'esasperazione delle condizioni moderne per la valorizzazione di capitale, l'esistenza cioè di reti capitalistiche locali che diano garanzia di un'alta estorsione di plusvalore da un proletariato autoctono e non solo un'alta remunerazione in termini commerciali o di rendita. Sono condizioni che già Lenin intravedeva nella sua epoca:
"La possibilità dell'esportazione di capitali è assicurata dal fatto che una serie di paesi arretrati è già attratta nell'orbita del capitalismo mondiale, che in essi sono già state aperte le principali linee ferroviarie, o ne è almeno iniziata la costruzione, sono assicurate le condizioni elementari per lo sviluppo dell'industria ecc." (69).
Per il capitale ultramaturo è dunque indispensabile ricorrere al plusvalore estorto al proletariato giovane dei paesi emergenti, ma è altresì necessario fare in modo di poterselo portare a casa, dato che le borghesie nazionali tendono a richiamare capitali ma per lo sviluppo del loro territorio, non per quello degli altri.
Balcanizzazione globalmente assistita
Questa, tra l'altro, è una delle ragioni per cui è conveniente, per i maggiori paesi imperialistici, fomentare divisioni nazionali, etniche, tribali, al fine di balcanizzare quanto più possibile il mondo: è più agevole avere a che fare con territori piccoli e divisi che con nazioni potenti e unitarie. Gorbaciov si impiccò con le sue proprie mani quando andò in pellegrinaggio a Washington offrendo collaborazione rispetto alla sfida globale dell'economia. Egli forse credeva sinceramente di ottenere appoggio sventolando lo spauracchio del disfacimento dell'URSS, ma l'equilibrio globale come lo intendeva Mosca non era lo stesso di quello inteso da Washington. Il "bipolarismo" nella politica internazionale degli Stati Uniti semplicemente non è mai esistito e la scomparsa di una potenza unitaria nel cuore dell'Asia era perfettamente consona alla loro vocazione di dominio incontrastato. Nella "politica del caminetto" era già scritta la vittoria dell'incredibile Eltsin, e la Russia nei prossimi anni potrebbe, tutt'al più, passare da un mercato "mafioso" di materie prime, ad un mercato capitalistico "normale" di forza-lavoro a basso prezzo.
Se è vero che la forza-lavoro russa è tra le più disastrate e meno produttive del mondo, è anche vero che ormai il salario nella maggior parte delle fabbriche russe è un optional. Nel corso degli anni '80 e dei primi anni '90, in molti paesi in via di sviluppo l'incidenza del monte salari sul PIL era sensibilmente calata, ma ciò era anche dovuto all'aumento del valore complessivo prodotto. La Russia è un paese in via di sottosviluppo in quanto vede soltanto affermarsi il dato negativo. Mentre in Europa, Stati Uniti e Giappone i salari costituiscono approssimativamente, il 40% del valore aggiunto, la quota corrispondente in America Latina e nel Sud Est asiatico non supera il 15% e in Russia il calcolo è inesistente sia a causa dell'impossibilità di rilevazione (i lavoratori stanno mesi senza salario mentre il costo della vita cambia) sia, anche, a causa del pagamento in natura, curiosa forma di regressione sociale dovuta all'impatto col capitalismo supersviluppato.
Negli impianti di assemblaggio automobilistico in Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia, il costo del lavoro è meno di 120 dollari al mese (70 centesimi l'ora), di molto inferiore a quello dell'Unione Europea. In Germania, dove il costo del lavoro è alto rispetto al resto del mondo, per esempio, il salario di un operaio metalmeccanico è di quasi 32 dollari lordi l'ora e, se non vi sarà una correzione fra produttività e salario, fra qualche anno non avrà più senso, per un capitalista tedesco, produrre in Germania invece che all'estero (70). Infatti, dopo il crollo del Muro, nonostante le molte fabbriche ristrutturabili dell'ex Repubblica Democratica, si è preferito demolirle e seguitare a espandersi a Oriente, riguadagnando virtualmente, cioè senza truppe in loco, il Lebensraum prebellico. La linea dell'Oder-Neisse sta alla Polonia come il Rio Grande sta al Messico. Persino il prezzo pagato per comprarsi quel territorio è pressoché uguale a quello sborsato dagli Stati Uniti nel 1995: una sessantina di miliardi di marchi (71).
In un annuncio pubblicato sul Corriere della Sera del 24 novembre 1993 si leggeva:
"Buone ragioni per investire in Romania: basso costo della manodopera (70.000 lire mensili); lavoro qualificato (scuola dell'obbligo sino a 15 anni); mercato interno (all'Est uno dei più grandi, secondo per ampiezza solo alla Polonia); facilitazioni (esonero dal pagamento dei dazi di importazione su macchinari, impianti e attrezzature destinati allo svolgimento dell'attività, esonero dal pagamento delle imposte sui profitti per i primi 7 anni); profitti e capitali (pagati in valuta convertibile, si possono esportare liberamente in Italia)".
Istituzioni della globalizzazione
Solerti patrocinatori di un simile salasso sono, giusta quanto finora dimostrato, il Fondo Monetario Internazionale e la Banca mondiale. Data la loro perspicuità, vale la pena rammentare qualche caratteristica della loro funzione.
Era inevitabile che con la mondializzazione del capitalismo si concretizzasse sia un organismo politico mondiale (ONU), sia, soprattutto, un organismo monetario (FMI). Era altrettanto inevitabile che questi due organismi soggiacessero alla legge del capitalismo più forte, cioè quello degli Stati Uniti. Come conseguenza, era del tutto ovvio che nascesse l'anti-imperialismo economico di stampo immediatista, che vede le "colpe del male" in tali istituzioni, soggiacenti, secondo la logica moralista, alla volontà dell'imperialismo con la I maiuscola, quello americano.
Dell'ONU non ci occuperemo, sia per ragioni di spazio che, soprattutto, per ragioni pratiche: è un organismo rappresentativo praticamente inutile. Il Fondo Monetario Internazionale - come l'altra istituzione scaturita da Bretton Woods, la Banca Mondiale – non è stato espressamente concepito in modo da assicurare agli Stati Uniti un controllo assoluto sui suoi interventi, ma è ovvio che la partecipazione ad esso, essendo statutariamente proporzionale al peso dell'economia dei singoli paesi, offre agli Stati Uniti tale controllo. L'opzione di una banca centrale mondiale indipendente, in grado di emettere moneta internazionale, soluzione propugnata da Keynes, non poteva che fallire. Le riforme successive, compresa quella guidata dall'ex direttore del FMI Triffin e tendente a valorizzare un titolo di scambio internazionale, il Diritto Speciale di Prelievo, andarono nel verso opposto a quello cercato, cioè aumentarono prima il potere di veto americano ed europeo (che sommato ammontava al 55% per cento dei voti-depositi), poi consegnarono l'organismo al controllo totale degli Stati Uniti, nonostante nel frattempo fosse aumentata la coesione dei paesi europei tramite la CEE. A volte si legge che l'influenza degli Stati Uniti è dovuta ad una sorta di sopraffazione politica, ma si tratta di una deformazione soggettivistica della realtà. Gli Stati Uniti, indipendentemente dal valore del loro voto (oggi diminuito), non hanno rivali nella finanza mondiale e ciò che va bene per il capitalista gigante va bene anche per gli altri paesi, nel senso che, nonostante la subordinazione inevitabile, ne beneficiano. Tutti devono concorrere di buon grado alla soluzione americana di qualsiasi problema internazionale. Del resto, se anche così non fosse, tutti sanno benissimo che è sufficiente il movimento simultaneo di una infima percentuale del capitale influenzato dalla politica americana per mettere in ginocchio un paese anche potente.
Tutto ciò fa del FMI un organismo che, nato per armonizzare le bilance dei pagamenti e scongiurare gli scompensi monetari, si riduce ad essere il notaio degli interessi americani. I 50 economisti che ne dovrebbero formare il nucleo teorico in grado di elaborare raffinate politiche d'intervento, non possono far altro che disciplinare i soci alla politica mondiale di quello più potente. Il Fondo avrebbe per esempio il compito istituzionale di intervenire nello squilibrio della bilancia dei pagamenti americana, ma non può farlo. Grazie a questo sistema, gli Stati Uniti non solo non hanno preoccupazioni di sorta in ordine al loro deficit, ma svolgono la funzione di assorbire le eccedenze delle regioni sviluppate. Per il decennio 1980-89, il deficit americano si è elevato a 931 miliardi di dollari, contro le eccedenze di 533 miliardi per il Giappone, di 936 per la Germania e di 103 per le Tigri asiatiche. Nonostante ciò significhi drenaggio di plusvalore dagli altri paesi (soprattutto presso gli imperialismi minori più che presso i paesi poveri subordinati, come certo terzomondismo predica), per tutti i capitalisti del mondo è molto positivo.
La nostra corrente disse già nel secondo dopoguerra, quando tutti andavano in visibilio per il Piano Marshall e gli "aiuti" americani, che non era l'America ad aiutare l'Europa bensì il contrario. Ora sembra che la cosiddetta locomotiva americana muova ancora il convoglio capitalistico stando in testa alla produzione e tirando, ma non è più così. Essa è ancora mastodontica e si è rimodernata, ma è in coda e contribuisce a spingere un convoglio fatto non più di vagoni ma di tante locomotivine un po' indisciplinate con inframmezzati diversi tender, i carri scorta con il carbone; le mette in riga costringendole a spingere nella stessa direzione, a rimanere collegate e quindi a non sparpagliarsi sui binari. Soprattutto stabilisce chi deve rimanere un semplice tender e chi non deve sincronizzare le proprie forze, mentre chi volesse far di testa sua viene semplicemente stritolato sui binari. La potenza complessiva di questo sistema è maggiore rispetto a quella di quando era meno maturo, ma certo che esso è fisicamente molto più instabile e richiederebbe un controllo maggiore. Che è tra l'altro ciò che chiedono a gran voce non solo i dirigisti, che si sono quasi estinti, ma pure schiere di liberisti veraci che non si sono bevuti il cervello.
Le locomotive tirano e poi spingono; il capitale originario produce l'industria e poi questa produce il Capitale propriamente detto; il mercato mondiale è fattore di industria, ne diventa il prodotto poi ancora fattore; il capitale finanziario è prodotto dal mercato, ingigantisce con l'industria, infine la controlla. Questi rovesciamenti storici sono frequenti nel maturare del capitalismo. Marx si dilunga per esempio sul commercio mondiale, che pre-esiste allo sviluppo industriale e quindi ne è un fattore, si tramuta in prodotto quando l'ingigantirsi dell'industria necessita di sbocchi esteri e poi, con l'autonomizzarsi del Capitale, ancora in fattore indispensabile allo sviluppo ulteriore (fenomeno che sta a fondamento della globalizzazione moderna) (72). Non inutile, a questo proposito, apparirà il confronto con l'imperialismo della Gran Bretagna nel XIX secolo, la quale era una potenza egemonica ed eccedentaria e investiva il 50% del proprio capitale lordo all'estero. Per quanto Lenin all'inizio di questo secolo la trattasse da imperialismo rentier, non vi erano paesi in grado di offrire le loro proprie eccedenze per le rendite inglesi. La "rendita" inglese era dovuta a ritorno di operazioni all'estero, ed era ancora da venire la formazione di un esteso proletariato da cui le borghesie locali potessero trarre direttamente plusvalore da devolvere al direttore mondiale del traffico di allora.
Si capisce bene, a questo punto, come l'obiettivo del FMI non sia mai stato quello di ridurre il debito dei vari paesi, ma quello di assicurare il servizio del debito. Considerando in blocco i paesi che ricorrono alle "cure" del Fondo, vediamo che essi si trovano nella curiosa situazione di ricevere in prestito il loro stesso denaro in cambio di un interesse e di una politica confacente al mantenimento dell'ordine economico mondiale.
Per questo, nei confronti dei paesi dell'Est Europa, il Fondo spinge per accelerare il ristabilimento della convertibilità delle monete locali. Questo obiettivo, realizzato dai paesi dell'Ovest in quindici anni dal 1945 in poi, permette infatti non solo l'integrazione di questi paesi nel sistema mondiale con la garanzia della compatibilità delle economie, ma soprattutto l'integrazione nel sistema mondiale del credito, l'unico in grado di smistare i capitali travolgendo le pulsioni individuali dei singoli capitalisti.
Ovviamente il sistema del credito è anche il sistema del debito e non c'è nulla di stupefacente o di sconveniente nell'accumulo di debito irrestituibile. Se trattiamo il Capitale non come mazzetta di denaro da sfogliare tra le mani, ma come rapporto sociale, vediamo che esso deve solo cambiarsi, in quanto D, in D' tramite la produzione di M, cioè l'estorsione di plusvalore (Denaro - Merce - piùDenaro). Non ha nessuna importanza come ciò avvenga, purché vi sia garanzia che avvenga sul serio. Ora, nel mondo globalizzato, non contano più il tempo e lo spazio nelle transazioni. Un individuo o un paese può acquistare una merce e pagarla subito, può pagarla a rate e aggiungere un interesse per il tempo necessario a restituire il denaro, può non pagarla mai e pagare soltanto un congruo interesse per sempre. Tutte queste forme sono perfettamente equivalenti e non inficiano affatto il funzionamento del Capitale.
Le istituzioni nate da Bretton Woods servono a garantire che chi acquista merci o servizi tramite il sistema del credito (e non c'è più nessuno che faccia diversamente tranne il consumatore parcellare singolo) sia in grado di pagare gli interessi. E non c'è altro modo di farlo se non quello di garantire una costante estorsione di plusvalore dal proletariato locale, o un'ipoteca su risorse naturali, o facilitazioni per gli affari del creditore.
Banca Mondiale, o dei cordoni della borsa
I meccanismi appena descritti hanno determinato, oltre alle istituzioni finanziarie e politiche internazionali, anche una specie di sostituto all'impotenza dell'ONU, una specie di superconsiglio politico mondiale, il cosiddetto G7, in cui sono riuniti i maggiori paesi imperialistici sotto l'egida degli Stati Uniti. Dal punto di vista formale, si tratta di pura e semplice rappresentanza, in quanto il Gruppo non ha potere esecutivo, ma dal punto di vista della sostanza è in quella sede che le istanze dell'imperialismo mondiale vengono recepite dal Fondo Monetario Internazionale. Insomma, si è formata una specie di imperialistica Assise Democratica Ristretta Per Il Bene Del Mondo, una Task Force globale per la permanente crisi del capitalismo moderno. Naturalmente, come in tutte le cose capitalistiche, il G7 si riunisce quando la crisi diventa acuta; non può scongiurarla, dato che non la vede, essendo essa il modo di essere attuale dell'intero capitalismo (73).
Nel 1980, per esempio, questa forza di pronto intervento si riunì per pilotare sul mercato finanziario la marea di petroldollari scaturita dalla precedente politica di aumento dei prezzi petroliferi (leggi drenaggio di plusvalore dai paesi industrializzati senza petrolio). Nello stesso tempo varò una politica di abbassamento del prezzo delle altre materie prime (leggi abbassamento del valore del capitale costante per i paesi industrializzati, ma anche peggioramento dei termini di scambio per i paesi con le miniere). Nei primi anni '80, allo scoppiare del debito internazionale dei paesi in via di sviluppo, operò per il suo scaglionamento e anche, nei casi più eclatanti, per l'estinzione d'ufficio (il debito del Perù, per esempio, era già scontato sul mercato, per insolvenza, al 6% del suo valore iniziale), tutto senza intaccare i presupposti strutturali del debito stesso, come per garantirne l'eterna gestione.
I compiti della Banca Mondiale, nata con il FMI, dovrebbero essere definiti dal suo vero nome, che è Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo. In effetti il finanziamento dello sviluppo nel mondo è un eufemismo in quanto la banca investe in tutto, annualmente, una media di 20 miliardi di dollari, che è all'incirca il budget di spesa di una città come Hong Kong (l'ONU investe ancora meno: circa 6 miliardi di dollari). Complessivamente, dalla sua origine, la Banca Mondiale ha investito 400 miliardi di dollari odierni (74), soprattutto nel dopoguerra europeo, quindi non tanto per finanziare lo sviluppo del Terzo Mondo, come ora si crede che faccia, ma anche in questo caso soprattutto per integrare, attraverso la costituzione di poli nazionali moderni, l'economia locale a quella globale. Ovviamente gli interessi locali sono subordinati a quelli del capitale finanziario internazionale.
D'altronde, la stessa Banca non si è mai posta come istituzione pubblica concorrente con il capitale privato, bensì come agente della sua penetrazione nel Terzo Mondo attraverso nuclei di sviluppo sui quali innestarsi per crescere. Il suo statuto, infatti, prevede non tanto l'effettuazione di prestiti con risorse proprie quanto la gestione della raccolta di capitali privati, in genere presso catene di banche, e anche tramite l'emissione di obbligazioni sul mercato mondiale. La Banca Mondiale gestisce la meccanica del prestito, poniamo in dollari, ma il Fondo Monetario Internazionale, con il suo inevitabile diktat, garantisce che lo squilibrio creatosi nella bilancia dei pagamenti del paese che chiede il prestito sia solvibile. La garanzia consiste nel deposito di moneta locale contro dollari, con l'impegno di ritirarla entro un certo numero di anni. Il Fondo garantisce gli squilibri che deve creare per far fronte alle crisi, ma chiede garanzie a sua volta: vuole che gli si presenti un piano rigoroso e attendibile di controllo mirato dell'economia e sorveglia affinché venga applicato. Un piano di economia totalitaria, con buona pace dell'ubriacatura liberistica di mercato.
Risulta chiaro che le istituzioni internazionali scaturite dagli accordi di Bretton Woods e i loro programmi di aggiustamenti strutturali non sono volti alla trasformazione delle strutture economiche del Sud e dell'Est del mondo per consentire un loro benefico decollo produttivo, ma sono finalizzati unicamente all'applicazione di meccanismi in grado di garantire la redditività dei capitali occidentali eccedenti là investiti. Se così non fosse, una banca aggettivata con la roboante parola "Mondiale" e con compiti istituzionali tanto ambiziosi, non investirebbe direttamente soltanto un millesimo del PIL dei paesi industrializzati e avvierebbe l'indispensabile accumulazione locale. Ma non è "colpa" di una istituzione se ciò non si fa. Il fatto è che l'accumulazione originaria è già stata compiuta storicamente in altri paesi, e quelli giunti ultimi sulla scena dell'indipendenza e del mercato mondiale non possono più ripercorrere lo stesso tratto di storia. Devono per forza sottostare alle condizioni del Capitale mondiale, non importa dove esso abbia sede, se ancora si può parlare in questi termini nell'era della mondializzazione informatica.
In complesso, i Programmi di Aggiustamento Strutturale, insieme a uno sviluppo congeniale ai paesi prestatori ricchi, hanno distrutto l'economia di sussistenza producendo la distruzione delle radici sociali di enormi masse umane, ammassandole in agglomerati urbani miserabili o invivibili, imponendo i prodotti industriali e inserendole una volta per tutte nel ciclo capitalistico mondiale. Hanno prodotto, laddove sono stati imposti e attuati: 1) l'accrescimento della disoccupazione; 2) la riduzione dei salari; 3) l'aumento della dipendenza alimentare; 4) il deterioramento del sistema sanitario; 5) la contrazione delle spese per il sistema educativo; 6) il declino della capacità produttiva; 7) la crescita ulteriore del debito estero (75).
Tutto ciò non dipende da cattiva volontà, da prevaricazione imperialistica o da altri motivi che possano essere affrontati con banale moralismo. E' ovvio che ogni capitalista vede in eventuali possibilità non sfruttate un'occasione per accrescere il proprio capitale, ma investirà soltanto quando il rischio sarà compatibile con le possibilità di alto guadagno. Ecco allora che l'investimento pubblico, mondiale o meno, è funzionale alla preparazione di un terreno fertile in grado di attirare capitali, aree con infrastrutture e popolazione pronta a farsi sfruttare in senso pienamente capitalistico. Possiamo in un certo senso essere d'accordo con l'International Herald Tribune (18 settembre 1998) quando scrive:
"Affermare che la globalizzazione ha causato la crisi attuale ha più o meno lo stesso senso che accusare la rivoluzione industriale per i deragliamenti che hanno avuto le ferrovie nei primi anni del loro funzionamento [...]. Nessun altro sistema mai esistito assicura meglio l'allocazione delle risorse economiche di quanto non faccia il capitalismo del libero mercato".
Vero, solo che l'osservatore borghese non può aggiungere che l'allocazione capitalistica delle risorse è sì migliore di quella schiavistica o feudale, ma non ha più nessun senso già di fronte alle stesse potenzialità espresse da questo modo di produzione. Le potenzialità attuali, una volta che fossero liberate dalle catene capitalistiche, potrebbero sollevare l'intera umanità dai suoi problemi in pochissimo tempo. Il fatto è che proprio la libera allocazione delle risorse provoca gli scompensi fra le varie aree del mondo, anche localmente. Li si chiami distretti industriali nei paesi capitalistici maturi o poli di sviluppo nei paesi poveri, il meccanismo non cambia: è un fatto che, nell'epoca della centralizzazione del Capitale, l'attrazione di capitali in un punto li sottrae da un altro. E non è mai successo che vi sia la ricaduta generalizzata che tutti teorizzano in questi casi, anzi, il fenomeno moderno è quello di attrarre capitali e popolazioni in un'area a scapito di altre che diventano così cronicamente depresse. Questa è per esempio la storia antica della fascia appalachiana negli Stati Uniti, del Mezzogiorno in Italia o, più recente, dell'area intorno a Città del Messico (76).
Lavorare per il debito
La classe operaia della Turchia, del Venezuela, del Brasile, del Messico ecc. è chiamata a uno sforzo gigantesco per produrre, oltre al proprio sostentamento, il profitto per il capitalista locale, l'interesse per il sistema creditizio interno, la rendita per i proprietari interni, l'interesse per il capitale estero e, in caso di importazione di materie prime e manufatti, anche il profitto e la rendita per i capitalisti e i proprietari fondiari dei paesi sviluppati. La totalità delle esportazioni di un paese come la Turchia serve appena a coprire la gestione del debito estero. Eppure si tratta di un paese con 70 milioni di abitanti, con un'industria e una classe operaia piuttosto sviluppate, una borghesia intraprendente e poco incline all'asservimento.
Negli ultimi trent'anni, il carico debitorio dei paesi in via di sviluppo è costantemente aumentato. Di poco superiore ai 62 miliardi di dollari nel 1970, il debito a lungo termine non rimborsato raggiungeva, già nel 1980, i 481 miliardi di dollari. Nel 1996, il debito estero totale sfiorava i 1.730 miliardi di dollari. Nel 1980 il credito del Fondo Monetario Internazionale nei confronti dei paesi in via di sviluppo ammontava a 12 miliardi di dollari: nel 1994, esso superava i 41 miliardi di dollari (dati della Banca Mondiale). Paradossalmente, i paesi poveri sono così divenuti, nel corso degli anni, esportatori netti di capitale a favore delle metropoli imperialistiche: oggi, il servizio del debito con l'estero supera ampiamente, di fatto, i nuovi afflussi di capitale (in forma di prestiti, investimenti e aiuti stranieri).
Si consideri un paese indebitato per 50 miliardi di dollari e obbligato a versare, in interessi, 5 miliardi di dollari l'anno ai Circoli finanziari di Londra e New York. Non in grado, pro tempore, di soddisfare all'impegno, il paese riceve, a puntello della propria bilancia dei pagamenti, altri 2 miliardi di dollari: i profitti derivanti dal rilancio dell'export potranno, in seguito, come d'augurio, indirizzarsi al servizio del debito. Il nuovo prestito non è allora, con tutta evidenza, che stretta al calappio usuraio: 1) perché il denaro anticipato da FMI e Banca Mondiale viene presto recuperato dai creditori istituzionali e commerciali; 2) perché, servendo i 2 miliardi a saldare esclusivamente parte degli interessi dovuti, il debito del paese aumenta del 4%.
Il FMI ha, nelle sue politiche, piani di liberalizzazione dei mercati interni e propugna massicce privatizzazioni, ma molto spesso la privatizzazione è subordinata alla rinegoziazione del debito: depositato presso il Tesoro, il danaro ricavato dalla vendita delle aziende pubbliche più redditizie è in breve trasferito ai circoli finanziari di Londra o New York.
Vi sono paesi, come il Perù, che non riescono a sollevarsi a causa dei debiti esteri, nonostante un capitalismo abbastanza sviluppato e risorse naturali proprie (miniere, pesca). Dal 1990 750.000 lavoratori peruviani hanno perso il posto di lavoro. Secondo la Banca Mondiale, il 79.4% della popolazione peruviana vive al di sotto della soglia di povertà, eppure, peggio che ai tempi di Marx che già lo faceva notare, non è la carenza di merci e capitali a produrre questa situazione, bensì la loro abbondanza. In Ecuador, la stessa povertà interessa il 40% della popolazione complessiva e il 67% dei contadini, mentre la Bolivia, ricca di risorse minerarie, non riesce ad utilizzarle per il decollo economico. L'Argentina è un paese ricco di risorse e di industrie, ma ha persino dovuto rinunciare alla sua indipendenza nazionale in campo monetario con l'adozione del dollaro come moneta di conto interno. Il Brasile, che è un gigante economico in confronto alle altre economie sudamericane, è stato messo in ginocchio dal repentino movimento di capitali seguito al ventilato pericolo di insolvenza russa:
"Il Brasile, che in un mese ha perso capitali per 25 miliardi di dollari, è vittima di un'ingiustizia particolarmente crudele [...] esso e gli altri paesi latino-americani non meritano certo un discredito causato dalle difficoltà altrui [...]. Quelle economie dispongono di buone basi, e non si può dubitare del loro radioso avvenire" (77).
Noi invece dubitiamo. Il radioso avvenire sarà frutto di una sempre più razionale "allocazione delle risorse" capitalistiche e il risultato non c'è bisogno di inventarlo, è sotto gli occhi di tutti. La programmazione da parte del FMI di un "miglioramento" delle condizioni di sfruttamento capitalistico, mentre crea, come abbiamo visto, isole di sviluppo utili soltanto alla valorizzazione del capitale internazionale e neppure allo sviluppo di quello interno (78), peggiora obiettivamente le condizioni della gran massa di diseredati che preme sulle nuove concentrazioni urbane, e non è strano che proprio nelle nuove metropoli vi siano state vere e proprie sommosse, con centinaia di morti, specificamente contro l'intervento del Fondo come per esempio in Tunisia nel 1984, in Venezuela nel 1989, in Marocco nel 1990, in Messico nel 1993, in Corea nel 1997, in Indonesia nel 1998, senza contare le innumerevoli rivolte che, se non provocate direttamente dall'intervento del FMI, sono esplose a causa della politica normale imposta ai governi dalla gestione perenne del debito.
Trattati multilaterali
In principio era il GATT (General Agreement on Tariffs and Trade), ora defunto. Aveva 23 membri, tutti paesi ricchi. Questo organismo è stato sostituito dalla WTO (World Trade Organization) che ha 131 membri, quasi tutti paesi poveri. I suoi fondamenti erano l'apertura doganale e il libero scambio. I suoi sostenitori erano infatti persuasi che il libero scambio favorisse l'espansione del commercio e che questo, a sua volta, promuovesse la crescita produttiva. La proposizione rispecchia un dato di fatto ma è, come abbiamo visto con lo schema storico di Marx, falsa. Se è vero che il commercio estero è la fase positiva e crescente dell'accumulazione e se è altrettanto vero che il mercato mondiale forza e dilata lo scambio di merci influendo sulla produzione, non è vero che la promozione del commercio faccia crescere di per sé la produzione. Siamo alle solite: se quando piove gli uomini aprono l'ombrello, non è detto che aprendo l'ombrello si metta a piovere. Quando negli anni '60 in India si liberalizzò il mercato agricolo per decreto, il risultato fu l'espropriazione di decine di milioni di contadini e una diminuzione drastica della produzione alimentare. Essa aumentò nuovamente per mezzo di politiche dirigiste statali (indiane, russe e americane), non a causa del libero scambio.
Ciò è valso, su di un altro piano, anche per il GATT, tant'è che il tasso di crescita del commercio internazionale è passato dal 7% degli anni '70 al 4% degli anni '80, e ciò malgrado la riduzione delle tariffe e il ricorso alla liberalizzazione. D'altra parte i dati non dicono nulla di per sé. Chiunque può dimostrare che la crescita assoluta del commercio mondiale è un fatto eclatante, ma il dato di per sé non significa nulla. Infatti il dato significativo - anche per gli stessi borghesi - non è tanto la crescita assoluta della quantità di merci scambiate nel mondo, ma la stessa crescita in rapporto a quella della forza produttiva sociale. Occorre quindi mettere in rapporto l'incremento del commercio estero complessivo di merci con quello del Prodotto Interno Lordo dei maggiori paesi. Con questo criterio, e prendendo un periodo storico più lungo, vediamo che lo scambio mondiale non è poi cresciuto di molto: rappresentava il 10% del PIL americano nel 1913 e il 20% nel 1996; il 35 e il 40% per quanto riguarda la Germania; il 35 e il 38% per la Francia; il 45 e il 48% per l'Inghilterra; il 30 e il 15% per il Giappone. Come si vede, il commercio mondiale di merci, in relazione alla potenza produttiva, è praticamente quello del 1913, dato che è aumentato, nel caso più clamoroso dello 0,8% annuo rispetto al PIL americano e addirittura diminuito nel caso del Giappone; nel caso di Germania, Francia e Inghilterra è andato quasi di pari passo. Il commercio mondiale di merci e servizi si è incrementato infinitamente meno di quello interno ai paesi industrializzati. Non così si può dire del mercato mondiale complessivo. Prendendo un periodo più vicino e più corto, quello dell'esplosione liberista reaganiana e tatcheriana, vediamo che dal 1980 al 1996 lo scambio mondiale in titoli e in valute è cresciuto in termini reali alla media del 25% annuo, l'intermediazione bancaria dell'8 %, gli investimenti diretti all'estero del 7%; ma lo scambio di merci è cresciuto solo del 4% e il PIL del 2 %. Verifichiamo dunque che, mentre il commercio mondiale è cresciuto complessivamente meno dello 0,2% annuo dal 1913, il mercato mondiale è cresciuto nello stesso periodo ad un ritmo decine di volte superiore (fonte dei dati: The Economist). Vulcano della produzione o palude del mercato? si chiedeva un nostro vecchio testo per rispondere: il capitalismo pretende che non ci sia l'uno senza l'altra.
La concezione borghese, che pone la distribuzione al primo posto, escludendo per motivi di classe i caratteri della produzione basata sull'estorsione di plusvalore, impedisce di scorgere la vera essenza dei cosiddetti mercati e fa credere a tutti che da essi, qualunque cosa siano, e non dalla produzione e dal commercio di merci possa sorgere la ricchezza. In altri termini, se questo è sempre stato l'atteggiamento della borghesia, oggi nei calcoli di sopravvivenza borghesi il salario non appare neppure più come presupposto, ma come risultato, accanto al profitto e alla rendita; esso è nient'altro che una "variabile dipendente" rispetto alla divinità dei mercati, alla quale si inchinano non solo i borghesi veri e propri, ma anche coloro che ancora dicono di fare gli interessi proletari.
Se è vero, com'è vero che ormai la produzione, con le sue merci, è un'appendice di questa incontrollabile giostra di capitali, è anche vero che la borghesia riesce a rendersi sempre meno conto della realtà in cui vive se s'immagina di poterla controllare persino meglio di un tempo. Se fosse così controllabile l'economia globale, e dato che l'obiettivo conclamato dei capitalisti è la crescita industriale, ci si spieghi come mai il PIL, cioè il valore prodotto ex novo in un ciclo annuale è fermo ad un asfittico 2% mentre lo scambio sia di titoli che di valute esplode ad un ritmo del 25 % all'anno worldwide, globalmente, da almeno 15 anni. Non si può scientificamente sostenere che tutto ciò continuerà per altri 15 anni quando si sa che l'incremento del valore prodotto non potrà aumentare di granché in termini reali(79).
Se questa velleità di regolamentazione del libero scambio (ossimoro perfetto) avesse possibilità di realizzazione, ci si spieghi come mai il GATT rappresentava soltanto il 7% del commercio mondiale. L'organismo non era affatto libero-scambista, né potrebbe esserlo in relazione a quanto detto riguardo agli istituti e agli scambi finanziari.
Capitale globale e sbirro locale
Siccome gli economisti non riescono a dare valore scientifico alle loro affermazioni e spiegano tutto con la concorrenza, ecco che essi devono risolvere il problema della formazione del valore attribuendola all'ambito in cui invece avviene la sua realizzazione, cioè alla circolazione. I paesi ricchi non intendevano allargare il GATT a quelli poveri per paura della concorrenza, dato che questi potevano vendere ma non acquistare; i paesi poveri vedevano nell'organismo un nemico che li danneggiava, in quanto i ricchi si mettevano d'accordo tra di loro escludendo tutti gli altri, che avevano bisogno delle loro merci ma le avrebbero volute a basso prezzo.
A conferma di ciò ricordiamo che nel 1975 il gruppo dei non allineati propose un programma di liberismo letterale su scala mondiale così articolato: 1) apertura dei mercati del Nord alle esportazioni del Sud; 2) miglioramento dei termini dello scambio per i prodotti agricoli tropicali e i prodotti minerari; 3) accesso facilitato al finanziamento internazionale; 4) provvedimenti antimonopolistici, atti ad agevolare il trasferimento di tecnologie. In modo reciso e unanime, il Nord del mondo rigettò questo progetto.
Il GATT era identificabile, quindi, come una organizzazione integralmente dedicata agli interessi dei paesi industriali e perciò delle imprese transnazionali che ben li rappresentavano: la lotta per l'abolizione delle tariffe e dei dazi (combattuta su posizioni proprie del pensiero economico neoclassico) non mirava, in realtà, che alla creazione di un ambiente adeguato allo sfruttamento della forza-lavoro e delle materie prime da parte delle multinazionali e alla rapida remunerazione dei capitali investiti.
La WTO, nata sulle ceneri del GATT il 1 gennaio 1995, ha realizzato le istanze sopra elencate, ma si è dotata di un arsenale di regole vincolanti, di meccanismi obbligatori di arbitrato e di un relativo sistema sanzionatorio. Paradossalmente, oggi gli stessi paesi che chiedevano una liberalizzazione degli scambi con il Nord, sono i più restii a liberalizzare le loro economie:
"Il mondo è cresciuto in tal modo che oggi si pongono, a livello globale, tutta una serie di problemi che necessitano risposte a livello globale. Il sistema è diventato molto sofisticato, la globalizzazione è andata più avanti di quel che si crede ma ciò non vuole dire che l'obiettivo sia il liberismo esasperato, anche perché l'80% dei Paesi membri della WTO sono Paesi in via di sviluppo o economie in transizione che non accetterebbero mai un liberismo selvaggio" (80).
In effetti l'hanno già accettato assoggettandosi alle regole di questo liberismo (sempre appare la contraddizione in termini) dettate dagli organismi internazionali, e così adatte agli scopi della centralizzazione capitalistica per mano delle cosiddette multinazionali, per esempio eliminando ogni privilegio delle imprese locali nell'attribuzione di appalti pubblici, oppure stabilendo dei dispositivi di protezione per il ritorno alla casa madre degli investimenti, oppure ancora decretando che la soluzione dei contenziosi venga demandata alla stessa WTO, controllata non certo dalla parte più debole nel contenzioso stesso. In teoria, aderendo alla WTO, ci si priva di ogni controllo sugli investimenti e sui traffici realizzati da altri sul proprio territorio, ma in pratica il discorso vale ovviamente a senso unico: sarà molto difficile ad esempio per la Cambogia o il Mozambico aprire un contenzioso per impedimenti ai loro traffici sul territorio degli Stati Uniti, mentre il contrario sarebbe normale.
In tale contesto si perde anche la formale adesione al concetto di diritto borghese, in quanto lo Stato socio rinuncia alla propria giurisdizione storica per assoggettarsi ad una specie di lex mercatoria depositata fuori dai suoi confini e soprattutto a negoziazioni che avvengono sotto la pressione di paesi potentissimi, le cui industrie hanno un enorme potere di ricatto col solo fatto di negare o dirottare investimenti programmati. Ciò è di importanza estrema, dato che lo Stato, il comitato che dovrebbe gestire gli affari di tutta la borghesia nazionale, diviene "irresponsabile" di fronte al Capitale globale, il quale agisce tramite i nuovi organi sovrastatali che si è dato e per conto di borghesie più potenti.
La contraddizione con il persistere degli Stati nazionali è solo apparente. In realtà, la borghesia, che continua ad esistere nella veste differenziata delle borghesie nazionali, è completamente assoggettata al Capitale globale e rimane un fattore necessario per svolgere un servizio locale essenziale a quest'ultimo: il controllo della classe operaia nei singoli paesi.
La borghesia, espressa dalla primitiva accumulazione e diventata con il suo modo di produzione macchina motrice della storia recente (come dall'apologia materiale che ne fa il Manifesto), espropriata dal Capitale stesso, perdute le sue prerogative, resa inutile e sostituita da funzionari stipendiati, è ridotta al rango di miserabile sbirro:
"La maggior parte di coloro che pensano che la globalizzazione sia complessivamente una buona cosa non sono degli ideologi ma dei pragmatici. Credono che, per la maggior parte delle attività economiche, il mercato porti a risultati più efficaci e ad una maggiore prosperità di quanto non faccia il controllo governativo. Ma anche i più ardenti partigiani del libero mercato auspicano un ruolo per lo Stato: quello di fissare un quadro di regole che permettano ai mercati di svilupparsi" (81).
Così si confessa che il libero mercato, lasciato a sé stesso, si sopprimerebbe molto presto. Il Capitale totale, che specializza il ruolo dello Stato come strumento del dominio di classe, come razionalizzatore dell'anarchia sociale, mantiene le borghesie nazionali, ormai inutili e impotenti in quanto classe, come mantiene i poliziotti: per far rispettare le regole che detta in quanto anonima potenza. Quando tra gli stessi borghesi incominceranno ad apparire elementi non più in grado di sopportare questa loro insulsa condizione, appariranno anche i primi transfughi di classe. Come dice Marx nel Manifesto, essi daranno, insieme con la ricomparsa dello scontro di classe frontale, il segnale sicuro che la rivoluzione sociale si è messa nuovamente, e forse definitivamente, in moto.
27 ottobre 1999
Note
(58) Jean Marc Sylvestre, "Retrospettiva del 1998", Catena TV Histoire, 4 settembre 1998.
(59) Autori D. Roos, J. P. Womack, D. T. Jones, editore Rizzoli. La prefazione era di Giovanni Agnelli e la Fiat l'aveva distribuito ai suoi dirigenti.
(60) Nel corso della crisi, il Sindacato dei Petrolchimici di Singapore (e laggiù dire "sindacato" significa dire Stato più che da noi), in un documento dedicato alle sfide della globalizzazione, affermava: "Forti relazioni trilaterali fra governo, impiegati e sindacati sono fattore essenziale per il sistema di relazioni industriali. Questo fattore ha aiutato a forgiare il consenso introducendo nel paese un completo ventaglio di politiche economiche per la ristrutturazione. Dal rapido passo del cambiamento ci si aspetta però un più grande stress nelle relazioni e nell'intero sistema. D'altronde, il mutevole profilo professionale richiesto alla forza-lavoro [a causa delle ristrutturazioni] coinvolge la direzione dei sindacati e, a lungo termine, la forza del movimento sindacale; per cui un buon rapporto trilaterale fra le parti necessita di forti ed effettivi partners" (Report by Chmical Industries Employees Union of Singapore, Shell Employees Union, presented to the First ICEM-A/P Regional Conference, 11-12 novembre 1997).
(61) A. Bordiga, Il corso del capitalismo mondiale nella esperienza storica e nella dottrina di Marx, Edizioni Il Partito Comunista 1991, pag. 42.
(62) Fonte: UNCTAD, 1993 (nostra elaborazione).
((63) Fonte: FMI, 1975 (nostra elaborazione).
(64) Il sovrapprofitto in controtendenza è spiegato in K. Marx, Il Capitale, libro III cap. X (ogni merce non viene venduta al suo peculiare costo di produzione ma con riferimento al prezzo di produzione globale).
(65) Al Dollaro sono rimaste ancorate tutte le valute dell'Asia Sud-orientale fino alla crisi, alla quale ha resistito soltanto la Cina, che è riuscita a non svalutare lo Yuan.
(66) V. I. Lenin, L'imperialismo, Newton Compton, pag. 88.
(67) E' significativo che, nella riunione di Casale del novembre 1960 ("Introduzione generale", Il programma comunista n. 15) Bordiga sottolinei la mancanza di un lavoro sulla "teoria delle guerre in tempo capitalista e imperialista" in relazione alle masse colonizzate. Evidentemente si riteneva importante affrontare non tanto una generica teoria della guerra, già presente nel corpo marxista, quanto una integrazione specifica per l'epoca imperialistica. Oggi sarebbe necessario un lavoro in relazione all'assetto capitalistico mondiale.
(68) V. I. Lenin, L'imperialismo, Newton Compton, pag. 88.
(69) Ibid.
(70) La produttività dell'industria tedesca di punta è tra le più altre del mondo, ma la struttura sociale rigida rende l'intero sistema poco produttivo: in Germania lavora la metà della popolazione a salari altissimi, mentre per esempio in Italia lavora poco più di un terzo, a salari bassi e a prodotto lordo pro capite paragonabile. Il governo tedesco lo sa benissimo e infatti sta cercando di porre riparo; il ministro del tesoro Eichel, per esempio, ha già annunciato un piano di rientro "finanziario" in otto anni per riconquistare la competitività tedesca intaccata. Anche questa è globalizzazione.
(71) Le cifre sul costo dell'ostpolitik tedesca dopo il crollo dell'URSS variano moltissimo da fonte a fonte e oscillano tra i 150 e i 200 miliardi di dollari, pari al 40% dell'export annuale tedesco. L'Economist valuta in 70 miliardi l'investimento (prestiti, agevolazioni, importazioni a prezzo politico) verso la sola Russia fino al 1996.
(72) Infatti, in Marx, la questione si pone storicamente, come sempre. Egli dice: 1) il commercio estero è la base per l'infanzia del capitalismo e il capitale d'interesse preesiste a quello industriale; la scoperta dell'America fa esplodere positivamente mercati e capitali; 2) ora, a capitalismo sviluppato, il commercio estero è un prodotto dell'industria stessa, "non è il commercio a rivoluzionare l'industria ma questa a rivoluzionare continuamente quello" (Il Capitale cit., vol. III cap. XX pag. 422); 3) in Marx la sequenza del sistema è: Stato, commercio estero, mercato mondiale; nell'epoca in cui masse enormi di capitali si agitano freneticamente sul mercato mondiale in cerca di valorizzazione, e in cui interesse e profitto si confondono, "il saggio di profitto è consolidato dall'influenza molto maggiore che il mercato mondiale, indipendentemente dalle condizioni di produzione in un paese, esercita sulla fissazione del saggio d'interesse" (ibid. cap. XXII pag. 464), quindi il capitale mondiale vagante ridiventa fattore dell'industria là dove riesce a fissarsi, altrimenti l'industria chiude.
(73) Alcuni ritengono che non si possa parlare di crisi permanente. Dipende da cosa si intende. Engels ne parla e Trotzky riprende l'argomento. Il fascismo e poi il keynesismo sono determinati dalla necessità di dare una risposta permanente alla crisi, occorre perciò chiedersi quale sia la determinazione permanente di questa necessità. E' un fatto che da mezzo secolo viviamo in un capitalismo perennemente in camera di rianimazione; se fossero staccate le flebo del totalitarismo economico, esso creperebbe subito.
(74) Nel 1997 essa ha investito direttamente solo 7 miliardi di dollari. Fonte: Banca Mondiale.
(75) Elenco stilato dal Tribunale Internazionale dei Popoli, verdetto di Tokio del 1993.
(76) Nella nostra Lettera ai compagni intitolata Padania e dintorni vi è un'analisi dettagliata sui distretti industriali italiani e sulle ripercussioni politiche nell'epoca della centralizzazione del Capitale (ora nel volume Il 18 brumaio del partito che non c'è, raccolta di tutte le Lettere di analisi della situazione italiana).
(77) Joseph Stigliz sull'Internazional Herald Tribune, 19 settembre 1998.
(78) Anche in questo caso non si può parlare di ingiustizia particolare, perché il capitale interno non si distingue più da quello internazionale. Ogni capitalista è parte di un ingranaggio globale e non può più dedicarsi all'accumulazione "nazionale" di capitale.
(79) Una curiosità per il lettore: un simile andamento porterebbe ad uno scambio di capitali giornaliero per una cifra pari a cinque o sei volte il prodotto attuale annuo degli Stati Uniti.
(80) Da un'intervista al direttore del WTO Ruggiero, su Il Sole-24 ore del 16 maggio 1998.
(81) Reginald Dale, sull'International Herald Tribune del 28 ottobre 1998.
Fine