Numero 110, 7 giugno 2007
Follia "urbanistica"
La società borghese dimostra tutta la sua putrescenza non solo con il crescendo della contraddizione fra produzione sociale e appropriazione privata del valore prodotto, ma anche con il ridurre l'intero pianeta a una rete senza soluzione di continuità di impianti, mezzi di comunicazione e abitazioni. La mercificazione ormai totale del cibo obbliga la produzione agricola a forzare i ritmi oltre i cicli naturali e ciò provoca una redistribuzione di miliardi di ex contadini su nuovi territori. Nascono così mostruosi conglomerati urbani nei quali i "dannati della Terra" sono costretti a vivere in spazi sempre più ristretti, mentre le aree urbanizzabili prendono sempre più il posto non solo dei terreni fertili ma persino di foreste e deserti. Uno studio dell'Università del North Carolina State e dell'Università della Georgia riporta che la popolazione urbanizzata supererà nel 2007 quella che vive nei villaggi e nelle campagne. Entro il 2010 si prevede che nei conglomerati urbani con più di 50.000 abitanti vivrà il 51,3 % della popolazione mondiale, quota che toccherà il 60% nel 2030, mentre coloro che "vivono" nelle baraccopoli giganti ai margini delle aree metropolitane sono già oggi quasi un miliardo.
1953:
Spazio contro cemento
2001:
L'uomo e il lavoro del sole
2002:
Decostruzione urbana
Fenomenologia della bidonville
A Roma migliaia di abitazioni sono disabitate, ma, secondo le stime (ottimistiche) dell'assessore alle Politiche Sociali di Roma, circa 2.000 persone vivono letteralmente per strada, mentre altre 9.000 sono riuscite a costruirsi abitazioni di fortuna nelle aree risparmiate per varie ragioni dall'interesse della rendita fondiaria, come quelle fra i piloni delle tangenziali, fra gli archi delle ferrovie, le grotte, gli argini dei fiumi, ecc. Secondo il Piano Regolatore di Roma - fiore all'occhiello del sindaco e sponsorizzato senza falsi pudori dalla lobby dei costruttori - il problema si dovrebbe risolvere costruendo ancor più abitazioni. Ovviamente l'espansione della città, con relativo aumento della densità di alloggi, favorisce la grande proprietà, anche se la si fa passare per necessità umanitaria. Saranno dunque costruiti gli alloggi; aumenteranno quelli disabitati e aumenteranno coloro che non li potranno abitare perché, come dimostra l'ormai più che provata legge della miseria crescente, al crescere della ricchezza sociale cresce il divario fra i proprietari e i senza-riserve.
1953: Spazio contro cemento
Guerra civile tra palestinesi
Come in ogni "questione nazionale" che si manifesti in assenza di un contesto rivoluzionario, sia pure borghese, il movimento arabo di Palestina è diventato strumento della politica altrui. Un tempo, quando esisteva ancora l'URSS, e vi era l'illusione che il panarabismo nasseriano fosse in grado di unire le popolazioni arabe, il movimento palestinese fu utilizzato in funzione anti-americana e anti-israeliana, così come il movimento sionista fu utilizzato dagli USA in funzione anti-sovietica e anti-nasseriana. Per questi motivi, americani e israeliani, tramite i rispettivi servizi segreti, avevano all'epoca assecondato la nascita di una frangia islamica (Hamas) per dividere un movimento che fino a quel momento era laico e socialisteggiante. Oggi i fronti sono cambiati: Hamas è diventato una forza sociale che opera secondo le leggi islamiche ed è sostenuto da Iran, Siria e paesi non allineati con gli Stati Uniti, mentre al Fatah, cioè l'organizzazione che ha in mano la cosiddetta Autorità palestinese, è supportato dalla diplomazia dei paesi occidentali (persino Israele aveva contribuito alla nascita di una sua forza militare di polizia). Secondo il paradigma comunista ogni lotta nazionale è rivoluzionaria solo se è indipendente, mentre le partigianerie la collocano all'interno degli scontri interimperialistici. Non è quindi strano che, oltre ad essere massacrati dagli israeliani, i palestinesi ora si massacrino tra di loro, aizzati sia dai rispettivi protettori sia dal nemico sionista. Mancando una borghesia nazionale unitaria palestinese, il rischio non è solo quello di vedere svanire lo Stato-enclave previsto dalla Road-map, ma quello di veder nascere due entità palestinesi distinte, divise a seconda dei supporter internazionali.
Declino di un mito
Secondo alcuni studi i consumatori del mondo sviluppato si sentono sempre meno felici pur acquistando in media sempre più merci. Per quanto sembri paradossale, la soddisfazione dell'uomo-merce capitalistico diminuisce dunque con l'aumentare della produzione e della conseguente circolazione di merci. E la moderna angoscia sarebbe una conseguenza dell'overdose da consumo dovuta a una specie di soglia della felicità consumistica, oltre la quale si esaurirebbe il desiderio e si precipiterebbe nella depressione da abbondanza. Evidentemente il sistema della "produzione per la produzione" non distrugge solo l'equilibrio ecologico della biosfera e l'umanità dell'uomo: distrugge anche la capacità mentale da parte di quest'ultimo di sopportarne la perpetuazione. Persino i borghesi liberisti superclassici dell'Economist sono costretti ad ammettere che il mito dell'economia classica traballa e che c'è un limite al consumo insensato. In fondo si dimostrano più realisti dei sostenitori del cosiddetto sviluppo sostenibile. Di "sostenibile" nel capitalismo non c'è proprio nulla.
2002:
Capitalismo senile
2000:
Patologie dell'investimento
1949:
Marxismo e miseria
L'invarianza dottrinaria della Chiesa
La Chiesa richiama i cattolici alla coerenza anche in Parlamento, ordinando che sostengano i "valori fondamentali come il rispetto e la difesa della vita umana", della "famiglia fondata sul matrimonio tra uomo e donna", pretendendo il "rifiuto del relativismo ideologico", ecc. Sul versante (sempre più tiepidamente) laico e anti-clericale si rumoreggia contro l'ennesima ingerenza vaticana nella sfera pubblica e privata a calpestare i sacri diritti della Società e della Persona (maiuscole). Inutile ricordare a certa gente che l'organismo Chiesa non è un mulino a chiacchiere come i parlamenti e nemmeno un centro sociale. Esso esiste da più di 2.000 anni ed è sopravvissuto alle rivoluzioni solo perché è riuscito a mantenere invariato il suo programma, che è conservatore e quindi utile a tutte le controrivoluzioni. E l'ha fatto in alcuni frangenti anche contro le proprie frazioni interne, a costo di perdere il consenso di masse importanti di seguaci. Del resto un organismo che non sia volgarmente immediatista non ha scelta: deve avere ben chiaro che il successo contingente è ben poca cosa in ogni prospettiva storica, mentre è sempre catastrofico il venir meno del programma ideologico, che definisce la sua natura e funzione. Senza di esso si ridurrebbe a un insipido partito fra i tanti, tutti simili, che affollano il Barnum della politica corrente. Ragionerebbe a giornate e non a millenni.
2oo5: Habemus Pontificem
Le scorie del ciclo produttivo sono parte integrante del ciclo stesso
Le discariche di rifiuti sono l'emblema del ciclo produttivo capitalistico: accumulano democraticamente qualsiasi tipo di merce, da quella che viene dalla casa più umile a quella che viene dalla più ricca, da quella privata a quella industriale. Esse rappresentano l'ultimo strascico del consumo esasperato di prodotti e nello stesso tempo un ulteriore ciclo produttivo. La Campania è il principale capolinea della feccia della produzione nazionale, un'area di sversamento di scarti più o meno tossici che smistati "in nero" danno vita ad un business pari solo a quello della cocaina. Le campagne del Napoletano e del Casertano sono ormai enormi immondezzai, cartine di tornasole della produzione industriale italiana ed estera: dalle scorie industriali più "delicate" sino ai resti cimiteriali. Le discariche campane sono un orrendo discount degli scarti senza soluzione di continuità: negli ultimi cinque anni sono stati smaltiti in nero circa 3 milioni di tonnellate di rifiuti di ogni tipo, a dimostrazione che non c'è alcuna separazione fra industria e mafie. E mentre i clan tramutavano ogni terra in discarica, le conniventi amministrazioni locali non riuscivano più a smaltire la spazzatura ordinaria e la mandavano all'estero, dove altre industrie…
2001: Controllo dei consumi, sviluppo dei bisogni umani
Napoli in fiamme
A proposito di monnezza. Le strade di Napoli sono sommerse da montagne di rifiuti, circa 2.700 tonnellate non raccolte da settimane. Ormai li si brucia direttamente in strada con le molotov, almeno arrivano i pompieri e qualcosa si muove. Questa non è che l'ennesima crisi dei rifiuti in ben 13 anni di commissariamento straordinario. Non si riescono a smaltire regolarmente più di 350 tonnellate giornaliere di spazzatura, a fronte di una produzione che oscilla tra le 1.400 e le 1.500 tonnellate; la differenza va ad alimentare la perenne "emergenza". In efetti sono sempre più frequenti i casi di ricovero per infezioni respiratorie; la mortalità per cancro in Campania è aumentata negli ultimi anni del 21% ed i tumori al fegato hanno ormai un'incidenza doppia rispetto alla media nazionale. Ma i personaggi pubblici paventano in ogni loro discorso la crisi sanitaria senza che ovviamente vogliano e possano far seguire dei fatti riguardo alle cause. Nelle periferie montano così sprazzi di rivolta che però sfociano inevitabilmente nella rabbia sterile rispecchiata dai circa 200 incendi che ogni giorno affumicano la città.