Newsletter 231, 28 dicembre 2018

Adriano

Il compagno Adriano è morto. Aveva 77 anni. Militante comunista fin dai primi anni '60, aveva aderito al Partito Comunista Internazionale. Da diversi anni critico nei confronti di quest'ultimo, l'aveva abbandonato prima che si dissolvesse nel 1981-82. Da allora ci eravamo incontrati poche volte, ma sempre nella convinzione di aver fatto un tratto di strada in comune per la salvaguardia di un patrimonio teoretico più grande di ogni possibilità di assimilazione individuale o di gruppo. I compagni lo ricordano soprattutto per una forte capacità di intuizione, per cui vedeva, prima di altri, percorsi non ancora imboccati. La fotografia, una delle rare che abbiamo, è stata scattata l'ultima volta che l'abbiamo visto, prima di una lunga malattia, un Primo Maggio di qualche anno fa.

"La prossima rivoluzione capitalista"

È un titolo di copertina dell'Economist, il settimanale che rappresenta la corrente liberista classica, smithiana, del capitalismo contemporaneo. La rivoluzione sarebbe una riconquistata reputazione in grado di rimediare a quella disintegrata dagli ultimi dieci anni di pessime prestazioni del capitalismo stesso. Coerentemente con il suo codice redazionale liberista, il periodico sostiene che la tendenza a investire nei grossi monopoli informatici alimenta un andamento negativo, dato che spinge anche le industrie tradizionali a comportarsi nello stesso modo. Non essendo però concorrenziali sul piano dei profitti e della produttività, queste ultime tendono al protezionismo, del quale si fanno paladine con il sostegno dello stato. Nel XXI secolo, l'età dei giganti Apple, Facebook, Google, Amazon, Microsoft, Oracle, sarebbe necessario varare una politica di trustbusting (spaccare i trust) come quella di Theodore Roosevelt che le diede il nome all'inizio del '900. Ritorno alla concorrenza, dunque, ma a quale scopo e con quali mezzi di persuasione? I grandi conglomerati capitalistici hanno un valore strategico economico e militare, limitarne d'ufficio la potenza sarebbe come evitare di installare l'elettronica sui caccia-bombardieri.

2000: Massimo di centralizzazione
2001: Rottura dei limiti d'azienda

Palazzinari cinesi

Dieci anni fa, quando iniziò la crisi, il governo cinese per stimolare l'economia varò misure imponenti, fra le quali spiccavano facilitazioni all'edilizia che, quando le cose si mettono male in ogni altro campo, è il settore rifugio per eccellenza. Un costruttore, che all'epoca era già considerato ricco per il possesso di 10.000 alloggi, prese la palla al balzo e ne costruì altri 450.000, distribuiti in 228 città. La crisi dura da dieci anni e l'effetto "mattone" non si è verificato con l'intensità prevista: molti alloggi sono rimasti vuoti e il suddetto costruttore si ritrova con un debito che ammonta a 100 miliardi di dollari. La notizia non è piaciuta agli azionisti dell'impresa, che hanno venduto azioni facendone calare il prezzo del 33%. Eppure lo stimolo sembra aver funzionato: dieci anni fa la Cina rappresentava il 6% dell'economia mondiale, oggi ne rappresenta il 16%; in termini di PIL calcolato secondo il potere d'acquisto ha superato gli Stati Uniti passando al primo posto; è stato il primo paese a recuperare i livelli ante-crisi. Ma da allora il debito cinese è aumentato dal 150% del Pil al 250%, le esportazioni sono diminuite, gli impianti lavorano a capacità ridotta e la finanziarizzazione fa oscillare pericolosamente i prezzi dei titoli. Cos'è che non ha funzionato, cioè che non ha permesso di vendere le case e riempirle di gente? Il governo, sicuro di un'economia florida, di una bilancia commerciale in attivo, di una rendita dovuta all'acquisto di buoni del tesoro americani, ha varato una politica monetaria che non incide sui redditi. Le case sono state costruite, ma non si possono regalare, bisogna far lavorare di più i potenziali compratori, cioè sfruttarli di più affinché guadagnino e comprino.

2002: "Le case che salvarono il mondo"
2002: La dimora dell'uomo

Rule Britannia!

In Inghilterra sta prendendo piede l'idea di lasciare l'Unione Europea senza onorare i vincoli esistenti, compreso un debito che ammonta a 50 miliardi di euro per obblighi vari. Sembra che tutti quanti abbiano perso la testa: i sovranisti inglesi non pensano evidentemente alle possibili contromisure, ma anche i sovranisti dell'Unione non stanno pensando a quel che potrebbe succedere se per stizza gli europei volessero vendicarsi adottando misure drastiche. In 45 anni di sedimentazione degli accordi fra paesi si sono intrecciate migliaia di piccole questioni burocratiche; che sembrano ininfluenti se considerate una per una, ma che nell'insieme possono essere devastanti se lasciate andare alla deriva. Con una percentuale del PIL agricolo allo 0,7% del totale e i servizi all'80% il Regno Unito avrà difficoltà a garantire l'approvvigionamento di cibo alla sua popolazione e, se s'innesca una reazione a catena, sono a rischio anche i prodotti di altri comparti. Non è uno scenario troppo remoto se il governo sta predisponendo misure d'emergenza per assicurare ad ogni costo il flusso di alimenti, medicinali, mezzi di produzione e materie prime. Con cautela per non generare psicosi: un'eventuale corsa alle provviste può svuotare negozi e supermercati in brevissimo tempo.

2014: Verso il collasso epocale
2017: Il grande collasso

La guerra dei bit

Ci sono microprocessori dappertutto, nei computer, ovviamente, ma anche negli oggetti di uso quotidiano, man mano che un mondo fatto di sensori evolve verso un'integrazione sempre più stretta fra uomo e macchina. I grandi produttori di computer, di robot o di altre macchine in grado di assistere l'uomo nella sua vita quotidiana, tanto sul lavoro quanto a casa, basano la propria produzione su microprocessori che arrivano da pochissimi paesi: Stati Uniti, ovviamente, e Giappone, Taiwan, Corea, Singapore, Indonesia. Tra i primi 15 fabbricanti del mondo non ve n'è uno cinese. Eppure la Cina spende in microprocessori d'importazione quanto spende in petrolio. È quindi inevitabile che, come ha fatto per altri tipi di merce, inizi a produrli da sé per sé. Gli Stati Uniti hanno incominciato nel 2015 a limitare l'esportazione di questa tecnologia e gli si sono affiancati Taiwan e Corea. Paradossalmente, però, proprio le restrizioni commerciali accelerano l'esigenza di una produzione nazionale, e infatti il governo cinese ha stanziato 150 miliardi di dollari per la ricerca in questo campo. Le grandi multinazionali americane hanno in media 16.000 fornitori, metà dei quali all'estero: limitare tale rete produttiva con pratiche protezioniste sarebbe un suicidio. Ergo, dati i precedenti, il mondo vedrà nascere un nuovo, grande e spregiudicato produttore di microprocessori. Se l'amica Taiwan aveva inserito in un microchip per cellulari americani un settore-spia nascosto, figuriamoci cosa non sarà capace di fare la nemica Cina continentale.

2005: Sindrome cinese
2018: L'eredità problematica

I tempi (che) corrono

Nel 2017 sono nate e sopravvissute 1.100 nuove aziende che si interessano di Intelligenza Artificiale. Si tratta di piccole realtà, molte delle quali muoiono in fretta, ma, tra fusioni e acquisizioni, il giro di affari è stato di 24 miliardi di dollari. Grandi realtà produttive come Tesla, Huawei, Apple, e fornitrici di servizi come Google, Amazon, Walmart, si stanno cimentando con prodotti o servizi "intelligenti", spendendo molto di più rispetto alla cifra delle piccole nuove arrivate, ma quest'ultima ondata è diversa. Fino a pochissimo tempo fa per meccanismo "intelligente" si intendeva un qualcosa come un termostato o un ascensore programmabile, anche se tecnicamente sofisticati. Adesso l'Intelligenza Artificiale incomincia non solo a sostituire o a simulare l'intelligenza umana ma soprattutto a emularla, prima di tutto con l'auto-apprendimento. Si diffonde il timore che le macchine possano danneggiare gli uomini o addirittura prendere il sopravvento: il problema vero è che queste potenzialità siano in mano alla borghesia. L'intelligenza artificiale non sarà mai pericolosa come la stupidità naturale di questa classe.

2015: Dalla necessità alla libertà
2016: Verso la singolarità storica

La lingua batte dove il dente duole

The Economist, significativi titoli di copertina negli ultimi due mesi: L'incubo di Macron; La guerra dei microprocessori; Riscaldamento globale, la grande inazione; La prossima rivoluzione capitalista; Brexit, il gioco è finito; Giro di vite per Teheran; America divisa; America contro Cina, una rivalità pericolosa; Debolezza nel cuore dell'Europa; Le sabbie mobili saudite; Quanto sarà tossica la prossima recessione?; La City di Londra, sporca(o) capitale; Progetti cinesi sull'Europa; Il pericoloso baby boom africano; Prepariamoci per una lunga guerra commerciale; Il raffreddamento globale. Titolo a tutta pagina: "1843-2018, il nostro 175° anniversario, un manifesto per rinnovare il liberismo". Un momento: ma il liberismo, non era già stato rinnovato un paio di volte? E non era già stato rinnovato un paio di volte anche il keynesismo? E non era in auge, allo scoppio della crisi, dieci anni fa, il neoliberismo?

2000: Patologie dell'investimento
2002: Estinzione del Welfare State

La piazza e la palude

Essendo l'area capitalista più vecchia del mondo, l'Italia ha anticipato tutti i movimenti populisti moderni, da "L'Uomo Qualunque" alla Lega, da Forza Italia al 5Stelle. Quelli recenti li ha mandati in piazza e poi al governo. Sembrerebbe l'ultimo scenario possibile, ma il trasformismo italico non si smentisce mai: una volta spazzati via questi incapaci fanfaroni mandati al governo da uno stremato corpo elettorale, la borghesia sarà costretta a rivedere meccanismi e schieramenti, dotandosi di un esecutivo che non metta in pericolo la difesa contro la nuova forma sociale emergente. Sarà uno scenario che a suo tempo aveva fatto esclamare: "Ben scavato vecchia talpa!". È infatti dalla Primavera araba che si susseguono senza tregua nel mondo manifestazioni ibride ma tendenzialmente anti-sistemiche in quanto prive di "contrattazione", di ricerca del compromesso, di ricorso alla mediazione.

2011: La classe dominante italiana a 150 anni dalla formazione del suo stato nazionale
2011: Occupy the World together

Cara piccola borghesia…

È una mezza classe il cui sostentamento (reddito) deriva da valore altrui, plusvalore che le trasferisce il capitalista, salario che le trasferisce l'operaio. Essa non può vivere se le due grandi classi non la alimentano, da sola non produce valore. È logico che s'incazzi se le due grandi classi, per un motivo qualsiasi non le pagano la tangente comprando qualcosa, un bene artigiano, un servizio, una consulenza (insomma, una merce). Ora, se il rapporto fra capitalista e operaio si guasta, e si inceppa il flusso di valore verso il piccolo borghese, quale dei tre ci rimette per primo? La piccola borghesia è il termometro che ci dà la temperatura del sistema. Il suo terrore più grande è di finire nel proletariato: anche se la sua percezione le impedisce di vedere le classi nella loro potenzialità, le vede come sono fotografate in un dato istante. È convinta che il proletariato sia una classe in via di estinzione. Basta una facile ricerca su Internet per sapere che i salariati nel mondo sono, a seconda delle fonti, da 1,4 a 2, 8 miliardi. La cifra più bassa, che esclude ad esempio i salariati del pubblico impiego, non produttivi nel senso marxiano del termine, ci dà la prova di come il proletariato sia pur sempre la classe per antonomasia. Non si arrabatta per difendere la propria esistenza: il suo strumento non è il termometro che misura la temperatura della dinamite sociale ma il suo detonatore.

1994: La passione e l'algebra
2008: Non è una crisi congiunturale

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