Una questione di potenza
Di fronte a una creazione di risparmio europea del 3% rispetto al Prodotto Interno Lordo e giapponese del 9%, gli Stati Uniti distruggono risparmio per il 3%. Dato che risparmio e consumo sono complementari, nel senso che distruzione di risparmio è sinonimo di creazione di debito, ciò significa un differenziale di indebitamento interno pari al 6% nei confronti dell'Europa e del 12% nei confronti del Giappone. Questi soli dati dimostrano una intrinseca fragilità dell'economia americana, dovuta ad una struttura particolare, frenetica, possente, ma nonostante tutto nettamente insufficiente a soddisfare i consumi interni con la produzione materiale. I consumi americani sono infatti saliti ad un ritmo del 5% annuo negli ultimi quattro-cinque anni senza che la produzione sia salita altrettanto. La ricchezza che ha permesso tali consumi è dunque, fatte le debite proporzioni tenendo conto del gigantismo economico americano, del tutto apparente.
A parte le note differenze fra le varie classi e il recente cresciuto divario fra le fasce estreme di reddito (ricchi sempre più ricchi e poveri sempre più poveri), i 75 milioni di possessori di azioni, cioè praticamente uno per ogni famiglia, hanno beneficiato di una crescita di valore nominale del loro "portafoglio", e ciò ha avuto effetti sui consumi. Infatti il debito è in genere garantito da valori posseduti o da salario ancora a venire o da plusvalore ancora da estorcere, a seconda di chi sia l'indebitato. Inoltre la politica di basso costo del denaro ha influito doppiamente: sia sui consumi a credito, sia sull'andamento di borsa, nella quale, entro certi limiti, si può investire con speranza di alto reddito pagando con denaro preso in prestito a basso interesse.
Tutto ciò ha provocato un aumento generale delle importazioni americane, facendo crescere il disavanzo con l'estero a livelli mai raggiunti.
L'euforia economica americana è alla fin fine appoggiata su basi molto precarie, per ora garantite dal fatto che nessuno può competere con gli Stati Uniti, le cui reazioni sono sempre disastrose per qualsiasi avversario, sia che tali reazioni facciano parte di una politica predeterminata, sia che esse si manifestino del tutto spontaneamente. In ultima analisi il capitalismo americano, essendo insolvente in tutti i campi, appoggia sulla fiducia che esso riesce a generare presso i concorrenti, legati in tutto e per tutto nei loro movimenti.
Tale situazione si riflette in primo luogo in campo monetario, cioè nel rafforzamento abnorme del dollaro a scapito di altre monete, per cui ne risulta una enorme capacità di attrazione finanziaria con due effetti immediati: 1) il finanziamento dello squilibrio estero e la copertura del colossale debito privato; 2) il finanziamento di una speculazione di borsa come non si è mai vista nella storia del Capitale.
Se un paese europeo qualsiasi avesse un deficit dei conti correnti rispetto al PIL superiore al 2% all'anno per molti anni, come gli USA, i solerti banchieri centrali dell'Unione Europea ne proporrebbero l'espulsione immediata con ignominia. In effetti, se una situazione del genere potesse estendersi all'Europa, essa dovrebbe importare merci e servizi per 200 miliardi di dollari all'anno e andrebbe in bancarotta entro breve tempo. L'Unione Europea ha invece un attivo totale del 2% e, nonostante ciò, ha problemi economici. I conti non tornano, o meglio, tornano soltanto se si capisce il meccanismo del potere politico-militare intrecciato a quello economico, meccanismo che permette un travaso di plusvalore. L'intero valore prodotto da una società si divide in salario e plusvalore, ma quest'ultimo si suddivide ancora in mille rivoli, dal profitto all'interesse, dal reddito degli improduttivi alla rendita. Negli schemi di Marx può essere assimilata alla rendita ogni ripartizione del plusvalore dovuta sia ai rapporti di proprietà, sia a condizioni favorevoli rappresentate da potere economico, politico o militare, essendo la teoria della rendita non applicabile soltanto al contesto agrario.
Questo meccanismo distributivo inerente alla natura del capitalismo, potenza o non potenza, non può durare all'infinito, perché, come nota Marx, alla lunga una sempre maggior quota del profitto finirebbe alla rendita. La quale accumula nelle mani dei proprietari e dei rentiers, ma non contribuisce alla creazione di plusvalore. Perciò prima o poi si renderà necessaria la correzione di una massiccia quantità di capitali non più garantiti, si tratti di forme del credito che di valore oggettivato in altri settori, come quello immobiliare ecc., com'è successo in Giappone, dove in qualche anno è stato cancellato valore virtuale pari al prodotto annuo di un paese come l'Italia o la Francia.