Elevare i costi di produzione
"Elevamento dei costi di produzione, per poter dare, fino a che vi è salario, mercato e moneta, più alte paghe per meno tempo di lavoro" (Punto "b" del Programma rivoluzionario immediato nell'Occidente capitalistico, Riunione di Forlì del Partito Comunista Internazionale, 28 dicembre 1952).
Oggi
Nel nostro linguaggio sarebbe più esatto dire prezzo di costo invece che costo di produzione, ma qui utilizzeremo anche noi la dicitura contabile cui ricorre il testo citato. Marx distingue il prezzo di costo, che rappresenta la quantità di denaro anticipata dal capitalista per ottenere il prodotto, dal prezzo di produzione ("forma valore trasformata"), che è il prezzo medio sociale con cui tutte le merci che escono dalla fabbrica sono costrette a confrontarsi per poter essere vendute. La somma di tutti i prezzi di produzione rappresenta infatti il valore totale delle merci prodotte espresso in denaro. Vedremo in seguito che questo fatto è molto importante per capire come la società nuova, nei paesi più sviluppati, potrà rivoluzionare i vecchi rapporti in breve tempo e senza particolari difficoltà.
Seguiremo nel nostro articolo un capitalista qualsiasi. Poniamo, tanto per essere "moderni" e per adottare un esempio eclatante di sensibilità ai costi di produzione, un fabbricante di computer. Già egli è un capitalista per modo di dire, dato che è assolutamente impotente riguardo al 99% del ciclo produttivo della merce che "produce". In effetti non la produce affatto, perché compra tutti i componenti da altri. Non gli conviene neppure assemblare le macchine, dato che vi sono aziende specializzate in assemblaggio. Avrà un ufficio di rappresentanza e non gli servirà molto di più, dato che l'amministrazione sarà gestita da un centro contabile, e le operazioni di magazzino, se ancora avrà questa arcaica esigenza, saranno demandate a un'apposita azienda di servizi che magari si occuperà anche delle spedizioni. Rimane la rete di vendita, affidabile comunque a ditte specializzate. Potrebbe alla fine limitarsi a far disegnare e serigrafare un'etichetta personalizzata in una copisteria industriale qualunque.
Società a partita doppia
Per questo capitalista - e non è un caso estremo - il costo di produzione è tutto, essendo rappresentato non da complicati e affollati processi di produzione in cui si perdono le concatenazioni dei costi, ma dal mazzo di fatture che il commercialista ogni tanto gli invia, compresa la sua.
Di capitalisti di tal fatta oggi è pieno il mondo. Si dirà che qualcuno alla fin fine deve pur produrre le parti del computer, ed è vero: ma poche industrie ben organizzate e automatizzate bastano e avanzano. Oggi i grandi produttori mondiali di microprocessori sono quattro, e quasi tutto il resto della componentistica se lo divide una decina di colossi in tutto.
Il capitalista del nostro esempio avrà ancor meno voglia dei suoi antenati, che dirigevano personalmente fabbriche con migliaia di operai, di perdere tempo nell'indagine sull'origine del valore; gli bastano i conti del commercialista.
Invece per il nostro conteggio, che è sempre sociale, occorre che prima sia stata individuata una legge che permetta di definire il fenomeno del processo lavorativo tipicamente capitalistico. Al capitalista individuale basta la partita doppia, un metodo che risale ai libri contabili dei mercanti, cioè all'epoca dei Comuni e delle Signorie, metodo col quale si stabilisce un mero confronto finale fra ricavi e perdite; a noi no.
Il costo di produzione è quella semplice cifra da sottrarre ai ricavi; perciò esso, in qualunque modo lo si definisca nei bilanci truccati delle aziende, è la bestia nera del capitalista, lo schiaccia con determinazioni cui egli non può far altro che sottomettersi. Non se la cava meglio l'economista che, pur avendo adottato metodi di conto superiori a quelli medioevali, parte dalle stesse concezioni maneggiando prezzi e statistiche su prezzi. Nella finanza moderna maneggia addirittura prezzi di prezzi di prezzi... meritandosi magari il premio Nobel per la scoperta che i problemi legati a questi processi non sono lineari, e quindi sono irrisolvibili. Nonostante tutto riesce ad escogitare modelli molto brillanti e complessi che "girano" su potentissimi computer e rendono plausibile il suo stipendio anche senza che egli azzecchi una previsione che è una. In epoca capitalistica, dove tutto è merce, il fatto che l'economista riesca a vendersi ha del mistico, ricorda più i miracoli che la scienza. Del resto lo dice lui stesso che il suo mestiere non è una scienza ma un'opinione.
Come vedremo, con la scienza comunista la previsione si riesce a fare, solo che non è del tipo che tutti si aspettano in questa società. Con il marxismo non si può fare daily trading, speculazione giornaliera in borsa.
Potenza della concezione unitaria
Per fare scienza occorre sapere che cosa succede effettivamente alle spalle dei fenomeni su cui stiamo indagando. Scoperta una legge in seguito a questa indagine, dev'essere possibile trasformarla in schemi astratti comprensibili e utilizzabili da tutti, quindi applicare questi formalismi e verificare se si possono fare delle previsioni in base ad essi. Se vogliamo quindi "fare scienza" riguardo ai costi di produzione, non possiamo limitarci a conoscere il prezzo delle merci semilavorate, dell'energia, dei servizi e della forza-lavoro che sono serviti a produrre altre merci: questo prezzo dipende da altri produttori a monte in una catena che non termina neppure nelle miniere perché anche là si usano energia, macchine, forza-lavoro ecc. E' scientificamente assurdo guardare i conti dopo che la merce è finita sul mercato, si è trasformata in denaro attribuendosi un prezzo secondo un ciclo contabile. "Per noi infatti il valore della merce prodotta in un dato ramo industriale non si può dedurre da una ricerca di medie sulle quote delle contrattazioni ai mercati: si deve sapere prima" (in Vulcano della produzione o palude del mercato?). Solo se stabiliamo a priori quali sono i meccanismi che produrranno il prezzo come oscillazione media intorno al valore possiamo fare lavoro scientifico operando con una legge. Il valore non è una "cosa" né un biglietto di banca, né una scrittura numeraria, è un rapporto sociale. Perciò per noi il calcolo, affinché dia risultati utilizzabili da chiunque, in qualsiasi situazione e in qualsiasi paese, dev'essere affrontato come in fisica: le leggi della gravitazione sono identiche per tutti in qualsiasi punto dell'universo, così come le leggi dello scambio sono identiche ovunque il rapporto sociale sia lo stesso.
Al nostro capitalista singolo tutto ciò non interessa, lui s'intende di capitali, vuole vendere computer e avere un profitto. Dovrebbe interessare all'economista, che s'intende d'economia, ma questi, sentendo parlare di società, pensa che sia il sociologo a doversene interessare. A sua volta il sociologo non avrà certo tempo di occuparsi di capitali e di economia, sarà già tanto se si occuperà di classi nel senso di insiemi anagrafici e statistici della popolazione.
Mentre con il mondo produttivo capitalistico si sviluppa una società altamente integrata in cui tutte le parti sono in relazione, nel mondo delle idee vige la massima separazione tra le discipline. Ma in tutte le società, come nella natura, nessuna cosa e accadimento è separato dall'altro: cioè succede "tutto in una volta", nella continuità di tempo e di spazio; ecco perché i cultori delle discipline separate non possono a tutt'oggi giungere all'altezza del marxismo. Naturalmente, con Marx, facciamo tanto di cappello alle realizzazioni tecniche e scientifiche della borghesia nonostante la separazione dei campi, ma diciamo che solo la società nuova saprà unificare la conoscenza in un tutto inscindibile, di livello qualitativamente superiore.
Capitolazioni borghesi
Dunque il capitalista, che a naso non ascolta - giustamente - né l'economista né il sociologo, compra sul mercato merci, energia, servizi e operai per dare luogo ad una produzione (o compra quest'ultima già fatta); egli non può far nulla rispetto al prezzo che per tutto ciò deve pagare, perciò ai suoi occhi tutto il capitale anticipato è effettivamente il costo reale della merce che produce. Gli aggiunge il suo profitto, ma lo deve fare tenendo conto di un'altra variabile che non è lui a decidere: il prezzo di mercato che avrà quella merce quando sarà messa in vendita insieme a mille altre.
Il costo di produzione registrato dai libri contabili non incide più di tanto sul prezzo della merce, che è dato dall'insieme degli scambi e dallo stato della concorrenza in tutto il mondo; e il capitalista lo sa bene. Egli riesce perciò a piazzare i suoi prodotti sul mercato solo se il loro costo di produzione, più il profitto, gli permette di ricavare un prezzo che è stabilito da un'entità a lui estranea. Tant'è vero che in un business plan (progetto di impresa) che si rispetti, prima vengono elencati i parametri esistenti nel mercato, poi vengono ad essi adeguati i parametri della produzione di una determinata merce. Nel gergo del marketing questo modo di affrontare il problema si chiama market in, in contrapposizione al concetto di product out (e cioè: è il mercato che entra nell'impresa a dettar legge, il prodotto che ne esce fa quel che può). Come si vede non è il marxismo che entra nelle teste degli uomini, cosa difficile per via dell'ideologia dominante, sono gli uomini che sono costretti a capitolare di fronte al marxismo.
Si capisce allora perché il nostro capitalista sia tanto assillato dalla concorrenza: il suo costo di produzione deve sempre essere compatibile con lo stato della produzione mondiale. Egli è schiacciato fra determinazioni che non dipendono da lui né dai suoi tecnici stipendiati, e quindi potrebbe soltanto agire sul suo profitto, vale a dire sulla quantità di lavoro gratuito che potrebbe spremere ai suoi operai, se ne avesse. Come non può abbassare il costo di produzione rappresentato dalle merci che entrano nel ciclo produttivo, così non può alzare arbitrariamente il suo profitto, altrimenti dovrebbe alzare il prezzo e la concorrenza lo eliminerebbe dal mercato. Se anche avesse una fabbrica personale con tanto di operai, non potrebbe ugualmente agire ad arbitrio sul costo della forza-lavoro, che è un dato sociale tendente a variare secondo parametri che coinvolgono grandi periodi e grandi aree. Ogni capitalista può soltanto variare quelle caratteristiche dell'intero ciclo produttivo che comportano costi dipendenti da lui. Nei confronti del mercato e delle fabbriche altrui è del tutto impotente.
Ma anche tutti gli altri capitalisti sono nelle sue condizioni. Nella rete dei rapporti che lega la produzione mondiale, l’effetto delle azioni di ognuno si farà perciò sentire nuovamente sugli elementi che stanno alla base del costo di produzione del nostro fabbricante di computer. Egli non ha una fabbrica sua, ma ovviamente sceglie sul mercato chi gli offre componenti della qualità necessaria al minor prezzo. Così, anche senza essere un fabbricante diretto, egli influisce sul ciclo che gli sta a monte. Ma allora tutti i capitalisti, presi nel ciclo infernale della concorrenza, si influenzano, e non possono far altro che escogitare di tutto per sopravvivere nella reciproca guerra. Non sono protagonisti come credono, bensì strumenti del tutto passivi, inutili, del loro stesso sistema, quell'immensa rivoluzione che ha portato all'estremo la forza produttiva sociale.
Riorganizzazione continua obbligata
In termini asettici si direbbe oggi che ogni capitalista, posto nel vicolo cieco delle determinazioni di mercato, deve prima di tutto immettere informazione nel sistema produttivo. Lo fa a partire dal suo sistema locale, ma non può fare a meno di lanciare il messaggio anche a quello globale. L'informazione non costa nulla e produce nuovo ordine, come aveva già osservato il vecchio Taylor introducendo l'organizzazione scientifica del lavoro. Così ogni fabbrica tende ad essere diversa da ciò che era prima (anche se rimangono fissi i parametri che dipendono dall'esterno) migliorando per esempio l'organizzazione, rendendo più veloci le operazioni, introducendo le risorse messe a disposizione dalla scienza, insomma, producendo di più e mantenendo fissi i costi. Tutto ciò al capitalista appare del tutto naturale e infatti, nel contesto capitalistico, lo è talmente che in circostanze normali nessuno, nemmeno gli operai, vi fanno caso.
In termini meno asettici Marx disse che in tal modo aumenta il grado di sfruttamento della forza-lavoro. I titolari di questa particolare merce, i proletari, lo avvertono soltanto quando lo sfruttamento si accompagna ad un disagio fisico, oppure quando, ben organizzati e diretti, tentano di trasformare coscientemente una parte del profitto in miglioramento delle condizioni di vita. Nella maggior parte dei casi la semplice organizzazione scientifica del lavoro aumenta la produttività, ma essa dà il miglior risultato quando sia accompagnata dal rinnovamento tecnologico, perciò l’introduzione dei nuovi metodi va di pari passo con l'introduzione di macchine moderne. Ciò non abbassa affatto in assoluto i costi di produzione, anzi, nell'immediato, li alza; nel medio periodo, però, in rapporto al plusvalore che si riesce a ricavare dagli operai con l'aumentata scala della produzione, i costi scendono.
E scendono non soltanto per la ricerca spasmodica del capitalista di raggiungere lo scopo attraverso ogni mezzo. Storicamente, l'estensione della fabbrica moderna allarga la scala della produzione di tutte le merci che il capitalista deve acquistare con l'anticipo di capitale; quindi finisce per abbassarsi anche il valore del capitale anticipato, e l'obiettivo di ottenere un abbassamento dei costi di produzione sembra possa avere uno sbocco favorevole.
In realtà l'incubo del capitalista moderno è invece appena incominciato: si abbassa il costo di produzione in rapporto alla quantità prodotta, ma siccome tutti sono costretti ad agire allo stesso modo, l'aumentata scala della produzione fa abbassare il prezzo di produzione generale cui ogni costo di produzione deve prima o poi rapportarsi. La corsa all'abbassamento relativo dei costi di produzione ha portato all'aumento di quella che Marx chiama composizione organica del Capitale. Cioè sempre meno operai mettono in moto sempre più macchine e impianti a parità di profitto per il capitalista.
Lo Stato al servizio del capitale
La produzione ha possibilità immani, ma il mercato è un campo dai confini finiti. Perciò l'insieme delle fabbriche non crescerà in proporzione alla crescita della forza produttiva generale, perché poche fabbriche altamente macchinizzate basteranno a produrre tutte le merci assorbibili. Ognuna avrà profitti altissimi anche se dovrà anticipare molto capitale rispetto agli operai impiegati, ma proprio l'alta produttività provocherà disoccupazione e soprattutto popolazione in eccesso permanente rispetto al bisogno di forza-lavoro. Ecco che in questa situazione si abbassa il saggio di profitto generale.
La corsa quindi non ha fine: la fabbrica tradizionale, dopo essersi razionalizzata e automatizzata al massimo, si disgrega in unità produttive separate, specializza i suoi settori interni e li converte alla produzione di massa trasformandoli in unità produttive indipendenti, che lavorano non più soltanto per il committente originario ma per tutto il mondo. Queste unità sono controllate da un unico centro, ma sempre più spesso da questo centro i capitalisti sono espropriati e sono sostituiti da funzionari che non devono nemmeno più rendere conto ad assemblee di azionisti. Essi non presentano i risultati della produzione, che non interessa più a nessuno, ma le performance dell'azienda di fronte ai mercati, e le presentano ad altri funzionari di anonimi fondi d'investimento o altre forme di raccolta finanziaria, i quali a loro volta raccolgono capitali in modo capillare nella società separandoli dai singoli possessori e dalla loro personale volontà.
All'epoca della ricostruzione postbellica la grande industria poteva permettersi una certa indifferenza rispetto ai costi di produzione, dato che l'economia corporativizzata riusciva a distribuire una notevole massa di plusvalore nella società, compresi consistenti finanziamenti diretti e indiretti alla stessa industria. Ora, l'industria privata può essere finanziata dallo Stato in base a precise garanzie, ma sempre privata rimane, e sarebbe stato difficile per l'esecutivo controllare capillarmente la rete produttiva su cui erano piovuti gli investimenti. Per questo motivo si formò un sistema misto che integrava i piani della grande industria con quelli del paese in ricostruzione tramite un sistema bancario controllato dall'esecutivo (o dai partiti che lo tenevano in mano). Il compito dell'accumulazione nel settore primario ricadde quindi sulla grande industria e su pochi capitalisti, assistiti da un sistema bancario del tutto complementare in questa politica economica, come ben dimostra l'esempio di Mediobanca il cui deus ex machina è scomparso recentemente.
L'azienda virtuale
Terminata la cuccagna della ricostruzione, durata troppo anche per un capitalismo vecchio e furbastro come quello italiano, la ricerca generale di un risparmio sui costi di produzione uccise la vecchia fabbrica concentrata e verticale. Stabilimenti seminuovi e ancora in efficienza, costruiti con denaro statale, vennero smantellati con altro denaro statale. Ormai da tempo la vecchia fabbrica padronale è stata sostituita ovunque da una rete produttiva controllata, nei casi più eclatanti, da aziende centralizzatrici virtuali, cioè da aziende che hanno ceduto in outsourcing, cioè a fornitori esterni, l'intero processo produttivo, mantenendo la mera gestione del marchio e, ovviamente, i profitti. In alcuni casi l'azienda virtuale è persino indifferente ai costi e ai profitti locali, dato che l'utile non deriva neppure più dalle specifiche attività produttive ma da sofisticate manovre finanziarie internazionali che giocano, appunto, sull'estrema ramificazione, anzi, retificazione degli affari in ambito internazionale. Molte aziende legate alle nuove tecnologie, come Amazon, hanno fatto la scelta istituzionale di produrre in perdita per anni, facendo debiti e investendo ogni profitto senza distribuire utili, perché in tal modo possono far valere sul mercato un valore azionario virtuale, che è pura fantasia, ma su cui si può innescare ogni genere di operazione finanziaria, normalmente detta speculazione. Naturalmente tutto ciò non può durare e prima o poi vi sarà l'azzeramento, ma intanto l'espansione delle aziende virtuali, immerse in intricatissime reti di partecipazioni incrociate, sembra inarrestabile.
Tentativi contro l'anarchia del mercato
Il riflesso ideologico si è fatto sentire - e ha dei risvolti pratici - con la diffusione delle istanze federaliste, le quali non sono che la trasposizione in politica di ciò che già da tempo è realizzato nel mondo della produzione, compresa l'a-nazionalità tendenziale dei grandi colossi capitalistici. Persino la rete di informazioni rappresentata da Internet, essendo congeniale al risparmio dei costi di produzione, ha subìto l'assalto dell'industria, che soltanto uno o due anni fa era ancora alquanto refrattaria ad affidare il business ai percorsi immateriali della rete. Ora, quest'ultima si rivela molto utile al risparmio sui costi di produzione perché facilita la soluzione di molti dei vecchi problemi, come la riorganizzazione del flusso d'informazioni interno, la nuova gestione elettronica delle scorte (e-procurement), l'ottimizzazione dei cicli produttivi, la re-ingegnerizzazione dei processi singoli in rapporto ai grandi sistemi. Ecco perché si sviluppa in modo formidabile e silenzioso, più del caciarone commercio elettronico strombazzato su tutti i media, il cosiddetto B2B, cioè business to business: si tratta, nientemeno, di affrontare la spina che da sempre è piantata nel cuore del capitalismo, ovvero il risparmio sulla gestione globale del capitale costante, la massima fonte di grattacapi per il modo di produzione attuale dopo la lotta di classe.
Uno studio della Arthur Andersen, uno dei più grandi fornitori mondiali di servizi di gestione e di certificazione, mostra che la rete sta eliminando il vuoto che esisteva quando le aziende si presentavano sul mercato, teatro di guerra di tutti contro tutti. Per quanto riguarda la gestione delle forniture reciproche fra aziende, quindi il settore primario dei mezzi di produzione, si sta affermando un modello nuovo, chiamato virtual private network, un reticolo che esce dai confini dell'industria singola e ne collega diverse. Queste industrie, pur non avendo legami societari, rappresentano un sistema simile a quello di cui fanno parte le industrie centralizzate sotto un controllo societario unico, realizzando così lo stesso risparmio di costi.
In pratica, si sta diffondendo nella società capitalistica un processo sempre più simile a quello esistente all'interno di ogni fabbrica, dove l'operaio o il gruppo di operai che compiono un'operazione parziale non producono merci ma parti di un oggetto che sarà merce solo quando esce dalla fabbrica e si immette sul mercato. Questi operai, guidati da un efficiente piano di produzione, cooperano in modo razionale per raggiungere uno scopo, ma dalle loro mani non esce valore. Ora un processo come quello interno si proietta all'esterno: ogni fabbrica della holding è come l'operaio parziale, non produce valore se non per quanto riguarda i libri contabili. Solo l'insieme delle fabbriche produce non tanto una merce, ma un insieme di prodotti (oggetti, servizi, produzioni) che sarà venduto dall'azienda centrale con ricavo di profitto.
Stanno lavorando per noi
Questo processo è irreversibile. Non siamo più di fronte a un flusso di materiali gestito con il criterio "esterno" fornitore-cliente; oggi il flusso è gestito con un criterio "interno" che la Arthur Andersen chiama business partnership e che assimila piuttosto temerariamente ad un modello di tipo cooperativistico in grado di sostituire quello di pura concorrenza. Gli esperti di organizzazione chiamano questa tendenza dis-organization o spaghetti-organization, per un preciso riferimento all'industria italiana che è ritenuta capace di ottenere altissime performance nonostante l'ambiente poco favorevole e politicamente disastrato. In un contesto del genere, infatti, ogni unità produttiva si mette in relazione col tutto e, non attendendo disposizioni dall'alto, si risparmia le farragini burocratiche assumendo, nello stesso tempo, sempre maggiori capacità di auto-organizzazione.
Nonostante il linguaggio e le finalità del tutto triviali del business, queste osservazioni ci mettono qualche classica pulce nell'orecchio. Se il mondo della produzione - che noi assimiliamo con Marx ad un modello di attività sociale senza la legge del valore - conquista l'esterno della fabbrica nel tentativo estremo di "risparmiare sui costi", allora possiamo fregarci le mani e dire con i nostri vecchi compagni: "stanno lavorando per noi".
Domani
Estendiamo la fabbrica all'esterno delle sue mura e avremo un sistema sociale integrato di produzione che non ha più bisogno delle categorie di mercato e che quindi non è più capitalismo. Il complesso industriale centralizzato e diversificato nelle sue componenti (la cui dislocazione nello spazio, cioè nei vari continenti è indifferente) già adesso funziona secondo piani prestabiliti sotto un unico centro, a differenza di quanto succedeva quando le aziende non facevano parte di un'unica organizzazione.
Anche per questa via si dimostra come il comunismo lavori alla demolizione delle barriere che impediscono la realizzazione della società nuova. Perciò, dal punto di vista del programma immediato della rivoluzione, si dimostra come già oggi, cioè in ambito completamente capitalistico, vengano realizzati compiti che in un non lontano passato avrebbe potuto attuare solo un potere politico tramite i suoi organismi rivoluzionari. L'unica rivoluzione proletaria vittoriosa, quella russa, dovette affrontare compiti immensi di realizzazione capitalistica a causa dell'arretratezza economica e sociale del paese, ma anche se la rivoluzione si fosse estesa alla Germania o alla Francia, il passaggio alla società nuova non sarebbe stato esente da compiti costruttivi. Il sistema razionale esisteva all'interno delle singole fabbriche, ma non era ancora riuscito a generalizzarsi tra fabbriche come oggi. Il sistema odierno è generalizzabile ulteriormente, estendendo l'ordine a tutta la società, come se esistesse una sola grande industria fatta di stabilimenti di produzione diversificati ma sotto un controllo centrale.
Il modello che stiamo descrivendo non è assolutamente arbitrario. Come esistono modelli economico-finanziari "a una banca sola", così si può immaginare un modello "a una fabbrica sola". Quando le fabbriche erano concentrate e si facevano concorrenza in quanto concentrazioni separate, il modello era difficilmente immaginabile, ma oggi che è diventata normale la fabbrica diffusa, come descritto più sopra, ognuno può semplicemente osservare una realtà evidente ed estenderne le implicazioni.
Già Bucharin, nel suo libro sull'economia di transizione, aveva intuito la potenza dirompente dell'organizzazione produttiva nei grandi trust industriali e della finanza dell'epoca imperialistica. Sulla base di Marx egli sosteneva che la società mondiale, in quanto mercato composto da aziende e da Stati, era per definizione un sistema inorganizzato (non disorganizzato, parola che implicherebbe la possibilità di organizzazione). L'osservazione è calzante, perché sul mercato non si trovano prodotti ma si scambiano merci; mentre i primi si contano in quantità fisiche, quindi ben conoscibili, misurabili e programmabili, le seconde si scambiano secondo il valore, cioè secondo il criterio della concorrenza, che non ammette ordine prestabilito.
Modelli per la transizione
Bucharin era troppo ottimista poiché affermava categoricamente che il capitale finanziario, organizzando il mondo della produzione in grandi trust dal controllo centralizzato, avrebbe eliminato l'anarchia della produzione all'interno dei grandi paesi capitalistici permettendo alla rivoluzione proletaria di ereditare un sistema già pronto (e alla Russia di giungervi a ritmi veloci, si pensava già al "socialismo in un paese solo"). Tutte le epoche rivoluzionarie accendono l'ottimismo come lubrificante del motore sociale, ma non può verificarsi l'eliminazione dell'anarchia già nel capitalismo: la nascita dei trust non dà luogo a entità isolate, ma a sistemi in relazione fra loro, come lo sono le singole fabbriche; precisamente un sistema dei trust, che entrano senz'altro in concorrenza tra loro ad un livello più alto e quindi, con la guerra spietata che ne deriva, aumentano il livello di anarchia sociale.
Lo stesso Bucharin registra questo fatto quando elenca i tipi di concorrenza esistenti in un sistema del genere, e ricorre a uno schema in cui è lampante non solo l'esistenza di isole "partecipate", cioè possedute in tutto o in parte tramite azioni, ma anche una molteplicità di isole concorrenti fra loro.
Lo schema è del tutto coerente con i tempi in cui venne tracciato, che sono quelli dell'imperialismo in fase di consolidamento secondo le linee descritte da Lenin sulla base di Hobson e di Hilferding. Anche se si trattava sempre di imperialismo, la sua struttura era diversa da quella attuale. Essa si basava su di un forte apparato industriale interno e su una forza quasi esclusivamente finanziaria verso l'estero in un mondo ancora coloniale. Quindi si prestava bene ad essere descritta tramite la classica immagine del rentier puro, dalle potenti cannoniere. Inoltre i paesi imperialisti avevano una potenza confrontabile e, anche se l'Inghilterra emergeva sugli altri, ognuno aveva la sua parte di mondo da sfruttare. Questo assetto del mondo fu indispensabile come trampolino di lancio al moderno imperialismo, ma non esiste più. Nel nuovo assetto sono state eliminate le colonie e ha preso piede quel nuovo modello produttivo globale che tanto scalda gli animi nelle varie Seattle. A differenza di quello rentier, esso è fatto di interessi intrecciati fra gli imperialismi e, finché non esploderà sotto le sue contraddizioni nazionali, è un unico grande sistema di rendita, produzione, finanza e potenza militare.
Ora, nel nostro discorso sui modelli, l'elemento "produzione" è un passo avanti del comunismo in quanto movimento reale, dato che spinge per abbattere le barriere che attualmente lo soffocano. Infatti, se il nostro modello a una fabbrica fosse basato su un imperialismo prettamente finanziario, come all'epoca di Bucharin, in esso non sarebbe possibile trattare lo scambio come semplice flusso di quantità fisiche di produzione (pezzi prodotti, valori d'uso) e saremmo costretti al solito conteggio in valore (capitale, denaro, azioni, titoli di tutti i generi, cioè valore di scambio).
Anche tenendo conto del valore - come in una effettiva fase rivoluzionaria di transizione in cui esistono ancora salari, denaro e banca - il modello a una fabbrica sola elimina già di per sé il concetto di capitalismo attraverso l'annullamento delle differenze di valore (prezzo di costo) esistenti tra fabbriche diverse, differenze che determinano l'esistenza del mercato e della concorrenza. Tracciamo dunque uno schema riassumendo i tre modelli, due appartenenti alla realtà effettiva e l'altro astratto, utili a comprendere anche il passaggio storico rappresentato dalla realtà in movimento:
1) nel modello a singole fabbriche concorrenti, reale, è indifferente il valore dei pezzi in lavorazione e il loro movimento all'interno di ognuna di esse, mentre è importante la loro quantità e funzione; il prodotto finale non è merce fino a quando non esce sul mercato;
2) nel modello a fabbriche centralizzate e diversificate, anch'esso reale, entrano in funzione catene "sinergiche", per cui ciò che succedeva nella singola fabbrica ora succede a livello più alto ed esteso, essendo il fine del gruppo un bilancio consolidato, nel quale i singoli bilanci sono mere espressioni contabili fasulle che si sommano senza che abbia importanza, sul risultato finale, il segno negativo o positivo dei risultati parziali (purché, ovviamente, il totale sia positivo); compare una generalizzata indifferenza rispetto al valore generato localmente, anche se essa è soltanto interna al modello e non tra modelli;
3) nel modello a una fabbrica sola, astratto ma non arbitrario, scompare il mercato e rimane un'unica catena sinergica - che a questo punto è una rete - in cui l'indifferenza rispetto al valore è totale, non esistendo più differenze fra locale e globale per quanto riguarda il risultato; di conseguenza rimane l'industria e scompare l'azienda con l'intero sistema di aziende. Ricordiamo che in questo terzo punto non ci occupiamo del fatto politico in quanto si dà per scontato che la soluzione classista sia già avvenuta e che stiamo agendo in quel contesto di transizione dove viene applicato il programma rivoluzionario immediato. Teniamo quindi presente che è implicita nel nostro discorso una rivoluzione vittoriosa nei paesi capitalisticamente avanzati: non in uno, ma almeno nei più importanti.
Bilanci d'azienda come carta straccia
Tornando ai punti precedenti, osserviamo che nella fabbrica singola abbiamo internamente un'indifferenza totale rispetto al valore dovuta al movimento di quantità puramente fisiche, mentre nella fabbrica diffusa tale indifferenza si fonda su di un movimento contabile che è pur sempre riferito a valori, anche se manipolati in funzione del bilancio consolidato. Dove risiede in questo caso il progresso verso il comunismo se siamo comunque al conteggio in valore?
La risposta a questa domanda è particolarmente importante perché ci ricollega a quanto dicevamo all'inizio, cioè al fatto che il costo di produzione globale più il plusvalore rappresenta il prezzo di produzione globale, cioè il valore globale (come somma dei prezzi di produzione locale). Siccome la ricerca di una legge del valore ha avuto come scopo quello di rendere possibile una misura per uscire dalle nebbie ideologiche dell'economia politica (giacché solo con criteri quantitativi si fa scienza), ecco che, ridotto tutto a valore, abbiamo la possibilità di ricollegarci al tempo di lavoro medio sociale. E siccome già nella società di transizione le uniche misure utili alla conoscenza del suo ciclo produttivo saranno proprio il tempo di lavoro medio e le quantità fisiche, ecco che il modello tripartito ci evidenzia esattamente ciò che dell'esistente sarà utile alla società futura.
Il nostro iniziale "fabbricante" di computer che per avventura si trovasse ad avere successo e a diventare capo della multinazionale produttiva e finanziaria descritta al punto due, tratterebbe come carta straccia i bilanci delle singole fabbriche e, badando al bilancio globale, confermerebbe prima di tutto la legge del valore scoperta da Marx; in secondo luogo e nello stesso tempo, negherebbe la legge del valore per mezzo della legge del valore, che è appunto il processo attraverso cui Marx descrive il comunismo come divenire reale: se la legge del valore rivela il carattere duplice, antagonistico, del lavoro e della merce (produzione sociale e appropriazione privata), e se già il modo di produzione attuale dimostra l'inutilità del capitalista e della sua classe, rimarrà la produzione sociale e sarà eliminata la proprietà.
Il più che superfluo fabbricante di computer del nostro esempio, trattando il suo nuovo insieme di fabbriche come trattava quella iniziale, cioè badando al costo di produzione attraverso un importo finale che per lui non ha più nessun legame con i singoli costi, non solo nega ulteriormente la sua propria funzione, che comunque è già negata a livelli precedenti, ma nega anche la funzione del capitalismo in generale, dato che egli agisce già in una forma potenziale della società futura.
Ecco quindi che il punto del programma immediato sull'innalzamento dei costi di produzione rivela un risvolto politico ben più consistente di quanto a prima vista appaia. In effetti non si tratta di elevare i costi con un decreto o qualcosa del genere: si tratta di liberare all'interno della società nuova tutte le potenzialità che il comunismo si è già preparato in quella vecchia per fare in modo che avvenga il salto gigantesco successivo. L'indifferenza rispetto al valore si tramuta automaticamente in indifferenza rispetto ai costi ed ecco quindi che essi possono essere manipolati arbitrariamente nell'ambito delle esigenze degli uomini. Il fatto che vi sia un periodo in cui esisteranno ancora scambi espressi in denaro non ha più nessuna importanza perché il segno di valore, stampato su carta o registrato in una memoria elettronica, avrà già perso ogni sua funzione storica.
Ciò che il capitalismo non può raggiungere
In Russia, prima della vittoria definitiva della controrivoluzione, vi furono accese discussioni sui problemi relativi all'accumulazione capitalistica che doveva essere diretta dal potere comunista. Le terribili condizioni in cui versava la società russa non permisero ai rivoluzionari di allora di affrontare freddamente il problema, di riconoscere che si trattava di edificare capitalismo moderno e che occorreva non demordere sulla questione dell'integrità del partito, della teoria e del potere. Vi furono così i primi cedimenti proprio sulla questione del valore a proposito della cosiddetta accumulazione socialista, che è un ossimoro sfacciato, una contraddizione in termini, dato che si può accumulare solo valore e nel socialismo il valore scompare.
In questa situazione anche Bucharin non fu chiaro sulla fine che faranno le categorie capitalistiche nella fase di transizione: ad una negazione drastica della loro funzione egli alterna spiegazioni insoddisfacenti della loro sopravvivenza. E' significativo, per esempio, che non abbini la sopravvivenza del denaro a mero tempo di lavoro o a quantità fisiche come unità di conto. Se il denaro è ancora considerato segno di valore, allora non significa nulla dire che non ha più importanza sociale, è denaro e basta. Se, come dimostra Marx contro Gray, il buono-lavoro che dovrebbe contabilizzare ore effettivamente lavorate, pur non accumulandosi privatamente si accumulasse in una banca, allora sarebbe solo il nome a cambiare: saremmo ancora, inesorabilmente, in presenza di una forma di denaro e quindi di capitalismo. La differenza sta non nel simbolo ma nella sostanza, e questa ci è già presentata su di un vassoio d'argento dal capitalismo stesso, quando spinge ad estendere il sistema di fabbrica all'intera società. Quel che il capitalismo però non potrà mai fare è realizzare una società che funzioni con la razionalità e il piano della fabbrica, perché non può eliminare il valore senza eliminare sé stesso. Non potrà mai neppure diminuire drasticamente il tempo di lavoro, concentrato su sempre meno persone e negato alla sovrappopolazione relativa, costretta a vivere di lavori marginali o di assistenza pubblica.
La conquista del potere politico nei paesi a capitalismo avanzato permetterà immediatamente, al proletariato e al suo partito, di elevare sotto questo aspetto i costi di produzione, estendendo il lavoro a tutta la popolazione e diminuendo in maniera eclatante la sua durata. Mentre i borghesi, incapaci di fare previsioni sociali, criticano i comunisti in quanto avrebbero sballato ogni previsione, sotto i nostri occhi si dispiega in tutta la sua evidenza la più importante di tutte: il capitalismo è un involucro che non corrisponde più ai suoi contenuti.
Letture consigliate:
- Partito Comunista Internazionale, Per l'organica sistemazione dei principii comunisti, Riunione di Forlì, "Il programma rivoluzionario immediato", Quaderni Internazionalisti.
- Partito Comunista Internazionale, Vulcano della produzione o palude del mercato? Quaderni Internazionalisti.
- K. Marx, Il Capitale, Libro III cap. I: "Prezzo di costo e profitto", UTET, Editori Riuniti, Newton Compton.
- Nikolai Bucharin, L'economia del periodo di trasformazione, Jaka Book.
- K. Marx, Per la critica dell'economia politica, cap. II-B: "Teorie sull'unità di misura del denaro", Editori Riuniti.