Dalle rivolte alle rivoluzioni
di Alberto Tenenti, edizioni Il Mulino, pagg. 208 lire 18.000.
Spesso si parla di rivoluzione, processo rivoluzionario, insurrezione, senza che sia compresa la reale natura dei fenomeni indicati con tali termini. Ognuno ha la tendenza a valutare i processi storici a partire dalle prospettive di vita individuali, e perciò trova importante soprattutto quanto si verifica nel suo arco di esistenza. Anche lo storico, in quanto individuo, non può fare a meno di basarsi su ciò che gli è stato tramandato da coloro che furono testimoni degli eventi o ne scrissero su documenti finiti negli archivi.
Per quanto riguarda le aspettative future, un mezzo secolo al massimo è quel che l'individuo è disposto a concedere all'umanità affinché produca degli avvenimenti significativi, degni di essere presi in considerazione: l'individuo in quanto tale sa di dover morire, gli sembra di non aver tempo da perdere.
Ecco allora che la pretesa di porsi di fronte agli avvenimenti storici con il solo metro individuale porta inevitabilmente a confondere il processo rivoluzionario con la rottura rivoluzionaria, la rivoluzione con l'insurrezione. L'individuo vede gli avvenimenti e vive ciò che accade, non percepisce il fatto sociale, che magari è in maturazione per decenni prima della rottura. Proprio per questo l'esistenzialismo politico ha un grande successo in questa epoca miope e non c'è dubbio che molti ritengano puro bizantinismo un puntiglioso lavoro sulla differenza che passa fra rivoluzione e rivolta.
A partire da queste considerazioni vogliamo segnalare un testo che su tale differenza costruisce la sua tesi centrale. Diciamo subito che le considerazioni generali dell’autore differiscono dalle nostre ma, secondo noi, è importante che, al di là delle sue personali convinzioni, egli ponga l’accento sul fatto che la storia è distorta da credenze comuni, e che persino il linguaggio riflette questa distorsione. "Non ci si è affrancati dai sensi propri del linguaggio comune", egli afferma, ribadendo in generale un concetto che noi applichiamo al contesto politico e che abbiamo chiamato "luogocomunismo". "La consuetudine tende ad omologare ed a stereotipare il senso di ciascuna parola per consentirne, a torto o a ragione, l’uso più ampio ed esauriente nel linguaggio corrente", ed è proprio per tal motivo che termini come ribellione, rivolta, rivoluzione, diventano terreno di coltura per confusioni deleterie che alimentano ulteriori confusioni, come del resto è successo intorno al termine "comunismo".
L’autore apre una finestra sulla formazione dei moderni Stati nazionali nei Paesi Bassi ed in Inghilterra nell'arco storico che va dal XV al XVII secolo e non è il caso, qui, di riassumere gli avvenimenti storici presi in esame. Elenchiamo invece le tesi che pone alla base del suo lavoro, giustamente ritenute fondamentali:
- la rivoluzione è un processo storico e collettivo che tende a sovvertire l’ordine statuale esistente per imporre un nuovo assetto politico, economico e sociale;
- ogni rivoluzione, pur presentandosi in una forma nazionale, appare come un insieme di "fenomeni di portata universale";
- le rivoluzioni del XVI e XVII secolo si mostrano come una "accelerazione dei ritmi della storia mondiale e, contemporaneamente, di quella europea";
- nessuna rottura rivoluzionaria – situazione interna ad un più complesso processo rivoluzionario, e da questo determinata – può essere possibile se lo Stato che difende il vecchio ordine non entra in profonda crisi.
L'area presa in considerazione è in effetti quella che, diventata centrale per i traffici dopo l'apertura delle rotte atlantiche, subentra a quella in cui si era affermato precedentemente il mercantilismo mediterraneo delle repubbliche marinare e, all’epoca, costituiva un vero e proprio laboratorio per il potenziale futuro del capitalismo moderno. Non a caso, proprio in quei secoli e in quell'area geografica, avvenne il passaggio, più volte ricordato da Marx, dai primi passi dell'imperialismo ad opera delle repubbliche e dei regni marinari, a quello che porterà l'Inghilterra ad essere la prima struttura portante del capitalismo globale moderno, industriale, finanziario e totalitario nei confronti di ogni altro imperialismo. Un processo storico simile è quello che ha visto poi gli Stati Uniti come unici protagonisti.
L'autore, nella sua ampia bibliografia, non ritiene utile ricordare che sul "concetto" e, ancor più, sul reale processo della rivoluzione, hanno scritto non poco Marx ed Engels. Sul primo libro del Capitale (cap. XXIV), per esempio, vi sono pagine e pagine sulla quella lunghissima rivoluzione che è stata l'accumulazione originaria e che comprende sia il periodo che l'area analizzati dall'autore, mentre nell'Antidühring sono ampiamente illustrati i presupposti della rottura rivoluzionaria. Per non parlare dell'opera di Lenin, che si integra perfettamente con il lavoro precedente collegando lo studio della rivoluzione con quello della sua conseguenza necessaria, cioè dell'insurrezione come arte. Naturalmente non ci disturba il fatto che un accademico, trattando della voce "rivoluzione" non si occupi di marxismo: siccome ci interessa la sostanza più che la glorificazione dei personaggi, cogliamo sempre con soddisfazione le capitolazioni della borghesia di fronte al comunismo in quanto movimento reale, specie quando esse sono inconsce, perché ancor più ne dimostrano la validità.