Tempo di lavoro, tempo di vita

"Drastica riduzione della giornata di lavoro almeno alla metà delle ore attuali, assorbendo disoccupazione e attività antisociali" (Punto "c" del Programma rivoluzionario immediato nell'Occidente capitalistico, Riunione di Forlì del Partito Comunista Internazionale, 28 dicembre 1952).

E' vero che il lavoro è l'attività che distingue l'uomo dal resto del regno animale, ma tale attività ha attraversato i millenni cambiando natura col cambiare dei modi di produzione: la proposizione "drastica riduzione della giornata di lavoro" ha comunque significato solo nella forma sociale capitalistica e nella transizione alla forma superiore. Ne vedremo il perché.

Nelle società primitive non poteva esistere un concetto di lavoro con il significato che oggi si dà a questo termine: l'attività di produzione coincideva del tutto con quella di riproduzione dell'individuo e della specie; il tempo di lavoro era quindi immediatamente tempo di vita. Il numero degli uomini su di un territorio era regolato da un equilibrio naturale, perciò essi disponevano dell'occorrente secondo i bisogni di quel tipo di società. Il moderno uomo capitalistico non riesce a concepire la preistoria umana come un'era di abbondanza relativa e, confrontando il proprio modello di vita con quello di esseri ritenuti poco più che bestie, li vede come abbrutiti dalla privazione, dediti alla ricerca continua di che sfamarsi. Questa è un'immagine del tutto distorta ideologicamente. Studi recenti dimostrano, sulla base di riscontri oggettivi, che l'uomo paleolitico dedicava al "lavoro" mediamente due o tre ore giornaliere e disponeva di un'eccedenza di cibo, legname per il fuoco, pelli per coprirsi e materiali per gli utensili.

Ovviamente l'uomo primitivo non aveva la nostra percezione del tempo. Alcune decine di millenni più vicino a noi, anche gli uomini delle società pre-classiche, già arrivate ad un alto grado di urbanizzazione e di suddivisione in gerarchie sociali, non avevano una concezione del tempo che dividesse nettamente vita e lavoro: anche per loro non aveva nessun senso né la parola "lavoro" nell'accezione moderna, né tantomeno la frase "tempo libero". Più tardi, in una società ormai divisa in classi e basata sullo sfruttamento di masse di schiavi, il lavoro coincise con l'attività normale di chi si dedicava ad attività manuali in genere, tant'è vero che in greco (ponos) e in latino (labor) il termine che oggi traduciamo così significava semplicemente sforzo, fatica, pena, sofferenza.

Occorre attendere il XII secolo per trovare nel francese labeur e nell'inglese labour un termine che indica lavoro in senso simile all'attuale, anche se legato ancora esclusivamente all'attività agricola. Per contro, il francese loisir e l’inglese leisure (derivati dal latino licere) significarono, in origine, non "tempo libero", ma, meno banalmente, "libertà, indipendenza". Nella stessa epoca, la parola operaio non indicava affatto colui che lavora sotto padrone ma una generica condizione di lavoratore libero. Essa deriva dal latino opus (opera) e operaius (uomo di pena), radici che designarono in origine gli obblighi ai quali doveva sottostare un uomo affrancato, cioè libero, nei confronti dell'antico padrone. Più tardi, lo stesso termine fu utilizzato per indicare gli obblighi che legavano i contraenti in un contratto d'affari tra liberi.

Produzione di semplici valori d'uso

Perciò per millenni, nelle società antiche e fino al sorgere delle prime manifatture e dei relativi commerci sviluppati, il lavoro coincise con la vita, il cui trascorrere poteva essere penoso o meno, ma non era scisso in tempi separati. La diversa natura del lavoro appare invece in tutta evidenza nelle società urbane che segnano la transizione tra il comunismo primitivo e il modo di produzione schiavistico vero e proprio. Tra di esse ve n'erano che possedevano già forme evolute di scrittura e che ci hanno tramandato la memoria della loro vita quotidiana, anche se l'archeologo di oggi non può fare a meno di proiettarvi elementi dell'ideologia attuale (con un comico effetto simile a quello ottenuto dai moderni fumetti sugli "Antenati", che vivono nelle caverne ma con lo stile di vita di oggi). Ogni attività, compreso il lavoro svolto per altri, riempiva l'esistenza, perciò la separazione fra le parti della giornata rientrava nell'alternarsi naturale di attività e riposo. Il lavoro era inteso come attività per ottenere un semplice valore d'uso, non poteva essere neppure concepito come mezzo per produrre valore di scambio. Che ci si dedicasse all'agricoltura, alla produzione di oggetti o a ritemprare le forze, lo scorrere del tempo "lavorando" era la condizione naturale dalla nascita alla morte. Gli uomini costruivano personalmente i pochi oggetti utili a sé e agli altri e solo le eccedenze venivano scambiate. Se era necessario scavare un canale, tutta la società si metteva all'opera finché non fosse terminato; se il re costruiva una nuova città radunava la popolazione e ne utilizzava il tempo disponibile rispetto all'attività agricola; alla fine, quel prodotto del lavoro non era di qualcuno in particolare. Le lingue pre-classiche non solo non avevano il corrispondente di "operaio" ma non avevano ancora neppure la parola "schiavo": solo un generico termine indicava la dipendenza di qualcuno da qualcun altro e anche il re era servo degli dei. Tra l'altro, nelle fasi più antiche, era miserabile l'uomo "libero" (pastore, cacciatore, contadino, ecc.) mentre il "servo" (scriba, artigiano, musico), che partecipava alla vita dei re e dei funzionari, era un privilegiato.

Quando un traduttore di scritture antiche scrive "operai", in genere mette il termine tra virgolette anche quando nel testo si parla di uomini che ricevono un corrispettivo per il loro lavoro, in genere applicato alla costruzione di opere "pubbliche". E comunque il lavoro veniva pagato sempre in beni di consumo per la sopravvivenza dei lavoratori e della loro famiglia, collettivamente, non in base alla quantità di lavoro erogato dagli individui.

Era normale che degli artigiani venissero utilizzati per il raccolto e, al contrario, dei contadini venissero chiamati alla costruzione di mura e canali. La divisione del lavoro era assai primitiva, per cui anche la divisione del tempo non corrispondeva affatto a ciò che ha in mente l'uomo moderno: ciò che noi chiamiamo "giornata lavorativa" non avrebbe avuto alcun senso. Il "vasaio" o il "carpentiere" erano uomini che, come tutti gli altri, si dedicavano ad una produzione sociale; le loro particolari abilità artigiane erano utilizzate soprattutto per attività sporadiche. Insomma, Giuseppe non aveva la "bottega da falegname". Naturalmente le specializzazioni esistevano anche allora, specie in società rigidamente stratificate come quelle del Medio Oriente. Ma le "fabbriche" rinvenute in Egitto e in Mesopotamia erano prerogativa del palazzo reale e consistevano in luoghi appositi dove erano riuniti gli artigiani agli ordini dell'autorità centrale. Questo avveniva, ad esempio, in particolare per la metallurgia che, dovendo utilizzare grandi quantità di energia, ricorse a lavoro "pubblico" fino a tempi recenti.

I cataloghi degli archivi giunti fino a noi, conteggiano meticolosamente uomini, animali e oggetti, registrano il tempo lungo il quale essi rimanevano a disposizione, ma non ci dicono mai quante ore di lavoro fosse "costata" un'attività e tantomeno quanto "valesse". Con i Greci e soprattutto con i Romani prendono piede forme di industria in grande stile, quindi di specializzazione e di utilizzo del tempo conseguenti; ma anche in questo caso la divisione tra giornata lavorativa e non lavorativa è sconosciuta: solo la necessità di riprendere le forze, di partecipare alla vita sociale, di combattere o di viaggiare, interrompono l'attività di "lavoro", non certo una convenzione sociale che divida la giornata in orari. Questa condizione si mantiene per tutto il medioevo e fino alle soglie della grande rivoluzione produttiva e demografica del XVII secolo. Nella Francia medioevale si lavorava mediamente 3.500-4.000 ore quindi poco più di 150 giorni l’anno (Kula). Ancora nel '600, sempre in Francia, il maresciallo Vauban censì 140 giornate complete di non-lavoro (52 domeniche, 38 feste varie, 50 giorni di blocco per il gelo) più le vigilie, per un totale di 175 giorni. L'orario non era mai prefissato, coincidendo in genere con le ore di luce dall'alba al tramonto. Cent’anni dopo, Voltaire, filosofo latifondista, lamentava "la proliferazione di feste locali, pregiudizievoli a un’attività economica conveniente… sulle mie terre i contadini non lavorano che per otto mesi l’anno". Ad abolire le 90 festività avrebbe provveduto la borghesia rivoluzionaria, in nome d’un "pelosissimo anticlericalismo" (Lafargue). Il trionfo giacobino avrebbe anche recato, in sostituzione della settimana, la decade operosa: un solo riposo festivo ogni dieci giorni (Toti).

Come si vede, il progresso magnificato dall'interessata ideologia dell'ultima classe dominante non ha regalato all'uomo la libertà che più conta, quella dal lavoro coatto, svolto per di più lungo una giornata lavorativa che non si è affatto accorciata, dato che oggi nel mondo si lavora, nel complesso, più che nel Medioevo, anche senza tener conto del gran dispendio di tempo dovuto agli spostamenti per raggiungere il luogo di lavoro.

La prossima rivoluzione conoscerà di nuovo l'unità tra lavoro e vita ma non sarà un "ritorno" al passato, sarà un balzo verso l'eliminazione del lavoro come "pena", verso la trasformazione in tempo di vita di tutta l'esistenza attiva dell'uomo.

Oggi

La battaglia che il proletariato ha ingaggiato da un paio di secoli per accorciare la durata della giornata lavorativa fa parte del patrimonio storico di tutta l'umanità. Quella che oggi normalmente viene considerata una rivendicazione di tipo sindacale fra tante è, in realtà, una delle maggiori conquiste che la nostra specie dovrà realizzare. L'uomo futuro non si accontenterà di aumentare semplicemente il cosiddetto tempo libero, ma eliminerà dalla sua stessa vita quelle attività che la maggior parte della specie dedica da millenni a un'infima frazione di sé stessa e, nello specifico modo di produzione capitalistico, esclusivamente alla valorizzazione del capitale. Non solo, ma sarà eliminata anche quella, altrettanto disumana, che l'uomo dedica alla realizzazione di tale valore, cioè al consumo dissennato di merci di ogni tipo. Perciò l'eliminazione di tempo di lavoro, che oggi significa disoccupazione, sarà una conquista del proletariato, non solo per sé ma per tutta la specie umana.

Fino al 1962, anno in cui ebbe termine definitivamente il famigerato "patto del lavoro" tra Stato e sindacati per la ricostruzione postbellica, il tempo di lavoro in Italia era "parametrato" a 200 ore mensili (cioè un mese medio valeva 200 ore di lavoro nei calcoli per liquidazioni, permessi, ferie ecc.). La prassi comune prevedeva all'incirca una giornata lavorativa di nove ore al giorno con un sabato lavorativo di cinque ore per gli operai, mentre in molte fabbriche era previsto un trattamento migliore per gli impiegati (otto ore al giorno e cinque al sabato, sempre rapportate a 200 ore mensili, quindi, cadauna, pagate di più). In Francia, Germania e Inghilterra la situazione era, grosso modo, simile. C'erano una dozzina di festività (ma negli altri paesi tranne Spagna e Portogallo molte meno) ed era previsto quasi ovunque un minimo di due settimane di ferie che aumentavano con l'aumentare dell'anzianità. Nell'anno le ore di lavoro erano dunque circa 2.400, un numero altissimo.

Dopo l'ondata di scioperi contrattuali del 1969-70, il contratto pilota dei metalmeccanici rapportò il salario a 173 ore mensili per tutti, operai e impiegati, mentre furono cancellate alcune festività che divennero giorni di recupero a data variabile e fu regolamentato il ricorso agli straordinari.

Attualmente la durata della giornata lavorativa è dunque di otto ore medie per un totale di 1.900 circa all'anno. Si tratta di un dato del tutto teorico perché, nell'alternarsi storico degli alti e bassi rivendicativi del proletariato, oggi la durata del lavoro è quasi del tutto indipendente dalle regolamentazioni, che continuano ad esistere nei contratti collettivi, ma che diventano lettera morta di fronte a una serie di deroghe e di alternative al rapporto contrattuale stesso (contratti di formazione, assunzioni a tempo determinato, collaborazioni non continuative, lavoro interinale, ecc.).

Il prolungamento oggettivo della giornata lavorativa ha oggi effetti diversi che nel passato. Esso non avviene più in un mondo arretrato dove masse di uomini sono strappate alla terra e avviate alla fabbrica, dove basta aumentare il numero degli operai e farli lavorare per più tempo per aumentare il plusvalore; oggi le molte ore di lavoro si accompagnano all'introduzione di processi produttivi modernissimi e scientificamente organizzati, per cui una quantità enorme di plusvalore viene ottenuta con il doppio sfruttamento, assoluto e relativo (produrre più a lungo e con macchine e procedure che aumentano il rendimento del lavoro). Il risultato immediato è che il lavoro produttivo è sempre più concentrato su pochi individui, mentre il resto della popolazione si dedica ai lavori inutili dell'immenso sciupìo sociale, oppure rimane semplicemente disoccupata.

Una parte sempre più alta della popolazione mondiale risulta del tutto superflua. E l’aggettivo non ha nulla a che fare con le chiacchiere sul controllo demografico: in questa società la sovrappopolazione è "relativa", cioè è un sovrappiù di umanità solo relativamente alla possibilità del Capitale di utilizzare forza-lavoro. Il rapporto fra lavoratori produttivi e massa improduttiva si dà sempre in percentuale, mai in cifre assolute di uomini viventi sulla crosta terrestre. La questione dell'equilibrio fra numero di uomini e spazio esistente sulla Terra si pone da parte nostra secondo criteri completamente diversi rispetto a quelli degli ecologisti o dei seguaci delle religioni: non è un problema di numero assoluto e nemmeno di rapporto fra uomo da una parte e natura dall'altra, ma di visione globale che integri uomo e natura in un tutto inscindibile, come del resto è stato per milioni di anni, e come lo sarà ancora con l'utilizzo di maggiori conoscenze future. Ovviamente ogni crescita di tipo esponenziale, ecologisti o meno, è in contraddizione, nel tempo, con qualsiasi armonia uomo-natura.

Due ore e mezza al giorno

Nel suo libro La donna e il socialismo, Bebel ricorda i calcoli di un economista austriaco dell'ottocento, T. Hertzka, il quale nel suo libro Le leggi del progresso sociale, procede ad una "ricerca esattissima" su quale fosse l'energia lavorativa necessaria per mantenere la popolazione dell'Austria col tenore di vita dell'epoca. Il metodo utilizzato è quello del calcolo per grandi aggregati: si suppone una fertilità media per tutta la campagna coltivata e si ricava una produzione alimentare sufficiente applicando capitale e forza-lavoro alla terra; si suppone una produttività media per tutta l'industria e si ricava la produzione necessaria all'intera popolazione, sulla quale viene distribuito il lavoro escludendo le donne, i bambini e gli anziani. Il risultato, che è certamente realistico per i dati allora disponibili, è tuttavia sorprendente per chi è assuefatto alla propaganda capitalistica della vita dedicata al lavoro: ogni uomo valido avrebbe dovuto lavorare un'ora e mezza al giorno per 300 giorni all'anno.

Naturalmente Hertzka, che è solo un "economista nazionale", come dice Bebel, e non certo un comunista, "tiene conto anche dei bisogni voluttuari delle persone più colte", perciò aggiunge la produzione di generi di lusso con i relativi addetti, portando il risultato complessivo a due ore e mezza al giorno, per 750 ore all'anno. Se confrontiamo con le 2.400 contrattuali del nostro dopoguerra o con le 1.900 attuali, abbiamo la misura reale di quanto sia sempre più aberrante la divinizzazione del lavoro in questa società, per il resto così poco propensa al divino e dedita piuttosto al triviale.

Oggi il calcolo di Hertzka terrebbe conto di altri parametri, data la generale migliore organizzazione del lavoro, la socializzazione spinta della produzione e l'integrazione fra le sfere produttive dovuta alla rete di comunicazioni, allora quasi ininfluente. Soprattutto terrebbe conto del fatto che questa è l'epoca di grandi interventi dello Stato in campo sociale, per cui è già effettiva una certa distribuzione del lavoro, anche se ovviamente fondata su criteri di salvaguardia della produzione di plusvalore e di ammortizzazione sociale.

Criteri di distribuzione sociale del lavoro fanno parte anche del bagaglio di alcune frange sindacali, le quali, rivendicando la diminuzione del tempo di lavoro, chiedono unicamente che venga distribuito l'orario su un numero maggiore di operai, con il conseguente abbassamento del numero di ore per ciascun operaio ("lavorare meno, lavorare tutti"). Si tratta di una corrente che prese forma negli anni '70, ma non riuscì a radicalizzarsi e a formalizzarsi in quanto, non facendo della sua propria battaglia un punto di principio, si perse in fumose dimostrazioni di compatibilità di una tale richiesta con il sistema capitalistico. Non solo, quindi, si era ben lontani dal coraggio di un Hertzka nell'affrontare alle radici il problema, ma tutta la discussione risentiva delle sue origini presso gli ambienti del sindacalismo cattolico, per cui il problema della distribuzione del lavoro diventava una questione solidaristica di stampo morale.

Nella rivendicazione classica la diminuzione di orario è indipendente da ogni considerazione di distribuzione del lavoro e quindi dalla sostenibilità rispetto al sistema; inoltre il concetto di solidarietà non ha nulla a che fare con categorie morali in quanto alla riduzione della giornata lavorativa è sempre affiancata un'altra rivendicazione assolutamente complementare, quella del salario ai disoccupati: le due rivendicazioni non possono essere separate. Aspettarsi una riduzione dell'orario di lavoro dalla dimostrazione che in tal modo si diminuisce la disoccupazione è poco realistico, come abbiamo visto, ma è anche più assurdo rivendicare la difesa dei posti di lavoro che il capitalismo irreversibilmente cancella. Anche a prescindere dal significato classista della rivendicazione "tradizionale", dal punto di vista strettamente riformistico borghese sarebbe più razionale pagare direttamente i disoccupati che tenere in piedi una pletora di attività non più produttive e ingigantire nei bilanci ogni sorta di trasferimenti di valore (negli anni '60 anche l'apertura della nuova fabbrica di automobili Alfasud fu considerata dalla Sinistra Comunista un mero trasferimento di valore e non un investimento produttivo).

La giornata lavorativa in Occidente è stabilizzata da anni intorno alle 40 ore contrattuali e sembra che la barriera sia invalicabile. Ovunque l'orario di lavoro sia al di sotto di tale limite per condizioni contrattuali migliori o per la nocività e durezza delle mansioni, è perché sono state introdotte scappatoie che consentono una grande "flessibilità" nello sfruttamento. Negli Stati Uniti l'orario nei servizi (che coprono il 75% del PIL) è in genere dalle 9 alle 17 con un intervallo variabile da mezz'ora a un'ora, ma non c'è praticamente nessuno che si limiti a quelle sette-sette ore e mezza, tutti fanno straordinari, pagati poco più del normale.

Regolamentazioni capitalistiche dell'orario

In Francia, dal gennaio di quest'anno è in vigore la legge sulle 35 ore (lo sarà dal gennaio 2002 per le aziende con meno di 20 dipendenti), ma le possibilità di applicare comunque un orario più lungo sono tali che in pratica la legge funziona più che altro come regolamentazione delle ore straordinarie, peraltro pagate solo il 10% in più di quelle ordinarie. La legge è del tutto generica, non specifica altro che il campo di applicazione e gli sgravi fiscali per le aziende, lasciando alla contrattazione fra industria e sindacati ogni normativa specifica. Non stupisce quindi che, ancor prima dell'approvazione definitiva, vi fossero molte aziende che applicavano in anticipo i criteri della legge a venire, con 2.418.300 lavoratori già soggetti all'orario di 35 ore, cioè circa il 30% di tutti coloro che lavoravano in aziende con più di 20 dipendenti. Stupisce ancor meno che il primo effetto pratico della legge sia stato quello di rendere ancor più flessibile lo sfruttamento della forza-lavoro attraverso le deroghe ai contratti precedenti.

In Germania vi sono state molte riduzioni di orario locali, la più nota delle quali è quella della Volkswagen, dove l'orario è stato abbassato a 28 ore settimanali, con una riduzione salariale limitata, cioè non proporzionale al taglio di ore; molte fabbriche hanno adottato le 32 ore settimanali.

Le cifre dimostrano che un conto è varare un piano sociale per la diminuzione generalizzata d'orario, un altro è organizzare quest'ultima all'interno di una fabbrica. Mentre il ministro del lavoro francese afferma che la legge sulle 35 ore ha prodotto per ora 200.000 nuovi posti di lavoro, la Volkswagen dichiara di averne salvati circa 30.000. Come si vede c'è una sproporzione notevole: 200.000 su circa 26 milioni di occupati francesi (+0,76%) e 30.000 su 250.000 occupati della fabbrica automobilistica (+12%); questo significa che il meccanismo della riduzione di orario può essere controllato meglio, rispetto al risultato, entro il perimetro di un'unità organizzata come l'industria, che è in grado di pianificare scientificamente le conseguenze, piuttosto che nella società capitalistica intera, per definizione anarchica e imprevedibile. Ma significa soprattutto che l'industria è in grado di riassorbire quando vuole ogni riduzione di orario ottenuta in cambio della mano libera sul piano della "flessibilità".

Del resto regolamentazioni e leggi che non sono volute dai lavoratori ma imposte dalle esigenze del capitalismo non potevano essere nulla di diverso, e di per sé gli episodi non ha per i comunisti nessuna rilevanza sindacale anche se è interessante osservare come sia necessario escogitarne di tutti i colori per aumentare lo sfruttamento: persino una legge che a parole lo abbassa. Il problema della giornata lavorativa per i comunisti non è mai di tipo puramente sindacale, perciò non consiste in una media di ore lavorative stabilite da un contratto (che in ogni caso – l’abbiamo visto – dimostra come oggi si lavori individualmente più che nella preistoria o nel medioevo), ma piuttosto nel sottrarre i proletari al Capitale, sia dal punto di vista della loro esistenza fisica dentro la fabbrica, sia dal punto di vista dell'ideologia del consumo fuori di essa. "Come 'l’onesto frutto del lavoro' – avvertivano Marx ed Engels – così anche 'l’ozio pieno di godimenti' è volgare concezione borghese" (L’ideologia tedesca).

Quanto potrebbe sopportare l'attuale sistema in termini di riduzione assoluta (vale a dire di ore effettivamente eliminate) dell'orario? E' possibile fare un calcolo rispetto alla situazione così com'è per misurare in termini reali quale potrebbe essere la forza sociale liberata dalla rivoluzione? Si tratta, in prima approssimazione, di mettere le basi per un calcolo del tipo ricordato da Bebel con l'esempio del professor Hertzka, aggiornato con i dati della forza produttiva sociale odierna, quindi un calcolo non "nostro". Come vedremo, le strutture rivoluzionarie non faranno lo stesso calcolo dell'economista borghese, neppure per rilevare soltanto quanto risparmio di energia lavorativa si potrebbe attuare nel periodo immediatamente successivo alla manifestazione politica repentina della rivoluzione, la conquista del potere.

Produttività crescente

Un qualsiasi paese moderno ha un potenziale di lavoro di circa il 65% della popolazione, calcolando l'età lavorativa dai 16 ai 65 anni, la formazione professionale e scientifica oltre l'età minima, la necessità della riproduzione biologica (maternità) ecc. In Italia vi sono circa 39 milioni di persone in età di lavoro e 23 milioni di occupati. Fra questi ultimi 6 milioni sono "indipendenti", cioè industriali, professionisti, artigiani, negozianti ecc. e 7 milioni sono "improduttivi", adottando la definizione di Marx, cioè sono addetti ad attività che non producono plusvalore, come i dipendenti delle amministrazioni pubbliche, gli insegnanti, i militari, preti, ecc. Questo particolare paese ha un aspetto sociale un po' trasandato, ma i dati dimostrano che ha una struttura industriale dalla produttività altissima rispetto ad altri paesi comparabili. Gli "indipendenti" italiani sono il triplo di quelli tedeschi e danesi, il doppio di quelli francesi, inglesi, svedesi e olandesi; i non produttivi sono pletorici anche rispetto agli altri paesi moderni, tranne gli Stati Uniti, che vivono abbondantemente su plusvalore altrui dimostrando anche per questa via la loro funzione imperialistica globale. In Italia, il fatto che la massa degli "improduttivi" sia grande (13 milioni di persone), significa che chi produce il plusvalore, il proletariato, è molto sfruttato o, detto in altri termini, ha una produttività molto alta rispetto agli altri paesi.

In termini puramente numerici, tutto il prodotto italiano è il risultato del lavoro di 10 milioni di persone su 59. La Germania, che ha quasi il 50% di occupati sul totale della popolazione (38,5 milioni in tutto su 81), pochi indipendenti, molti addetti all'industria, un'amministrazione efficiente e un PIL per abitante paragonabile a quello italiano (in Unità Standard di Potere d'Acquisto), ha evidentemente una più bassa produttività media del lavoratore singolo. Vale a dire che gli addetti alla produzione propriamente detta per unità di prodotto sono più numerosi. Gli Stati Uniti sono in una situazione analoga a quella tedesca. Ci serviamo quindi dei dati di un paese che non gode di una gran fama nel campo industriale e tecnologico, ma che è ben maturo per il salto nella società futura.

Per l’economia italiana, modelli econometrici e modelli dinamici al computer hanno mostrato che una riduzione generalizzata dell'orario a 35 ore settimanali (cioè il passaggio da 1.900 a 1.600 ore annuali) comporterebbe un aumento di circa 860.000 "unità di lavoro standard aggiuntive", un aumento dell'inflazione (che salirebbe dal 2-3% annuo al 4,5%) e una modesta perdita di competitività nei confronti dei paesi che non diminuiscono l'orario, perdita riassorbibile con piccoli interventi di riorganizzazione sulle infrastrutture per aumentare la produttività globale (alla tedesca). I modelli in questione, però, sono estremamente sensibili ai dati in ingresso, quindi (scienza dell'economia politica!) forniscono gli esiti più disparati a seconda di come si specificano i criteri della domanda di lavoro. Detto in altre parole: se è vero che una politica statale riesce a recuperare competitività verso l'estero modernizzando le infrastrutture, è anche vero che una politica industriale riesce a recuperare produttività modernizzando la propria organizzazione interna, ergo riesce a non assumere nuovi lavoratori. Il risultato, com'è ovvio, dipende da che cosa si immette nel computer e questo riguarda la politica e l'ideologia più che l'aritmetica.

Con i dati che la statistica borghese ci mette a disposizione si possono fare solo schemi molto generali, ma già con quelli che abbiamo citato possiamo osservare un fenomeno interessante. Sappiamo che i 23 milioni di occupati – al modello non importa se sono produttivi o improduttivi – lavorano ognuno 40 ore settimanali; sappiamo altresì che nei modelli econometrici diventano 23.860.000 se li facciamo lavorare per sole 35 ore. Vale a dire che diminuendo di un ottavo (12,5%) la giornata lavorativa aumenterebbero gli occupati di un ventisettesimo (3,6%). Quindi un governo che volesse recuperare sul serio la disoccupazione con quel metodo non andrebbe lontano, dato che più diminuisce la giornata lavorativa, meno aumentano gli occupati. Non sappiamo se il modello citato (cfr. G. Lunghini in bibliografia) abbia tenuto conto della produttività o di altro, ma è certo che registra ciò che succede nella realtà: invertendo artificialmente la tendenza storica alla diminuzione del numero di occupati, la produttività non rimane quella di prima bensì cresce, perciò la diminuzione di orario non provoca un aumento proporzionale degli occupati. Ciò è provato dall'andamento storico delle curve della produzione e del lavoro che, disegnate con i dati reali, divergono nel tempo assumendo l'aspetto della classica forbice, come notammo a suo tempo con il lavoro sull'accumulazione.

Se prendessimo per buoni i dati degli studiosi borghesi e presupponessimo una dinamica lineare (cosa impossibile nella realtà), avremmo che con un altro ottavo in meno (30,63 ore) si arriverebbe ad ottenere un altro ventisettesimo in più di occupati, che salirebbero a 23.828.000, e così via, fino ad occupare tutti i 39 milioni di italiani fra i 16 e i 65 anni non impegnati nell'esercito, in studi vari, o in maternità, constatando alla fine che per l'intera produzione nazionale basterebbero 5 ore settimanali e mezza a testa : poco più di un'ora al giorno dal lunedì al venerdì.

Unità di misura: il pane quotidiano

Dicevamo che non ci fisseremo sui risultati ottenuti con un calcolo così banale, come non lo farà di certo la rivoluzione vittoriosa. Non solo perché la realtà è complessa e non risponde a schemi come quelli che disegnano gli economisti, lineari o normalizzati che siano (detto per inciso nessun loro modello è mai riuscito ad azzeccare una previsione con criteri scientifici, come ammise il premio Nobel Leontief), ma soprattutto perché il nostro criterio non si basa sulla dinamica dello scambio di merci e della vendita di forza-lavoro.

Prima di andare oltre, però, occorre fissare un traguardo raggiunto: il valore prodotto capitalisticamente corrisponde a tempo di lavoro medio che la società impiega per portare sul mercato la massa complessiva di beni e servizi consumati dall'intera popolazione. I dati offerti da questa società ci servono dunque di base per comprendere, con ulteriori passaggi, quanto l'umanità sia fessa a rimanere in questo sistema. Come si dice in un testo del 1953 a proposito dell'operaio americano: "E' ben vero che non de solo pane vivit homo, ma se quest'uomo si ammannisce in sei minuti il pane della giornata, quando lavora più di due ore non è uomo, ma fesso".

Quanto si lavora oggi in Italia? Secondo i dati del 1999 ogni italiano – operaio, neonato, vegliardo o parassita che sia – produce ex novo ogni anno 21.400 dollari (sempre espressi in p.p.p.), 49.220.000 lire al cambio attuale. Ma abbiamo visto che "producono" valore ricavandone "reddito" solo 23 milioni di occupati, quindi occorre fare la proporzione; moltiplichiamo la media pro-capite per il numero degli abitanti e dividiamo per il numero degli occupati e il conto è presto fatto: 54.000 dollari pro-capite, 124.200.000 lire, una trentina di tonnellate di pane al prezzo italico medio dell'anno 2000 (4000 lire al Kg). Perciò, se partiamo dal presupposto, come fanno i borghesi, che tutti gli occupati contribuiscono al prodotto totale, ognuno fra gli italiani che "lavorano" in qualche modo, svolgendo il proprio compito nella divisione sociale del lavoro, produce 263 grammi di pane in un minuto, giusto quel che mangia un adulto in due pasti (eh, non è più come una volta, quando il pane era tutto). Italia 2000 batte USA 1953 per 6 a 1; la forza produttiva sociale è enormemente aumentata e l'umanità è ancora schiava del lavoro come prima, se non di più.

Abbiamo detto che i produttivi sono meno della metà rispetto al numero totale degli occupati, quindi la nostra unità di misura "pane" come equivalente generale dovrebbe indicarci che in realtà l'homo (poco) sapiens della società capitalistica è giunto a produrre fisicamente la sua razione in mezzo minuto e, se teniamo conto che anche nell'industria sono presenti attività parassite per almeno il 50% degli effettivi (l'industria americana è fatta per il 75% di servizi interni), ecco che si arriva tranquillamente al di sotto del quarto di minuto. In questo conteggio, che è grossolano ma abbastanza realistico, facciamo rientrare le mezze classi, le quali col loro lavoro riproducono semplicemente sé stesse e derivano il sovrappiù che risparmiano e investono da una ripartizione sociale del plusvalore proveniente dal proletariato.

Se vogliamo fare la prova del nove, giusta la legge del valore da cui non si scappa e a cui devono inchinarsi persino i borghesi che a parole la negano, osserviamo che il nostro pane/minuto equivale grosso modo a 1.000 lire e che il costo orario-tipo delle attività industriali è calcolato sulla base media di 60.000 lire all'ora, cioè la stessa cifra (1.000 x 60 minuti). Sarà un caso, ma in qualunque modo sia calcolato dai borghesi il costo orario base, esso corrisponde esattamente al risultato che Marx mette a fondamento del suo sistema: la somma di tutte le merci prodotte in un ciclo è rapportabile ad un'unica merce globale, così come la somma dei prezzi di tutte le merci singole è rapportabile al valore globale prodotto nello stesso ciclo.

Domani

Lasciamo al lettore il calcolo del saggio di plusvalore che risulta dal confronto tra la sua paga oraria lorda e le 60.000 lire medie risultanti dalla nostra breve escursione tra le cifre prodotte dalla statistica ufficiale e ci addentriamo nella società che esce dalla rivoluzione vittoriosa e vara il suo programma immediato.

La traccia che stiamo seguendo prevede la riduzione della giornata lavorativa "almeno alla metà delle ore attuali", l'"assorbimento della disoccupazione" e l'"eliminazione delle attività antisociali". Essendo il compendio di una riunione mai riportata per esteso, è una traccia molto sintetica e quindi non entra nei dettagli. Proveremo a farlo qui, tenendo conto di quasi mezzo secolo di ulteriore sviluppo della forza produttiva sociale.

Ogni rivoluzione politica non è che la soluzione discontinua, catastrofica, di un accumulo continuo di condizioni precedenti. E questo accumulo nel tempo, più la sua soluzione politica, più il processo successivo di trasformazione, possiamo chiamarlo complessivamente con lo stesso termine rivoluzione, senza aggettivo, oppure col termine che utilizza Marx per definire questo divenire: comunismo. La rivoluzione politica è quindi un accadimento repentino che nega la società precedente e fa scattare l'umanità in un'epoca nuova. Nello stesso tempo, le condizioni precedenti non scompaiono d'un tratto, ma richiedono l'intervento di un progetto (rovesciamento della prassi, possibilità di applicare finalmente la volontà nelle questioni sociali) per riplasmare tutti gli aspetti della vita sociale. Se ci si limitasse a concepire i compiti della rivoluzione politica come mera applicazione di un modello precostituito, proposto da uomini geniali o da partiti potenti al resto dell'umanità, non ci si scosterebbe in nulla dalle varie utopie sorte in tutte le epoche della storia umana.

Invece la differenza c'è ed è grande: la rivoluzione politica spacca l'involucro in cui è imprigionata la nuova società e le permette di manifestarsi in tutta la sua potenza. Michelangelo diceva di dar vita ai corpi scolpiti liberandoli dalla materia in cui erano imprigionati, ed era una metafora platonica, di qualità ben superiore ai modelli creati dagli utopisti: la nostra metafora è piuttosto quella di una forma nuova che nasce per negazione di quella vecchia, come una farfalla scaturisce dalla carcassa di un bruco, in un lavorìo della natura in cui il partito rappresenta il programma genetico della nuova forma sociale.

Il bruco capitalista cammina ancora, ma è un cadavere ambulante, nient'altro che un involucro che ha svolto la sua funzione e deve lasciare sviluppare la potenza del suo contenuto (Lenin). Per questo ciò che caratterizza il proletariato come classe rivoluzionaria (attraverso il partito che ne rappresenta l'organo politico nel divenire del comunismo), è la comprensione che l'utopia non è necessaria, che le forze del divenire sociale scaturiscono materialmente da ciò che esiste e che deve morire, che l'atto politico rappresenta "semplicemente" la rottura di un momento particolare, possibile solo perché esiste tutta la storia precedente. Il movimento comunista nasce dal fatto che esiste questa storia e, con esperienze alterne, si muove nella direzione della società futura, la rappresenta in quella presente, la anticipa nelle fasi di potente ascesa dello scontro di classe. Come abbiamo detto tante volte, la rivoluzione politica non crea dal nulla una nuova situazione ma abbatte le barriere che impediscono alla nuova società di manifestarsi, di liberarsi dalle catene di quella vecchia.

Perciò, domani, la riduzione della giornata lavorativa, come tante altre realizzazioni immediate, non sarà tanto il risultato di un decreto emanato da un governo, quanto quello della liberazione di una potenzialità già data dallo sviluppo della forza produttiva sociale nella fase capitalistica precedente. Solo una concezione rozza e pre-comunista può far ipotizzare una dittatura del proletariato che ottiene risultati rivoluzionari per mezzo dei decreti emanati dai commissari del popolo. Non è importante la forma, i decreti ci saranno, ma essi saranno dettati dall'effettiva esplosione di possibilità prima frenate, e uno Stachanov non sarà neppure immaginabile.

La società capitalistica ha già eliminato in abbondanza tempo di lavoro. Macchine, organizzazione scientifica, applicazione di nuove teorie alla dinamica del sistema produttivo, integrazione dei mercati e quindi delle produzioni e persino del proletariato mondiale, passaggio dall'industria pesante alle nuove produzioni sempre più "leggere" e addirittura smaterializzate: tutto ciò ha oggettivamente liberato l'uomo dalla necessità di lavorare per molte ore.

Non ha nessuna importanza, dal punto di vista della società nuova, che oggi il capitalismo inventi sempre nuove occupazioni, per le quali la teoria economica trova le giustificazioni che le sono più opportune; l'importante è che esse non avranno ragione d'essere in una società che non ha bisogno di inventare "teorie dell'occupazione" per contrastare la "disoccupazione". In una società che impegna tutti i suoi componenti nella produzione, nella distribuzione in armonia con l'ambiente in cui esse avvengono senza avere la nozione di "costo" e neppure di "valore", il tempo di lavoro corrisponderà al tempo di vita. Così fu per milioni di anni, e questa volta lo sarà in modo cosciente, attraverso tutte le conquiste nel frattempo intervenute.

Irreversibilità dei processi sociali

Oggi la tecnologia produce l'assillo dell'occupazione e questo produce a sua volta teorie per la "creazione" di posti di lavoro. Domani l'obiettivo sarà di eliminarne il più possibile, facendo esplodere le potenzialità dell'automazione, e in genere delle nuove tecnologie, e distribuendo tra gli uomini attività finalmente umane. Di fronte alla "fine del lavoro", alcuni rari borghesi d'oggi vedono nel futuro crisi nera; altri, la maggioranza, invece vedono un cambiamento qualitativo della produzione e del mercato in grado di produrre da sé le nuove occupazioni e i nuovi posti di lavoro; fiduciosi nella "mano nascosta" regolatrice, toccasana per tutte le difficoltà, annunciano un mondo che mai ha lavorato e consumato tanto. E' naturale, questo è il problema e insieme la speranza dei borghesi. E' fin troppo ovvio osservare che in passato ci sono state crisi violente, così com'è ovvio osservare che, introdotta la macchina e licenziato l'operaio manuale, si presentava sulla scena l'operaio costruttore di macchine per mezzo di altre macchine, poi l'operaio sorvegliante di macchine automatiche in grado di autocostruirsi, poi l'operaio addetto ai mille mestieri artificiosi quanto stupidi che esistono esclusivamente per produrre e vendere merci. Su questo circolo apparentemente infinito di crisi-ripresa, reale, visibile, parte della nostra storia e ancora verosimile, si sono fondate le fortune degli economisti che guardano al passato per spiegare il presente e anche il futuro. Anche gli studi più seri non sono che osservazioni sull'andamento dei dati nel tempo e la loro proiezione nel futuro. Molti modelli si basano sull'osservazione empirica da cui si traggono descrizioni grafiche, poi si trova l'algoritmo che produca una curva corrispondente.

Pareto lo faceva con carta e matita, oggi lo si fa con i computer in simulazioni anche molto sofisticate, ma nella dinamica dei fatti sociali ciò è una fesseria gigantesca. L'economista moderno riveste le sue personali opinioni di apparati formalistici che chiama pomposamente teorie, ma anche se dovesse escogitare un modello perfetto sarà sempre un modello di capitalismo, mentre lo sviluppo della forza produttiva sociale procede verso la demolizione di questa forma sociale; non ha ritorni, solo maturazione e balzi secondo un andamento a cuspide, come ricordato dalla Sinistra Comunista. Il divenire non è ciclico e, se pure tutto il passato è contenuto nella forma sociale presente, tuttavia esso non ritorna; se insegna qualcosa è proprio nella suddetta dinamica, non nei singoli episodi che ogni buon statistico può mettere insieme e ogni buon matematico può formalizzare. Nelle biforcazioni del percorso, dove scatta la rivoluzione, il passato diventa definitivamente e irreversibilmente storia. Se esso rappresenta – deterministicamente – la necessaria premessa per il punto di svolta, non per questo può essere meccanicamente utilizzato come una serie numerica qualsiasi su cui costruire un andamento, un trend economico.

Non ci saranno infiniti passaggi nelle forme di occupazione, cioè di utilizzo della forza-lavoro, come predicano i propagandisti dell'eternità del Capitale, primo fra tutti la rivista The Economist, la bibbia del capitalista, già seguita con attenzione da Marx al suo apparire. Il capitalismo cancella tempo di lavoro effettivo, anche se, mettendosi nell'osservatorio del capitalismo sviluppato occidentale e giapponese, può sembrare che tutto si risolva in politiche di trasformazione della professionalità. Bisognerebbe andarlo a spiegare alla massa di diseredati che nel mondo vive ai margini di ogni società non semplicemente come massa di disoccupati ma come massa di uomini inutili ad ogni attività sociale. Massa di due miliardi di uomini che, di fronte ad una disoccupazione "fisiologica" oscillante intorno all'8% nei paesi dell'OCSE, aumenta in continuazione; essa non mancherà di far sentire sul serio il suo peso e non certo per una questione puramente malthusiana.

Quella massa è sottratta per sempre al ciclo naturale del rapporto fra popolazione e risorse disponibili, quindi non conoscerà processi di "autoregolamentazione" (cioè di sterminio per fame e malattia), perché il valore prodotto globalmente è tale che qualsiasi briciola di esso può mantenere, se pure in mera sopravvivenza, milioni di persone. Ecco perché è importante che nel punto del programma immediato compaia anche la necessità di eliminare le attività antisociali: nel mondo d'oggi una grande percentuale delle attività in cui si applica ancora forza-lavoro non fa più parte della produzione effettiva ma di tutto un apparato di contorno che ormai nei paesi industrializzati è cinque volte più grande (dato complessivo OCSE). La merce sta perdendo non soltanto la sua materialità, ma anche la sua natura di elemento discreto, numerabile: possiamo ancora comprare i bit di un software come "oggetto" che ci portiamo a casa, ma sempre di più la nostra vita è legata al pagamento di una tangente per qualche servizio "continuo", quindi innumerabile, canoni, affitti, leasing, mutui, come se pagassimo per vivere. A questo punto qualsiasi "cosa" può diventare merce, un processo, una situazione, un'informazione, un godimento estetico. Ecco il perché della frenesia odierna nel cercare di produrre qualsiasi cosa che sia vendibile come merce. Non importa che tipo di merce, purché possegga un valore d'uso, per quanto assurdo e anti-umano, e quindi un valore di scambio, affinché non cessi mai il flusso di plusvalore che sostiene la società intera.

Massa umana emarginata e non sfruttata

Quanto appena detto dimostra – per noi che non siamo moralisti e che non pensiamo che moltiplicando i centri missionari si possa risolvere il problema della fame nel mondo – che miliardi di persone campano facendo una vita miserabile, ma esistono e sopravvivono, e aumentano di numero sulla semplice base della distribuzione mondiale di briciole di valore. Non è vero che queste masse sono sfruttate dall'imperialismo. Il termine è scorretto. Esse sono certamente utilizzate ai margini dei veri flussi di valore; si formano con la espropriazione dei contadini che ormai non hanno alcuna possibilità di rimanere sul mercato in concorrenza con gli Stati cerealicoli e con le multinazionali del cibo; vanno a formare "città" che sono incredibili agglomerati sub-umani al cui confronto la letteratura sociale ottocentesca è roba da ridere; si dedicano a piccoli traffici e ad attività di artigianato miserabile; ma non sono passibili di sfruttamento, è finita l'epoca della trasformazione del contadino in proletario come transizione storica, come fatto favorevole all'accumulazione. Le masse diseredate del mondo non servono come esercito di riserva per lo sfruttamento industriale, dato che bastano e avanzano i proletari delle metropoli e delle poche isole di sviluppo sparse per il mondo, dall'America latina all'Asia meridionale. Il problema storico dell'immigrazione ha una doppia causa: da una parte la miseria crescente in tutti i paesi che mai saranno in grado di raggiungere l'opulenza (media) delle metropoli, dall'altra la possibilità di sfruttamento nelle centrali stesse del capitalismo, dove c'è Capitale concentrato. E' lì che i diseredati vanno a farsi sfruttare, se riescono, o, più spesso, a percepire una parte del valore prodotto nella società, magari aprendo un ristorantino dove la famiglia proletaria metropolitana va a mangiare a basso prezzo.

Non ci sono miliardi di salariati produttivi, ce ne sono soltanto trecento milioni, un ventesimo della popolazione terrestre. La vita della restante massa, a meno che non produca per l'auto-alimentazione, dipende dalla possibilità che continui l'altissimo sfruttamento della forza-lavoro propriamente detta. La parte più povera della massa suddetta si è indebitata per 2.000 miliardi di dollari (4.600.000 miliardi di lire), nel senso che ha ricevuto prestiti che non potrà mai restituire e ne riceve ancora per poter tenere vivo un minimo di accumulazione locale e pagare gli interessi, in genere non tanto con plusvalore quanto con risorse locali, minerarie o agricole. Ciò significa che la maggior parte della popolazione terrestre non è tanto sfruttata quanto, soprattutto, mantenuta da chi è sfruttato, come sono mantenuti tutti i Sud del mondo, tutti i profughi del mondo, tutto il contadiname del mondo: ecco il guaio del capitalismo e insieme la dimostrazione che il tempo di lavoro può essere drasticamente diminuito. Questa massa non sarà la massa proletaria in un roseo domani del capitalismo, per la semplice ragione che il tempo di lavoro di cui ebbe un gran bisogno il Capitale per il suo sviluppo è ormai cancellato per sempre.

Stiamo parlando di miliardi di uomini, non delle poche migliaia che lavorano nelle citate isole di sviluppo fuori delle metropoli imperialistiche, piccole o grandi che siano; stiamo parlando di un serbatoio umano che può solo assorbire merci a basso costo, tentando di pagarle con i flussi di capitale che si riversano sulla rendita (per quei paesi che posseggono materie prime, come per esempio la Russia) o che giungono attraverso i prestiti internazionali (per quei paesi che hanno un proletariato locale, sia pur esiguo, che permette uno sfruttamento sufficiente a gestire il debito, come tutta l'America Latina).

Eliminazione cosciente di tempo di lavoro

Questa è la situazione che oggi impedisce di abbassare la giornata lavorativa al di sotto della soglia apparentemente invalicabile delle 40 ore: l'operaio deve produrre plusvalore relativo (attraverso la produttività), ma anche, nello stesso tempo, plusvalore assoluto (attraverso il prolungamento della giornata lavorativa). Domani, sarà proprio questa eccezionale produttività per operaio a permettere di rompere il circolo vizioso dell'accumulazione per l'accumulazione nei pochi centri in cui essa è avvenuta storicamente, e di abbassare drasticamente il tempo di lavoro.

Il sistema capitalistico globale ha già eliminato globalmente più tempo di lavoro di quanto ne potrà ancora liberare nell'immediato la società futura. All'avvento di essa non ci sarà altro da fare che distribuire quel che è già stato raggiunto. Si verificherà addirittura un paradosso: facendo entrare nel ciclo produttivo miliardi di uomini su cui saranno ovviamente distribuite le ore di lavoro, le misure immediate faranno diminuire le ore per il singolo ma faranno aumentare il numero globale di ore lavorate rispetto a oggi.

Una prospettiva del genere, come si intuisce, è completamente diversa dalle misure inerenti a una parola d'ordine come "lavorare meno, lavorare tutti". Quella formula racchiude una concezione meccanica di causa-effetto, per cui basterebbe abbassare per decreto la durata della giornata lavorativa per avere la speranza di un effetto di ritorno dal punto di vista dell'occupazione. Come abbiamo visto, alla prova dei fatti questo ritorno si è dimostrato assai scarso e, secondo tutti i modelli possibili, del tutto temporaneo: la speranza non è una categoria scientifica. Al contrario, nel caso della società liberata dal capitalismo, si tratta di spezzare i limiti d'azienda, di razionalizzare il sistema d'industria e di eliminare la concentrazione del Capitale nei luoghi storici dove si era accumulato originariamente e continua ad accumularsi su sé stesso.

Rovesciamo dunque l’apparentemente ragionevole slogan "lavorare meno, lavorare tutti", che non mette minimamente in discussione l'aumento del profitto e quindi il vantaggio per il Capitale, con l’effetto, addirittura, di far lavorare di più, e adottiamo con sicurezza il dato di fatto già operante: "eliminazione di tempo di lavoro in un piano generale di specie".

La parola piano evoca i sottocapitalistici piani quinquennali del Gosplan russo, già criticati dalla storia oltre che dalla teoria marxista, ma non staremo ad inventarne un'altra. Ogni attività produttiva attuale è svolta secondo un piano. Una società che, a differenza del capitalismo e superandolo, controlli le sue proprie risorse, certamente agisce secondo un progetto e un fine. L'eliminazione drastica di tempo di lavoro dunque sarà. In un primo tempo riguarderà l'orario degli individui, poi il cumulo complessivo di ore lavorate. Quando la società futura avrà eliminato le ultime sopravvivenze di capitalismo – cosa che succederà prima che la si possa definire pienamente comunistica – si estinguerà il lavoro come lo si intende oggi e prenderà il sopravvento la vera attività umana così ben descritta da Marx.

Vi sono almeno tre modi per eliminare tempo di lavoro: 1) eliminare le attività anti-sociali o, come dice Marx, anti-umane; 2) eliminare lo spreco, il basso rendimento, cioè progettare, quindi rendere razionale, il complesso delle attività utili; 3) distribuire il lavoro sulla popolazione mondiale, cioè dare un'attività a chi oggi è senza e quindi alleviare il lavoro a tutti, cosa assai diversa rispetto all'abbassare l'orario di lavoro nella speranza che aumenti il numero di venditori di forza-lavoro sul mercato affinché producano e consumino.

Occorre osservare che la critica mossa al comunismo da chi è ancora legato – tanto o poco non importa – alla società attuale: "voi volete una società organizzata come una caserma", che troviamo persino in Rosa Luxemburg (vedi), è una critica che si basa sui triti luoghi comuni della propaganda avversaria. La borghesia, che tanto fa la schizzinosa sulla "massificazione" comunista, è la società che più ha massificato gli uomini, oltretutto facendo loro credere di averne salvaguardato la sacra individualità con il coltivare nelle loro teste tutti gli egoismi possibili, da quelli primordiali a quelli più modernamente sofisticati.

A parte questo, proprio essa ha attinto a piene mani dalle "questioni da caserma" facendo delle fabbriche il regno del "dispotismo industriale", dove l'uomo vale per quello che stabilisce il mercato e lo si butta appena non serve, dove si vive al ritmo dei cronometri, dove si mangia nelle esecrate mense o, peggio, nei fast food, e dove si è ovunque un mero numero di matricola o un codice per il marketing. Ha attinto a piene mani anche dalle cose più specificamente militari, ricavandone gran parte dei criteri organizzativi moderni che sono un risultato sociale rivoluzionario: senza gli eserciti e la necessità di controllo nella mobilitazione di forze immense nella Seconda Guerra Mondiale, non sarebbe stato possibile il concetto di "qualità totale", né quella mentalità sistemica oggi indispensabile per chiunque voglia gestire un'impresa. E neppure sarebbe pensabile la scienza moderna dell'organizzazione del tessuto produttivo sociale tra le industrie, che ha permesso, per esempio, la super-idolatrata cosiddetta conquista spaziale.

Eliminare le attività anti-umane.

Sotto la voce "attività anti-umane", così generale, si potrebbe censire tutto ciò che è capitalistico, ma occorre sottolineare particolarmente quella immensa fonte di spreco di tempo di vita, funzionale esclusivamente alla produzione capitalistica e quindi alla perpetuazione di un eccessivo tempo di lavoro, che è la "sminuzzatura dell'umanità nelle cellule famigliari molecolari" (Bordiga). Questa sopravvivenza preistorica è uno dei pochi aspetti dei passati modi di produzione, insieme con la religione e le filosofie idealistiche, ad essere salvaguardato dal capitalismo, per la semplice ragione che è assai utile ai fini della sua specifica produzione di merci. Marx ed Engels sottolinearono l'enorme quantità di servitori, più numerosi dei proletari, dediti alle mansioni improduttive nella loro epoca, per far notare quanto tempo di lavoro costasse al proletariato la produzione di plusvalore sufficiente per tutti. Oggi non esiste più l'antico lavoro domestico pesante, ma, se il numero di servitori si è enormemente ridotto anche presso le classi "abbienti", l'incombenza domestica, democratizzandosi, si è invece ampliata in mille piccoli impegni a causa della vita frenetica imposta dal consumo di massa, che ormai riguarda sempre meno oggetti da acquistare e sempre più attività da svolgere o servizi da ottenere a pagamento continuo (telefono, cinema, televisione, vacanze, Internet, discoteche, musei, ecc.). Anche solo guardando i quartieri di una grande città moderna ci si accorge che tutta la struttura sociale gravita intorno al fatto che il principio motore sta nel consumo del nucleo famigliare. Ad esso si rivolgeva Keynes, con la sua "propensione marginale al consumo", che è maggiore nelle classi a reddito basso cui si rivolge il 99% della martellante pubblicità.

Oggi il "personale di servizio" è privilegio di una più piccola frazione delle classi abbienti. L'aumentata differenza di ricchezza fra i pochi veri borghesi e la restante poltiglia sociale rappresentata dalle mezze classi e dalle non-classi (cioè gli strati sociali che non solo non producono plusvalore ma neppure valore per la propria riproduzione, come militari, studenti, poliziotti, preti ecc.) non permette a queste ultime di pagare domestici. Nonostante ciò lo spreco sociale di tempo e di lavoro dedicato alle incombenze domestiche invece di diminuire si è moltiplicato. Le quattro mura di case sempre più traboccanti di aggeggi e ninnoli atti a soddisfare la smisurata e artificiosa coltivazione dell'Ego richiedono tempo di lavoro per essere riempite e mantenute. Gli individui, atomizzati dalla loro solitudine sociale, tendono a cercare comunque forme di socialità, ma trovano soltanto ciò che predispone il Capitale, perciò migrano come bestie impazzite, tutti insieme a date stabilite, negli stessi luoghi: spiagge gremite, discoteche stracolme, strade intasate, mega-concerti o mega-messe, dove altri tipi di servitù sono chiamati a risolvere la logistica collettiva.

Questa dilatazione di ciò che si potrebbe definire con un ossimoro "egoismo sociale" non comporta soltanto la conseguente dilatazione della quantità di merci in quanto oggetti che sovraccaricano le abitazioni, ma anche la riduzione di tutta la vita a merce (mentre nel capitalismo sorgente era la sola forza-lavoro ad esserlo), dato che oggi non si paga solo l'oggetto ma il vivere stesso. Ciò non può non avere un riflesso nel cervello collettivo degli individui massificati e infatti produce quello che la Sinistra Comunista chiamava "incafonimento da colcosianesimo industriale". Non più soltanto ideologia del consumo ma il consegnarsi anima e corpo al Capitale; questa è la peggiore fonte di furto rispetto al tempo di vita. E naturalmente di tempo di lavoro: ogni attività volta ad assecondare questa magnifica e progressiva way of life è lavoro umanamente inutile, e non sarà eliminata dai decreti rivoluzionari più di quanto lo sarà dalla sua naturale estinzione sotto il potere del nuovo ordine sociale.

L'uomo umano, come direbbe Marx, non ha bisogno di "possedere" individualmente miliardi di televisori, di frigoriferi, di lavatrici, di libri, di cucine, di computer, di case, di automobili, di caldaie, di pezzetti di giardino, di dischi, di fotocamere e di tutte le merci che il capitalismo può inventare. Lo stesso capitalismo, trasformando tutta la vita dell'uomo in merce, dimostra che si può fare a meno del possesso e della frenesia consumistica: si paga sempre più per usufruire, non per avere, per possedere (l'italiano medio spende in merci immateriali circa la metà del suo guadagno totale).

Molti borghesi non posseggono più gli oggetti che caratterizzavano la ricchezza della loro classe; né i palazzi, né le automobili o le barche, né, spesso, le cucine e i frigoriferi. Vivono in residence di lusso oppure in albergo, dove la proprietà materiale è sostituita da un pagamento nel tempo che lascia completamente liberi da vincoli locali; si spostano su auto e aerei in leasing alle loro aziende; fanno footing nei parchi comuni dove sono costruite le case che abitano; mangiano al ristorante piuttosto che nella loro cucina; godono sempre più di servizi comuni che si costruiscono essi stessi proprio per eliminare le incombenze domestiche; ecc. ecc. E la tendenza si allarga alle mezze classi: negli Stati Uniti vi sono imprese immobiliari specializzate nella costruzione di "comunità esclusive" (Common Interest Developments) e 30 milioni di americani abitano in 150.000 di esse.

Non facciamo certo l'apologia di questi campi di concentramento al rovescio, dove i borghesi si isolano dal volgo persino con ronde armate (o sono assediati?), ma certo essi dimostrano che l'eliminazione di possesso e incombenze domestiche è possibile e neppure "costoso": già Engels faceva notare che le case dei poveri costano di più ai loro abitanti e rendono di più ai loro costruttori delle case dei ricchi. Anche la Sinistra Comunista dimostrò che gli alveari cresciuti come funghi con i piani Fanfani erano pagati dai proletari più dei palazzi borghesi. Il borghese spende molto perché ha bisogno del lusso e di proteggere il suo ambiente, ma il proletario, dopo che ha fornito al borghese il profitto col suo lavoro, spende pure per mantenerlo con i suoi consumi. E' comunque certo che nella società futura questo tipo di spreco, con tutti gli altri che generano ore di lavoro inutili, scomparirà. L'ammontare attuale dei mutui pluridecennali, delle merci "personali", delle spese comuni e di quelle per tasse di un qualsiasi scassato condominio di periferia con trenta o quaranta famiglie, il tutto calcolato in tempo di lavoro sociale medio, basta e avanza per costruire non una topaia di cartapesta ma un "residence" in mezzo al verde con ristorante, lavanderia, cinema e biblioteca. Alla faccia di chi alza alte lamentazioni contro il comunismo: "Volete farci vivere in caserma"! "Volete farci mangiare in mensa"!

Spreco e tempo di lavoro

Sono scomparsi i servi, ma la famiglia ha assunto su di sé le incombenze servili, dato che l'elevamento del tenore di vita, l'aumento dello spazio abitato e degli oggetti in esso contenuti, lo stress da impegni più o meno consumistici, ecc. ha fatto raggiungere un peggior livello di abiezione sociale ai suoi membri, assorbiti più di prima dalla "domesticità" della loro vita quotidiana, assai poco alleviata dall'uso degli aggeggi elettromeccanici: "Le funzioni servili nel magma sociale, se hanno in certo senso cambiata l'etichetta umiliante, non hanno certo migliorato la loro utilità, e le forme che hanno preso non sono né più utili né meno ignobili nella sostanza", scrisse la Sinistra a proposito di uno degli aspetti della vita senza senso del consumatore moderno completamente servo del mercato e di sé stesso.

Eliminando lo spreco, una società razionale non solo elimina le "diseconomie", ma innalza il rendimento del sistema globale, rompe definitivamente con la necessità del lavoro obbligato, libera tempo per attività lavorativa umana, nella quale l'uomo mette le sue energie, le sue conoscenze particolari, le sue abilità individuali a disposizione degli altri uomini, in una rete di reciprocità che non ha nulla a che fare con la pelosa, interessata, solidarietà cristianuccia. Quindi non solo verrà eliminato tempo di lavoro nel luogo specifico di produzione ma verrà anche liberato tempo utile alla vita nella vita stessa, a casa, ovunque; il tempo complessivo sarà il nuovo, vero tempo di produzione. Scomparso il Capitale, nessun tempo di lavoro andrà sprecato per la sua raccolta e concentrazione in quantità sufficienti all'investimento da parte dell'industria, per gli anticipi, gli immobilizzi, per la necessità di pagarne il prezzo versando interessi. Questo non vale solo per i singoli, ma soprattutto per tutto il sistema, la cui rete bancaria ha raggiunto, con il capitalismo sviluppato, un'ampiezza gigantesca; essa sarà sostituita in un primo tempo da un unico centro in cui verrà effettuato il controllo dei residui movimenti di moneta poi anche questo diventerà inutile. Non scompariranno soltanto le centinaia di migliaia di posti di lavoro assurdi del sistema finanziario, ma verranno anche adibite a nuovo uso sociale le immense proprietà immobiliari di lusso che caratterizzano l'investimento bancario e assicurativo. Estinguendosi la contabilità sulla base del valore, saranno eliminate anche milioni di giornate di lavoro oggi necessarie per la minuta ragioneria di bottega e per quella dei grandi centri dell'amministrazione a pagamento, alimentata da una pletora senza senso di commercialisti.

La razionalizzazione della produzione agricola e industriale comporterà uno sviluppo oggi impossibile delle tecniche di qualità, della produzione senza magazzino, della rete di comunicazioni che lega i vari stadi della produzione. Quindi vi sarà una ulteriore eliminazione di tempo di lavoro in seguito alla constatazione pratica che i grandi stoccaggi di merci all'ingrosso e al dettaglio, dove esse deperiscono e diventano obsolete, sono assurdi; essi scompariranno, così come abbiamo visto scomparire lo "stoccaggio" di moneta rendendo superflua la banca. Saranno drasticamente ridotti i giganteschi impianti refrigeranti per la conservazione dei prodotti alimentari, spesso utili soltanto per attendere le condizioni favorevoli del mercato e quindi disastrosi per la qualità del prodotto, raccolto non ancora maturo perché possa sopportare lunghi tempi di giacenza, gassato e addirittura irradiato per bloccare i processi vitali. Per non parlare degli additivi chimici che impediscono a batteri e insetti di attaccare i cereali, le farine, i legumi, la frutta confezionate. Di conseguenza sarà facilmente eliminabile anche una percentuale altissima del traffico insensato dovuto al trasporto di merci del tutto equivalenti da un parte all'altra del globo e viceversa, movimento originato dalla pura e semplice concorrenza che a sua volta genera la pubblicità e le mode.

Letture consigliate

  • August Bebel, La donna e il socialismo, Newton Compton.
  • Paul Lafargue, Il diritto alla pigrizia, Forum Editoriale.
  • Marshall Sahlins, Economia dell'età della pietra, Bompiani.
  • Bronislav Geremek, Salariati e artigiani nella Parigi Medievale, Sansoni.
  • Partito Comunista Internazionale, Per l'organica sistemazione dei principii comunisti, Quaderni Internazionalisti.
  • Partito Comunista Internazionale, Scienza economica marxista come programma rivoluzionario, Quaderni Internazionalisti.
  • Rosa Luxemburg, Centralismo o democrazia? Una replica a Lenin, Ed. Azione Comune.
  • Giorgio Lunghini, "Politiche eretiche per l'occupazione", in Economia politica n. 1/2000, Il Mulino.
  • W. Kula, Teoria economica del sistema feudale, Einaudi.
  • Gianni Toti, Il tempo libero, Editori Riuniti

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