Il crogiuolo bio(tecno)logico

L'evoluzione biologica dell'uomo è caratterizzata dal successivo "liberarsi" del suo corpo da vincoli (l'andatura scimmiesca, il prognatismo, la manualità limitata) che impedivano l'evoluzione "esterna", cioè tecnica e sociale. E' possibile proiettare nel futuro questo processo? L'evoluzione di un corpo non è infinita. Alcune specie hanno raggiunto una sorta di stabilità, altre si sono spente in modo definitivo. Le probabilità per l'uomo sono del secondo tipo e, se si trattasse di un mammifero qualunque, il pronostico per i prossimi dieci millenni sarebbe categoricamente pessimista. Possiamo anche ipotizzare che, mediante un'azione volontaria, egli si varrà delle leggi genetiche per sospendere il corso catastrofico della propria evoluzione. Comunque non si vede di che cosa egli potrebbe ancora "liberarsi" senza cambiare di specie. (Sintesi da André Leroi–Gourhan, Il gesto e la parola, 1964

"Il processo della creazione non è affatto concluso. Nessuno può prevedere che cosa accadrà in tempi trascurabili rispetto alle fasi dell'evoluzione genetica. Oggi siamo in grado di interferire come 'riparatori', mentre un intervento creativo richiederebbe conoscenze che (ancora) non possediamo. Comunque un progresso evolutivo nel prossimo futuro difficilmente si realizzerà sul piano genetico. L'evoluzione mentale dell'uomo ha messo in rapida rotazione il carosello evolutivo; quasi tutto ciò che avverrà in un tempo non lontano procederà dall'uomo. Potremo padroneggiare questo problema solo mobilitando risorse mentali, ma la loro componente etica non è riuscita a tenere il passo con l'impetuosa crescita della scienza e della tecnica". (Manfred Eigen, Gradini verso la vita – L'evoluzione prebiotica alla luce della biologia molecolare, 1987).

Programma

Nel numero scorso avevamo avvisato il lettore con una premessa: non si può affrontare il problema delle biotecnologie senza strapparsi di dosso la hybris antica, la paura atavica di sovrapporsi alle prerogative di Dio. Nonostante l'avvertimento, sappiamo bene che occorre insistere e, come sempre, mettiamo preventivamente le carte in tavola.

Non stiamo facendo ricerca. Questa è già stata avviata e compiuta da una corrente ben definita all'interno dell'umanità, corrente che solo per convenzione riconduciamo a pochi nomi di individui che colsero le peculiarità della scienza nuova operando relazioni, scoprendo leggi (Galileo, Darwin, Marx, Einstein, ecc.). Siamo piuttosto nel campo della dimostrazione ulteriore sulla base della conoscenza acquisita, mentre nuova conoscenza sarà alla portata dell'umanità solo quando sarà abbattuto l'ostacolo sociale che oggi impedisce il suo sviluppo.

La prerogativa di Dio è la creazione del mondo, soprattutto di quello vivente, finalizzato alla comparsa dell'uomo. La prerogativa dell'uomo è la produzione del mondo che lo circonda, secondo progetti finalizzati (l'aggettivo sarebbe inutile, ma la tautologia serve per distinguere il progetto umano da quello dell'istinto costruttivo animale, api, termiti, castori, ecc.). L'uomo dunque, entro certi limiti, sarebbe già in grado di progettare il suo futuro, di finalizzare la sua attività ad un risultato voluto, come quando progetta un palazzo o un aereo. Come quando sarà in grado di progettare l'armonizzazione della biosfera invece di abbandonarsi alla sua distruzione; oppure, se lo riterrà utile e opportuno, di progettare organismi non solo geneticamente modificati ma di specie nuova.

Da notare che, mentre il finalismo metafisico è stato variamente adottato dalle correnti idealistiche, un finalismo determinista è coerente con la concezione materialistica. C'è un po' di confusione sui termini, dato che alcuni filosofi come Bergson e alcuni scienziati che l'hanno riscoperto hanno ripreso le concezioni metafisiche, ma oggi è generalmente acquisito che il problema non può essere ridotto ad una mera questione di linguaggio: tutti i processi deterministici, compresi quelli caotici (noi diciamo che la dinamica deterministica è il modo di essere della natura) sono "finalistici", in quanto in una catena elementare di eventi ciò che precede è di fatto il progetto di ciò che segue. L'indeterminazione statistica ha le sue solide basi, specie quando si intersecano molte catene di eventi, ma non scalfisce il determinismo, il quale ci mostra ogni dinamica come fenomeno bidirezionale (cioè teoreticamente conoscibile in avanti e all'indietro nel tempo).

Ciò ci servirà a capire la natura profonda delle biotecnologie al di là delle chiacchiere, perché il processo della vita è scomponibile, nel senso che è possibile "smontare" ciò che la natura ha composto nel tempo e "rimontare" secondo altri criteri per ottenere risultati voluti. La complessità dei fenomeni legati al vivente ci obbliga a mettere in guardia il lettore da una lettura riduzionista del problema: la manipolazione delle molecole in laboratorio è trattabile come il gioco del "Lego" solo da un punto di vista descrittivo, mentre rimane integra la nostra concezione dialettica della complessità, cioè che gli insiemi e i particolari dei "pezzi" subiscono cambiamenti qualitativi che non sono in relazione banale con la loro somma o divisione.

La base generale del concetto di bidirezionalità è ancora quella posta nel '700 da d'Alembert, la cui fondamentale formula sul moto ondulatorio dimostra la reversibilità dei processi: se conosciamo un fenomeno conosciamo anche la sua evoluzione futura e, nello stesso tempo, proprio perché lo conosciamo, sappiamo indagare sul suo passato. I fisici che indagarono sulla materia nel secolo scorso, cioè nella prima metà del '900, si trovarono di fronte ad enormi ostacoli dovuti a questo tipo di problemi, anche ideologici, quando ebbero a che fare con il "dualismo" onda-particella. Proprio il ricorso ad un formalismo come quello di d'Alembert permise loro di procedere con sistemi conoscitivi potenti e adeguati. Del resto la teoria cosmologica standard, quella del Big Bang, è fondata sull'indagine delle caratteristiche dell'universo condotta sia a ritroso – cioè sulle origini – sia in avanti, proiettata nel futuro (le teorie sono molte e nessuna riesce a spiegare tutti i fenomeni osservati, nemmeno quella standard).

Occorre inoltre precisare che un vasto gruppo di fenomeni dissipativi, senza giungere a livello sub-atomico, sembra sfuggire a questo tipo di considerazioni, sembra cioè non essere trattabile secondo il rigoroso procedimento del formalismo deterministico. Alcuni ne hanno indotto teorie dell'indeterminismo, cercando di dimostrare l'irreversibilità di quasi tutti i fenomeni della natura. Altri hanno cercato di dimostrare che il determinismo non è scalfito né dalle leggi probabilistiche (se c'è una legge non c'è indeterminazione), né dai fenomeni caotici, né dalle singolarità o cuspidi che comportano grosse difficoltà di calcolo. Noi ovviamente facciamo parte di questa seconda schiera.

Il fenomeno della vita, che è quello su cui ci stiamo soffermando in tema di biotecnologie, è il più contraddittorio di tutti. Da una parte sembra legato a caratteristiche d'indeterminazione e di irreversibilità più di tanti altri fenomeni della natura, legato quindi al caso; dall'altra, essendo basato su di un programma genetico che riproduce fedelmente sé stesso, sembra dare ragione ai fautori della creazione, se non proprio di Adamo, almeno del programma genetico primigenio dell'uomo, compresa la sua potenzialità finalistica dovuta alle mutazioni che sarebbero già implicite nel programma stesso, indipendentemente dalle relazioni col resto del mondo.

La poesia, il materialismo e quell'idealista di Marx

Nel campo della biologia molecolare, come nel resto della società, si producono ipotesi e teorie che possono essere guardate come una nube formata da punti contraddittori intorno ad un indirizzo univoco che rappresenta il futuro consolidarsi di una teoria riconosciuta, condivisa e verificata. Seguendo gli insegnamenti di coloro che ci hanno preceduto, lavoriamo alla distillazione di esempi positivi e negativi, cercando o stabilendo relazioni tra i vari materiali. Così, sulla base della nostra scuola, scartiamo i sostenitori del caso creativo e della necessità conseguente, mentre ci colleghiamo ai sostenitori del processo continuo, dell'accumulo che produce il potenziale sufficiente all'esplosione rivoluzionaria, precisamente la soluzione discontinua di cui spesso parliamo. Rappresentata, nel caso dei fenomeni biologici, dalla comparsa della vita e dalle successive modificazioni che hanno prodotto l'enorme varietà di specie animali e vegetali.

L'uomo ha dunque accumulato un potenziale di cambiamento enorme, non solo sul piano tecnico ma soprattutto sul piano della socializzazione del lavoro, che lo spinge ad affrontare – sulla soglia della trasformazione radicale della società, approntati tutti i mezzi tecnici utili a quella futura, sviluppata la forza sufficiente del cervello sociale esterno al suo corpo, affinata non da ultimo la teoria adeguata – anche il problema dell'evoluzione biologica come fatto da non lasciare ai milioni di anni a venire. L'evoluzione dell'uomo umano (cioè quello che si distingue per l'alta socializzazione del lavoro) si è dimostrata immensamente più veloce di quella dell'uomo animale e le conseguenze sono sotto i nostri occhi, al di là delle liturgie legate al vecchio mondo che muore.

Questo movimento evolutivo non poteva non avere riflessi sul cervello degli uomini, e occorre saper leggere anche nella lucida follia di un Nietzsche il quale, contrariamente all'opinione diffusa, predice non l'avvento di Nembo Kid, ma dell'Übermensch, l'oltre-uomo, una "specie di tipo superiore, avente altre condizioni di produzione e di conservazione rispetto all'uomo medio". Tema letterario sviluppato coerentemente anche nel celebre Odissea nello Spazio di Stanley Kubrik, dove il rappresentante della vecchia specie smette di barcamenarsi fra scrivanie, bandiere, famigliole natalizie e macchine rese ostili, per andare finalmente incontro al super idealistico monolito, cioè alla sua stessa agonia, mentre arriva l'uomo nuovo, un feto con due occhioni così, con la musica dirompente di Così parlò Zarathustra per sottofondo.

Il filisteo progressista non ama gli sia ammannita "certa metafisica". Dato che sguazza nel materialismo volgare, cioè nel comunismo rozzo del capitalismo democratoide (l'invidia generalizzata e livellatrice della concorrenza), non avverte che la poesia può solo dire con altre parole ciò che la scienza ha già detto. Allora gli forniremo La Citazione di San Karl affinché non rompa le scatole: "Il rapporto storico reale della natura, e quindi della scienza naturale, con l'uomo è l'industria; perciò se questa viene intesa come rivelazione palese delle forze essenziali dell'uomo, viene pure compresa l'essenza umana della natura o l'essenza naturale dell'uomo. Di conseguenza le scienze naturali perdono la loro direzione astrattamente materiale, cioè idealistica, e diventano la base della scienza umana, come sono già diventate base della vita umana reale, per quanto in forma estraniata. Per cui, il dire che una è la base della vita e un'altra è quella della scienza è sin da principio una menzogna. La natura che diviene nella storia dell'uomo è la natura reale dell'uomo, per cui la natura, quale diviene attraverso l'industria, se pure in forma estraniata, è la vera natura antropologica". Ed ecco il tocco "finalistico" conclusivo: "Per l'uomo comunista tutta la cosiddetta storia universale non è altro che la generazione dell'uomo mediante il lavoro umano, null'altro che il divenire della natura per l'uomo" (Manoscritti del 1844).

L'industria in generale è quindi prodotto e, nello stesso tempo, fattore dell'uomo, così come l'industria litica fu prodotto e fattore della mano e del cervello. Essa è un tutt'uno con la storia dell'uomo e, come comprende la selce scheggiata, comprende anche la macchina a vapore, la tessitrice automatica, il computer e le biotecnologie. Con l'industria l'uomo ha accelerato l'evoluzione, che si svolge ormai all'esterno del suo corpo senza aspettare quest'ultimo. La conoscenza non è più trasmessa da genitori a figli in un rapporto biologico diretto quanto limitato (il seme, la parola), ma attraverso strumenti universali come la scrittura, le biblioteche, la scuola, le banche dati, le reti informatiche.

Il problema non sta dunque nella biotecnologia in particolare, come non sta in qualsiasi altra industria in particolare, ma nell'intera attività dell'uomo in rapporto alla natura. E' questa attività complessiva, non una tra tante scelta secondo l'andamento della cronaca, che non può più essere lasciata in mano al capitalismo: è troppo pericoloso per la stessa sopravvivenza della nostra specie, non solo per la sua "salute". Come qualunque altra specie, la nostra non è esente per principio dal pericolo di estinzione.

Un problema di tal genere non può essere argomento per dibattiti parlamentari. Quando furono finalmente presentati, dopo ben quattro anni, i 16 volumi del rapporto governativo inglese sul morbo della mucca pazza (BSE), l'Economist scrisse: "E' una delle più profonde dimostrazioni mai prodotte dal lento procedere governativo. Come l'intera saga della BSE; essa riesce ad annoiare, scandalizzare, disgustare e terrorizzare, tutto allo stesso tempo. La scienza del morbo è troppo complessa da comprendere per la maggior parte dei profani". Ma non è la complessità a impedirne la comprensione, bensì l'accavallarsi delle opinioni viziate dagli interessi politici, quelle stesse depositate nei 16 volumi, suffragate da citazioni di esperti che, chiamati in causa e pagati da un campo e dall'altro, non potevano che aggiungere opinioni ad opinioni.

La struttura della moderna conoscenza scientifica della stessa borghesia ci permette di smascherare i suoi rappresentanti quando si schierano sulla scena del dibattito a proposito di biotecnologie. Di fronte alle sparate di sostenitori e detrattori, tale conoscenza è in grado di dimostrarci che essi mentono nella stragrande maggioranza dei casi e che le loro battaglie si svolgono nel campo dell'ideologia e non in quello dei fatti reali. A noi non basta l'epistemologia borghese, ma essa è un risultato raggiunto, dal quale possiamo partire per criticarla. Essa, per ora generalmente condivisa tranne che nei dibattiti, ci dice che un fenomeno è conosciuto quando, a partire da una situazione iniziale, si giunge ad un risultato successivo attraverso un processo osservabile, descrivibile e quindi riproducibile. Un processo che possiamo conoscere in tal modo, abbiamo visto, è per definizione reversibile, vale a dire che possiamo indifferentemente partire dal risultato finale per ricostruire il processo stesso e conoscere la situazione iniziale. Ciò nella grande generalità dei casi, anche se in effetti la natura presenta situazioni molto più complesse e dialettiche di quelle che l'uomo si rappresenta necessariamente nei suoi modelli. Ma il concetto è per ora sufficiente rispetto a quel che vogliamo dire.

Se dunque si sostiene che una cellula modificata con l'applicazione dell'ingegneria genetica non è pericolosa perché di uguale natura rispetto a quelle esistenti, si deve poter descrivere il processo attraverso il quale una cellula può diventare pericolosa, almeno potenzialmente. Il fatto è che nessuno sa quale differenza ci sia tra una cellula potenzialmente pericolosa e una innocua, dato che il meccanismo della mutazione non è conosciuto. Si sa che l'evoluzione ha dovuto comportare delle modificazioni per cui da una forma elementare simile al virus si è passati a organismi unicellulari e, impiegando molto meno tempo, da un anfibio primordiale all'uomo; ma nessuno ha mai scoperto che cosa succeda nell'ingegneria genetica naturale quando il programma, che dovrebbe essere preposto alla stabilità di una specie, ne produce invece una nuova.

Di due cellule di tessuto umano, fatte degli stessi atomi e catene molecolari, con lo stesso patrimonio genetico e quindi assolutamente uguali, ad un certo punto, nelle identiche condizioni "al contorno", una diventa mutagena e l'altra no, senza che nessuno al mondo, per ora, sappia riconoscere, in anticipo, quella che ha potenzialità mutagene. Neppure una cellula già modificata ci dà, anche dopo che si sia riprodotta più volte, indicazioni su ciò che l'ha fatta mutare. Se un esame di laboratorio potesse stabilire la differenza, avremmo a portata di mano la soluzione non solo per il cancro ma per tutti i problemi legati alla riproduzione delle cellule tramite il loro codice genetico, e probabilmente avremmo anche scoperto il meccanismo della vita. Sappiamo dell'esistenza di condizioni che favoriscono gli effetti mutageni, come nel caso delle situazioni cancerogene, ma non sappiamo nulla rispetto al processo per cui, fra cellule sottoposte alle stesse condizioni, una muta e l'altra no, con differenze pronunciatissime fra individuo e individuo.

Lo stesso criterio vale se si sostiene che l'ingegneria genetica è pericolosa. La soluzione in ogni modo non può essere quella di proibire la ricerca e nemmeno quella del cosiddetto principio di precauzione ("se non conosco, proibisco"): nell'uomo fare e sapere sono in generale la stessa cosa, con la differenza che l'uomo capitalistico traduce questa dialettica unione in un qualcosa di assolutamente triviale chiamandolo pomposamente "ricerca sperimentale": spesso fa a casaccio, per vedere se trova qualcosa, specie un finanziamento che gli garantisca la continuità dello stipendio. Non ha nessun significato proibirgli di essere così, sarebbe come proibirgli di essere coinvolto nel meccanismo capitalista.

Non interferite con la vita! Ma che cos'è la vita?

Quando si parla di "vita" sorge subito un problema, non tanto di definizione quanto di termini appropriati: non abbiamo una parola che indichi la non-vita. Morto è un organismo che prima è stato vivo; inanimato è un oggetto definito per confronto con il vivente; minerale è anche il componente del biologico; mondo fisico è tutto, dato che il vivente come il non-vivente è fatto degli stessissimi elementi.

Questa difficoltà linguistica è una dimostrazione importante: l'uomo non ha fatto in tempo a strapparsi dalla mente le categorie ideali proprie di due rivoluzioni addietro: quella feudale, che portò alle estreme conseguenze la classificazione per categorie, e quella capitalistica che gettò le basi per il materialismo meccanicistico, anche se toccò vette superiori giungendo a definire la vita uno stato organizzato della materia (Diderot). Quella comunista, che è già matura, ha difficoltà enorme a trovare un suo linguaggio.

Se non siamo in grado di definire una univoca transizione dalla materia alla vita, e non abbiamo ancora neppure la lingua che ci permetta di parlarne con proprietà, allora dobbiamo ammettere prima di tutto che quando si discute di biotecnologie non dovrebbero essere coinvolti sentimenti legati alla hybris. Così come tali sentimenti – di solito – non entrano in ballo quando si parla di meccanica, di chimica o di fisica (a meno che non ci sia qualche parola evocatrice tipo "uranio", come vediamo in altro articolo).

Il più "basso" gradino della scala della vita è il virus. Dal punto di vista della biologia moderna esso non è altro che un complesso molecolare, conosciuto abbastanza da poter essere in teoria sintetizzato artificialmente. La sua struttura è molto semplice, tanto che quando lo si cristallizza non si distingue per nulla dai minerali. Eppure, se incontra una cellula-ospite, si comporta come un qualsiasi essere vivente: si autoriproduce, inizia un'attività di ricambio, si adatta all'ambiente assumendo capacità di mutazione.

Il virus, una non-vita che diventa vita quando entra in simbiosi con essa, è una forma di transizione che ci permette di capire un po' meglio di che cosa stiamo discutendo:

1) la vita è uno stato ordinato della materia, contiene informazione;

2) l'informazione dell'ordine deve in qualche modo autoriprodursi;

3) per far ciò dev'esserci uno scambio di energia con l'ambiente;

4) l'informazione riprodotta deve mutare per dar luogo all'evoluzione.

Tutte queste condizioni sono racchiuse in una molecola scoperta appena cinquant'anni fa ma oggi abbastanza ben conosciuta, il DNA. Si tratta del programma che "informa" ogni caratteristica e ogni fase di crescita di tutti gli organismi viventi, nessuno escluso.

Da questa stringata premessa, si potrebbe dedurre che l'uomo è in grado di sintetizzare un progetto di vita "artificiale". Basterebbe infatti riuscire a sintetizzare il programma contenuto nella molecola DNA per ottenere un organismo vivente. Se l'industria biotecnologica raggiungesse questo risultato, sarebbe, per quanto riguarda quel campo, nelle condizioni descritte da Marx: la natura-uomo-ambiente fatta industria riprodurrebbe sé stessa in un divenire finalizzato, cioè secondo progetto, "se pure in forma estraniata". Molto più di quanto non facciano le macchine automatiche e i computer, le biotecnologie compenetrano uomo e natura. La natura non dovrebbe attendere milioni di anni per veder apparire nuove specie, ma semplicemente produrrebbe quelle che le servono tramite sé stessa. Come quando selezionava le specie tramite millenarie mutazioni, con la differenza che adesso interverrebbe il progetto cosciente dell'uomo: uno dei tanti casi di "rovesciamento della prassi". Anche una città, una società intera, è uno "stato ordinato della materia"; solo che per ora il progetto non è complessivo, riguarda singoli particolari come una casa, una ferrovia, una rete elettrica. La specie umana non ha ancora il suo DNA sociale, un programma per tutte le funzioni diversificate di quell'organismo viaggiante nello spazio che chiamiamo Terra.

E' comunque assai improbabile che questa società possa comprendere a fondo i meccanismi della vita fino a replicarla a partire dai suoi elementi costitutivi. L'obiettivo è ancora lontano perché si verifica un paradosso logico: per costruire la molecola che contiene l'informazione della vita avremmo bisogno della molecola stessa e di tutto il complesso enzimatico che presiede alla trascrizione e alla decifrazione del "linguaggio" necessario a produrla. Per dirla in parole povere, è il problema dell'uovo e della gallina. Comunque, mentre perdura questo modo di produzione, la conoscenza è finalizzata a risultati che producano profitto e questo si può ottenere anche senza riprodurre la vita, basta e avanza la riproduzione di pezzi di vita da immettere sul mercato. Per le stesse ragioni è assolutamente impossibile che l'uomo capitalistico possa concepire un progetto per la sua propria esistenza in armonia con la biosfera: il capitalismo non chiede altro che produrre in continuazione merci vendibili.

Oggi i laboratori stanno utilizzando la conoscenza acquisita sui virus e la applicano innestando porzioni di codice genetico, mere catene molecolari, su organismi naturali ospiti, in modo da ottenere organismi modificati o repliche di cellule esistenti. In questo modo si è riusciti ad ottenere vegetali particolarmente adatti al ciclo di coltivazione capitalistico (iperproduttivi, resistenti ai diserbanti e ai parassiti, ecc.) e anche a replicare (clonare) alcuni tipi di animali. Con le stesse tecniche sarebbe di conseguenza possibile intervenire su molte caratteristiche dell'organismo umano e anche ottenere la sua clonazione completa. E' da più di vent'anni, ben prima che si giungesse a questo punto, che imperversa il dibattito sull'eticità e sui pericoli dell'ingegneria genetica. Quasi sempre a sproposito.

L'uomo, la natura e il "pericolo"

Se ci attenessimo ai canoni di certi ambientalisti l'uomo dovrebbe essere cancellato dalla faccia dell'universo: nessun organismo vivente modifica la natura quanto lui, così profondamente e, soprattutto, così velocemente. Né potrebbe fare qualcosa di diverso senza rinunciare al suo essere uomo e non animale. Eppure basta poco per rendersi conto che tramite l'uomo è la natura che modifica sé stessa. Il criterio che porta a distinguere i danni che può provocare l'uomo da quelli che possono provocare altri organismi è in sé logicamente corretto: nessun animale fabbrica bombe atomiche o anche "solo" stabilimenti petrolchimici. I nostri mezzi sono diventati effettivamente troppo potenti rispetto all'etica di cui possiamo mediamente disporre. E allora? E' facile rispondere che all'umanità probabilmente le bombe atomiche non servono (anche se, in un film, l'umanità si salva usandole per far saltare un asteroide in rotta di collisione), ma non è altrettanto facile, né corretto, applicare il criterio a tutto il resto.

Alle biotecnologie ancora meno. La ragione è che l'ingegneria genetica interviene sui processi vitali in modo meno devastante e più controllato rispetto alla chimica industriale e a tutte quelle cause che provocano cocktail micidiali nella biosfera in cui viviamo; come dimostra, tra gli altri, il caso della BSE, dove una catena di concause si è messa in moto per motivi sociali: una malattia degli ovini già provocata nel '700 dagli accoppiamenti fra consanguinei per migliorare la produzione è passata ai bovini e poi all'uomo a causa del sistema industriale di alimentazione che ha imposto agli erbivori una dieta carnea. Ed erano fatti risaputi, se non perfettamente conosciuti, almeno da vent'anni.

Forse un giorno l'uomo passerà alla creazione di nuove forme di vita, ma per adesso può far poco rispetto alla natura nel campo delle biotecnologie. Come al solito siamo di fronte a un bluff scientifico, ampliato dai mezzi d'informazione: oggi l'industria biotech si dedica più che altro a perfezionare tecniche di ibridazione genetica copiando la natura. Le difficoltà che si ergono di fronte a tale impresa riguardano il come copiare, perché per ora non serve altro. Non è neppur detto che le conoscenze ancora mancanti siano degne di attenzione dal punto di vista della produzione di profitto, semplicemente perché, per quanto riguarda i meccanismi di ricombinazione, la natura offre già tutto ciò che è utile alla produzione di organismi geneticamente modificati per il mercato. La credenza popolare vede l'uomo manipolatore a volontà, se non adesso magari in futuro, degli organismi tramite il DNA ricombinante, che è la base degli esperimenti in questo campo. Non è affatto questo che succede nei laboratori supersegreti e temuti delle multinazionali prevaricatrici.

Mirabile risultato, ma della natura

Gli organismi viventi più elementari, appena al di sopra del virus come i colibatteri, posseggono un'informazione genetica costituita da alcuni milioni di "simboli". Tali organismi si riproducono in pochi minuti, durante i quali viene "letta" l'intera informazione ed eseguita la procedura di sintesi necessaria alla riproduzione. A livello di un mammifero la riproduzione richiede la lettura di un numero di simboli mille volte superiore, e la complessità dell'esecuzione delle informazioni è moltiplicata dal fatto che in questo caso è in gioco anche l'eredità maschile e femminile.

La localizzazione e la manipolazione dei geni esigerebbero la capacità di individuare con precisione un determinato segmento dell'intera informazione, di estrarlo e riutilizzarlo secondo i fini voluti. Da miliardi di anni la natura ci riesce benissimo; l'uomo per adesso non ci riesce affatto, e qualcuno mette in dubbio che ci possa mai arrivare. I geni sono strutture molecolari, quindi stiamo parlando di fenomeni che avvengono a livello atomico, dove un qualsiasi intervento produce perturbazioni di ogni genere. Su questo terreno l'impresa, tenendo conto delle combinazioni possibili fra miliardi di simboli, poiché è sufficiente sbagliarne una per finire in un nulla di fatto, è praticamente senza speranza.

La natura riesce nell'intento tramite particolari enzimi, detti di restrizione, ognuno dei quali è fornito di un segnale specifico di riconoscimento con cui localizza il segmento d'informazione corrispondente nel complesso del gene. L'uomo non ha bisogno di inventare tecniche di ricombinazione, deve soltanto mettere a punto quelle naturali che ha scoperto. Quindi gli strumenti utilizzati nelle biotecnologie sono naturali. Con essi è possibile "ingegnerizzare" il trasferimento di sequenze di DNA, parti di geni, geni completi o combinazioni di vari geni da un donatore a un ricettore. Quando l'uno e l'altro siano dello stesso tipo, il trapianto di geni è come un trapianto di organi: quello difettoso viene sostituito da uno integro. Per questa via potrebbero essere guarite malattie genetiche.

Il processo naturale si è consolidato in miliardi di anni e in questo tempo la natura ha "sperimentato", nel vasto laboratorio della Terra, più combinazioni di quante l'uomo possa mai verificare in un laboratorio propriamente detto; perciò, utilizzando gli stessi procedimenti, è escluso che possano scaturirne organismi inconsapevolmente creati, per di più dannosi. In un batterio, e anche in un virus, il potenziale patogeno ha richiesto una specializzazione lunghissima, la cui riproducibilità casuale è pura fantasia, dato che dipende da probabilità che si scrivono con numeri inaccessibili per la nostra mente. Alcuni sostengono che il discorso sarebbe diverso se qualcuno, per scopi militari o terroristici, si mettesse a ricombinare DNA di virus o di batteri in modo mirato per aumentarne l'efficacia patogena; altri ribattono che esistono in natura agenti patogeni tali che mettersi a fabbricarne di nuovi sarebbe perlomeno antieconomico.

Comunque i virus e i batteri sono particolarmente adatti a ricevere segmenti di DNA di grandi dimensioni, perciò vengono utilizzati normalmente per "contenere" sequenze complete di alcuni organismi, le quali vengono poi segmentate e ibridate con altri segmenti genetici di organismi diversi tramite gli enzimi già citati. La replicazione patogena dei virus all’interno della cellula è scongiurata con un trattamento genetico inibitore.

In questo modo si costituiscono archivi di sequenze genetiche vendibili sul mercato, oppure si producono direttamente sostanze utilizzate dalle case farmaceutiche. La produzione di insulina umana per mezzo dei colibatteri, per esempio, non è nient’altro che la produzione di una sostanza naturale in base a metodi naturali. Da un punto di vista scientifico è lo stesso che vinificare o fare il pane. La reazione allergica che per esempio l'insulina così ottenuta scatena è controversa: secondo alcuni non è dissimile qualitativamente e quantitativamente da quella che si può avere nei confronti di farmaci, alimenti o sostanze varie; secondo altri è una delle prove di dannosità dell'ingegneria genetica in generale.

Manipolazioni a tutti i livelli

Un po' diversa è la modificazione programmata di organismi tramite il trasferimento dei geni da una specie all'altra, operazione che l'apparato mediatico ci dipinge come fragola incrociata col salmone o tabacco incrociato col topo ecc. Questo tipo di manipolazione implica una mutazione atipica all'interno della specie che subisce il trattamento. Mentre la mutazione naturale avviene in tempi diversi con la predisposizione nell'organismo di alcuni elementi precursori che entreranno in relazione stretta con le condizioni dettate dall'ambiente, la mutazione artificiale interviene direttamente sul programma genetico. In pratica la sperimentazione lunghissima e la selezione naturale vengono a mancare e sono sostituite da prove in laboratorio. I metodi di riconoscimento di un gene e dei prodotti di "traduzione" che ne possono scaturire sono ben conosciuti, mentre permangono incertezze sugli effetti a lunga scadenza, cioè si sa poco o nulla sulle interazioni nel tempo fra le funzioni del nuovo gene, le caratteristiche complessive dell'organismo così modificato e l'ambiente circostante.

Si sa anche poco sulle micro-interazioni tra molecole indipendentemente dal patrimonio genetico. Il prione responsabile della BSE, per esempio, è una proteina che, pur senza bagaglio genetico, riesce a provocare un'alterazione negli altri prioni che negli organismi esistono senza far danni. Li fa diventare uguali a sé variando un solo amminoacido su 250. Questa semplice modifica altera la forma della molecola, quindi il suo comportamento nel confronto degli enzimi. L'alterazione non è di origine genetica ma produce effetti simili, ecco forse perché la modifica di questa proteina non allerta il sistema immunitario. Inoltre, quel tipo di alterazione della disposizione spaziale nella molecola era del tutto inaspettata rispetto alle conoscenze acquisite, perciò la scoperta è di per sé importante ai fini dell'indagine sui meccanismi di trasmissione dell'informazione a livello sub-cellulare e addirittura sub-virale. Se risultasse vero ciò che sta emergendo in Inghilterra, cioè che la BSE e la sua variante umana non sono dovute alle farine animali ma a scompensi minerali indotti nell'organismo da vari fattori ambientali, ogni settore dell'alimentazione umana sarebbe molto più a rischio di quanto si supponesse. Non è infatti escluso che esistano meccanismi genetici dovuti a cause diverse rispetto all'informazione fissata nel DNA, pur se da essa controllati. Una simile ipotesi potrebbe spiegare meglio l'insorgere delle mutazioni e quindi dei processi evolutivi della natura, ma potrebbe anche – proprio per questo – voler dire che se la manipolazione genetica non è esente da pericoli molto gravi, è forse ancora più grave il livello di alterazione spontanea raggiunto nelle interazioni uomo-ambiente.

Sta di fatto che le grandi multinazionali sostengono di operare nella massima sicurezza, ma affermano la stessa cosa nel caso dei grandi stabilimenti petrolchimici e delle centrali nucleari; così come i governi hanno rassicurato per anni le popolazioni sul consumo di carne e sulla natura dei prioni che provocano il morbo della mucca pazza. Non c'è differenza, sotto questo aspetto, fra l'industria tradizionale e quella biogenetica.

Comunque anche in natura gli organismi vengono alterati. In passato l'alterazione naturale era lenta, ora è più rapida. Nel brodo di coltura biochimica che è diventato l'intero pianeta nessuno sa che cosa stia realmente succedendo. Le probabilità che nascano, in particolare nel vivente, catene molecolari specifiche in grado di essere di per sé dannose è bassa, ma per esempio i micidiali cocktail di sostanze che sono concause nella generazione di varie patologie, specialmente dei tumori, sono realtà quotidiana. Ed è provato che il tumore è dovuto a mutazione genetica quasi sempre indotta da fattori esterni. I microrganismi diventano resistenti agli antibiotici sia in una foresta, che ne produce spontaneamente, che in un ospedale, ma ovviamente è ben diverso il blando procedere dei fenomeni nella natura selvaggia da quello nell'ammasso superconcentrato di uomini, batteri e antibiotici d'ogni sorta rappresentato da un grande ospedale.

Da un punto di vista teorico non c'è differenza fra la classica selezione dei semi, l'ibridazione delle specie animali da allevamento o l'incrocio fra le piante realizzati dai contadini, e la manipolazione genetica di laboratorio. Anzi, essendo i primi meno programmati, in teoria sono più rischiosi per le specie "migliorate" e per l'ambiente che non la seconda.

In realtà le specie migliorate di cui ci cibiamo da millenni, anche se possono aver facilitato per esempio la diffusione di parassiti specifici o lo sfruttamento intensivo del suolo, al massimo potrebbero reinselvatichirsi qualora non fossero accudite nella riproduzione, mentre gli orizzonti della genetica da laboratorio sono ancora alquanto indistinguibili. Comunque le tecniche di conservazione e di trapianto dei geni per ora non sono in grado di produrre modificazioni programmate – e quindi prevedibili – di interi organismi e tantomeno di progettare nuove specie. Alla genetica si attribuiscono anche indebite alchimie. E' su questi argomenti, soprattutto quando ci si avvicina alla manipolazione dei geni umani, come nel caso delle ormai famose cellule staminali dell'embrione, che si scatena il tabù etico.

Eppure tutte queste tecniche accrescono la nostra conoscenza sulla natura e possono essere rovesciate proprio a favore dell'armonizzazione dell'uomo-natura. Ma è possibile conoscere fino in fondo questi processi in modo da averne in futuro un controllo utile alla specie? Il programma che stabilisce la natura di un organismo, le sue interazioni con l'ambiente e i suoi caratteri ereditari, è composto da centinaia di singoli geni il cui insieme forma il genoma. Ogni gene, essendosi formato e adattato in tempi lunghissimi come parte della struttura complessiva di quella materia ordinata che chiamiamo vita, costituisce uno strumento diventato ottimale ed efficiente alle funzioni che è venuto a svolgere. Il gene, come la cellula, come l'individuo, come la specie umana all'interno della natura, è parte integrante di un tutto col quale interagisce da sempre (che in questo ci sia anche analogia con la concezione organica di partito è tema che abbiamo sviluppato più volte altrove).

La conoscenza profonda degli organismi, quindi, dovrebbe partire dalla struttura del loro genoma. Non soltanto dalla classificazione delle parti, che è in corso per diversi organismi, ma dall'intera rete di relazioni fra di esse. Un compito del genere è troppo arduo anche per l'immaginazione umana, che pure normalmente lavora assai. "Troppo" nel senso che, mentre è possibile stabilire il numero e la funzione dei geni, il numero delle relazioni fra le loro molecole esula dalla possibilità di percezione del nostro cervello. Un singolo gene è composto, diciamo, da un migliaio di simboli; il numero delle sequenze alternative che si possono ottenere operando un semplice scambio tra di essi come avviene in natura è 10600, cioè una quantità impossibile da rapportare a qualcosa di conosciuto.

L'universo, dicono i fisici, è nato 1018 secondi fa, e la materia complessiva esistente in esso corrisponde a quella di 1074 geni del tipo che abbiamo preso come esempio. Se tutta la materia dell'universo fosse stata utilizzata, dal Big Bang in poi, cioè per cinque miliardi di anni, per produrre esclusivamente acidi nucleici, geni della lunghezza di 1000 simboli appunto, e se questi geni fossero scomposti e ricostituiti in nuove sequenze una volta al secondo, fino a oggi si sarebbero sperimentate soltanto 1092 sequenze, ovvero parte insignificante rispetto a quelle possibili. D'altra parte la massa dell'universo rispetto a quella terrestre è solo 1028, un rapporto che di per sé escluderebbe la possibilità di ricombinazioni sufficienti per dar luogo a un'informazione tanto complessa da generare la vita a partire dai suoi fondamentali componenti genetici.

Questi sono i numeri che i biotecnologi sono soliti citare un po' per stupire il pubblico e un po' per rendere evidente come sia complessa la materia di cui si occupano meritandosi lo stipendio. Ma soprattutto li utilizzano per dimostrare, curiosamente, due cose opposte a seconda delle tendenze: 1) che la vita non ha potuto usufruire di tempo sufficiente per "provare" tutte le sequenze possibili e che quindi è dovuta al caso; 2) al contrario, che la vita, proprio perché non ha avuto un tempo di preparazione sufficiente e quindi non è potuta scaturire da una probabilità praticamente nulla, dev'essere il risultato di un processo che si orientava verso stadi ottimali col passare del tempo e del numero di "prove". Quest'ultima è la spiegazione deterministica: se la vita è uno stato ordinato della materia, questo ordine non può scaturire dal nulla, sarebbe un altro modo per affermare la creazione divina o di lanciare i dadi del caso; invece sono ipotizzabili strutture ordinate all'interno della materia-energia originaria nel suo caotico manifestarsi e trasformarsi, per cui ogni stadio organizzativo, anche primordiale, conserva memoria di quello precedente gettando così le basi per la continuazione della dinamica verso stadi successivi. Accanto a forme di mutazione randomizzate, cioè casuali, ne devono essere esistite di organizzate. Il fatto che la genetica non abbia inficiato Darwin è che l'elemento organizzatore è la selezione, da qualunque agente essa sia provocata.

A buona parte degli scienziati odierni una soluzione del genere pare un'eresia scientifica perché postula una direzionalità finalistica nell'intero meccanismo dell'evoluzione, e sarebbe persino funzionale alla tesi della "creazione continua" finalizzata al prodotto superiore che sarebbe l'uomo, cara per esempio ad un teologo come Teilhard de Chardin. Ma il problema è di stabilire se il numero delle possibilità di combinazione ha un rapporto con il numero di possibilità di mutazione; i modelli basati sulla teoria dell'informazione ci dicono di no, che la materia ha la possibilità di assumere autonomamente ordine e di mantenere l'informazione per farlo ancora. Il ripetersi delle mutazioni orientate significa che vi è una legge soggiacente: una mutazione può essere attribuita al caso, molte mutazioni senza ordine anche, ma molte mutazioni che producono una statistica, quindi un ordine, ci dimostrano che il processo è deterministico e non casuale. Infatti, a partire dalle esperienze di Stanley Miller (1953), ogni simulazione del "caos" archeozoico non ha prodotto composti qualsiasi ma sempre la stessa ventina di amminoacidi, le stesse basi puriniche e pirimidiniche. La complessità delle strutture della natura non implica affatto una complessità conseguente dei princìpi soggiacenti alla sua organizzazione. Le leggi di natura sono semplici ed "eleganti" come disse Einstein. Contro i mistici e gli pseudomaterialisti, la natura è indifferente verso le barriere ideologiche da essi alzate, le abbatte e ci mostra il risultato qualitativamente superiore, a loro in linea di principio inaccessibile.

Dunque la regolarità esiste. Se fosse possibile individuarla, sarebbe individuata la legge, sarebbe perciò possibile comprimere le dimensioni spaziali e temporali della natura (miliardi di anni sull'intera Terra) e riprodurre la vita in laboratorio, progettare strutture genetiche veramente artificiali orientando i prodotti delle loro "traduzioni" dei simboli a funzioni volute e non casuali. Sarà possibile all'umanità futura, a quella di oggi no, è impegnata a servire il Capitale, a consumare merci di non importa che tipo, provenienza o tossicità.

Darwin e materialismo dialettico

Non sappiamo quali siano gli algoritmi utilizzati dalle industrie biotecnologiche per la recente realizzazione della mappa del genoma umano, ma certamente nessun superprogramma per supercomputer potrebbe esaurire il calcolo di tutte le possibilità di ricombinazione, neppure lavorando per secoli. Nel processo di elaborazione, anche solo per individuare i geni, dev'essere contemplato lo scarto delle combinazioni inutili, un po' come succede nella simulazione scacchistica, dove le mosse senza futuro non vengono prese in considerazione dal computer. Il principio è quello individuato da Darwin e che egli chiamò della selezione naturale. Indubbiamente c'è un'interazione fra ambiente e patrimonio genetico delle specie che mutano, ma se, come abbiamo visto, i caratteri mutageni sono insiti nella struttura molecolare, se esistono cioè degli elementi precursori a tutti i livelli di evoluzione, la domanda trabocchetto è in genere: come fa la materia che si organizza a sapere in anticipo quale potrà essere il suo futuro?

Questa antropomorfizzazione dei problemi va combattuta. Per i critici di Darwin la selezione naturale intesa come sopravvivenza del più adatto è una mera tautologia: sopravvivenza del sopravvissuto. L'osservazione, sia pur condita da dotte dissertazioni, è ormai quasi universalmente riconosciuta come fesseria. La sopravvivenza del più adatto non è dovuta alle sue qualità peculiari o alla selezione ambientale o a entrambe: l'organismo in questione è diventato com'è in un processo determinato, durante il quale è mutato mentre anche altri organismi della stessa specie cambiavano, e quindi si presentava un ventaglio di mutanti destinati all'estinzione. Quest'ipotesi materialistica è stata recentemente provata proprio attraverso lo studio comparato dei geni umani, studio che dimostra due fatti interessanti: 1) la derivazione dei nostri geni attuali da due unici capostipiti, un maschio e una femmina vissuti qualche decina di migliaia di anni fa, tutto il resto si è estinto. 2) La differenza di complessità e di numero di geni fra i genomi dei vari organismi non corrisponde alla differenza di organizzazione fra gli organismi stessi (la pianta del riso ha il doppio di geni rispetto all'uomo). Ciò significa da una parte che la selezione dei mutanti è fortissima e dall'altra che il dato quantitativo non influisce sulla qualità del risultato, mentre opera in senso qualitativo l'insieme di relazioni che lega i componenti dell'organismo, specie le proteine, e questo col suo ambiente.

Ciò che vale per gli individui vale per le molecole di cui essi sono costituiti geneticamente e che sono in una situazione di perenne non equilibrio. Il DNA sovrintende alle capacità autoriproduttive di ogni essere vivente, ma se fosse in grado di riprodurre solo sé stesso non vi sarebbe cambiamento, né perciò evoluzione. Oltre tutto gli esseri viventi entro una stessa specie non sono tutti uguali: più è dinamico il rapporto con l'ambiente, cioè più la situazione è lontana dall'equilibrio, più le differenze assumono importanza nel comportamento di ogni individuo nei confronti dell'ambiente, degli altri individui e delle specie avversarie. La selezione naturale non è un dato di fatto da fotografare così com'è, ma segue una dinamica fatta di relazioni in cui differenze già esistenti interagiscono con un ambiente a sua volta in modificazione proprio a causa della presenza delle specie che vivono, lottano, muoiono. L'evoluzione naturale è un fatto altamente autoreferenziale, quindi per definizione assai prossimo al caos, dalle cui strutture nascoste nasce nuovo ordine in momenti che alcuni biologi chiamano, guarda un po', salti di fase, vecchie nostre conoscenze discontinue di ogni processo rivoluzionario continuo. La selezione naturale non è quindi da trattare né come una tautologia, né come una proprietà immanente della vita, ma piuttosto come un insieme di relazioni che occorre capire per sapere quali conseguenze derivino da premesse date.

La selezione naturale è insieme causa ed effetto della riproduzione di caratteri individuali e collettivi all'interno delle specie in spazi limitati. La natura ci dimostra che in linea di principio la selezione opera indifferentemente sia tramite la cosiddetta lotta per l'esistenza che tramite la simbiosi armonica delle specie; e l'alternativa è posta sia dalle premesse genetiche delle specie che dall'ambiente in cui esse non soltanto vivono ma che contribuiscono a realizzare (anche un corpo è ambiente per le cellule che lo compongono). In tale contesto autoreferente al massimo, è chiaro che lo stesso principio di selezione limita fortemente il valore delle combinazioni possibili nelle catene molecolari dei geni. Infatti la natura non lascia al semplice calcolo delle probabilità la generazione di una determinata sequenza, ma la predispone in un ambito delimitato in base a relazioni in parte pre-esistenti nei caratteri dati, in parte dovute all'ambiente.

L'esistenza di molte specie, dai batteri agli squali, dai molluschi ai roditori, che per milioni di anni "non si sono evolute", parrebbe dimostrare una falla nel principio di selezione e di mutazione, ma ciò è errato: in effetti ogni specie esistente oggi è frutto di selezione e mutazione. I batteri attuali non sono gli stessi che furono progenitori delle prime forme di vita ma il prodotto di un'evoluzione durata almeno un miliardo di anni e che si è adattata a questo mondo specializzandosi, rappresentando tra l'altro una delle fonti principali del suo metabolismo generale. Anche i molluschi bivalvi attuali sembrano sempre uguali rispetto ai fossili, ma negli ultimi cinquecento milioni di anni si sono trasformati ed è aumentato incessantemente il numero di famiglie in cui si suddividono. Questo vale anche per l'uomo: i boscimani o gli aborigeni non sono residui di umanità antica, non sono più "primitivi" di noi, dato che hanno avuto lo stesso tempo di evoluzione e hanno lo stesso patrimonio genetico (cioè hanno subito le stesse mutazioni, discendono dallo stesso ceppo), la loro storia è lunga come la nostra, sono soltanto pervenuti ad un livello tecnologico diverso.

Il gene mutante in ultima analisi non è dovuto al caso ma alla storia dell'organismo, così come l'ambiente non cambia a caso ma in presenza di una determinata forma di vita. Ogni apparizione di mutante è prodotto e nello stesso tempo fattore di un salto di fase. A questa dimostrazione del principio di Darwin si è giunti sia tramite la realizzazione di modelli matematici che con l'approntamento di colture batteriche appositamente trattate.

Ora la duplice domanda è: a proposito del salto di fase, qual è la differenza fra l'apparizione di un mutante in un contesto storico naturale di milioni di anni e quella in un breve contesto di laboratorio? E inoltre: se l'uomo ha attraversato i suoi propri salti di fase nella sua storia evolutiva, quale salto di fase lo aspetta ora che è in grado di produrre mutanti? Non è forse già, egli stesso, socialmente, nella condizione di mutante?

Abbiamo da dire cose tremende

Per queste domande la conservazione borghese, anche quando si ammanta di progressismo ecologista, non può avere risposte. La sua caratteristica è l'agitazione apparente ma la sua sostanza ideologica è il pensiero immobile. Tuttavia sappiamo che l'ideologia delle classi dominanti in declino benché sclerotica e conservatrice, nulla può contro l'insorgere di forze materiali che rappresentano il movimento di trasformazione anche del pensiero. Marx afferma che Darwin non scoprì l'evoluzione – già conosciuta prima di lui – bensì le sue leggi, prima fra tutte quella della "trasformazione genetica dovuta ad accumulo ereditario". Un accumulo, egli continua, dello stesso tipo di quello che l'uomo realizza trasformando continuamente ciò che gli è tramandato dalle epoche precedenti. Questo parallelo fra evoluzione biologica ed evoluzione sociale – compresi i già visti salti di fase – ci permette di osservare che l'accumulazione capitalistica non è mero accrescimento del Capitale ma anche trasformazione dei rapporti fra i produttori. Insomma, c'è un rapporto dialettico fra la dinamica che porta alla fissazione di un programma genetico atto alla conservazione dei caratteri – diciamo oggi – e la spinta alla trasformazione indotta dall'ulteriore dinamica che si innesta quando il programma è consolidato. L'uomo capitalistico per accumulare deve trasformare, così finisce per imparare a trasformare sé stesso e la sua società secondo un programma rivoluzionario.

Se è così, e per i comunisti non può che essere così, il gran polverone sulle biotecnologie, sulle manipolazioni della natura e sulle sciagure come l'Aids, sulla proliferazione del cancro e sulla BSE va visto alla luce di ben altri parametri che quelli dell'indignazione. E che ce ne importa di ciò che dicono i comunisti, dice il cultore dell'opinione; ma i comunisti non sono scopritori di acqua calda e nemmeno di nuovi orizzonti del pensiero (a quest'ultimo compito si adopererà la nostra specie nella società futura); sono, come Darwin e come Marx, dei rivelatori di relazioni, dei tessitori che usano materiale esistente. Per questo abbiamo da dire cose tremende, come abbiamo visto, demolendo barriere che impediscono di captare l'evidente.

La manipolazione genetica fa parte dell'evoluzione dell'uomo-industria e l'evoluzione è studiata abbastanza a fondo dalla borghesia. A livelli che non toccano l'ideologia, essa sa non essere riduzionista, sa cioè affrontare il problema dal punto di vista della complessità di un mondo che non ha cesure tra reparti specializzati ma che è una unità, esattamente come fanno i fisici, che considerano l'intero universo come un continuo spazio-temporale, fatto non di materia ed energia separate da una classificazione che è solo dell'uomo, ma di incessante metamorfosi dell'una nell'altra.

Gli evoluzionisti seri sono anche ecologi, dato che il tutto si evolve in relazione al modo di evolversi delle sue parti e viceversa. Chiamiamo la biosfera "sistema" e applichiamo procedimenti conoscitivi per sapere come esso si trasforma nel tempo, cioè evolve: possiamo per esempio prendere in considerazione una dinamica di trasformazione rispetto a) al numero delle specie, compreso l'uomo; b) alla loro varietà e alla loro frequenza relativa rispetto al numero; c) alla massa biologica rappresentata da ogni specie; d) al rapporto fra riproduttività e biomassa; e così via. Si tratta di un criterio quantitativo per trattare un problema qualitativo, perciò esistono difficoltà oggettive di conoscenza, ma non vi sono altre vie se non quella di rendere più complesso il criterio quantitativo. Non c'è possibilità di decidere se i parametri elencati ed elencabili corrispondono a ciò che effettivamente succede nella natura, perché la caratteristiche del sistema, il più complesso che l'uomo conosca, è quello di produrre l'uomo stesso, cioè quell'organismo un po' speciale che a differenza degli altri sta indagando sul sistema e quindi sul proprio conto. Gli ecologisti evolutivi si sono subito avveduti che non si possono fare passi avanti in questo modo, perché gli insiemi ordinati che servono alla descrizione sono sempre arbitrari: nel continuo delle relazioni non è possibile descrivere formalmente insiemi discretizzati, separati.

Ma il chiacchierone da bar è proprio questo che fa quando parla di biotecnologie e separa l'uomo dalla sua opera e dalla natura che l'ha prodotto. Dato un insieme di parametri E che descrivono il sistema al tempo t, dovrebbe essere possibile (nei sistemi meccanici lo è sempre) individuare una legge di trasformazione T che descriva il passaggio da

E (t) → E '(t+1), ovvero: E '(t+1) = T [E (t)]

Nessun timore, non si tratta di formule "difficili" ma un altro modo di scrivere il titolo di questa rivista, n+1, applicandone il significato all'evoluzione e ai suoi salti di fase: abbiamo una situazione e poi ne abbiamo un'altra in seguito a trasformazione (come quando schematizziamo l'accumulazione capitalistica scrivendo DD '). Come sempre, non è possibile accingersi alla ricerca di una legge, in questo caso la legge di trasformazione, se non si conoscono con precisione i parametri utili alla descrizione del sistema. E siccome il sistema di relazioni da cui dobbiamo trarre la descrizione è dinamico, la sua dialettica vieta ipotesi aprioristiche sia sulla stessa legge che sulla descrizione, perciò impedisce di formulare dati quantitativi. Ogni ordine di tempo, di spazio, di quantità relativo ai "pezzi" del sistema è viziato dall'interpretazione "ideologica" antropocentrica. In effetti la natura conosce sé stessa in altro modo, cioè tutto in una volta, senza scansioni di tempo, di spazio, di individui o comunità.

L'impossibilità – evidenziata dalla formuletta – di tracciare una rappresentazione ordinata non arbitraria del sistema come somma di parti, obbliga a cambiare visuale e trattarlo come un tutto unico, nello spazio e nel tempo, dove non è lecito fare differenza fra una chimica "cattiva" e una "buona", una biotecnologia che crea mostri e una biologia idilliaca della "natura", un'industria assassina e un'industria umanista. Questo sistema, come un qualsiasi essere vivente, è un organismo in evoluzione, e muterà quando la sua dinamica lo porterà al fatidico salto di fase, a mutarsi un una nuova specie. Si tratta soltanto di sapere quali sono, tra i meccanismi metabolici di questo organismo, gli elementi del normale ricambio e quelli che la biologia molecolare chiama precursori di mutazione.

Tutti i dibattiti, coinvolgendo esclusivamente il programma mentale di chi vi partecipa, cioè la sua ideologia, portano dappertutto tranne che sulla strada della materiale trasformazione, che per noi è sinonimo di comunismo: in questi confronti è possibile giungere a conclusioni opposte a partire dalle stesse premesse, percorso assai dubbio dal punto di vista scientifico. Eppure proprio gli scienziati si prestano a questo giochetto quando scendono in campo invadendo le tavole rotonde. Succede con le ipotesi sull'universo, figuriamoci se non succede con le biotecnologie, con l'uranio impoverito, con la BSE: in ogni caso c'è l'esperto pro e l'altro contro determinate prospettive. Quando se ne parla come si parla di… Coppi e Bartali, si troveranno sempre schieramenti contrapposti indipendentemente da ogni criterio razionale di decisione.

Bloccare la ricerca?

Se non sappiamo da quali meccanismi sono state prodotte le cellule attuali col loro patrimonio genetico, non possiamo neppure sapere quali effetti produrranno gli organismi geneticamente modificati sull'alimentazione umana e sugli organismi dell'ambiente. Solo una prova empirica potrebbe offrire qualche dato, ma potrebbero occorrere decenni di verifica sperimentale. Perciò, quando si reclama il "principio di precauzione", affermando che, nell'ignoranza, è meglio non svolgere attività biogenetica affatto o limitarla al laboratorio finché la conoscenza non sia "sicura", si reclama semplicemente la censura scientifica. D'altra parte, aggiungendo dei distinguo, questo vago principio diventa così diversamente interpretabile da rendere impossibile ogni accordo su basi oggettive condivise. Ricerca sì, ma controllata, si dice; in effetti questo controllo va dalla proibizione come stava per succedere in Italia, alla liberalizzazione spinta come succede in Inghilterra e negli Stati Uniti, con tanti saluti ai fermi principii.

Comunque il ricercatore-tipo, sentendosi partecipe (più o meno in buona fede, non importa) di quella che si definisce comunemente come l'avventura della scienza umana verso il progresso, ha la risposta pronta: i caratteri dell'umanità comprendono la tendenza al rischio; nel mondo d'oggi bloccare la ricerca sulle biotecnologie è come essere contro la scienza; è come se agli albori dell'industria si fossero proibite le formule della meccanica, gli esperimenti con le macchine a vapore e i prototipi di telai automatici; siccome nessuno sapeva se sarebbe stata possibile l'industria moderna senza provocare morti, feriti e disastri ambientali, sarebbe forse stato meglio non azzardarsi a fare prove e sperimentazioni?

E nell'ambito del sistema di riferimento attuale, che è lo stesso per tutti, scienziati e mistici, ha ragione il nostro ricercatore, naturalmente. Tutti sanno che l'industria ha provocato milioni di morti e che un suo solo prodotto, l'automobile, è responsabile di 250.000 morti all'anno nel mondo. Ma a nessuno, neppure di fronte alla prova provata della pericolosità dell'industria e delle sue merci, viene in mente di fare sit-in e manifestazioni di fronte alla Ford o alla Toyota per questo. Anzi, a Seattle si manifestava anche per difendere la possibilità di fare automobili non solo per i consumatori occidentali e giapponesi ma anche per tutta la popolazione mondiale che ancora è priva di questo bene-pilastro del capitalismo moderno.

Allo stesso modo le moltissime cause di malattia e morte prodotte specificamente da questa società non provocano particolari reazioni. La gente muore rassegnata e basta. Eppure è persino banale osservare che proprio la tanto osannata tecnologia potrebbe già contribuire di per sé a migliorare le condizioni della specie. Invece ammalarsi, salire su un aereo, sedersi a tavola, significa, dal punto di vista della sopravvivenza, entrare nel mondo del mero calcolo probabilistico, perché nessuna attività capitalistica è finalizzata all'uomo. La cui vita è talmente presa nell'ingranaggio anarcoide che ad ogni disastro trova un rimedio che provoca un disastro ancora peggiore, poiché ulteriori rimedi entro i parametri dell'attuale modo di produzione non esistono più, specialmente nei campi della salute, dell'alimentazione e dell'ambiente, quelli più interessati dalle biotecnologie.

Prendiamo la produzione vinicola. Non c'è dubbio che l'industrializzazione dei vigneti ha comportato un'alta produzione per unità di superficie e un'alta qualità rispetto alla piccola produzione parcellare; ma anche un'alta sensibilità dei vitigni ai parassiti. Perciò l'industria ha dovuto fornire metodi e prodotti per correre ai ripari. Dopo alcuni anni le piante non ce la fanno più a sopportare il ciclo meccanico-chimico e non rendono più o muoiono addirittura. L'estirpazione di una vigna malata e la sua ricostituzione comporta una pesante "bonifica" del terreno, costosa in termini di macchine e manodopera, di nuova chimica e soprattutto di tempo. Ora l'ingegneria genetica è in grado di modificare i vitigni affinché diventino più resistenti ai parassiti. E' o no una buona cosa dal punto di vista economico e anche da quello della salute, dato che vi sarebbero meno trattamenti con i tradizionali veleni e cesserebbe la rincorsa tra la potenza di questi e la resistenza acquisita dai parassiti? Qui si innesta il dibattito fra i fautori e i detrattori delle biotecnologie, mentre i comitati governativi e alternativi producono risultati prossimi allo zero. Infatti il ciclo chimico non può continuare all'infinito, il ciclo naturale è perso per sempre (a meno che qualcuno non spieghi come ritornare alla situazione ecologica di prima della peronospera e malattie varie) e le biotecnologie risolvono il problema nell'immediato, ma nessuno sa se esse inneschino o meno un nuovo ciclo infernale di spacca-e-rattoppa, come sta già succedendo nel campo dei cereali. L'unica soluzione sarebbe mettere fine al ciclo, ma non riusciranno a farlo né i laboratori né i dibattiti né i comitati.

L'eugenetica, terra di nessuno

Un altro esempio del fatto che in ambito capitalistico è materialmente impossibile risolvere problemi sociali di tale importanza, è dato dall'eugenetica. Si dice che la ricerca biotecnologica serve per migliorare le condizioni di salute dell'umanità, che ne avrebbe anche un beneficio genetico a lungo termine. Finché esiste il capitalismo ciò non può essere vero. Il miglioramento della specie umana e delle sue condizioni di vita attraverso la lotta alle malattie – genetiche e non – sarebbe possibile, anche solo a partire dalla instaurazione di condizioni non patologiche, ma certo questo ramo della conoscenza ha avuto, col capitalismo, interpretazioni aberranti, essendo stato praticamente monopolizzato da correnti più o meno razziste.

Sepolta per i motivi suddetti l'eugenetica positiva, sopravvive quella definita negativa nell'ambito dei controlli prematrimoniali e delle gravidanze; ma si tratta di pratiche mediche specifiche senza relazione con una visione di specie. C'è invece un'eugenetica "spontanea" di portata enorme che rischia di minare le caratteristiche vitali della specie umana intervenendo direttamente sul patrimonio genetico anche senza tante biotecnologie. Attraverso l'uso massiccio, premeditato, industriale della medicina riduzionistica, fatta su misura per un catalogo di malattie adatto ad un catalogo di merci farmacologiche corrispondenti, la specie umana viene indebolita in quanto tale, immessa in un ciclo produttivo come quello della viticoltura da noi descritto, dove l'assuefazione al farmaco provoca l'esigenza di dosi sempre più massicce e dove il ceppo del vitigno degenera fino a richiedere per forza un intervento di livello superiore, il passaggio, appunto, dalla chimica alla biotecnologia.

Come la chimica non è "colpevole" dell'uso che se ne fa (è chimica anche la fotosintesi che permette la vita ai vegetali di cui ci nutriamo e produce l'aria che respiriamo), così è stupido criminalizzare la biotecnologia in sé, specie caricandola di proprietà che non possiede.

Gli esseri viventi allo stato naturale conoscono raramente la malattia, in quanto la selezione darwiniana agisce a livello macroscopico con la sopravvivenza dei soggetti più adatti (o meglio con l'eliminazione dei meno adatti). Gli uomini e gli animali domestici, anche se vivono di più, sono più soggetti alla malattia non solo perché sono privati dell'ambiente naturale, ma anche – e il fatto non è meno importante – perché la medicina svolge oggettivamente un'azione contraria alla selezione darwiniana che si realizzerebbe con l'eliminazione del soggetto malato. Per esempio, le allergie sono in grande aumento nei paesi più industrializzati, tanto che le grandi multinazionali farmaceutiche hanno individuato un mercato specifico di farmaci da banco. In modo del tutto determinato dall'ambiente urbano industriale, l'umanità sta sviluppando nuove sensibilità genetiche ad agenti chimici combinati, specificamente prodotti dalla civiltà capitalistica. Il trattamento tende ad alleviare i sintomi senza però eliminarne le cause, che sono esterne all'organismo, perciò esso viene messo in grado di vivere più a lungo con i suoi malanni, ma anche di trasmettere la propria sensibilità, finché non si renderà necessario l'intervento biotecnologico.

Gli esperti di ecologia evolutiva sottolineano che l'allungamento della vita è un fatto genetico, cioè non tanto dovuto alla medicina quanto al miglioramento delle condizioni di vita, come del resto l'aumento della statura e del peso corporeo (la statura dei ragazzi americani è cresciuta mediamente di 20 centimetri in sessant'anni). Dunque si allunga la durata della vita, ma la senescenza è sempre la stessa, ed essendo aumentate le malattie da "civiltà" la condizione dell'anziano è sempre più quella del farmacodipendente. Ecco perché, debellate le malattie infettive che un tempo decimavano i bambini, la patologia della vecchiaia diventa un business gigantesco per l'industria. La civiltà blocca la selezione naturale e la specie umana accumula nel suo programma genetico nuove sensibilità, nuove malattie, nuovi terreni d'azione per farmaci brevettati.

L'enorme inurbamento e l'incessante industrializzazione, quindi l'aumento dello stress e degli agenti patogeni, hanno comportato la moltiplicazione di stati morbosi prima rari o addirittura sconosciuti. Non potendo impedire a monte le cause della nuova situazione patologica sociale, tutto si risolve nella ricerca di nuovi ritrovati per la cura, i quali, a loro volta, interagiscono con la situazione esistente rafforzando la tendenza verso nuovi stadi patologici. Diventa del tutto logico, a questo punto, l'inserimento delle biotecnologie, in un processo automatico di sostituzione della farmacologia chimica: come alcune specie vegetali sono state rese resistenti a diserbanti specifici, così gli umani saranno capitalisticamente resi resistenti agli agenti che provocano allergie, a quelli cancerogeni ecc. Così, come il mais resisterà a dosi massicce di erbicida, l'uomo potrà resistere a dosi massicce di tutte le schifezze immonde che il capitalismo non può fare a meno di propinargli.

La possibilità di danno alla specie nel tempo, come si vede, è enormemente superiore a quella che possono produrre gli organismi geneticamente modificati per il ciclo alimentare diretto. Il bioricercatore ha ragione quando afferma che l'inibizione del gene codificatore per la molecola proteica responsabile del morbo "mucca pazza" eviterebbe all'uomo di ammalarsi di quella malattia, ma tace sul fatto che così sarebbe fatto salvo tutto il meccanismo mostruoso che l'ha resa epidemica fra i mammiferi con relativo salto fra specie e specie e continueremmo a trarre cibo da una catena perversa. Ha ragione quando afferma che nuovi tessuti per trapianti ottenuti manipolando le catene molecolari opportune in cellule staminali possono salvare vite umane; ma è il contesto delle conseguenze sulla specie che nel suo ragionamento manca.

Hitler in questo campo era un dilettante in confronto a ciò che si potrebbe fare oggi. In Mein Kampf, il miglioramento della razza ariana è affidato ad una selezione pilotata per 600 anni, con un ragionamento basato sui metodi che gli uomini utilizzano nell'allevamento degli animali. L'atteggiamento di Hitler era "bestiale" solo perché si svolgeva all'interno di un capitalismo non ancora giunto a trattare la materia in modo scientifico. Oggi nessuno parla di eugenetica ma, senza nemmeno avere l'obiettivo di migliorare la specie e senza aver ancora dato il via ufficiale alla bioingegneria genetica umana, anche solo a livello di provette, semi congelati, uteri in affitto, stimoli ormonali e accanimenti terapeutici sui feti, già si compiono manipolazioni sulla vita parecchio più fantasiose di quelle hitleriane.

Al di là di semplicistici richiami, se l'umanità vorrà debellare ciò che oggi si chiama malattia, dovrà certamente occuparsi di eugenetica, in modo organico, non animalesco né scientista. Per i Greci l'uomo era soltanto una brutta approssimazione della forma ideale e perfetta, per questo si tenevano l'uomo com'era e applicavano l'intelligenza nel tentativo di trasfondere la perfezione nel marmo. L'uomo futuro abbandonerà la perfezione come idea e applicherà l'armonia delle forme a sé stesso invece che alle statue. Si metterà in relazione diretta con le potenze della natura senza bisogno degli intermediari dell'Olimpo. Ma non lo farà secondo gli schemi della medicina attuale, tradizionale o biotecnologica, tesa a produrre profitto e indifferente nel perpetuare la malattia, dalla quale, se vi riesce, guarisce soltanto il cliente individuale pagante e non la specie cui essa non bada affatto. In fondo il biotecnologo che si occupa di malattia nella società capitalistica, come tutti i medici, non può essere coerente col suo giuramento: se col suo lavoro avesse completo successo rimarrebbe disoccupato e sarebbe spazzata via anche la sua professione.

Apprendisti stregoni

Si narra che alla vigilia dello scoppio della prima bomba termonucleare qualche scienziato non fosse troppo sicuro che le sue equazioni garantissero la reazione solo nell'uranio e non nella materia circostante, quella del mondo intero. Oggi si legge a proposito dei super acceleratori di particelle che altre equazioni non garantirebbero dalla formazione di un piccolo buco nero in grado di assorbire tutta la materia del pianeta. Sono storielle giornalistiche, ma sono significative rispetto alle incertezze e ai timori che circondano i territori di frontiera della conoscenza umana.

In un mondo tanto casuale da produrre la sensazione che la sopravvivenza dipenda dal calcolo delle probabilità, le biotecnologie non possono non produrre un senso di insicurezza e di timore immediato. La vita appartiene alla natura, si dice, e l'uomo la osserva, la studia, la riproduce in forme manipolate. La separazione dell'uomo-industria rispetto alla natura è arbitraria, ma ciò non entra tanto facilmente nella testa dell'uomo attuale. La situazione è peggiorata dal fatto che conosciamo i processi vitali, li sappiamo riprodurre a partire da materia vivente, ma non sappiamo quasi nulla sul processo storico che ha prodotto la vita e noi stessi in quanto suo risultato sociale. Così, quando l'uomo si appresta alla produzione in questo campo, nel laboratorio-industria si perde di vista il fatto che questa trasformazione sociale dovuta alla scienza è inevitabile esattamente come sono inevitabili le mutazioni genetiche all'interno delle specie o la cosiddetta rivoluzione industriale e scientifica.

Tutto ciò che sappiamo circa l'origine della vita deriva da ciò che sappiamo sulla chimica e sulla fisica. Tuttavia, riguardo ai fenomeni genetici le nostre conoscenze negli altri campi ci servono per descrivere particolarità che sono specifiche del vivente e non esistono altrove. Se il vivente è materia ordinata, come effettivamente è, questo ordine non ci è di grande aiuto a comprendere la sua origine, perché una volta realizzato sembra scaturire solo da sé stesso per riprodursi. Sappiamo che metabolismo, crescita, riproduzione, selezione, richiedono una situazione dinamica, instabile, per cui ogni tanto si verificano salti di fase nei quali modificazioni a livello atomico finiscono per manifestarsi a livello macroscopico, determinando forme evidentissime. Tutta la catena causale, a parte l'origine e la mutazione "spontanea", è determinata, quindi conosciuta, tanto che è possibile riprodurla in laboratorio e prevedere i risultati del lavoro. Abbiamo cercato di percorrere con il lettore le strade già conosciute ed affacciarci su quelle sconosciute ed abbiamo visto che non si può ancora creare la vita, ma la si può manipolare con una grande varietà di risultati, alcuni dei quali frenati per motivi etici spesso pretestuosi, derivanti da una visione irrazionale, e altri, magari più rischiosi, incoraggiati e finanziati.

E' nata, come peggior prodotto delle biotecnologie, la bioetica, più mostruosa di ogni clonazione e di ogni biomostro partorito dalla fantascienza. Chiedersi se è etico il trapianto genetico fra organismi diversi ampliando il patrimonio d'informazione della natura ha lo stesso senso che chiedersi se è etico per la natura stessa procedere per fasi evolutive del vivente o per un contadino ibridare il suo bestiame. Chiedersi se è lecita la manipolazione di organismi viventi e la loro immissione nell'ambiente è come chiedersi se è lecito il continuo adattamento del virus dell'influenza, mutato in pochi decenni più di quanto sia mutato il gene di un mammifero in milioni di anni. E' lecito all'uomo fare ciò che la sua natura l'ha portato a fare, usare antibiotici, antiparassitari, automobili, plastica, diserbanti, e persino medicinali che bloccano la selezione naturale non lasciando morire la gente?

L'uomo-industria-natura non può non modificare il pianeta ed è solo facendolo che impara a farlo bene. Forse tornerà alle case di legno, ai vestiti di lino o cotone e magari al cavallo, cioè a una vita meno stressante dove lo spazio e il tempo non siano più legati al concetto di valore di scambio; ma non tornerà mai più alla non-scienza, alla preistoria umana senza tecnologia, senza industria e senza attività di progetto; non tornerà all'incapacità di controllare la propria esistenza. Adesso, anche se potrebbe già, non lo sa ancora fare, specie in armonia con la natura di cui fa parte, ma l'industria, la tecnologia, la scienza attuali sono i mezzi necessari perché possa giungere a tale altezza.

Più aumenta la potenza produttiva sociale della specie umana, più aumenta la sua capacità di far danno con ogni mezzo, anche con quelli che oggi potrebbero sembrare i meno devastanti. E quindi l'uomo ha bisogno di sviluppare ancora più conoscenza – non meno – sui fenomeni che ha messo in moto. E' del tutto assurdo voler venire a capo dei gravi problemi posti dalle biotecnologie prescindendo dal mondo reale, con il suo sistema sociale, con i suoi sei miliardi di abitanti che crescono al ritmo di cento milioni all'anno, con la sua assurda miseria dovuta a una paradossale eccessiva produzione.

E' vero: la scienza d'oggi mette in mano agli scienziati e all'industria mezzi troppo potenti rispetto al controllo che ne possono avere. Ed è anche vero che il pensiero immobile della borghesia non ha prodotto un'etica adeguata, neppure borghese. Comunque la rivoluzione incalza, e anche la scienza borghese, contro l'ideologia della classe che l'ha espressa, è in grado di mostrare che non è questione di etica: se noi cerchiamo di trarre la conoscenza dal mondo fisico e dalle sue leggi, non quindi dal nostro cervello individuale ma per mezzo di esso e con l'ausilio della conoscenza acquisita da molti altri cervelli, allora non abbiamo più bisogno né di etica né di filosofia. Non essendo più necessaria alcuna filosofia come tale, cade anche la necessità di ogni sistema ideologico.

L'insieme dei processi naturali è una concatenazione sistematica di relazioni e forza la scienza a ricercarne ovunque, nel particolare, nel generale, nel mondo fisico, in quello biologico, in quello sociale, senza operare indebite separazioni se non, quando sia utile, per comodità descrittiva. Proprio per questo non c'è bisogno di una stupida etica specifica, c'è bisogno che la rivoluzione prosegua il suo corso fino al prossimo salto di fase.

Letture consigliate

  • Manfred Eigen, Gradini verso la vita - L'evoluzione prebiotica alla luce della biologia molecolare, Adelphi Edizioni.
  • Manfred Eigen, Prospettive della scienza, Laterza.
  • Jacques Monod, Il caso e la necessità, Mondadori.
  • Partito Comunista Internazionale, "Comment Monsieur Monod terrasse la dialectique", Programme Communiste n. 58 del 1973.
  • François Jacob, La logica del vivente, Einaudi.
  • Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Opere Complete vol. III, Editori Riuniti (cap. "Proprietà privata e comunismo").
  • Nella pagina Directory del nostro sito, al pulsante Science & Technology, si trovano diversi indirizzi di siti specifici sulle biotecnologie, sulla clonazione umana, sulla "mucca pazza" ecc. (www.ica-net.it/quinterna/topics_directory/science.htm).

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"Un botanico, buon conoscitore delle piante della sua regione, mi scrisse per comunicarmi che in quell’anno i semi del fagiolo comune erano cresciuti dappertutto sul lato del baccello opposto a quello normale. Gli risposi chiedendo altre notizie perché non avevo ben capito che cosa volesse dire; ma per molto tempo non ebbi risposta. Lessi poi due brevi articoli in due diversi giornali, uno pubblicato nel Kent, l’altro nello Yorkshire, nei quali si comunicava come fatto interessantissimo che 'in quell’anno tutti i fagioli erano cresciuti sul lato opposto del baccello'. Un'affermazione così generale doveva avere qualche fondamento e perciò volli chiedere al mio giardiniere se avesse mai sentito qualcosa di simile. Rispose: 'Oh no, signore, dev’essere uno sbaglio, perché i fagioli crescono sul lato opposto soltanto negli anni bisestili, e questo non lo è'. Gli domandai come siano inseriti i semi negli anni normali e come in quelli bisestili, ma capii subito che non sapeva niente sulla crescita dei semi del fagiolo in qualsiasi periodo; e tuttavia rimaneva saldo nella sua convinzione. Dopo qualche tempo ricevetti una lettera del mio primo informatore il quale, con molte scuse, mi diceva d’avermi scritto la prima lettera soltanto perché aveva raccolto la notizia direttamente da parecchi intelligenti coltivatori; ma poi, parlando con ciascuno di essi, s’era accorto che in definitiva nessuno sapeva spiegare chiaramente che cosa avesse voluto dire. Ecco dunque il caso di una convinzione che si è diffusa in quasi tutta l’Inghilterra senza l’ombra di una prova, seppure si può chiamare convinzione un’opinione che non sia basata su un’idea ben chiara". (Charles Darwin, Autobiografia)

Rivista n. 3