Il castello del padrone umanista

Un imprenditore tessile acquista un borgo medioevale del XIII secolo con tanto di castello e chiesa, lo restaura a sue spese e vi trasporta la sua fabbrica con 195 lavoratori. Invece di capannoni in cemento e acciaio vi sono case in laterizi e pietra, torri, cortili e piazzette, vie lastricate e giardini pieni di fiori. Siccome il borgo è in cima a una collina, ogni finestra si affaccia sullo splendido panorama della campagna circostante. I reparti di produzione sono distribuiti fra gli edifici, vi sono saloni dai soffitti affrescati collegati da luminose gallerie e la mensa aziendale è un raffinato ristorante. Il luogo si chiama Solomeo, Umbria.

L'ambiente della fabbrica è idilliaco e fotogenico. Inaugurata nel settembre del '99, richiama già molti visitatori, perfino dall'America e dal Giappone. Il padrone è un tipo dall'aria simpatica, si definisce umanista e, facendo partecipe il prossimo del suo pensiero, cita Socrate e S. Benedetto, Seneca e S. Francesco. Dice che l'impresa non è sua ma del mondo, delle cui bellezze si sente responsabile per la minuscola parte che lo riguarda. E' quindi contrario alla proprietà privata: "Il senso del possesso è una malattia pericolosa che rovina chiunque", spiega. Nella fabbrica si lavora il cachemire e si producono capi di lusso. Non ci sono orari fissi, ognuno ha le chiavi per andare e venire, è invogliato a seguire corsi di formazione, usufruisce di servizi sociali moderni, ha la casa e partecipa agli utili. Ci sono persino una fornita biblioteca, una grande sala riunioni e un auditorium dove si cimenta il coro aziendale. Si tratta insomma di un borgo-falansterio, una comunità produttiva.

L'Italia è un paese in cui si lavorava nell'industria borghigiana ben prima che il vapore e le macchine facessero esplodere la rivoluzione industriale inglese. Il suo territorio è disegnato dalle città, come ben raccontò il borghese rivoluzionario Cattaneo, e queste furono sede d'industria, fonte di commercio, gelose della propria identità e dei propri interessi sino alla guerra. Guerra l'una contro l'altra, ma soprattutto contro il feudalesimo rappresentato dall'imperatore. Fu questa la matrice della civiltà urbana moderna: Milano ebbe la prima guerra civile tra classi cittadine nel 1057. I grandi canali d'irrigazione, simbolo della florida agricoltura lombarda, modello per il mondo successivo, furono tracciati e scavati dai Comuni subito dopo essersi liberati dal Barbarossa nel 1176. Bologna comprò i servi, liberandoli, nel 1276 e Firenze vide la prima rivolta propriamente operaia nel 1378.

Le città erano libere. Furono struttura portante del nascente capitalismo. Ogni borgo, grande o piccolo, era una comunità operosa e produttiva che, tramite le fiere, era legato alle altre comunità molto più di quanto s'immagini oggi. Non erano isole, ma parte di un tessuto che riempiva il territorio svuotato dalla caduta dell'impero e dai regni barbari. Queste comunità non sono riproducibili oggi. Né in un borgo né tantomeno in un intero territorio, come vorrebbero alcuni teorici del capitalismo sostenibile. Fallirono in passato esperimenti ben più vasti di quello del borgo umbro, e i reiterati tentativi hanno dato luogo ad una letteratura molto vasta. E' il carattere dominante che stabilisce la vita di una comunità, e se domina il capitalismo, essa sarà capitalistica in pieno o non sarà affatto. Nonostante tutto, l'uomo ci riprova in continuazione, segno che il suo essere sociale e comunitario, anche se annichilito dal capitalismo, sente un irresistibile richiamo.

Sociologi e antropologi hanno qualche problema nella definizione di comunità: gli insiemi umani hanno contorni troppo sfumati e sovrapposti. Ma di comunistiche ne esistettero sempre, da quelle dei buddisti a quelle degli esseni, dalle rivolte eretiche alle unità produttive dei cistercensi, fino ai fenomeni d'oggi. Utopie comunistiche furono immaginate da filosofi e scienziati per molti secoli, finché il capitalismo uccise l'utopia cancellando il concetto stesso di comunità. Invece dell'utopia, l'industria produsse tentativi pratici. Owen, per esempio, si occupò, all'inizio dell'800, di un vasto esperimento sociale nella comunità produttiva di New Lanark. Nel corso di quel secolo, in tutta Europa, gli stessi capitalisti diedero spesso vita a strutture produttive e abitative improntate a metodi comunitari, di tipo paternalistico e socialisteggiante, adottando a volte notevoli soluzioni architettoniche e urbanistiche. L'America fu il vivaio più fecondo di convivenze in comunità di beni; lo stesso Owen vi fondò la "colonia socialista" di New Harmony nel 1826.

In Russia le comunità comuniste urbane scaturite dalla rivoluzione fallirono presto, mentre sopravvissero forme cooperative contadine di semiproprietà, i colcos; questi poi influenzarono le cooperative industriali e di servizi urbane, forme capitalistiche pure. Le forme di coabitazione urbana degli anni dello stalinismo, più che comunitarie furono semplicemente coatte. All'Ovest, lo sviluppo delle città fordiste modellate intorno alla fabbrica e il coinvolgimento proletario nelle politiche sociali capitalistiche non produssero comunità ma corruzione interclassista. Il comunitarismo capitalistico dell'Est come dell'Ovest ebbe così il suo marchio di classe. Definimmo colcosianesimo industriale ogni coinvolgimento della classe operaia nella salvaguardia del capitalismo, specie in queste forme sociali.

La comunità cittadina precapitalistica e antifeudale era il prodotto di una storia che aveva visto sconvolgimenti immani, lotte di popoli lungo tutta l'Europa e, di conseguenza, spostamento di popoli dalla caduta dell'Impero Romano in poi. Il tessuto urbano ricalcava la struttura sociale delle "fabbriche" e dei mestieri ed era un tutto organico con la popolazione, pur divisa tra borghesi, artigiani, garzoni, servi. Nessun esperimento comunitario, oggi, può ricalcare la storia millenaria dei borghi. Né può fondarsi su modelli utopistici, nell'epoca del superamento pratico dell'utopia. E allora si fonda sulla cultura umanistica, come dice non solo l'imprenditore del borgo umbro. Ecco perciò i nuovi umanisti assoldare "esperti" che si dedicano alla "lettura del territorio" per plasmarlo a "misura d'uomo". Ma, e ci riferiamo a un nostro classico testo, lo leggono come il gangster legge le mazzette del malloppo. I restauri urbani dalle pretese filologiche, al di là delle illusioni dei singoli, sono sempre dettati da pura speculazione; hanno sempre come obiettivo non l'umanità vivente ed operante ma la realizzazione di precisi interessi privati. Le abbiamo viste le città morte degli ultrafamosi architetti; le abbiamo lette le loro vertiginose acrobazie teoretiche per giustificare indifferentemente l'insardinamento degli umani o il vuoto invivibile; abbiamo visto che fine hanno fatto le New Town e le Città Giardino, divenute subito oggetto di crescita tentacolare dei suburbi, l'esatto contrario per cui erano state concepite. In buona fede, per carità.

Un esperimento campione di fabbrica umanista in grande fu la Olivetti, il cui proprietario aveva persino fondato un movimento politico, chiamato, guarda caso, Comunità. E l'aveva firmato col nome di famosi sociologi, economisti, architetti, urbanisti, i migliori cantori della società borghese. Il borghese era un tempo uomo libero, e libero era il possessore di un'arte (mestiere) che dal borghese veniva assoldato. Oggi il borghese non è solo schiavo del capitale ma superfluo, essendo ovunque sostituito da funzionari stipendiati del Capitale. L'unica forza-lavoro esistente sul mercato è quella operaia, e nessuno è libero, essendo tutti soggetti al disegno della città capitalistica, cumulo anarchico di lavoro passato, non-comunità, perché la polis attuale è lo Stato. E architetti, urbanisti e sociologi, non possono che essere trasmettitori dell'ideologia dominante, della cultura, appunto. Stravolgono il significato di progetto, che per noi è programma, rovesciamento della prassi, opera dal risultato voluto, perché non possono che disegnare quel che questa società gli commissiona nel suo anarchico crescere riuscendo persino a cavarne teorie.

Romolo non fu né architetto, né urbanista creativo, né sociologo: afferrò l'aratro e mosse i buoi a tracciare l'area sacra di Roma secondo quel che gli dettavano archetipi sociali rispetto alla futura comunità; il mito sacrificale comportò che uccidesse suo fratello perché aveva schernito tale disegno. Le città crebbero modellate dal terreno, dalle strade, dai nemici che richiedevano fortificazioni e dagli dei che pretendevano templi, ma soprattutto dal lavoro degli uomini che l'abitavano, a cominciare dalle opere di utilità comune. Nessuna comunità odierna può muovere forze simili a quelle che eressero piramidi, acropoli e cattedrali. Marx disse nel Manifesto che la borghesia ha innalzato ben altro che piramidi: è vero, ma nel regno dell'applicazione della scienza alla produzione, della socializzazione massima del lavoro, della estensione planetaria della produzione, delle comunicazioni, dei traffici. Oggi l'equivalente delle grandi piramidi e delle altre grandi realizzazioni del passato è impensabile perché non esiste una comunità che tutta intera si mobiliti allo scopo. Oggi le opere pubbliche non scalfiscono la proprietà individuale, e quelle private sono, appunto, opere di cui la comunità è privata. Oggi ogni operazione sociale si chiama investimento.

Nessuno dei 400 abitanti del borgo avrebbe avuto la possibilità di evitare il collasso totale degli edifici in rovina e ristrutturarli con un progetto unitario. Poteva farlo solo un unico imprenditore con sufficiente capitale o solide garanzie bancarie. In effetti quest'ultime erano automatiche perché il progetto di rivalorizzazione di quasi un ettaro di edifici fatiscenti acquistati a 100.000 lire al metro comportavano di per sé un investimento accettabile per qualsiasi banca. Certo, ne valeva la pena per la bellezza, ma, come dice Shakespeare, nel mondo del denaro essa si compra. Bastava quindi assumere le imprese per i lavori, pagare gli architetti, mobilitare anche capitali pubblici per il restauro delle strade e degli edifici storici. Poi, ad opera compiuta, annunciare al mondo, con un libro scritto di persona, che col trasloco della fabbrica e di tutti i suoi operai – "anime pensanti" – la comunità era nata.

Abbiamo sempre provato avversione per i grandi e piccoli esperimenti colcosiani industriali. Eppure, nonostante il nostro odio per queste soluzioni domestiche allargate, famigliari, paternalistiche, conservatrici e cristianucce, nonostante questa aberrazione della fabbrica che ti arriva nel soggiorno, nonostante questa evoluzione del contadino colcosiano in operaio proprietario di azioni di fabbrica e di porzioni di casetta, nonostante tutto ciò, il castello del padrone umanista, questa ricostruzione un po' romantica alla d'Andrade, che certo non potrebbe ospitare un'acciaieria invece di una boutique, è di per sé un messaggio che fa scattare il nostro detector comunista. E vi leggiamo: allora non è impossibile recuperare al bello le opere dell'uomo invece di distruggerle, fare a meno del frastuono e del caos, consumare in comune pasti come si deve invece di sbobbe schifose, avere in comune biblioteche e giardini, rompere il dualismo fra città e campagna. Allora nella società futura sarà possibile, a maggior ragione, progettare effettive comunità di uomini, liberi dal bisogno di egoistico possesso. Magari a partire dal ridisegno drastico e radicale di qualcuna delle tante megalopoli, prima che dai borghi bucolici e sperduti.

Rivista n. 3