Crisi dell'energia negli Stati Uniti
Lo scorso 17 maggio il presidente americano rendeva pubblico un rapporto sull'energia e, con una certa enfasi, sottolineava che gli Stati Uniti si trovavano di fronte alla più grave crisi energetica dopo quella del '75. Indispensabile affrontarla attraverso un piano federale, in modo da raggiungere entro pochi anni "la completa indipendenza energetica". Il rapporto era, sino a quel giorno, "segreto", in quanto fatto preparare dallo staff presidenziale e non dal parlamento. Ma poiché non è invece un segreto che l'attuale amministrazione sia in stretti rapporti con i petrolieri, l'opposizione aveva buon gioco per scatenare, oltre a una campagna di critiche specifiche sul piano, anche uno di quegli attacchi moralistici di cui l'America pragmatica e amorale si serve così spesso. Naturalmente tutte le organizzazioni ambientaliste si sono accodate.
L'amministrazione attuale avrà certamente un debito post-elettorale con i petrolieri, ma quale amministrazione non l'ha avuto con le lobby che l'hanno fatta eleggere? Di sicuro vi sono smaccate coincidenze. Per esempio, il programma per le energie da fonti rinnovabili e i programmi dipartimentali per l'aumento dell'efficienza nell'uso dell'energia sono stati dimezzati, mentre gli standard di efficienza per i prodotti industriali stanno per essere sospesi. Ad ogni modo non sarà stato il "presidente petroliere" ad elargire favori alle sue camarille ma, al solito, interessi ben precisi avranno spinto un presidente più che un altro, camarille o no. Addirittura un presidente ultra-liberista che, appena insediato, presentava già un "piano" per l'indipendenza energetica.
Il fatto è che, secondo la legge del valore e la conseguente teoria della rendita, non sono né i governi né i petrolieri a stabilire il prezzo dell'energia, bensì proprio chi si lamenta degli alti prezzi, cioè chi la consuma. Non nel senso banale delle presunte leggi della domanda e dell'offerta, ma nel senso che l'energia, quando è ancora nella sua forma iniziale di petrolio, acqua o uranio, di per sé non ha prezzo, non "vale" niente. Le materie prime da cui si ricava energia sono distribuite dalla storia geologica del pianeta e non dall'industria, e i terreni in cui giacciono permettono una rendita differenziale rispetto a quelli che non ne hanno.
Ora, il prezzo dell'energia è stabilito da chi la consuma perché la rendita differenziale non è un dato a sé, una caratteristica immanente del terreno: se non ci fosse l'industria, il petrolio potrebbe starsene sotto terra come ha fatto per milioni di anni. D'altra parte solo l'industria che aveva un sovrapprofitto ha potuto accedere, pagandoli, all'acqua, al carbone, al petrolio e poi all'uranio: quella che non disponeva di sovrapprofitto doveva ricorrere alla fatica umana o a quella degli animali invece che all'acqua, o a quest'ultima invece che al carbone, o al petrolio invece che all'uranio. La rendita differenziale, cioè il prezzo delle materie prime e dei loro derivati come l'energia, è quindi stabilita esclusivamente dalla quantità di sovrapprofitto disponibile da parte dell'industria. Le materie prime e l'energia non sono dunque la fonte del sovrapprofitto, ma gli elementi naturali in cui questo trova il suo sbocco nel processo produttivo. In particolare, il prezzo dell'energia equivale al differenziale di plusvalore prodotto (plus-plusvalore) il quale, a sua volta, dipende dallo specifico aumento della produttività del lavoro in determinati settori dell'industria.
Il piano energetico presidenziale americano prevede la costruzione di 1.300 nuove centrali, in buon numero nucleari, queste ultime bloccate dopo l'incidente di Three Miles Island, in Pennsylvania, dove il nucleo surriscaldato del reattore aveva fuso le protezioni e aveva incominciato a sprofondare nel sottosuolo. Parte di queste centrali dovrà essere alimentata con una nuova rete di gasdotti lunga 40.000 chilometri; nello stesso tempo sarà incrementata la prospezione petrolifera, specialmente in Alaska, dove il solo campo di Anwar potrebbe fornire 600.000 barili al giorno per 40 anni.
La produzione americana di elettricità è circa 4.000 miliardi di KWh (1.600 nel 1970), di cui il 70% da petrolio, carbone e gas, il 9% da centrali idroelettriche, il 19% da reattori nucleari, il 2% da altre fonti (gli Stati Uniti importano elettricità dal Canada per 40 miliardi di KWh). Ognuno dei 275 milioni di americani consuma quindi 14.691 KWh (8.068 nel 1970), mentre, per fare un esempio, ogni italiano ne consuma 4.900 (2.130 nel 1970). L'incremento americano della produzione di energia è stato quindi del 250%; siccome però nel frattempo la popolazione è cresciuta del 135%, l’incremento pro-capite è aumentato "solo" del 180%.
Con differenze del genere con il resto del mondo il problema non è tanto una carenza generica di energia, ma una carenza specificamente americana, dovuta all'enorme consumo di una società che non solo produce ma spreca alla grande. La mostruosa macchina globale americana per la produzione di plusvalore, che grazie alla sua potenza può sfruttare al meglio le condizioni internazionali per la realizzazione di sovrapprofitti, è la causa prima dell'alto prezzo dell'energia o, il che è lo stesso, della sua carenza. A partire da casa propria.
Ecco perché il governo americano non può più scendere a compromessi né con gli ambientalisti né con gli economisti del "consumo sostenibile". Ecco perché scaturiscono episodi come quello del rifiuto di ratificare il Trattato di Kyoto sulle emissioni di gas nocivi, o come il varo di un nuovo programma che prevede trivellazioni nei parchi naturali, nuove centrali nucleari, nuove reti di gasdotti e di tralicci; entrando, tra l’altro, anche in contraddizione con il liberismo spinto che sta alla base della filosofia attuale dell'amministrazione, perché un piano del genere non può essere varato senza l'aiuto statale, come ha sempre dimostrato la politica energetica americana. Specialmente le nuove trivellazioni nel permafrost dell'Alaska, le centrali nucleari e le centrali "pulite" a carbone (queste ultime già producono il 50% dell'elettricità americana da combustibili fossili) richiedono forti investimenti in impianti di smaltimento dei fumi, e quindi il loro rendimento complessivo è troppo basso per il famelico capitale privato.
Il centro studi Anderson Business Forecast dell'università di Los Angeles sottolinea che tutte le ultime recessioni americane (1974, 1978, 1982, 1991) sono state precedute da aumenti dei costi energetici, ma è un modo ben strano di usare le statistiche: secondo la teoria della rendita, i costi energetici aumentano quando si rende disponibile nella società un elevato sovrapprofitto; non è l'alto costo che introduce la crisi, bensì la crisi subentra ad un periodo di boom che produce il sovrapprofitto e quindi l'alto costo dell'energia.
Sono appena passati dieci anni di boom e la regola viene confermata. All'inizio dell'ascesa tutto procede bene e, per esempio, l'Environmental Protection Agency può dedicarsi alla semplificazione delle procedure per le autorizzazioni, per le certificazioni ambientali, per la localizzazione delle strutture, ecc. Ma non appena l'aumento della produzione si accompagna all'aumento della richiesta d'energia, ecco che il sistema non risponde più abbastanza velocemente, le necessità globali del capitale si scontrano con gli egoismi locali e ci si avvede che le strutture dei singoli stati dell’Unione hanno prodotto una balcanizzazione dei regolamenti e delle procedure, spesso incompatibili e quindi fonte di "colli di bottiglia strutturali" rispetto alle esigenze federali.
In effetti perché mai dovrebbe esplodere adesso, in fase di declino dell'economia, una "crisi energetica", se non fosse che le varie industrie interessate non hanno più abbastanza sovrapprofitti da passare alla rendita? Se il problema è quello di rilanciare l'economia con un ribasso dei prezzi dell'energia americana abbinato ad un ribasso del costo del denaro, ecco che diventa chiaro come il tutto si risolve in un tentativo da parte dello stato di innalzare artificialmente i sovrapprofitti. Altro che liberismo, questo è interventismo puro, come abbiamo sempre affermato.
E non c'è neppure clima di emergenza. In aprile l'Energy Information Administration ha annunciato che si prevede un ribasso dei prezzi dei carburanti, che la produzione delle raffinerie sta salendo, che il prezzo del metano è sceso, che le scorte di gasolio da riscaldamento sono l'11% in più dello scorso anno; inoltre non ci sono embarghi in vista né guerre o rivoluzioni e il mondo è pieno di petrolio, come hanno fatto sapere i paesi membri all'ultima sessione dell'OPEC. Perciò, dato che il calo degli indicatori economici porta di per sé a una calma nei prezzi, si tratta di una pura e semplice manovra preventiva, autoritaria, statalista, per scongiurare un inasprimento della crisi.
In California la crisi energetica generale si è sommata a una crisi specificamente elettrica locale. Lo stato ha 34 milioni di abitanti, un PIL superiore a quello dell'Italia, uno dei più alti tassi di sviluppo entro questo boom appena concluso e le leggi a tutela dell'ambiente più severe del mondo. Una miscela esplosiva che sta causando contraddizioni a catena.
Negli anni scorsi vi era stata una quasi-liberalizzazione nel campo dell'energia elettrica. La Southern California Edison e la Pacific Gas & Electric, le due maggiori aziende pubbliche fornitrici di elettricità, erano state immesse sul mercato in modo tutto americano: invece di mettere le loro azioni a disposizione dei privati, erano stati venduti a blocchi gli impianti, con l'intesa che le tariffe al consumo non sarebbero state toccate. Siccome la California era lo stato in cui la produttività del lavoro era salita di più, erano stati fatti più investimenti, la popolazione era cresciuta di più e quindi il consumo d'energia era aumentato di più, i prezzi all'ingrosso di quest'ultima erano inesorabilmente saliti. La contraddizione con i prezzi fissi al consumo era esplosa. Secondo le regole fissate con la liberalizzazione, le aziende potevano tenere una contabilità separata: da una parte la compravendita di energia sul mercato all'ingrosso, dall'altra la vendita verso il consumatore finale attraverso le filiali locali. In questo modo venivano contabilizzati separatamente i profitti realizzati nel traffico di energia e le perdite subìte nella vendita a prezzo controllato. La crisi quindi si rivelava una pacchia per gli azionisti, mentre la società doveva risolvere il problema delle perdite accumulate.
Il disastro è infine esploso la primavera scorsa, con ripetuti blackout a partire dal nord del paese. Dato che il metano estratto in Texas costa in California tre volte di più che nello stato di New York, le organizzazioni californiane dei consumatori hanno incominciato a gridare al complotto (altra specialità americana), tesi subito amplificata dal Partito Democratico che ha in mano il governo locale: il governatore minacciava apertamente di espropriare le centrali elettriche della società Reliant Energy, una multinazionale con sede a Houston, nel Texas, se essa non avesse smesso di manipolare il mercato californiano e far salire i prezzi.
E’ in questo clima che le due maggiori aziende fornitrici, pur festeggiando la cuccagna privata dal lato dei profitti, sono affondate nei debiti: 12,7 miliardi di dollari. Ciò in America significa in genere bancarotta: il rating, il voto di affidabilità delle banche, scende; non si ottengono anticipi per investimenti, le azioni incominciano a crollare in borsa, ecc. In questo caso non c'era denaro per acquistare energia extra e i blackout sporadici si sarebbero estesi a crisi totale. In marzo la Public Utility Commission californiana approvava un immediato incremento delle tariffe intorno al 45%.
Dopo il fallimento della Pacific Gas & Electricity, di San Francisco, la California aveva già speso 6,6 miliardi di dollari per comprare energia sul mercato federale all'ingrosso, quasi tutte le sue riserve. Avendo ancora buon credito, progettava di finanziare l'acquisto di energia per 10 miliardi di dollari attraverso l'emissione di titoli pubblici. La garanzia consisteva nel sicuro aumento del valore dei titoli una volta ritirati dal mercato e superata la crisi. Dal punto di vista giuridico l'operazione non era molto diversa da quella varata per elettrificare la Silicon Valley molti anni prima. Le organizzazioni dei consumatori e dei diritti civili erano scese in piazza: non era morale che lo stato speculasse sulla crisi.
Comunque la liberalizzazione era fallita in pieno. Era stato emesso un prestito statale per complessivi 13,4 miliardi di dollari, era stata razionata l'energia nei palazzi pubblici ed era in progetto un ulteriore razionamento attraverso l’imposizione di un sovrapprezzo per chi superasse un limite stabilito. L'aumento immediato aveva interessato il 55% degli utenti, quelli che già consumavano di più, facendo rientrare il debito di 5,7 miliardi di dollari. In aprile si discuteva la possibilità di estendere gli aumenti a tutti, di creare una authority statale per l'energia con la facoltà di costruire centrali e impianti di distribuzione.
Il 7 maggio un balzo di temperatura in California faceva accendere contemporaneamente milioni di condizionatori, provocando un immediato blackout. Circa 300.000 utenti per volta dovevano restare senza elettricità a turno per un'ora durante tutto il giorno. E la domanda totale era soltanto i due terzi di quella che mediamente si verifica nell'estate. L'8 maggio il prezzo all'ingrosso dell'energia acquistata sulla rete federale raggiungeva i 560 dollari per megawattora, 11 volte di più rispetto al prezzo medio del 1999. Le due principali aziende avevano già debiti da fallimento e adesso erano a chiedere il salvataggio da parte dello stato. Il 6 aprile la Pacific Gas & Electric si registrava per l'applicazione delle leggi contro la bancarotta. Nello stesso tempo la Southern California Edison vendeva allo stato la propria rete di distribuzione, tralicci e centrali di trasformazione, per pagare i debiti. Ironia del caso per il paese più ambientalista del mondo: i piccoli produttori che utilizzavano vento e sole e vendevano alle grandi aziende, non essendo stati pagati, sono adesso sull'orlo del fallimento.
Per una legge fisica, dissipare calore per raffreddare rende meno che dissiparlo per scaldare. Perciò, nel paese dei condizionatori, la domanda di energia in estate è superiore del 30% rispetto alla media annua. Politici, economisti, agenti di borsa, speculatori stanno poco scientificamente incrociando le dita o fregandosi le mani, a seconda della loro posizione. Il resto del mondo alimenterà come al solito questa voragine mangia-energia, inviando flussi di plusvalore, sovrapprofitti da destinare alla rendita, la quale si esprime in denaro, il quale a sua volta fluisce in massima parte, come i petroldollari, verso… le banche americane. Il circolo si chiude, mostrandoci in modo assai chiaro che cosa significa l'accorato appello di Bush per "l'indipendenza energetica".