Governo in partita doppia
"Con questa massa confusa, decomposta, fluttuante, con questi elementi a lui affini, Bonaparte aveva costituito il nucleo della Società del 10 dicembre. Società di beneficenza, in quanto i suoi membri sentivano il bisogno di farsi della beneficenza alle spalle della nazione lavoratrice. Soltanto in questo ambiente egli ritrova in forma di massa gli interessi da lui personalmente perseguiti. In questa feccia, schiuma di tutte le classi, egli riconosce la sola classe su cui si può appoggiare senza riserve. Egli concepisce la vita storica dei popoli come una commedia nel senso più ordinario della parola, come una mascherata in cui i grandi costumi, le grandi parole e i grandi gesti non servono ad altro che a coprire le furfanterie più meschine. Nel momento in cui la borghesia stessa rappresentava una perfetta commedia, la vittoria spettava all'avventuriero, per il quale la commedia non era altro che commedia. E questi allora non prende più la storia per una commedia, ma la propria commedia per storia universale" (Karl Marx, Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte).
La borghesia, classe diventata inutile sulla scena storica, rappresenta ormai soltanto la propria commedia. E i suoi rampolli sguazzano nello spettacolo generale, dove persino il cinema anticipa la realtà al punto di far sorgere il sospetto che a volte la suggerisca (come ad esempio in Sesso e potere, dove il presidente degli USA, beccato con una minorenne, scatena una guerra virtuale nei Balcani per distrarre l'elettorato). La Società del 10 dicembre è sostituita dalla moderna poltiglia sociale piccolo-borghese e interclassista; vino e salsicce all'aglio non bastano più (e neanche i festival dell'Unità e dell'Amicizia), c'è la televisione: la Commedia crea la realtà, perciò diventa davvero Divina, produce persino libri sacri sul "villaggio globale della comunicazione" e sulla "società dello spettacolo".
Il serioso borghese storico è ormai in coma. Guardiano di una verginità che egli stesso non aveva già più quando sotto la Bastiglia lasciava che i sanculotti gli sbrigassero il lavoro, esce dal suo torpore mortale quando sente parole-chiave: liberté, égalité, fraternité! E si trova a recitare la parte dell'indignato tutte le volte che i suoi simili mettono in pratica apertamente le sue stesse furbizie. Libertà di farsi eleggere plebiscitariamente (Mussolini, Hitler, le maggioranze "bulgare" delle elezioni soviettiste), uguaglianza fra un disoccupato e un ultramiliardario, fraternità nella guerra di tutti contro tutti. Non piangiamo di certo sulla democrazia oltraggiata: mica siamo moralisti, e poi quella è la democrazia, non ce n'è un'altra, se ce la tolgono di mezzo sarà un lavoro già fatto. L'uomo ha già di meglio.
L'Economist del 28 aprile titolava: "Ecco perché Silvio Berlusconi non è adatto a governare l'Italia"; e dopo la vittoria elettorale, il 19 maggio: "Così abbiamo Mr. Berlusconi…". Entrambe le volte col suo faccione in copertina, due volte in tre settimane, con quattro articoli, di cui due di fondo. Piuttosto inusuale per l'austero organo ufficioso del capitalismo mondiale, che dell'Italietta si occupa sempre poco. Nel primo numero un'arringa da pubblico ministero accusava gli italiani più o meno di inettitudine per non aver saputo bloccare, neppure dal punto di vista penale, l'invadente personaggio; nel secondo prendeva atto della schiacciante vittoria, non senza evidenziare una vignetta in cui un maleodorante Berlusconi è di fronte ai partner europei che, tappandosi il naso o portando maschere antigas, si schermiscono: "Dovremmo accoglierlo… Certamente, ma dopo di lei… Dopo di lei, prego… Insisto, dopo di lei…".
Nelle pagine successive si legge che la costituzione dovrebbe essere riscritta per evitare la continua debolezza dell'esecutivo, ma che "farlo con Berlusconi al governo sarebbe un momento terribilmente sbagliato". Ma no, è proprio un esecutivo forte che riesce a fare le riforme, la signora Tatcher e il signor Blair ne sono i migliori sponsor mondiali, Reagan aveva fatto la sua parte e Berlusconi si propone di seguirli. Si tratta dunque di un attacco stranamente feroce nei confronti di un capo di partito, e ora di governo, impelagato non diversamente da altri nelle correnti vicende borghesi. Soprattutto da parte di un organo di stampa che di solito non fa moralismo ma bada al sodo, superando in questo molti concorrenti, keynesiani o liberisti che siano, che invece si abbandonano ai propri "giudizi".
Ma a che serve un esecutivo forte? L'Economist sembra in contraddizione quando lo caldeggia, essendo da sempre paladino del liberismo spinto, quello della smithiana "mano invisibile". La contraddizione è solo apparente: la storia moderna ci dice che il controllo da parte dello Stato serve proprio a mantenere libero il mercato d'autorità, contro la sua stessa tendenza spontanea a favorire il monopolio. Fin dalla sua origine, quando Marx cominciò a leggerlo, il periodico è schierato contro il protezionismo e il monopolio. Berlusconi è un monopolista, e per di più diventato potente per mezzo di quel tipo di potere statale che L'Economist (e l'ambiente che rappresenta) storicamente disprezza. Un esecutivo forte in mano alle forze che hanno fatto emergere Berlusconi non vuol solo dire rafforzamento del suo monopolio personale, vuol dire vittoria della poltiglia sociale che la grande borghesia avversa. Fosse solo per il parlamento, lo si può lasciar affogare nelle chiacchiere senza problemi, ma giustamente l'enfasi è posta sull'esecutivo, sull'organo di controllo tangibile del fatto economico e sociale. Non è un problema di persone, dato che qualunque governo – e quello di Berlusconi più di tutti – può essere ricattato e fatto rigar dritto; è un problema di forze reali che non possono essere lasciate a briglia sciolta, in questo caso quelle centrifughe di una Società del 10 dicembre di massa.
Nella società dei monopoli non ve n'è uno ma un sistema intero, fatto di industrie che si rapportano l'una con l'altra in mille modi; ancor prima che si parlasse di globalizzazione, come ben sa anche L'Economist, la libera concorrenza non è mai stata in pericolo a causa del monopolio bensì a causa delle regole, fatte rispettare da esecutivi forti. Lo Stato deve saper fare il suo lavoro negli interessi del Capitale. E siccome la politica parlamentare è fatta di "equilibri", cioè di dare e avere in partita doppia, un governo portato alla ribalta da forze eterogenee, quindi non passibili di controllo da parte del governo stesso, rischia di portare lo Stato a non fare gli interessi del Capitale e, in fondo, di nessuno.
Una certa stabilità in questo senso era stata faticosamente raggiunta con il governo Prodi, ma siccome anche da parte ulivista ci si precipitava ovviamente sui voti della Società del 10 dicembre, aveva avuto il sopravvento la confusione centrifuga, sfociata negli squallidi tentativi di scimmiottamento dalemiani e rutelliani. Oggi non si tratta evidentemente del diktat di "poteri forti" o di "famiglie" capitalistiche, più di quanto non sia avvenuto in passato. Queste sono scemenze, dato che di poteri condizionanti ce n'è un elenco interminabile, che parte almeno dall'ambasciata americana, passa per il Consiglio d'Europa e finisce con le esigenze delle varie mafie. Il fatto è che al Capitale servono politici professionisti, affidabili nel lungo periodo, coriacei se al governo, come Andreotti, responsabili se all'opposizione, come Togliatti. Non c'è bisogno di sapere di chi è il dito che tira il grilletto per sparare sull'agitato Berlusconi, capo di una banda poco affidabile: quando convergono interessi generali e condivisi, un dito qualsiasi si trova. Dopo che le elezioni hanno avuto l'esito non gradito, è significativo, da questo punto di vista, il gran movimento che ha accompagnato le nomine dei ministri. Solo in parte si è trattato di un problema di uomini, che non contano quasi nulla: il problema principale era quello di blindare il governo e fare in modo che non avesse fantasie sue.
Da parte di un organo come l'Economist si è trattato di una messa in guardia per la borghesia – non solo italiana – di fronte ai fenomeni per ora isolati di capitali individuali o collettivi che, utilizzati nella formazione degli esecutivi a partire dalle elezioni, sono in grado di acquistare consenso e truppe, non solo influenzando i partiti esistenti ma addirittura costruendosene ex novo, come si trattasse di reparti staccati delle aziende. Attenzione, dice l'anima della borghesia internazionale a quelle nazionali: è la vostra debolezza che apre la via agli avventurieri. Avventurieri? Ma non sono capitalisti? Sì, in genere lo sono, ma non possono rappresentare gli interessi del capitale globale quando sono tributari di agevolazioni per un capitale particolare, di voti verso la piccola-borghesia. In fondo vada al governo chi vuole, ma - tutti sono avvisati in anticipo - chi governa deve fare quello che richiede il Capitale con la maiuscola, che ha bisogno di continuità, stabilità e soprattutto armonia con i centri di maggiore accumulazione.
Può darsi che il messaggio, dettato da uno storico istinto di classe, non sia diffuso coscientemente. Per noi non cambia nulla. Non a caso, prima ancora che lo sapesse Berlusconi, sull'Economist era comparso il nome di Renato Ruggiero come ministro degli esteri, il dicastero che deve tenere i contatti col resto del mondo. Ora il Cavaliere rivendica la scelta, dice che l'aveva sempre pensato. Anche Bossi adesso sostiene di essere sempre stato d'accordo, dopo aver dichiarato che il personaggio faceva parte del mondo contro cui combatte la Lega. Anche Fini, Casini e Buttiglione non lo caldeggiavano di sicuro, ma adesso che è ministro tacciono semplicemente. Ruggiero non c'entra niente col mondo berlusconiano; è uomo d'industria vera, è stato ambasciatore, direttore della World Trade Organization, è oggi nel consiglio d'amministrazione del Gruppo Fiat, ha cariche analoghe in gruppi che rappresentano il capitale globale. Come dire che potrebbe essere un elemento di controllo. Agnelli ha insistito sulla sua candidatura; Ciampi l'ha praticamente imposto; Kissinger l'ha accompagnato a cena da Berlusconi. Il più grande imprenditore italiano, l'ex direttore della Banca d'Italia diventato presidente della repubblica; l'ex segretario di stato americano oggi impegnato in consulenze politico-economiche di portata mondiale. Anche la sola storia di Ruggiero ministro è già segno che la prossima legislatura non sarà affatto presieduta da un autonomo "governo Berlusconi".
La versione pura e semplice del grande capitale internazionale sul Berlusconi malandrino e trafficone, che si dà alla politica per interessi suoi, peccherebbe di un immediatismo sfacciato. Non sono soltanto i soldi e non è soltanto la debolezza di qualche borghesia nazionale a far rischiare la destabilizzazione locale, con conseguenze più o meno vaste. E' una stupidaggine attribuire, come qualche giornalista ha fatto, l'articolo dell'Economist ad un suo ex corrispondente dall'Italia poi candidato per l'Ulivo. Queste concezioni accordano troppa forza a fattori che di per sé non hanno importanza concreta. Insomma, concentrano l'attenzione su fenomeni superficiali, mentre questi scaturiscono da più profonde ragioni storiche ed economiche, difficili da controllare.
Ogni manifestazione politica si avvale certamente di determinati uomini, o molto capaci o molto rappresentativi rispetto alle esigenze delle classi in continuo confronto sul terreno sociale, ma le sue radici affondano al di là degli uomini, capi, gregari o grandi burattinai che siano. Dicevamo, qualche anno fa in una delle nostre Lettere ai compagni, intitolata Padania e dintorni, che non era stato il piccolo nucleo leghista a creare un movimento piccolo-borghese, ma che era stato il movimento sociale della piccola borghesia in crisi a manifestarsi nella Lega Nord, e precisavamo: "Se non fosse così, un personaggio come Bossi non potrebbe esistere nel panorama politico italiano, che non ama i tori nelle cristallerie ma preferisce i serpenti nell'ovatta". Mentre la Lega rappresentava la punta dell'iceberg, un discusso imprenditore ne faceva analizzare con precisione statistica la parte sommersa e fabbricava apparentemente dal nulla in tre mesi un partito di massa. La Società del 10 dicembre si è evoluta, la commedia si avvale della scienza.
Caratteristica della piccola borghesia, dicevamo allora, è l'ambiguità: da una parte può esplodere in manifestazioni politiche esaltanti la libertà e la potenza dell'Io, dall'altra, nello stesso tempo, può costituirsi in massa indistinta e sottomessa attraverso l'identificazione collettiva con il Capo Supremo. Il fenomeno Lega, quindi, con l'affermarsi della mercificazione, dell'egoismo e degli atteggiamenti piccolo-borghesi nella società, doveva assumere un peso materiale maggiore di quello puramente organizzativo ed elettorale. Infatti, mentre Berlusconi preparava in silenzio il "suo" partito, in Italia non si faceva che parlare di Bossi e della Lega.
Le spinte conservatrici della piccola borghesia, come fece notare Marx, sono contraddittorie al massimo ed introducono alla dialettica della rivoluzione: gli uomini (in generale) raggiungono nella loro storia dei risultati che, ad un certo punto dello sviluppo, sono messi in discussione dall'impossibilità di avanzamento materiale; è allora che, proprio nel tentativo di mantenere questi risultati, la società nel suo insieme entra in subbuglio, muovendo per primi coloro che più hanno da perdere. Essi tentano in tutti i modi di conservare la loro posizione ed entrano in conflitto con coloro che invece da perdere non hanno nulla, i proletari. La lotta assume caratteristiche di classe dal punto di vista che ci interessa. Ma anche quando le cose non sono così chiare la lotta di classe non scompare mai. In tempo di pace sociale essa si manifesta attraverso l'utilizzo di tutti gli strumenti necessari alla conservazione delle condizioni esistenti: ogni rafforzamento del controllo sociale sui meccanismi della produzione di plusvalore è lotta di classe.
Quando si presenta il cambiamento, le forze conservatrici (di cui la piccola borghesia rappresenta la bassa truppa) possono innescare fenomeni distruttivi (come allo scatto delle rivoluzioni francese e russa), oppure dar luogo alla coalizione sociale necessaria a portare avanti la lotta di classe della borghesia contro il proletariato.
Per circa un decennio c'è stata grande agitazione politica attorno al tentativo di dar vita a un "centro" di attrazione conservatore e moderno (cfr. la nostra Lettera del 1992 Il 18 Brumaio del partito che non c'è). Questo vero e proprio movimento politico e sociale ha prodotto prima il disfacimento dei vecchi schieramenti – che sembrava procedesse intorno a solidi agenti della borghesia: Prodi, Ciampi, Dini –, poi il lento ma inesorabile formarsi del nuovo partito e del suo improvviso esplodere. Non ci riferiamo necessariamente alla sua forma, che oggi si esprime nella compagine berlusconiana, bensì alla spinta sociale da cui scaturisce una forza, oggi consenso elettorale, ma più radicata nella società di un semplice voto.
La lunga schermaglia passata su possibili alleanze tra Forza Italia e Lega, comprese le oscillazioni di quest'ultima, non era per nulla indice di incompatibilità, anzi, era concorrenza, consapevolezza di far parte della stessa rappresentanza sociale. Le reciproche accuse di alto tradimento erano folklore superficiale, del tutto superabile nel momento stesso in cui le varie componenti di classe avessero esercitato la loro influenza per una rappresentanza generale. E il Capo Supremo non mancava: venuto meno il populista Bossi, dimostratosi all'altezza della situazione solo nella prima parte della reazione chimica sociale, ecco allora la naturale vittoria del professionista, dotato di tutti gli strumenti adatti alla nuova politica (non si dice che nel villaggio globale sia vero solo ciò che compare in televisione?). La contraddizione delle masse, depresse dal fatto che oggi essere è avere, ma avere non si può, doveva per forza portare alla vittoria l'uomo che con un suo neologismo si autodefinisce l'entusiasmatore. Il gran piazzista della droga mondiale distribuisce altro che polverine illegali e legalissimi Grandi Fratelli. La sua parola d'ordine è vera musica incantatrice per l'orecchio piccolo-borghese: non è vero che non-siete, non è vero che siete soltanto sovrappopolazione relativa, non è vero che la vostra è una vita senza senso, tutti potranno avere e quindi essere. Al Capitale siete utilissimi così. E allora la grande poltiglia di merci e di uomini si compatta dietro un disegnetto, una promessa, una bandiera.
Qualcuno piange sulla disfatta della "sinistra", ma sono lacrime stomachevoli. Il blocco catto-socialdemocratico avrebbe vinto solo se avesse perseguito con coerenza il suo disegno, che è quello di non essere diverso dal centro. E' persino banale ricordare che la natura dell'elettoralismo consiste esattamente nel cercare i voti degli elettori, quindi farsi uguali ad essi, specialmente da quando i sondaggi rivelano (e producono) i risultati ancor prima delle elezioni. Semmai l'idiozia dei sinistri è stato un colossale errore di marketing, visto che avevano impostato la loro esistenza sul mercato: nessun capitalista assennato avrebbe mai deciso di fare concorrenza all'avversario sul suo stesso terreno, quello delle televisioni e dei sondaggi. I due strumenti sono interattivi, si influenzano a vicenda. Ormai lo sanno anche i bambini che è un problema di matematica statistica: i programmi elettorali dei partiti si adeguano sempre alla fascia centrale della distribuzione di probabilità sulle "preferenze" degli elettori. Perché i sondaggi non solo rilevano ma producono anche opinione. Il che è spiegabile con un'altra questione dello stesso tipo: l'interazione tra elettori, partiti e sondaggi, tende nel tempo a smussare le differenze e ad ampliare il centro della curva di distribuzione statistica, proprio quella di cui i sondaggi vanno a caccia.
Se paragoniamo gli individui votanti a molecole di un sistema complesso e organizzato secondo le loro interazioni (scambi di valore tramite merci e denaro), vediamo che tali molecole si influenzano a vicenda in una rete di relazioni omologhe, per cui è corretto dire, come fanno gli attuali studiosi della complessità, che la democrazia è la conseguenza naturale dell'evoluzione sociale. Certo: lo scambio fra equivalenti, suprema legge del capitalismo, rende tutti uguali di fronte al denaro. Solo che questo processo, e sono gli stessi studiosi a dircelo, oltre a produrre informazione indifferenziata (omologazione, che per un sistema dinamico è palude, cioè non-vita), produce anche una polarizzazione sociale, cioè un alto grado di intollerabilità verso l'insopprimibile differenza, che si identifica con "l'altro", albanese, comunista, omosessuale, ebreo (omologazione ulteriore del razzismo democratico: è albanese ma è regolare, è comunista ma è democratico, è omosessuale ma non lo mostra, è ebreo ma non è integralista…).
La Lega, cercando disperatamente di differenziarsi con tutti i mezzucci tipici della piccola borghesia per non morire, ha peggiorato la sua situazione ed è stata stritolata dalla valanga di melassa centrista che arrivava da tutte le parti. Lo spazio del centro era diventato sovraffollato. L'avversario, o meglio la concorrenza era duplice: da una parte un'armata brancaleone di schizofrenici catto-sinistrorsi senza più uno straccio d'identità; dall'altra un'azienda in grado, come tutte le aziende, di fare un'indagine di mercato e di produrre una merce adatta ad essere venduta al cliente-campione. Intorno, le "nicchie" di mercato per i minori. Berlusconi non c'entra, come non c'entra nessun capitalista nella conduzione delle aziende: la produzione va avanti non perché c'è un padrone, ma perché c'è una struttura diretta da "funzionari stipendiati" (Engels). Se avessero avuto un minimo di professionalità, i sinistri avrebbero potuto benissimo continuare a fare i funzionari stipendiati del Capitale. Le loro performances non sono state diverse da quelle che saranno di Berlusconi (come dimostrò ampiamente la vicenda delle pensioni la volta scorsa).
Né il corso precedente, né queste elezioni che ne sono il coronamento, sono ancora riusciti a provocare uno schieramento che rifletta veramente l'anima delle classi legate al Capitale, almeno nell'Europa continentale. Il mondo anglosassone ha già risolto da tempo la questione con un bipartitismo virtuale che si riduce a un monopartitismo d'alternanza, dove i voti della piccola borghesia sono omologati e dove la vittoria è dovuta a pure fluttuazioni statistiche. La sovrastruttura politica latino-germanica è invece storicamente legata al movimento materiale che produsse il fascismo, e quindi necessita di uno schema diverso: a destra il corporativismo nazionale interclassista e statalista; a sinistra il riformismo altrettanto interclassista e statalista; come componente aleatoria i vari "cespugli", che di volta in volta vengono utilizzati nelle coalizioni o semplicemente potati. La Russia uscita dalla catastrofe dell'URSS segue uno schema del genere.
Da un punto di vista immediato questi fenomeni non hanno importanza, tanto ogni parlamento non fa che ratificare ciò che il Capitale fa succedere nella società ben prima che i parlamentari se ne accorgano (anzi prima che se ne accorgano i tecnici che lo comunicano ai parlamentari). Ma da un punto di vista storico la contraddizione è palese: secondo democrazia, cioè contando in schede elettorali, il partito della piccola borghesia codina, bacchettona e localista è più grande di quello dei capitalisti. Di qui la difficoltà pratica, per il Capitale, di avere prima delle elezioni uno schieramento vincente; di qui la necessità, da parte dei suoi organi palesi od occulti, di avvisare in anticipo, in modo che la blindatura dei governi si formi "spontaneamente", che i vari Ruggiero o chi per essi siano accettati, anzi, siano "proprio quello che si cercava", come dice Berlusconi.
Letture consigliate
- Lettera ai compagni n. 27, "Il 18 Brumaio del partito che non c'è"; n. 38, "Padania e dintorni"; ora entrambe nel volume Il 18 Brumaio del partito che non c'è (con la raccolta di tutte le Lettere sulla situazione italiana), Quaderni Internazionalisti.
- The Economist del 28 aprile e del 19 maggio 2001.