Proletari, schiavi, piccolo-borghesi o… mutanti?

Si prenda l'edificio di una vecchia fonderia; lo si trasformi in ambiente ultramoderno; lo si riempia per esempio con molti computer con le loro periferiche, un ristorante, scrivanie, letti a castello, videoproiettori, una sala giochi, un giardino zen; un residence, una palestra, telefoni, una sauna, ecc., tutti elementi intesi come mezzi di produzione; si faccia funzionare il tutto con giovani reclutati nei cybercafé e disposti a lavorare anche 16 ore filate, da dipendenti o consulenti; si lasci "aperto" l'orario di lavoro, 24 ore su 24 per 7 giorni alla settimana; si paghi il lavoro sotto forma di salario, onorario oppure partecipazione aziendale; infine si battezzi il tutto no-sleeping company (azienda che non dorme). Poi si provi a dare una definizione marxista di un posto del genere e soprattutto dei lavoratori che in esso vengono utilizzati: sono proletari, schiavi, piccolo-borghesi o cos'altro? Una sola azienda sarebbe un'eccezione, mille sono un fenomeno da studiare, la tendenza a trasformare così l'80% dell'economia è forse qualcosa di più.

Cresce il numero di coloro che il ciclo del Capitale lega a sé in modo non tradizionale. Negli Stati Uniti venti milioni di salariati d'industria lavorano a casa propria col telelavoro; soltanto il ciclo del cosiddetto no-profit assorbe già il 10% della manodopera totale contribuendo per l'8% al prodotto interno lordo; a questo fenomeno si aggiunge quello di altre decine di milioni di lavoratori precari che partecipano alla valorizzazione del Capitale attraverso un rapporto che un tempo sarebbe stato considerato fuorilegge, ma che sta diventando normale. In Italia il Censis calcola che i contratti di lavoro atipici siano stati nel 2000 quasi due milioni e mezzo (hanno interessato cioè il 20% della forza-lavoro complessiva) con un aumento del 26% dal 1996. Cresce quindi nella società il numero di lavoratori che producono in condizioni più "flessibili" rispetto ai classici inquadramenti contrattuali. Ma si tratta soltanto della solita, classica flessibilità del lavoro chiesta da tutte le confindustrie del mondo?

Per capire che cosa significhi il fenomeno, occorre riallacciarsi a una definizione marxista del rapporto tra lavoro e Capitale. Il proletario è per definizione un libero possessore di sola forza-lavoro, costretto a venderla sul mercato non avendo altre risorse per mantenersi in vita. Per forza-lavoro si intende il complesso delle capacità fisiche e conoscitive possedute da un uomo, quando queste siano impiegate per produrre un qualsiasi valore d'uso. Affinché vi sia incontro fra libero acquisto e libera vendita di forza-lavoro, non sono sufficienti singole transazioni, anche se numerose, tramite denaro-denaro (transazioni, queste, presenti anche nelle forme sociali del passato), ma il verificarsi dello scambio sistematico e perpetuo della forza-lavoro con moderno denaro-capitale, che è espressione del rapporto sociale specifico del capitalismo maturo.

Il venditore e il compratore di forza-lavoro devono essere entrambi liberi, con pari diritti, persone giuridicamente eguali. La sistematicità di un tale rapporto esige che chi possiede la forza-lavoro sia in grado di venderla soltanto a tempo, dato che se la vendesse una volta per tutte venderebbe sé stesso, non sarebbe libero ma schiavo: da possessore di merce da vendere, diventerebbe egli stesso una merce. Perciò deve poter far valere in continuità, giorno per giorno, il suo diritto al possesso di questa sua merce, avere la possibilità di lasciarla solo temporaneamente in uso a pagamento, alienarne una parte ma non rinunciare mai alla proprietà sul tutto. Questo rapporto è il risultato dello sviluppo storico, e il ritorno moderno di forme schiavistiche non va inteso come un passo indietro nella storia, poiché è il risultato della fame di forza-lavoro a basso prezzo del capitalismo avanzato. Si sa che lo schiavismo americano ebbe il maggior impulso con lo sviluppo dell'industria del cotone, del tabacco e dello zucchero.

Marx nota nel Capitale che nel 1790 vi erano negli Stati Uniti 697.000 schiavi, i quali, nel 1861, erano saliti a 4 milioni per effetto dello sviluppo capitalistico; non cita questo dato nella parte sulla storia dell'accumulazione primitiva, ma nel capitolo sul macchinismo e la grande industria (il XIII, Libro I), perché era la grande produzione moderna a produrre il bisogno di schiavi là dove si produceva la materia prima. In seguito (Libro II, cap. IV) Marx precisa che i prodotti utilizzati nel ciclo capitalistico sono comunque merci, sia che provengano dal ciclo stesso, sia che vi giungano dall'esterno (cioè da sopravvivenze schiavistiche, comunitarie, contadine, asiatiche, semiselvagge, pastorali ecc.). E in quanto merci questi prodotti non si distinguono più dalle altre merci, perché si confrontano con loro e con il denaro del capitale industriale, entrando "sia nel ciclo di quest'ultimo, sia nel ciclo del plusvalore di cui è depositario il capitale merce […] Il carattere del processo di produzione da cui provengono è del tutto indifferente […] E' quindi il carattere onnilaterale della loro origine, l'esistenza del mercato come mercato mondiale, che contrassegna il processo di circolazione del capitale industriale".

Non appena entra nel ciclo produttivo capitalistico, qualunque merce si integra immediatamente ad esso, perde i suoi connotati d'origine. In tal modo, da qualunque parte provenga, finirà per essere prodotta specificamente in quanto merce per tale ciclo: essendo sempre pagata con denaro-capitale, contribuirà a distruggere i vecchi rapporti. Qualunque merce è soggetta a questa legge non appena il ciclo capitalistico diventa dominante. Ma allora ciò significa che anche la capacità lavorativa del singolo diventa, quando sia a contatto con il puro ambiente capitalistico, merce forza-lavoro, come tutte le altre merci. Essa si confronterà direttamente col Capitale, perché non appena entrata nel ciclo D – P (denaro – produzione) "diventa uno dei modi d'essere del capitale industriale, non esiste più che come forma di esistenza di esso, gli è incorporata".

Su questo dato di fatto occorre soffermarsi. Nel mondo attuale vi sono centinaia di milioni di uomini, compresi 250 milioni di bambini, che non vendono la propria forza-lavoro in un libero contratto fra persone giuridicamente uguali ma in modo coatto. Queste "persone" sono comunque prive di mezzi di produzione e di qualsiasi altro tipo di reddito; sono costrette a vendere sé stesse per restare in vita, per il riscatto di vari impegni oppure, semplicemente, sono vendute dalla famiglia. Quando lavorano per beni in natura, a volte per il solo cibo individuale, non scambiano forza-lavoro con denaro, tantomeno con denaro-capitale: tuttavia non possono essere immerse in un modo di produzione diverso da quello specificamente capitalistico moderno. Anche lo schiavo antico produceva più valore di quanto serva alla propria riproduzione: a maggior ragione i bambini venduti che oggi in Africa lavorano nelle capitalistiche piantagioni di materie prime organiche per l'industria. Il loro plus-lavoro produce immediatamente plusvalore, cioè capitale per chi li sfrutta, e non generico reddito.

Da notare che la nostra corrente, sulla base di queste considerazioni materiali del rapporto capitalistico, nella metà degli anni '70 prese atto della chiusura definitiva del ciclo rivoluzionario nazionale-coloniale in tutto il mondo, e precisò che vaste aree dell'Asia, dell'Africa e tutta l'America Latina, pur arretratissime, facessero anche già parte del potenziale ciclo rivoluzionario comunista, senza contaminazioni dovute a compiti democratici arretrati (eliminazione di residui feudali, questione contadina, ecc.). Dopo un quarto di secolo, pur tenendo conto dell'importanza di specifiche situazioni geostoriche, estendiamo tranquillamente quest'ultima considerazione a tutto il mondo.

Queste classiche definizioni a proposito di forme del passato che ritornano ibride ai nostri giorni, ci aiutano a capire che cosa siano effettivamente le ultramoderne forme di lavoro e di produzione marginale. La ricomparsa di rapporti di lavoro apparentemente arcaici non può essere preso a riprova di una regressione sociale, ma solo visto come un manifestarsi aberrante dei vincoli che impediscono l'esplodere della società futura. D'altra parte, nell'epoca del dominio reale del Capitale sull'intera società umana, anche la sopravvivenza di aree arretrate non può più essere imputata a carenza di sviluppo locale ma ad eccesso di sviluppo in altre aree, le quali attraggono tutto il capitale disponibile, riducendo il resto del mondo a riserva di caccia, per forza-lavoro a basso prezzo, per materie prime e per carne da cannone utile a partigianerie a favore di un imperialismo o un altro. Persino il più ottuso economista borghese sa bene che ormai lo sviluppo non dipende più da un'impossibile e antistorica accumulazione locale ma dalla ripartizione del capitale esistente.

La struttura mondiale del lavoro sociale, la socializzazione crescente della forza produttiva umana, non possono non avere effetti materiali sulle forme in cui si manifesta lo sfruttamento. Se la miseria e il sottosviluppo odierni sono fenomeni modernissimi dovuti alla distruzione irreversibile dei rapporti antichi, l'estendersi enorme di rapporti di lavoro atipici nelle aree metropolitane non devono essere considerati fenomeni di regresso: saranno anch'essi a tutti gli effetti il risultato di progresso, quindi, per definizione, riflessi del futuro sul presente in via di liquidazione continua. Del resto è ovvio: se si sviluppa il cervello sociale – questa caratteristica peculiare della produzione umana per cui l'intelligenza si sposta dall'individuo alla società – la capacità di produrre si sposta dall'istinto biologicamente memorizzato al progetto effettuato sulla base di conoscenze depositate nella società stessa; allora ogni manifestazione del lavoro vi deve deterministicamente corrispondere. Ogni interpretazione diversa, quindi moralistica, dello sfruttamento moderno, esula dalla teoria del comunismo.

Il lavoratore a domicilio moderno non soltanto estende con il tele-lavoro il reparto di produzione della fabbrica come quello ottocentesco, ma è il prodotto specifico della diffusione sociale della fabbrica, la quale è già uscita da un pezzo dalle sue mura originarie. Il lavoratore iscritto all'agenzia per il lavoro interinale è l'estrema manifestazione del lavoro sociale medio necessario a produrre le merci: vero operaio parziale, esso si ricompone in operaio totale non nella somma degli operai di una fabbrica, ma in un insieme più vasto, che abbraccia operai dentro e fuori le singole fabbriche. Il lavoratore precario costretto a cambiare molti lavori a termine, è il vero prodotto della frenesia produttiva: liberato non solo rispetto ai suoi antichi mezzi di produzione, ma anche rispetto al posto di lavoro fisso, al contratto che impegna i contraenti, alle regole fissate dalle lotte precedenti; liberato quindi anche rispetto ai tradizionali metodi di utilizzo della sua forza per avanzare rivendicazioni: non potrà più ritornare a lottare per il contratto triennale, per la contingenza, per lo statuto dei lavoratori, insomma, per passi indietro verso un ripristino dell'ingabbiamento precedente. Non è mai stato così libero, e la particolare merce che possiede non è mai stata così esposta ai venti del mercato. Nessun capitalista accetterà, di fronte alla comodità di poter accedere alla forza-lavoro in modo così favorevole, di tornare alla vincolante contrattazione e legalità precedente; perciò la demolizione del vecchio rapporto procederà inarrestabile. C'è chi vi piange sopra, e invece si tratta di un vero balzo in avanti, che costringerà il proletario a concentrare le sue energie verso il rapporto di lavoro in quanto tale e non più sulle mille conseguenze sindacali di esso, a valutare con più chiarezza l'obiettivo autentico della sua classe, a distinguere meglio quali sono i nemici dichiarati e ancor più i falsi amici, quelli che lo vorrebbero di nuovo impelagato nella "contrattazione" corporativa dei sindacati eredi dell'interclassismo fascista.

Nessuno qui vuole sostenere la fine della lotta per la salvaguardia delle condizioni immediate, ci vorrebbe. Perciò nemmeno la fine della lotta di classe. Anzi, sosteniamo che vi sono condizioni più favorevoli di un tempo: se è vero che l'operaio moderno è disarmato nei confronti di un rapporto di lavoro senza regole è anche vero che la borghesia stessa, togliendogli la possibilità pratica di frazionare le sue lotte nelle mortifere articolazioni del sindacalismo odierno, lo mette con le spalle al muro: o soccombe, o passa alla lotta totale, generalizzata, classe contro classe.

La no-sleeping company impiantata nella vecchia fonderia (curioso questo involontario quanto simbolico trapasso) è a Treviso. Si tratta di un misto di pubblicità e di reali esigenze produttive, una mostruosità dovuta alla mutazione genetica insita nell'evoluzione sociale. Ma non è per niente un fenomeno isolato. Non essendo per ora disturbato dalla soluzione catastrofica rivoluzionaria che crede esorcizzata, il capitalismo sforna soluzioni immediate ai suoi problemi. Che sono poi questioni di concorrenza sul saggio di profitto, sulla produttività del lavoro aziendale. E siccome non può eliminare velocemente l'apparato giuridico che si è dato, introduce situazioni nuove che tale apparato sarà chiamato a ratificare. Così modifica i rapporti fra Capitale e lavoro, spingendo le proprie contraddizioni verso i terreni di frontiera con la nuova società.

Ovviamente tutto rimane strettamente nell'ambito capitalistico, ma è caratteristica di ogni rivoluzione quella di definirsi per negazione reale di ciò che ne impedisce lo sviluppo. Ogni società, giunta ad un certo grado di sviluppo, produce le proprie antitesi. Il feudalesimo fu negazione dello schiavismo, ma solo la comparsa e diffusione anticipata della proprietà dei mezzi di lavoro e di un altro tipo di soggezione degli uomini permise il salto dalla società antica a quella medioevale. Allo stesso modo il comunismo è negazione di lavoro salariato, di denaro e di merci, ma abbiamo visto più volte che il capitalismo, pur rimanendo intatte tutte queste categorie, genera entro di sé le proprie antitesi, per esempio all’interno della fabbrica, dove governa un razionale piano di produzione e non la legge del valore vigente in generale nella società di mercato.

Una delle antitesi è certamente quella del rapporto di lavoro. Quando decine di milioni di lavoratori non vendono più la loro forza-lavoro al capitalista singolo, né alla società per azioni, né all'azienda statale, ma ad una serie di società distributrici, se non cambia nulla rispetto allo specifico rapporto capitalistico, cambia invece molto dal punto di vista della preparazione di rapporti già adatti ad una società superiore. La manodopera "in affitto", considerata nella sua massa come capacità lavorativa media al più alto grado di socializzazione, è forza-lavoro che potenzialmente si pone già in rapporto con il piano di produzione unico della società futura e non con l'azienda capitalistica. Quando Marx nei Grundrisse annota meticolosamente le caratteristiche del Capitale nelle sue forme avanzate, lo fa anche per sottolineare ripetutamente che proprio le nuove forme già presenti ci permettono di definire il comunismo come fatto reale e non come elucubrazione fantastica.

Le decine di milioni di lavoratori precari, vaganti da una fabbrica all'altra, oppure impegnati con contratti privati di "collaborazione coordinata continuativa", oppure chiamati di volta in volta come "consulenti esterni", ricadono certamente in situazioni confuse dal punto di vista di una definizione formale del proletario. Di volta in volta si possono configurare come proletari puri oppure come ibridi semi-professionisti, ma di sicuro rappresentano in generale una massa di forza-lavoro che si scambia direttamente con capitale anche se non ha più nulla a che fare con il rapporto "aziendale" classicamente inteso.

Mentre la concentrazione del Capitale aveva prodotto un legame fra il proletario e l'azienda, che diventava sempre più grande e organizzata verticalmente, la centralizzazione produce ora il ricorso diretto al mercato di una forza-lavoro sempre più libera, da immettere in fabbriche sempre più specializzate, diventate reparti distaccati della fabbrica sociale, orizzontalmente organizzata. Non ha importanza la forma in cui il fenomeno si manifesta, dato che solo con la faccia tosta di un Berlusconi si può chiamare "imprenditore" un disoccupato costretto a prendere il numero di partita IVA per poter lavorare saltuariamente presso un'azienda che non lo vuole assolutamente assumere secondo le norme contrattuali collettive. A meno di non immaginare la reversibilità del fenomeno (e lo escludiamo per motivi di dinamica storica del capitalismo), di esso dobbiamo non solo tener conto ma capire fino in fondo che cosa significhi per il futuro.

In questo processo, la forza-lavoro viene sempre meno comprata a ore, e sempre più a blocchi; il frenetico rincorrersi di cicli produttivi sempre più brevi fa sì che essa venga utilizzata non più in lunghi processi a scansione oraria o a cottimo, ma "per obiettivi", quindi a consumo illimitato e concentrato, dato che ci si può liberare di essa quando si vuole. Fino agli eccessi che si configurano formalmente come schiavitù, quando vengono acquistati non solo la capacità lavorativa nel tempo ma pezzi della stessa vita. La formula giuridica "traduzione in schiavitù" utilizzata dal magistrato quando scopre e condanna i piccoli nuclei di produzione clandestina in condizioni disumane non è forse adatta ai grandi centri di utilizzo sistematico e pubblicizzato non di forza-lavoro ma di vita-lavoro; tuttavia le caratteristiche sostanziali e non formali sono le stesse: il tempo di lavoro tende a coincidere col tempo di vita. E se non basta un lavoro per vivere, un numero sempre maggiore di lavoratori è costretto a farne due o più.

Questa schiavitù moderna ha la sua estetica e i suoi cantori. Renzo Piano progetta la nuova sede del New York Times oltre l'open-space-time, verso il nuovo rapporto di lavoro globale. La Condè Nast di New York si vanta di essere all'avanguardia mondiale con una sede realizzata dall'architetto Frank O. Gehry (quello del Guggenheim a Bilbao), in solo acciaio, dominante su Time's Square, dove i lavoratori hanno una piccola base salariale e il resto tutto in benefits illimitati legati alla produzione. Lo studio di architettura e ergonomia industriale Cmr si è specializzato nella fornitura di questo tipo di servizio e ha prodotto uffici integrati vita-lavoro per la Sun Microsystem, la Mobil di Roma, il Call Centre Infostrada di Pozzuoli. Persino gli antropologi sono interpellati per studiare gli effetti produttivi di questo tipo di rapporto, e si sperimentano aree dove, invece di affiancarsi semplicemente come nelle vecchie tradizioni paternalistiche, le strutture produttive si integrano con quelle della casa e quelle del cosiddetto tempo libero. Soluzioni "aperte" del rapporto di lavoro sono state sperimentate in altre industrie, specialmente negli Stati Uniti (IBM, Microsoft, Procter & Gamble, ecc.). Ovviamente queste forme di sfruttamento sono più facili da applicare nel mondo dei servizi, ma quando nei paesi industrializzati la maggior parte dell'occupazione è proprio nei servizi, la questione diventa eclatante (USA 84%, Inghilterra 70, Francia 69, Germania 63, Italia 61).

Non più dunque l'antica fabbrica-galera, né la meno obsoleta città-fabbrica paternalistica che seguiva l'operaio dall'asilo alla tomba; oggi vince la confusione fra produzione e vita, dove la vita dell'operaio è tutta per la produzione e si svolge senza che vi sia soluzione di continuità fra gli ambienti in cui prima si svolgevano le fasi dell'esistenza.

L'azienda trevigiana non è molto grande, 150 dipendenti in tutto, ma come abbiamo visto rappresenta un fenomeno interessante in quanto fa parte di un insieme più vasto e internazionale. Per ora il suo "metodo" produttivo frutta forse più sul piano del marketing che altro. Ma essa viene per ultima e nasce già così, non in seguito a una trasformazione, quindi possiede caratteristiche più marcate rispetto alle migliaia di realizzazioni precedenti. Intanto brucia la concorrenza perché non è solo disegnata per essere "moderna" ma è strutturata in modo da rispondere molto più velocemente alle richieste del mercato; non essendoci orari può affrontare picchi di ordinativi; non avendo altra regola che la consegna del prodotto, può concentrare tutta l'energia sull'obiettivo. Inoltre, avendo anticipato il mercato, ha potenzialità di sviluppo che indurranno emulazione.

Nata nel 1998, fatturava 380 milioni il primo anno giungendo a 20 miliardi nel 2000. Un neo assunto guadagna 1,8 milioni netti al mese, meno che nella media del settore. Ma nel gennaio del 2001 l'azienda ha distribuito fra tutti i dipendenti il frutto della partecipazione, un "premio" di sette mensilità ognuno. Tutto ciò che serve alla vita e al lavoro è in fabbrica: teoricamente si potrebbe non uscirne mai; e in pratica succede spesso, tanto che vengono serviti pasti in loco, un massaggiatore shiatsu si occupa delle membra anchilosate da giorni passati davanti al computer, sono disponibili zone di riposo, svago e rilassamento, con molte concessioni al gioco. In tal modo si legano all'azienda i giovani specialisti di new economy e si selezionano i molti che sono attratti dall'ambiente.

Alla domanda sul perché non è presente il sindacato, la risposta dell'imprenditore è: "Perché è distante da questo mondo, forse serve altrove, ma non qui; per noi non è importante la forma ma la sostanza, per questo abbiamo deciso d'incontrare i candidati non qui ma in posti in cui siano liberi di essere loro stessi; anche qui sono loro stessi; l'ambiente è talmente particolare che il problema non è per chi ci lavora, ma per chi eventualmente ne dovesse uscire, a meno che non si trasformi in un evangelizzatore per la nuova azienda".

Siamo in presenza di uno dei classici aspetti della vita capitalistica che mostrano, se pur rovesciati, i caratteri della società futura. Il sistema d'industria secondo Marx era di per sé rivoluzionario: "L'industria meccanica si è eretta naturalmente su una base materiale ad essa inadeguata: era perciò inevitabile che, ad un certo grado di sviluppo, rivoluzionasse questa base e se ne creasse una nuova, corrispondente al proprio metodo di produzione" (Capitale, Libro I cap. XIII). Anche l'industria elettronica e le sue implicazioni si stanno ergendo su di una base materiale ad esse inadeguate. E' perciò inevitabile che se ne creino una nuova, corrispondente a questo specifico metodo di produzione. Ma il processo non può essere infinito e non si vede in che cosa potranno ancora trasformarsi l'ambiente produttivo e il rapporto di lavoro dopo le reti produttive materiali e quelle di comunicazione. Per questo il sindacato, come lo si intende normalmente, è inadeguato all'ambiente in cui matura il nuovo metodo e sarà trasformato, conquistato alle nuove esigenze. Ma a maggior ragione è inadeguata la concezione "sindacale" del comunismo, che vede il proletariato come classe rivendicazionista nei confronti della società e non una forza storica che possiede l'energia necessaria ad abbatterla definitivamente.

Ha ragione l'imprenditore citato: per ora questi ambienti sono ancora molto particolari, ma questa commistione fra tempo di vita e tempo di lavoro prenderà piede e troverà a milioni i suoi "evangelizzatori". La schiavizzazione crescente, dorata o feroce che sia, è una manifestazione del "capitalismo di transizione" e non di una barbarie di ritorno. Non la barbarie è il fondo sociale del capitalismo, ma la civiltà, e la civiltà è questa. Essa ci mostra – in negativo – la potenza sociale raggiunta dalla produzione, quella stessa che permetterebbe già alla nostra specie di fare a meno del lavoro salariato. A meno di non immaginare che l'aumento della forza produttiva sociale porti a ridurre il proletariato a qualche migliaio di lavoratori produttivi "puri", sul cui sfruttamento possano campare gli altri sei o più miliardi di umani che abitano il pianeta, ci troviamo di fronte ad una distribuzione del lavoro su parti sempre più ampie dell'umanità e in forme sempre più ibride ma sempre più aderenti al principio "scambio di lavoro con capitale e non con mero denaro". Quindi ad una proletarizzazione crescente, quindi ad un fenomeno indicativo della vitalità della rivoluzione.

* * *

Continuità

"Se dalle alternative opportuniste alla lotta del proletariato esiste una uscita, questa sta nel prendere di fronte la vecchia questione del merito e demerito degli uomini, e riuscire a liberarsi dal criterio dominante di lasciare ai capi l'arbitrio di innovare e sconvolgere le regole della normativa comune ed impersonale.

Alle polemiche su persone e tra persone, all'uso ed abuso dei nominativi, va sostituito il controllo e la verifica sulle enunciazioni che il movimento, nei successivi duri tentativi di riordinarsi, mette alla base del suo lavoro e della sua lotta.

Il nostro piccolo movimento ha condotto un lavoro poco chiassoso, tendendo a ripresentare il programma con coerenza unità ed organicità tra testo e testo, lavoro e lavoro, in maniera che della affrontata costruzione le varie strutture siano inseparabili, e quindi tutte da prendere o tutte da lasciare; sottraendosi ad ogni paternità personale grazie ad una incessante, ostinata dimostrazione che nulla è stato non solo improvvisato ma nemmeno scoperto, e che si sono soltanto fermamente ricalcate le classiche linee del solo marxismo, e della difesa che forze di varie generazioni e di tutti i paesi fecero contro le tre successive storiche inondazioni opportuniste, che debellarono tre Internazionali" (Politique d'abord! 1952).

Lungo tutti questi anni si è sempre dichiarato nel nostro seno che si trattava di materiali in continua elaborazione e destinati a pervenire ad una forma sempre migliore e più completa; tanto che da tutte le file del partito si è sempre verificato con frequenza crescente l’apporto di contributi ammirevoli e perfettamente intonati alle linee classiche proprie della Sinistra. È solo nello sviluppo in questa direzione del lavoro che noi attendiamo il dilatarsi quantitativo delle nostre file e delle spontanee adesioni che al partito pervengono e che ne faranno un giorno una forza sociale più grande (Tesi di Napoli, 1965).

Rivista n. 4