Sincronia

C'è una relazione diretta fra l'espansione del sistema di fabbrica (cioè dell'industria mondiale), l'ingrandirsi delle aziende centralizzate (holding che controllano più fabbriche per mezzo della maggioranza azionaria) e la finanziarizzazione (tipica della crisi senile capitalistica).

Il capitalismo entra in conflitto con sé stesso proprio sul terreno della contraddizione fra la fabbrica, che è l’effettiva unità di produzione del sistema, e l'azienda, che invece è una mera sovrastruttura giuridica, oggi quasi sempre espressa in capitale azionario più o meno diffuso (cfr. l'articolo Rottura dei limiti d'azienda nelle pagine seguenti). Questo fatto produce effetti vistosi anche dal punto di vista del movimento mondiale dei capitali, soggetto alla legge ferrea della concorrenza, cioè della rincorsa al massimo di plusvalore; movimento che si rappresenta nelle oscillazioni dell'immane massa di capitali fissati nelle borse e nei fondi d'investimento, tramite i quali non si acquistano fabbriche ma aziende. In effetti, ciò che nelle oscillazioni e nella compravendita di titoli si sconvolge in ogni momento non è la base reale della formazione di plusvalore, cioè la catena degli elementi che fisicamente concorrono alla produzione delle merci (le miniere, le fonderie, le fabbriche, i servizi vendibili), ma i loro titoli di proprietà, cioè la forma fenomenica di un rapporto di classe. Perciò fra il mondo della produzione e quello della proprietà si apre un abisso sempre più profondo, tanto che il movimento di capitali attraverso i titoli viene ad assumere un'apparenza di assoluta autonomia.

Nel 1999 l'economia mondiale era cresciuta del 2%, un po' più della popolazione. Nel 2000 è cresciuta del 5%, il maggior incremento dal 1984, soprattutto grazie alla ripresa dei paesi asiatici dalla crisi del '97. Ora, dopo appena pochi mesi dalla chiusura dei conti annuali, soffiano nuovamente venti di crisi, soprattutto a causa della situazione di Stati Uniti e Giappone, che da soli rappresentano quasi la metà dell'economia mondiale. L'effetto più vistoso si è avuto nelle borse, dove è stato bruciato un valore nominale di 10.000 miliardi di dollari, una cifra pari all'intero prodotto interno lordo americano. Negli Stati Uniti la discesa dei prezzi azionari ha provocato una diminuzione netta della quantità complessiva di capitale in titoli posseduto dalla popolazione americana rispetto all'anno precedente, e ciò significa che è stato bruciato più capitale di quanto ne sia stato "creato" in modo virtuale. E' la prima volta che succede dal 1945. Se nel caso degli Stati Uniti gli effetti del fenomeno sono stati contenuti, le ripercussioni reali sull'economia di paesi meno potenti si è fatta sentire: Argentina, Brasile e Turchia, come tutte le economie molto esposte ai flussi esteri di capitali, hanno dovuto prendere misure restrittive interne gravi per far fronte al pericolo di collasso.

Gli Stati Uniti possono manovrare con la quasi-sicurezza di ottenere gli effetti voluti, dato che la loro potenza produttiva e politica si riverbera sul resto dell'economia mondiale, ma solo qualche altro paese industrializzato trae beneficio dall'effetto "traino" della politica economica americana. Hanno tagliato i tassi per ben cinque volte nel 2001, cercando di stimolare la domanda e nello stesso tempo di impedire l'ulteriore precipizio delle borse, confidando sul fatto che l'economia in declino avrebbe impedito un decollo dell'inflazione. Europa e Giappone non hanno potuto fare altrettanto, l'una a causa di una pluralità di economie che rende più difficile alla banca mondiale il controllo dell'inflazione, l'altro perché è già con sviluppo, inflazione e costo del denaro a zero. Perciò a breve termine le tre economie, fra stimoli e freni, dovrebbero attestarsi su saggi di sviluppo equivalenti ma bassi; in pratica potranno essere in sincronia i tre quarti dell'economia mondiale.

Era dal 1974-75 che Usa e Giappone non erano in crisi sincronizzata come oggi, e non è mai successo che vi fosse anche l'Europa. La tendenza all'equiparazione è al momento sul basso sviluppo, ma sarebbero guai anche più gravi se ciò succedesse sul fronte di un andamento positivo: l'esuberanza produttiva contemporanea dei maggiori paesi capitalistici causerebbe immediatamente tensioni acute nel campo della concorrenza sul mercato estero.

Per parlare di "recessione" i maggiori paesi aspettano di avere sei mesi filati di crescita negativa ma, con le manovre economiche statali e i trucchi contabili, la situazione ufficiale di crisi viene spesso evitata. Sta di fatto che l'economia del Giappone, dipendente dalle esportazioni verso USA ed Europa, è stagnante da una decina d'anni; che l'economia europea è legata alle esportazioni verso gli Stati Uniti che sono in crisi; che ogni ripresa americana si basa sulla possibilità di sfruttare una parte del plusvalore prodotto nel mondo; che il mondo, per continuare a produrre plusvalore dovrebbe essere in crescita, cosa che non è affatto garantita. Questo sistema, come si vede, sta diventando pericolosamente autoreferenziale, le aree sviluppate non hanno quasi più elementi che ne esaltino la positiva differenza (in linea di principio lo scambio dovrebbe riguardare prodotti con differente valore d'uso), cessano di essere complementari e premono insieme sul resto del mondo.

Per la prima volta dagli anni '30 si è manifestata in un paese importante (il Giappone) la deflazione, cioè la diminuzione generale dei prezzi rispetto all'anno precedente. Lungi dall'essere un vantaggio per l'economia capitalistica, ciò potrebbe rivelarsi un disastro: i salari, le pensioni e i redditi fissi vengono rivalutati; i mutui e in genere tutti i debiti anche; il valore degli immobili su cui si basano molte garanzie di credito crolla; diminuisce il prezzo delle materie prime e quindi il flusso di capitale verso i paesi poveri che ne posseggono; diminuisce il tasso di cambio delle monete nazionali nei confronti di quella internazionale (dal gennaio 2000 lo Yen ha perso il 20% rispetto al Dollaro, l'Euro il 18, la Sterlina il 13, il Franco svizzero il 12). Insomma, la deflazione non è solo un indice di inceppamento dell'economia, se perdura è anche un fattore di crisi ulteriore.

Ora, la crescita mondiale, seppure scarsa, era sostenuta dall'espansione americana, interna ed estera. La cosiddetta globalizzazione era un fenomeno positivo per il Capitale mondiale, che si trovava a suo agio in una diffusione sul pianeta senza troppi vincoli nazionali. Ma il rovescio della medaglia è – sulla base degli stessi meccanismi – la globalizzazione della recessione americana. Finora il prodotto lordo mondiale non è mai sceso, dagli anni '30 in poi, neanche durante la crisi cosiddetta petrolifera, e in ogni periodo c’è sempre stata una compensazione fra aree in crisi e aree in crescita; anche perché i maggiori paesi capitalistici, specie gli Stati Uniti, hanno sempre funzionato reciprocamente da "locomotiva". Ma la situazione attuale sta cambiando: la caduta delle borse, pur riguardando in massima parte il capitale fittizio che si forma e si distrugge in mere transazioni, coinvolge però masse di capitale di per sé nient’affatto fittizie, come i fondi d'investimento, che benché si rivolgano in parte agli ambienti speculativi, cercano soprattutto riferimenti più sicuri in altre attività azionarie, compreso il controllo dell'industria propriamente detta. Come sempre, il comportamento del capitale finanziario è un riflesso superficiale di ciò che succede al livello della reale valorizzazione del Capitale; ma provoca a sua volta effetti sconvolgenti su tale livello, sulle fabbriche e sui servizi vendibili. Perciò più il sistema diventa autoreferenziale, più i suoi meccanismi di regolazione spontanea entrano in crisi; più entrano in crisi, più aumenta l'autoreferenzialità nel tentativo di trovare valorizzazione più rapidamente di quanto non si ottenga con il ciclo produttivo. Nel 1990 l'11% delle variazioni degli utili delle aziende erano dovuti al conteggio di operazioni di borsa; nel 2000 la percentuale saliva molto significativamente al 28%.

Oggi si opera in borsa senza limiti di spazio e di tempo. L'informazione simultanea produce comportamenti simultanei e identici, quindi masse enormi di capitali si muovono tutte in una volta. L'industria è integrata mondialmente: i produttori asiatici di componenti entrano in crisi se entra in crisi l'industria americana dei computer e viceversa. La diversificazione degli investimenti sulle piazze mondiali, che si attua per proteggersi dagli imprevisti del mercato, offre sempre meno margini di affidabilità, annullando i benefici (si perde semplicemente da una parte ciò che si guadagna dall'altra).

Uno studio del Fondo Monetario Internazionale condotto su 5.500 imprese che rappresentano il 90% della capitalizzazione di borsa in 21 paesi sviluppati e 19 non sviluppati dimostra che sono in aumento i fattori globali di variazione dei prezzi azionari: la correlazione fra i prezzi americani e quelli europei (0 = nessuna correlazione, 1 = movimento completamente sincronizzato) era dello 0,4 nel 1995 ed è giunta allo 0,8 nel 2000. Ciò significa che i prezzi si muovono praticamente in sincronia al di là delle frontiere. Non solo le grandi multinazionali, ma anche aziende qualsiasi sono quotate ormai su diversi mercati e quindi contribuiscono al livellamento. D'altra parte il continuo viavai, tra aziende quotate in tutto il mondo, di scorpori, fusioni, acquisizioni più o meno amichevoli, contribuisce all'acutizzarsi del fenomeno. Anche l'accesso al mercato finanziario di milioni di operatori minuti tramite Internet produce flussi di acquisti e di vendite sincronizzate: operando secondo criteri che attingono da fonti comuni, i daily traders muovono capitali tutti insieme provocando un'emulazione che contribuisce a un ulteriore livellamento, dato che tutti acquistano dove i prezzi sono bassi e vendono dove sono alti. Un flusso di capitali talmente grande e differenziato non si può assolutamente controllare. Esso è generato da operatori di ogni tipo che, individualmente polverizzati o ultraconcentrati e "retificati" come le banche internazionali, trattano 24 ore su 24 cercando di bruciare i minuti in una lotta spietata. Così questo incessante gioco al massacro, condotto con strumenti d'investimento sempre più "sofisticati" (si tratta di titoli di proprietà su altri titoli, su debiti e crediti, su fenomeni non ancora verificatisi, su materie prime che non esistono, e così via) si rende apparentemente sempre più autonomo dall'economia reale, dalla produzione.

In questo caos l'unica cosa che gli economisti riescono a fare è la statistica mondiale dei movimenti frenetici delle borse e di quelli assai paludosi della produzione. Vedono i due mondi come separati e si adoperano per dimostrare che, passata ogni recessione, c'è un luminoso avvenire di ripresa. Dimenticano che un tempo essi stessi raccomandavano di tener d'occhio i "fondamentali" dell'economia e confondono investimenti con speculazione, profitti con vincita al gioco. Come dei medici in sala rianimazione, stanno al capezzale del capitalismo in coma e trafficano con l'ossigeno e le flebo. Applicano gli elettrodi per l'encefalogramma e controllano sul monitor i diagrammi dei vari paesi: regolarizzati e depurati dagli effetti monetari, sono sincronici, quasi identici, tendenti al piatto. Allora si rivolgono ai giornalisti al di là del vetro della sala e fanno un cenno: "Va tutto bene, abbiate fiducia".

Rivista n. 4