L'anti-imperialismo bla bla
In margine all'ultimo incontro "G8" la cronaca degli scontri e delle loro conseguenze ha preso il sopravvento e non s'è più parlato d'altro. Peccato, perché stiamo assistendo a un importante fenomeno lessicale, che, se si fosse "entrati nel merito", si sarebbe forse dispiegato con più chiarezza: il termine globalizzazione sta soppiantando imperialismo. Comunque non mancheranno le occasioni.
Una semplice sostituzione di termini non cambierebbe nulla alla sostanza, se si è d'accordo, con Lenin, sul fatto che imperialismo (o globalizzazione) significa "fase suprema del capitalismo"; e soprattutto sul fatto che nella sua fase suprema il capitalismo debba avere come caratteristica principale quella di anticipare nei contenuti la forma sociale successiva, nello stesso tempo in cui si frappone come unica barriera al suo insorgere. Ma non sembra sia così. E infatti l'uso dei due termini non è affatto casuale, vien fatto dipendere dalle occasioni. Quando vediamo che la realtà permea di sé il linguaggio, non possiamo fare a meno di orientare il nostro detector e andare a controllare cosa c'è sotto.
Sfogliando l'abbondante pubblicistica marxisteggiante, si può notare facilmente come il fenomeno sia generalizzato e quindi che cosa sia realmente successo: "globalizzazione" viene utilizzato a proposito di tutto ciò che fa parte del capitalismo moderno, cioè il mercato mondiale, le multinazionali, i rapporti di scambio fra paesi di diverso sviluppo, il debito internazionale, gli organismi di controllo planetario, la comunicazione in rete; "imperialismo" viene invece utilizzato per tutto ciò che fanno i paesi imperialisti, in primo luogo le guerre di "aggressione", poi l'ingerenza negli affari nazionali altrui, l’assoggettamento economico e militare dei paesi più deboli, lo scudo spaziale, le basi militari e… lo spionaggio satellitare di Echelon. Perciò la globalizzazione sarebbe la struttura del capitalismo, l'imperialismo la politica degli Stati imperialisti. Interessante.
A noi che siamo sostenitori accaniti dell'invarianza, quella che ci mostra la continuità dello spazio-tempo storico attraverso trasformazioni, questa dicotomia fra globalizzazione e imperialismo fa un irresistibile effetto di déjà vu. Ci è impossibile non ricordare, infatti, la lucida polemica di Lenin contro Kautsy a proposito della volgare concezione dell'imperialismo come politica fra Stati.
L'imperialismo non è una "politica" di qualcuno ma un assetto economico materiale. A ogni comunista deve essere estranea la concezione dell'imperialismo come dominio politico di qualche Stato su altri. La soggezione politica delle colonie era un effetto dell'imperialismo, ma quest'ultimo non è meno potente oggi che le colonie non ci sono più. Anzi. Nella disposizione delle forze sullo scacchiere mondiale dobbiamo vedere una "catena di interessi" (Lenin) mossa dal Capitale mondiale e non certo dalla volontà dei governi, che ne sono lo strumento. La concezione anti-amerikanizzante dell'imperialismo è una sciocchezza di derivazione stalinista, piena di implicazioni partigianesche. Oggi che è caduta l'URSS e che di partigiano c'è solo il servilismo delle potenze minori nei confronti degli Stati Uniti, è bene ribadire che l'imperialismo è una condizione materiale in cui versa il mondo e non una potenza soggettiva, emanante dall'autorità politica di Stati.
Viene citata spesso la celebre definizione in cinque punti che Lenin utilizza, per l’imperialismo, in critica a Kautsky, ma non si pensa che essa potrebbe non descrivere più adeguatamente l'imperialismo odierno, così come il programma immediato del Manifesto non descrive certamente più le esigenze di oggi (lo affermava già Marx pochi anni dopo la prima edizione). Vien da pensare che spesso si legga solo la definizione e non si comprenda il contesto che la supporta.
Vediamo i singoli punti: 1) la concentrazione dei capitali produce monopoli; 2) la fusione tra capitale bancario e industriale produce un'oligarchia finanziaria; 3) l'esportazione di capitali è più importante dell'esportazione di merci; 4) una associazione internazionale di capitalisti si spartisce il mondo; 5) è compiuta la spartizione della Terra fra le potenze.
C'è sempre bisogno di definire un fenomeno, ma bisogna farlo precisando entro quali limiti la definizione resta esatta. Il bello è che lo scrive Lenin stesso mettendo in guardia il lettore poche righe prima: nessuna definizione ha contenuto scientifico al di fuori dal suo quadro di riferimento; troppi elementi dinamici stanno intorno a un fenomeno per poterne dare una definizione completa e valida per tutte le trasformazioni dovute all'azione del tempo. Nel nostro caso i limiti sono dati soprattutto dalla dinamica stessa dell'imperialismo, che sempre più è il leniniano "involucro che non corrisponde più al suo contenuto". La società nuova preme per liberarsi dall'involucro, e dà la sua impronta alle estreme difese del capitalismo per sopravvivere. L'imperialismo nella sua dinamica è perfettamente spiegato dall'intero opuscolo, il cultore della citazione è fregato.
Se oggi Lenin dovesse commentare il suo scritto sull'imperialismo come commentò il Che fare? (1902) nella prefazione alla raccolta Dodici anni (1907), siamo sicuri che riscriverebbe, sulla base di un metodo invariante, non uno, ma tutti i vecchi punti, in questo caso tenendo conto dello sviluppo non di cinque anni, ma di ottantacinque. Soprattutto tenendo conto che in questo periodo si sono manifestate in pieno tutte le tendenze previste da Marx. Proviamo, sulla base di queste considerazioni, a vedere che cosa si è effettivamente trasformato nel tempo.
Primo punto. La produzione capitalistica si è diffusa alla scala mondiale e la concentrazione dei capitali ha lasciato il posto alla loro centralizzazione; le gigantesche fusioni di questo ultimo mezzo secolo hanno spezzato il controllo verticale delle aziende dedite ad una particolare produzione, generalizzando il controllo orizzontale di aziende diversificate; l'azione di pochi monopoli in accordo fra loro è stata sostituita da una concorrenza spietata fra molti, con conseguente crollo dei prezzi industriali dovuto soprattutto alla maggior scala della produzione.
Secondo punto. La "fusione" tra capitale industriale e bancario è stata sostituita da una totale sottomissione dell'industra da parte del Capitale globale; la cosiddetta finanziarizzazione dell'economia relega i movimenti industriali e commerciali a un'infima parte del movimento totale dei capitali, che sono diventati impersonali; le vecchie oligarchie capitalistiche sono sostituite completamente da un sistema complesso e caotico di interessi anonimi, gestiti da schiere di tecnici che rispondono soltanto alle caratteristiche del mercato e non a persone; la funzione del capitalista singolo è definitivamente annientata.
Terzo punto. Il movimento dei capitali giganteggia oggi effettivamente su quello delle merci, ma l'enormità della differenza induce cambiamenti qualitativi; mentre il commercio internazionale in rapporto al prodotto è ormai fermo da molti anni al dato precedente la Prima Guerra Mondiale, il traffico finanziario è così immenso e globalizzato rispetto ad esso che parlare di "esportazione di capitali" non ha più nessun senso: il 95% di massa finanziaria contro il 5% di massa materiale di merci comporta un oceano continuo di transazioni incrociate nel quale la goccia dell'esportazione di capitali da investimento è ininfluente.
Quarto punto. I capitalisti in quanto tali sono esautorati da ogni funzione, non decidono più nulla e sono dei meri depositari di classe della proprietà; nessuna "associazione monopolistica internazionale di capitalisti" ha più la minima possibilità materiale di spartirsi il mondo; questo è invece sottomesso a un capitale internazionale che fa muovere tutti al suo ritmo, compresa l'unica grande potenza rimasta.
Quinto punto. La spartizione fra le potenze imperialistiche non c'è più, è stata fatta saltare dalla Seconda Guerra Mondiale e dalla sistematica demolizione americana nei confronti delle vecchie potenze coloniali; quello russo era un imperialismo politico-militare senza le caratteristiche di "capitalismo all'ultimo stadio" e, dato che non esportava manufatti né capitali, non spartiva economicamente nulla.
Come si vede, l'imperialismo odierno diventa sempre più una struttura economica generalizzata e perde completamente quelle caratteristiche politiche poste da Kautsky alla base della sua concezione immediatista e ancora visibili nei punti tratteggiati da Lenin. L'esempio russo è fondamentale: fu l'ultimo residuo di imperialismo "politico" ad essere spazzato via. Oggi più che mai lo strapotere di una sola metropoli su tutte le altre è palese, ma va tenuto presente che gli Stati Uniti, anche se ovviamente hanno una ponderosissima politica estera, non starebbero in piedi una settimana se non ci fosse il loro particolare "spazio vitale" rappresentato dal resto del mondo. Questa dipendenza degli Stati Uniti dal mondo e del mondo dagli Stati Uniti ci ricorda il principio di relatività (galileiana) che Einstein formulò molto bene durante una sua visita in Inghilterra quando, sporgendosi dal finestrino del treno, disse: "Chissà se la stazione di Oxford si ferma a questo vagone".
D'altra parte, mentre l'internazionalizzazione del Capitale è una realtà, non possiamo presupporre una borghesia altrettanto internazionalista, dato che ha ovunque radici nazionali. Poiché le borghesie dei vecchi imperialismi decaduti non contano nulla di fronte alla potenza degli Stati Uniti, la borghesia americana dovrà per forza assumere in prima persona, molto più di quanto già non faccia, un potere di controllo internazionale. Essa si trova oggi in una situazione paradossale: di per sé sarebbe isolazionista e protezionista, mentre è costretta, nei fatti, ad essere interventista globale. Tuttavia questo suo ruolo non è ciò che immaginava Kautsky, cioè una manifestazione soggettiva, politica, dell'imperialismo, in questo caso unico sulla Terra. Le determinazioni sulla borghesia americana non dipendono affatto da accordi fra trust o dalla volontà di un governo: è una materiale necessità del Capitale, pena lo sconvolgimento dell'intero assetto capitalistico mondiale.
Il fatto che la Federal Reserve abbia in corso da ben nove mesi una manovra sul costo del denaro praticamente senza risultati, la dice lunga sulla capacità degli stati di controllare i flussi di capitali: interessi così bassi allontanano i capitali internazionali dal mercato interno mentre gli Stati Uniti ne avrebbero bisogno per rilanciare l'economia; ma è proprio l'economia in crisi che pretende l'abbassamento del costo del denaro per stimolare l'investimento e il consumo interno. I meccanismi della finanza mondiale, espressione unificata del Capitale anonimo che domina sulle borghesie e sulle nazioni, sono assolutamente in contraddizione con i meccanismi di salvaguardia degli interessi delle singole borghesie. Questo esclude, molto più che al tempo di Lenin, ogni soggettività nel fenomeno.
Troviamo assai significativo che il lessico sinistrese stia utilizzando "globalizzazione" per un processo materiale e "imperialismo" per le azioni degli imperialisti. L'anti-imperialismo di maniera è già di per sé il trionfo del kautskismo; oggi, purtroppo, ce lo troviamo tra i piedi in una versione peggiorata da una serie infinita di imbastardimenti dovuti non solo allo stalinismo ma anche alla sua sconfitta, che ha provocato uno spaventoso rigurgito di aspettative di fronte al miraggio della democrazia, della libertà del mercato, compresa quella in versione equo-solidale.
Eppure non sarebbe difficile vedere nel giganteggiare del capitalismo mondiale anche il riflesso delle sue immense contraddizioni. Lo spiega benissimo Lenin alla fine del suo opuscolo: egli s'infuria quando il suo interlocutore parla di semplice "intreccio" di interessi e di traffici. Altro che intreccio, scrive, qui siamo di fronte ad una diffusione mondiale della socializzazione del lavoro, ad un capitalismo che non è neanche più tale. Ed è proprio qui che introduce il bellissimo concetto secondo cui l'involucro non corrisponde più al suo contenuto. E soprattutto aggiunge: sta in piedi soltanto perché l'opportunismo ha fiaccato la classe operaia, la quale ha perso di vista il suo compito storico. Ovviamente non c'è nulla di definitivo, e toccherebbe alle presenti generazioni di comunisti dare una spiegazione materiale della sconfitta a causa dell'opportunismo, del perché quest'ultimo si sia dimostrato così efficiente nel deviare il proletariato dal proprio compito storico.
Fatte le solite debite proporzioni e differenze tra il passato, il presente e il futuro, occorre rispondere alla domanda: che diavolo sarà l'involucro? E che diavolo sarà il contenuto? E quale sarà la forza politica che oggi tiene in piedi la baracca? Con un lavoro aderente al corso storico che ha generato le forze della rivoluzione moderna, si può rispondere: il contenuto è la forza della società futura per liberarsi; l'involucro è un cadavere che ancora cammina; la forza politica è ancora molto lontana dall'emergere se c'è persino confusione sulla natura del capitalismo giunto alla sua estrema fase. Politica od economica?
Al tempo di Lenin la situazione era questa: l'imperialismo era già definibile come "fase suprema del capitalismo" e questo lo differenziava da tutte le altre forme di imperialismo del passato. Quello che aveva in mente Kautsky era il riflesso della dominazione politica di alcuni paesi imperialisti su colonie e semicolonie che avevano perso l'indipendenza politica ed erano, ovviamente, sfruttati economicamente. Di qui la sua concezione soggettivistica dell'imperialismo come politica di alcuni Stati. Lenin vedeva che l'imperialismo era un fenomeno mondiale al di sopra degli Stati, un vero e proprio assetto che il capitalismo si dava per estendersi su tutto il pianeta. La soggezione politica era quindi un fatto secondario, rispetto all'importantissimo fenomeno dell'espansione delle basi per la rivoluzione.
Tuttavia, lo stesso Lenin insisteva molto sull'importanza della lotta rivoluzionaria per l'indipendenza politica delle nazionalità oppresse. In tale contesto criticava aspramente le correnti che facevano confusione fra l'indipendenza politica e quella economica. Il ragionamento che oppone Lenin è cristallino ed è lo stesso che tutti i comunisti hanno messo a fondamento della famigerata questione nazionale che tanto ha fatto discutere per più di un secolo: i comunisti chiamano autodeterminazione nazionale l'indipendenza politica. Per risolvere questo problema occorre la rivoluzione democratica borghese. E' vero però che vi sono molti paesi politicamente indipendenti ma economicamente dipendenti; ebbene, quest'altro problema si risolve soltanto con la rivoluzione proletaria (cfr. Intorno ad una caricatura del marxismo, O. C. vol. 23).
Bene, oggi, a parte piccole aree marginali, l'indipendenza politica è generalizzata, ma vi sono moltissimi paesi, anzi quasi tutti, che non hanno l'indipendenza economica. Marxisticamente, l'imperialismo non è definibile attraverso questo stato di cose. In ogni caso, scrive Lenin riferendosi alla sua epoca, all'interno di tutti i paesi vi sono fenomeni di accaparramento e di dominio, di monopolio e di azione specifica del capitale finanziario. Tale situazione si riflette in campo internazionale: l'annessione economica, che in pratica si verifica quando il capitale finanziario mondiale soppianta quello locale, è pienamente realizzabile senza annessione politica. Tutto ciò è ancor più valido oggi, per questo diciamo che l'imperialismo moderno ha risolto dal punto di vista comunista la questione nazionale (dal punto di vista borghese le questioni nazionali si sono invece moltiplicate). Per questo diciamo che l'anti-imperialismo che propugna lotte contro il dominio economico di certi paesi o di certe multinazionali, se ha senso per le borghesie locali non ne ha nessuno per i comunisti. L'imperialismo degli imperialisti cattivi che rapinano il mondo riempiendolo di McDonalds e canzonette è una favola per bambini dell'asilo. Le borghesie locali sono ben felici di poter vendere qualcosa agli imperialisti in cambio di dollari sonanti e se ne fregano di vendersi pure la cosiddetta identità culturale. E se si scende sul terreno del super-sfruttamento – in senso marxista, non in quello moralista – ebbene, si sa che lo sfruttamento cresce proporzionalmente alla produttività, cioè quando pochi operai producono tante merci, in presenza di macchine, automazione, sistema d'industria, e non col lavoro a mano.
Il sistema mondiale ha dunque esaurito la propria forza storica propulsiva e sta in piedi grazie all'apparato sovrastrutturale economico-politico-militare concentrato. Non importa nelle mani di chi, perché in una qualsiasi forma si sarebbe concentrato comunque. Ovvio che ciò ha risvolti di classe. L'opportunismo socialdemocratico di cui parlava Lenin è stato spazzato via dalla storia, quello stalinista che ne aveva preso il posto anche. Sopravvive in mille gruppetti e partitini sparsi per il mondo, molti dei quali già ideologicamente pronti a riprendere lo sporco lavoro. Le forze esenti dal virus opportunistico sono ridotte ai minimi termini. Le portaerei e tutto il resto fanno invece parte di una realtà tangibile, alla quale nessuna forza attuale può far solletico con i suoi proclami e le sue denunce, una realtà contro cui la rivoluzione si scaglierà per farla crollare dal suo interno, in modo che infine il proletariato mondiale possa dare il colpo di grazia.
Non ha nessuna importanza, a questo punto, che il sistema armato abbia la bandiera americana o di qualche altro colore. Infatti, guarda caso, nelle ultime guerre l'hardware, la ferramenta, è stata americana, mentre decine di altri paesi hanno servizievolmente fornito la logistica e soprattutto la carne da cannone. E' qui che muore definitivamente la concezione politica di Kautsky, derivata dal concetto morale-volontaristico di monopolio della forza e di patto fra gangster e di scorrerie di rapina. Certe espressioni le utilizzava anche Lenin, ma occorre leggere tutto, non solo le frasi ad effetto.
La condizione dei paesi soggetti che Lenin nominava è la condizione in cui oggi si trovano l'Europa, l'America Latina e l'Asia, in definitiva il mondo, se si tolgono l'Africa e la Russia, in questo momento entrambe terreno di semplice prelievo di materie prime. Come dire che c'è una specie di monopolio dell'imperialismo. E allora? Marx direbbe: ben scavato vecchia talpa! Così quando la rivoluzione colpirà la testa tutto il fetente corpaccio se ne andrà all'inferno conseguentemente.
Contro la concezione moralistico-kautskiana del monopolio, imperialistico o di qualsiasi genere, traiamo un esempio da quanto scrive Engels nella Questione delle abitazioni: per la classe operaia non è importante il livello assoluto degli affitti delle case (rendita da monopolio), ma questo va messo in rapporto a un certo livello di salario con cui l'operaio non solo paga l'affitto ma anche tutto il resto; il salario, a sua volta, dipende dalla combattività dell'insieme degli operai. Il valore della forza-lavoro storicamente comprende, al di là delle oscillazioni, tutti gli elementi che concorrono a riprodurla, quindi anche il cibo, i vestiti, la scuola, la vacanza ecc. Se si abbassa il costo dell'affitto medio si abbassa il salario, se quest'ultimo si alza, si alza anche l'affitto. Ma attenzione: anche se appare come pagato dall'operaio, l'affitto è rendita, quindi non è una parte del salario, ma una parte del profitto, che il capitalista dovrebbe essere ben contento di tenere per sé, per investire direttamente o indirettamente… tramite un maggior salario che comunque finisce in una maggior quota di consumi. Ovviamente ogni capitalista cerca individualmente di tenersi quanto più plusvalore possibile, ma lo Stato, capitalista collettivo, agevola gli operai con la costruzione di case popolari o con l'emissione di mutui a tasso minimo, proprio per evitare il circolo vizioso salari-prezzi.
Per questo i comunisti negano che all'interno della società borghese i proletari abbiano qualcosa da ottenere o perdere per sé, tranne che le proverbiali catene. La politica rivendicativa sociale (quella degli affitti, delle tariffe, del prezzo dei combustibili, contro le multinazionali e la globalizzazione) non è politica di classe, quello che conta è il rapporto fra il salario e ciò che con esso si acquista.
Dal punto di vista economico – e abbiamo visto che è l'unico tipo rimasto di oppressione – non fa nessuna differenza essere sfruttati da un padrone locale o uno straniero, a meno che non ci si ponga dal punto di vista patriottico del borghese che si indigna perché il plusvalore è portato all'estero. In ogni caso il plusvalore, per definizione, non va all'operaio, così come la rendita e l'interesse, rispettivamente per l'affitto e per il mutuo della casa.
Perciò per l'operaio la differenza non sta nell'essere oppresso economicamente dall'imperialismo planetario a stelle e strisce o da un qualche non meno vampiresco capitalismo locale, ma nelle condizioni di vita esistenti sotto l'uno e sotto l'altro. Condizioni non modificabili con lo spostamento della proprietà dall'estero al territorio nazionale, dove magari produrrebbe uno sfruttamento ancora peggiore, ma dalla messa in discussione delle proprietà a partire dal miglioramento del salario e delle condizioni di vita dell'operaio. In poche parole, l'oppressione economica si contrasta non con la lotta anti-imperialistica con sfumature più o meno nazionalistiche, ma con la lotta di classe, per evitare la "rapina" locale dei bassi salari e anche la guerra tra poveri, la concorrenza fra proletari indotta dal movimento di manodopera attraverso le frontiere.
Non può esserci lotta anti-imperialista che non sia nello stesso tempo lotta contro il capitalismo in tutte le sue manifestazioni, a partire da quella contro la propria borghesia nazionale.