Conferme dalla crisi mondiale

Secondo le previsioni dell'OCSE, entro dicembre diminuirà il PIL in 11 dei venti paesi più industrializzati; in 18 crollerà la produzione industriale. La Federal Reserve americana ha tagliato i tassi per la settima volta dall'inizio dell'anno, segno che l'economia non reagisce. Il mitico Greenspan, padre del miracolo economico delle new economy, non è più tanto mitico. In caduta sono già Messico, Giappone, Singapore, Taiwan, Argentina, Turchia e molti altri paesi dell'Asia e dell'America Latina. Si ipotizza la caduta del PIL mondiale al di sotto dello zero nell'inverno: sarebbe la prima volta dal 1980. Ma già nell'autunno vi sarà probabilmente un calo del PIL americano, il cui peso specifico ha conseguenze su tutto il mondo.

Siccome l'andamento dell'indice del valore industriale rispecchia quello del saggio di profitto, il calo della produzione e il mancato recupero di valore negli altri settori indicano un blocco nel meccanismo di produzione di plusvalore. In pratica producono sempre meno effetti le "controtendenze" alla caduta del saggio di profitto, come il ricorso ad una più bassa composizione organica del capitale (meno macchine, più operai sottopagati), al taglio dei salari, all'aumento delle ore di lavoro, all'investimento estero, alla maggiore finanziarizzazione. Questa perdita di energia del sistema si vede già nello schema di accumulazione allargata di Marx: se il sistema potesse crescere all'infinito, la retroazione positiva dovuta al reinvestimento del profitto potrebbe continuare per sempre. Ma così non è perché il nostro pianeta è un modello a dimensioni finite, non è espandibile a piacere.

La caduta del saggio di profitto fa soffrire il singolo capitalista che, per ovviarvi, cerca di accontentarsi di una massa maggiore (meglio intascare il 2% su 1.000 dollari che il 10% su 100), quindi allarga la scala della sua produzione ricorrendo alle fusioni, diventa più monopolista, più finanziere, più centralista. In tal modo fa aumentare il suo profitto, ma lo fa espropriando i suoi simili a suon di scalate ostili in borsa. Fiat-Montedison, Pirelli-Telecom, Hewelett Packard-Compaq, tanto per citare gli ultimi casi, non aumentano il potenziale capitalistico, non accrescono il numero di fabbriche, di capitalisti e di operai, lo diminuiscono. Il capitalista singolo se la cava, diventa più potente e più ricco, ma il profitto complessivo, dato dalla somma dei profitti parziali diminuiti di numero, ne risente. Nel frattempo la produttività aumenta, il ciclo di accumulazione si abbrevia, in ciascuno di essi si affaccia lo spettro della diminuzione anche della massa del plusvalore e ogni capitalista non può fare altro che aumentare i cicli nell'anno, che è l'unità di tempo non secondo la legge del valore ma secondo i criteri di bilancio del suo commercialista.

Quando il capitalista non ce la fa più con la produzione e il commercio, ricorre all'investimento diretto all'estero, nel tentativo disperato di far giungere alla metropoli plusvalore prodotto altrove, dove il lavoro "costa meno"; ma dove trova altri come lui, in una concorrenza sfrenata e una produttività locale più bassa, che vuol dire una minore quantità di plusvalore prodotto per ogni operaio. Su tutto vede incombere un capitale spersonalizzato, globalizzato, così immensamente grande e mobile che lo schiaccia e lo fa muovere ai suoi ordini.

Con gli Stati Uniti in declino, la Germania e il Giappone stagnanti, l'Asia e l'America Latina in recessione, l'Africa allo sfascio, la Russia in coma, il nostro capitalista ha ben motivo di allarmarsi per la sorte dei suoi capitali. Nelle crisi passate aveva almeno la possibilità di muoverli dalle zone in crisi verso quelle in via di sviluppo. La "crisi generale" del 1991 non era poi così generale: gli Stati Uniti erano in recessione, ma Giappone, Germania e Tigri asiatiche stavano continuando il loro boom economico. Come abbiamo visto nel numero scorso, l'attuale depressione può anche essere meno profonda, ma è certamente più pericolosa per le possibili conseguenze, dato che i vari paesi sono in crisi sincronizzata.

Il fatto che la Terra non si possa espandere fisicamente come si espande la produzione è la causa della cosiddetta globalizzazione, cioè dell'espansione del mercato mondiale, integrata da una politica internazionale di investimenti. Ma questa integrazione mondiale, che è stata salvifica per la crisi di dieci anni fa, oggi è diventata la causa prima della crisi: se i maggiori paesi vanno in recessione, con l'integrazione attuale il fenomeno non può che essere auto-referente, proprio come nel modello di Marx, dove la frecciolina del plusvalore-investimento mostra la retroazione. Finché i sistemi sono molti e diversificati, è possibile modificare i flussi rappresentati dalla frecciolina e dirigerli dove più conviene; ma se il sistema è globalizzato, il modello si unifica e il flusso plusvalore-investimento si sclerotizza.

Gli economisti cercano di diffondere ottimismo facendo notare che nei paesi più importanti l'inflazione è bassa e che quindi rimane molto spazio di manovra per le politiche monetarie. Tanto più che in alcuni di quei paesi, specie negli Stati Uniti, vi è un surplus di bilancio, o comunque una diminuzione del deficit, per cui vi è anche massa monetaria disponibile per stimolare l'economia.

Vista la cosa alla luce della teoria del valore a noi sembra che la situazione sia del tutto diversa. E’ vero che l'inflazione è bassa perché sono diminuiti in genere i consumi, ma lo è soprattutto perché il calo della produzione industriale ha fatto crollare i prezzi delle materie prime (–32% dal '95). Con un simile risparmio di capitale costante la stagnazione con un’inflazione al 2-3% (o addirittura zero come in Giappone) è un segnale negativo, non positivo. Lo stesso discorso vale per la riduzione dei deficit e la realizzazione del surplus americano. In una economia mondiale basata da cinquant'anni sul deficit spending, cioè sulla politica keynesiana di sostegno alla produzione e ai consumi, la riduzione del deficit significa che la medicina keynesiana (o neo-keynesiana) non ha più effetto, il malato la rigetta. Una dimostrazione sussidiaria è l'insensibilità dell'economia americana al settuplice abbassamento del costo del denaro, equivalente, come provvedimento, a un massaggio cardiaco su di un cadavere, a un’ulteriore flebo in sala di rianimazione.

Ne abbiamo una verifica in campo finanziario. Per quanto riguarda l'industria, di solito occorrono sei o sette mesi per vedere i primi effetti di una manovra sui tassi; ma quelli sulle borse sono quasi immediati, dato che aumenta la convenienza delle speculazioni con denaro a prestito. Nel caso attuale i movimenti di borsa sono diminuiti invece di aumentare, e il valore delle borse mondiali è addirittura crollato catastroficamente, specie nel campo dei titoli legati alla new economy, i più sensibili alla speculazione dovuta al denaro facile. Il Nasdaq è sceso in un anno del 70%, le borse europee del 30% medio, Tokio è al livello del 1984.

Quando Fiat ha acquistato Montedison, attaccando Mediobanca che aveva messo entrambi i giganti sotto tutela, e quando subito dopo Pirelli ha acquistato Telecom, i commentatori nostrani hanno attribuito le nuove colossali centralizzazioni di capitale al ritorno in auge delle vecchie famiglie del capitalismo italico. Niente di più sbagliato: è la crisi internazionale che obbliga le residue, coriacee famiglie grandi-borghesi a cambiare natura e a trasformarsi in anonime centrali del capitale internazionale, pensionando per sempre l'arcaica figura del "padrone".

Rivista n. 5