La rivincita del robot newtoniano
Pioneer 10, una sonda spaziale lanciata nel marzo 1972 verso i pianeti esterni del Sistema solare si è fatta viva. Il 28 aprile scorso una stazione di ascolto di Madrid ha ricevuto un segnale. Non è questo il luogo per dilungarci sul significato tecnico del fatto che una macchina sopravviva per trent'anni nello spazio a 230 gradi sotto zero, percorra 12 miliardi di chilometri, si destreggi fra le orbite di sei pianeti, produca e conservi energia, trasmetta da oltre l'orbita di Plutone (sorpassata ormai dal 1982) e il segnale sia captato, ripulito dal rumore dell'intero universo e compreso dopo che ha viaggiato per 22 ore andata-ritorno alla velocità della luce. Ma tutto ciò ha a che fare con la teoria della conoscenza, e quindi due parole le merita.
"Fin dai primi nostri scritti abbiamo detto che la scienza potrà conoscere l'universo solo impiegando macchine-robot e che non vi sarà, come continuazione delle esplorazioni del pianeta Terra, un'era di esplorazioni dell'universo con uomini vivi". Questo si disse nel 1964 in alcune "cronache spaziali" pubblicate sul periodico del PC Internazionale a partire dal lancio del primo Sputnik nel 1957.
Cinque anni dopo, a dispetto delle previsioni, "uomini vivi" americani compivano pluri-passeggiate sulla Luna. Negli stessi Stati Uniti, culla dell'incretinimento spaziale dell'epoca, molti si levarono a gridare che non era vero niente, che si trattava di una messa in scena. Per parte nostra dimostrammo che non aveva senso opporre un fanatismo a un altro. Del resto la passeggiata lunare di per sé non inficiava la scientificità della previsione e del ragionamento che ne era la base. Tutta la vicenda spaziale, che tanto coinvolse i sessantenni di oggi, ha dato ben altre dimostrazioni della validità dei nostri assunti: non era scienza nuova, non era in vista una nuova epoca dell'uomo, non iniziava l'esplorazione dello spazio per una sua colonizzazione. Iniziava l'epoca dei robot, e gli uomini li avrebbero guidati restando seduti comodamente nelle sale di controllo a terra.
Ai nostri giorni l'invio di missioni robotizzate nello spazio è il vanto dell'industria spaziale di punta. Le missioni manned, "umanate", sono considerate inutili, roba d'altri tempi, quando c'era la guerra fredda, e quelle sull'attuale Stazione Spaziale Internazionale abitata non producono neppure un trafiletto nelle pagine interne dei giornali. Tutto questo rappresenta una rivincita strepitosa del nostro vecchio robot cibernetico sul tronfio bipede così poco adatto allo spazio. Il robot non respira, non mangia, non produce deiezioni, non ha alterazioni psichiche, non patisce lo stato d'imponderabilità, non prende farmaci in continuazione e soprattutto non racconta balle propagandistiche a favore della borghesia.
Quando parlavamo di robot, i robot non c'erano ancora. C'erano primitivi strumenti radiocomandati, meno precisi e perfetti di molti dei giocattoli moderni che i bambini possono permettersi di scassare. Adesso i robot ci sono, e ci dimostrano che tutta la nuova scienza di cui c'era bisogno per fare cose strabilianti nello spazio era quella del vecchio Newton. Appunto. Anche il robot non è un'invenzione spaziale. Lo troviamo nel primo libro del Capitale di Marx, solo che lì si chiama automa (il termine fantascientifico l'ha coniato uno scrittore ceco, nella sua lingua robota significa lavoro coatto). Ma lo troviamo anche presso i greci antichi, con quel tal filosofo che faceva volare una colomba meccanica.
Osservatori astronomici e robot, che si integrano sempre più scambiandosi informazione, sono l'unica fonte di conoscenza che l'uomo ha sullo spazio. Ma lo è sempre stata, se prescindiamo dalle fanfaronate lunari. Le sonde automatiche ci hanno dato più informazione su Marte da centinaia di milioni di chilometri che sette missioni umane sulla Luna che è a due passi. I robot sono leggeri, poco costosi, poco esigenti, ma soprattutto viaggiano nello spazio secondo traiettorie e orbite che richiedono poca scienza, anche se molta tecnica e molto calcolo. Questo era il nostro assunto di allora. Ciò significa che già con la scienza di Newton si possono fare cose meravigliose: non c'è neppure bisogno di Einstein per inviare sonde nello spazio facendole fiondare dalla gravitazione di pianeti giganti come Giove, né per utilizzare la posizione di più pianeti nel progetto di missioni multiple, né per atterrare su un asteroide, né per tracciare le mappe di Marte. La "rivoluzione spaziale" che avrebbe dovuto proiettare l'uomo in una nuova sfera della conoscenza era materia che risaliva al 1600.
Il robot naturalmente comunica con sofisticatissimi programmi informatici, viene seguito mediante computer ultramoderni, porta con sé conoscenza memorizzata e interagisce con gli operatori e con l'ambiente in cui è inviato. Ma è tecnica della Seconda Guerra mondiale, dovuta ai Turing, ai von Neuman, ai Wiener, che avevano il problema di sapere cosa stessero facendo i tedeschi decrittandone i messaggi, non di andare verso i futuribili giardini pensili di Marte. Tutto ciò che viene venduto dal marketing astronautico come prodotto della ricerca spaziale poteva essere benissimo progettato e prodotto nell'ambito di una qualsiasi attività industriale. Ma nessuna industria avrebbe potuto raccogliere capitali sufficienti, ci voleva lo Stato e ci voleva una campagna pubblicitaria enorme per convincere la popolazione che valeva la pena passare alle industrie tanta parte del valore prodotto. Ci voleva anche un nemico con cui competere e contro cui studiare nuove armi.
Il robot ha costretto gli invasati spaziali a rimettere i piedi per terra ed eviterà per un bel po' che qualcuno monti sullo scranno inneggiando ad un capitalismo interplanetario ed eterno, colonizzatore di pianeti ed esportatore di dollari.
Grazie, robot.