Super-imperialismo?
"Il capitale finanziario divenne il dominatore del mondo, una potenza in particolar modo mobile e flessibile, ramificata nei vari paesi, priva di caratteri individualistici e separata dall'immediato processo di produzione. È fuori dubbio che l'evoluzione tende alla costituzione di un trust unico, mondiale, assorbente tutte le imprese e tutti gli Stati senza eccezione. Ma l'evoluzione si compie in tali circostanze, ad un tale ritmo, attraverso tali antagonismi, conflitti e sconvolgimenti che, prima di giungere alla creazione di un unico trust mondiale, prima della fusione 'super-imperialista' universale dei capitali finanziari nazionali, l'imperialismo dovrà fatalmente crepare e il capitalismo si trasformerà nel suo contrario" (Lenin, prefazione a L'economia mondiale e l'imperialismo di Bucharin).
Nella sua polemica con Kautsky, Lenin – sulla base del testo di Hilferding – sembra accettare il fatto che alla formazione dei trust industriali si sarebbe accompagnata almeno la tendenza alla formazione dei trust fra nazioni. Era una prospettiva reale, basata su processi in corso. Ma con l'entrata in guerra degli Stati Uniti nel 1917, e il successivo loro ingresso sulla scena mondiale come imperialismo egemone, questa prospettiva fu bloccata. La dottrina Wilson già scaturiva dalla penetrazione finanziaria americana avvenuta sull'onda dei giganteschi indebitamenti di guerra europei, ed ebbe suggello politico con la creazione della Società delle Nazioni, fortemente voluta dall'America e poi disertata proprio da quest'ultima, come in un simbolico distacco del nuovo imperialismo da quello vecchio e decrepito.
Da allora l'imperialismo americano non ha avuto rivali. Al tempo di Lenin si poteva ancora presumere una aperta concorrenza tra imperialismi nella spartizione del mondo, con alleanze e "cartelli" fra industrie e Stati; oggi la concorrenza fra multinazionali e fra Stati è sempre più condizionata dalla potenza raggiunta dalle une e dagli altri. Le multinazionali hanno inglobato troppa attività produttiva mondiale per lasciar spazio ad accordi fra aziende e quindi si fanno guerra pura; gli Stati sono così deboli di fronte all'unico vero imperialismo rimasto che non si cartellizzano affatto in "banda di predoni" ma si adeguano ad essere subordinati al predone maggiore.
Siccome abbiamo spesso sottolineato la distanza enorme che separa tutte le altre economie nazionali da quella degli Stati Uniti, ci è stato posto altrettanto spesso il quesito: ma allora, siamo di fronte a una specie di super-imperialismo? E non era di fronte ad una affermazione del genere che Lenin precisò, rispetto a Kautsky, che cosa si dovesse intendere? Sono domande che anche tra di noi ci possiamo porre nello svolgimento del lavoro comune. Dobbiamo però distinguere: una cosa sono i quesiti fondati sulla base oggettiva di un reale problema di strapotenza da parte di una nazione; altra cosa sono le chiacchiere di chi, invece di trovare normale che si tratti l'imperialismo americano come un fenomeno senza uguali nella storia, ci attribuiscono senz'altro la teoria kautskiana del super-imperialismo.
A noi il termine super-imperialismo non piace (soprattutto per le implicazioni che si è abituati ad attribuirgli), e infatti non l'abbiamo mai utilizzato. Comunque il prefisso "super" di per sé vuol dire semplicemente "al di sopra", senza confronti. Quando con esso qualcuno volesse intendere che l'imperialismo americano è oggettivamente "al di sopra" rispetto a quelli che l'hanno preceduto e ai suoi concorrenti, il termine non sarebbe per nulla fuori posto. Tutto qui. Se però approfondiamo appena un poco, ci rendiamo conto che non ci troviamo di fronte a un problema puramente lessicale, ma ad un reale dispiegamento qualitativo di una potenza mai vista nella storia, potenza che non deriva soltanto dalle armi e dalla finanza americane, cioè da necessità del capitalismo degli Stati Uniti in quanto fenomeno nazionale, ma dalle necessità del Capitale impersonale, internazionale, ormai slegato anche dalle diverse nazioni. Questa non è un'invenzione nostra, fa parte del bagaglio teorico marxista non avariato. Lo Stato è per definizione strumento di classe al servizio del capitale nazionale; lo stato americano è anche questo, ma, a causa della sua forza e posizione, è soprattutto strumento mondiale di classe al servizio del capitale mondiale. Dalla sovrapposizione fra l'interesse borghese nazionale americano e il compito internazionale per conto del Capitale mondiale impersonale e slegato dall'immediato processo produttivo, nasce una contraddizione enorme che avrà necessariamente degli effetti distruttivi sul capitalismo stesso. Occorre tener bene presente questa duplice natura del capitalismo americano; non ci si può sciacquare la bocca tutti i giorni con la globalizzazione e ragionare in termini di campanile di villaggio. E utilizzando bene la polemica di Lenin con Kautsky possiamo trattare in modo approfondito la questione e rispondere alla domanda: che cos'è realmente l'imperialismo americano?
Abbiamo visto che, sulla base dei fatti storici sottratti alle mistificazioni dovute all'ideologia e agli interessi di parte, il controllo esercitato sulla struttura economica e politica, chiamato correntemente "fascismo", è in effetti la realizzazione dialettica da parte capitalista delle vecchie istanze del socialismo riformista. L'imperialismo moderno ha combattuto i suoi arcaici predecessori, li ha vinti, e ne ha ereditato le caratteristiche portandole alle estreme conseguenze. Nessuno può mettere in discussione il fatto che interi settori della vita sociale si sono enormemente sviluppati all'interno della società capitalistica senza poggiare sullo scambio di valore: magistratura, polizia, esercito, scuola, assistenza, servizi non vendibili in genere; ma abbiamo anche dimostrato che altri settori importanti non vivono ormai più di vita capitalistica propria, e dipendono dalla ripartizione sociale del plusvalore all'interno della società, come ad esempio l’agricoltura, trasformata in una sorta di servizio sociale per l'alimentazione. In Europa e negli Stati Uniti più della metà del bilancio statale riguarda direttamente le spese per la protezione sociale, l'altra metà i servizi prima ricordati, mentre l'agricoltura è ancora conteggiata nei settori che producono reddito anche se in effetti ne assorbe.
Tutto ciò è configurabile come capitalismo solo perché vi è ancora il sistema della proprietà (quindi merce, valore, mercato, denaro, ecc.), un sistema che perciò deve presupporre il soggetto di questa proprietà, persone singole, Stati sovrani e quindi borghesie nazionali. Dal punto di vista della realtà produttiva e distributiva, cioè delle condizioni oggettive del modo di produzione, il capitalismo è morto e sepolto. Vale a dire che questo non è già più, potenzialmente, un modo di produzione capitalistico. Tuttavia, nel contesto generale della realtà operante, che produce effetti, quella che i tedeschi chiamano wirklichkeit, il capitalismo esiste, eccome; la sua sopravvivenza è dovuta soprattutto alle strutture politiche e militari delle borghesie nazionali, fra le quali spicca sopra tutte quella americana.
Ma l'imperialismo americano è strutturalmente diverso da quello inglese del secolo scorso, il suo immediato progenitore. Esso è già pienamente in grado di raggruppare gli altri imperialismi in una holding, così come hanno fatto le industrie nel mondo della produzione. Solo che vi è una differenza fondamentale, che impedisce il realizzarsi compiuto della tendenza: mentre i capitalisti possono acquistare aziende ed espropriare altri capitalisti, l'insieme dei capitalisti, cioè le borghesie nazionali, non possono acquistare nazioni né possono espropriare le altre borghesie nazionali. Nella storia ci sono state, e ci saranno forse ancora (sempre più difficilmente) guerre di annessione, ma esse non possono essere considerate la normalità. La tendenza del capitale nazionale, è quella di avere un controllo sui mercati e un sistema di alleanze che ne garantisca la protezione, il controllo diretto del territorio è indice di arretratezza o di debolezza. Dalla fine della Seconda Guerra Mondiale gli Stati Uniti hanno oggettivamente operato per la "liberazione" dei mercati, per la realizzazione di un sistema economico "aperto" contro i vecchi imperialismi coloniali e contro il blocco sovietico. Il risultato è un imperialismo a bandiera unica, con un centro di arrogante comando in grado di imporre la sua legge e con Stati "clienti". Un vero e proprio super-imperialismo, anche se ovviamente dipende, come tutti i dominatori, dalla sopravvivenza dei dominati.
Ma Kautsky non c'entra. Non siamo di fronte a una sopraffazione di tipo coloniale, né a una coalizione in grado di "dominare il mondo" con un "patto fra briganti", né a una particolare politica di alcuni Stati per sottometterne altri. L'imperialismo, dice Lenin, non è la "politica di alcuni governi" ma la struttura del capitalismo giunto alla sua fase suprema. Ebbene, il dominio americano è l'effetto di come si è venuto a strutturare l'imperialismo dei nostri giorni. Da un punto di vista economico, non c'è nessuna differenza fra il declino dell'Inghilterra e quello degli Stati Uniti: questi ultimi, come i cugini inglesi di un tempo, presentano un disavanzo commerciale, hanno un forte debito estero consolidato, acquistano all'estero con i capitali di ritorno dagli investimenti esteri precedenti. Ma da un punto di vista storico la differenza è enorme. Marx a proposito dell'Inghilterra diceva che essa non poteva fare a meno di generare le forze dei suoi concorrenti, i quali l'avrebbero sepolta (o sarebbe scoppiata una rivoluzione); oggi a proposito degli Stati Uniti osserviamo che essi devono assolutamente evitare di generare dei concorrenti.
L'America e gli altri imperialismi sono diventati del tutto interdipendenti e fanno parte di un sistema che a ognuno di essi conviene tenere in piedi ad ogni costo. Tutto ciò impone non soltanto che l'imperialismo più forte faccia il suo mestiere di gendarme mondiale, ma che gli altri siano ben contenti dell'esistenza di una forza adeguata al bisogno. L'alternativa non è più fra un imperialismo e l'altro: è fra il capitalismo e un altro tipo di società. Perché l'adeguatezza delle risorse del Capitale si misura con la sua capacità di rispondere alla sfida del comunismo, del nemico storicamente irriducibile che del capitalismo vuole la morte e basta; non alla sfida di un eventuale nemico in quanto concorrente, che domani, indifferentemente, potrebbe anche essere alleato. Nell'epoca della fase suprema capitalistica la posta in gioco è la scomparsa del capitalismo e non è più possibile ragionare nei termini in cui si ragionava nell'epoca del capitalismo ancora in ascesa. Alla società nuova non può che essere contrapposta una super-potenza.
Questo dato storico ci indica anche la strada, fra l'altro, rispetto a ciò che si deve intendere per partito: la rivoluzione non può produrre il suo organo specifico senza elevarlo all'altezza del compito. Riflettiamo tutti quanti sull'adeguatezza delle discussioni correnti nei partiti o nei gruppi rispetto all'avversario e al compito che dovrebbero porsi i comunisti. Chiediamoci se i mille "comunismi" che proliferano nel mondo, rappresentati da diecimila gruppetti e partitini, hanno davvero qualcosa di "super" da contrapporre all'imperialismo di oggi.
Riconoscere che l'imperialismo americano non è affatto una "tigre di carta", ma una struttura formidabile che non deve essere assolutamente sottovalutata, lungi dal condurre a Kautsky, il quale vedeva uno sviluppo pacifico della lotta di classe all'interno del sistema, implica conclusioni opposte. L'armamentario possente che il Capitale ha prodotto per la sua propria salvaguardia, unificato sotto un unico comando anziché disperso in molti frammenti , è ciò di cui il capitalismo ha effettivamente bisogno. Forse per combattere un altro capitalismo? Prendiamo il secondo paese capitalista in termini d'importanza economica, il Giappone: potrà mai sostenere uno scontro economico-militare con gli Stati Uniti? Teoricamente sì, armandosi per dieci anni di seguito, assorbendo energia dai mercati asiatici sottomessi allo scopo, conquistando il Pacifico e sottraendolo agli americani. Molto, ma molto prima che ciò possa succedere, un blocco navale e adeguate sanzioni fatte votare all'ONU metterebbero il Giappone in ginocchio. Prendiamo l’Europa che, come potenza economica complessiva è paragonabile agli Stati Uniti e che come potenza militare potrebbe addirittura superarli. Ma gli Stati Uniti sono un unico paese, ad economia e politica unitarie, mentre l'Europa è un'accozzaglia di Stati nazionali in concorrenza tra loro, senza economia unica e soprattutto senza guida politica sovranazionale. Al minimo accenno di insubordinazione rispetto alla pax americana, partirebbero immediatamente reazioni economiche, disordini interni e processi di disgregazione alla yugoslava pilotati dagli Stati Uniti.
Il super-imperialismo americano si dimostra quindi essere esattamente il contrario di ciò che descriveva Kautsky, portatore di guerra e non di sviluppo pacifico, disgregatore dei potenziali nemici e non affasciatore di nazioni capitalistiche in una super-holding. Non facciamoci ingannare dalle grandi coalizioni sbandierate per esempio in occasione della Guerra del Golfo e adesso, in Afghanistan. Gli Stati Uniti conducono la loro guerra, mentre conducono quella del Capitale. Degli alleati, com'è dimostrato, non glie ne può importare di meno: ieri foraggiati, possono diventare dall’oggi al domani il "male" da bombardare. E' successo all'URSS, all'Iraq, all'Afghanistan. Ed è anche normale che gli alleati ne siano prima o poi coscienti e passino ad essere nemici, reagendo in qualche modo.
Ma allora, esattamente contro chi o che cosa è necessario il super-gendarme? Dal punto di vista immediato, esso serve per mettere ordine quando scoppiano le contraddizioni interne del capitalismo provocando sconquassi, come nel caso della guerra attuale, nata nell'ambito dei flussi di capitali (lavoro passato, plusvalore) derivanti dal flusso di petrolio attuale e futuro. Dal punto di vista storico e classista per impedire il collasso del sistema mondiale capitalistico, che spontaneamente non starebbe più in piedi un mese. In ultima analisi per contrastare la rivoluzione. Ma, può chiedersi qualcuno, quale rivoluzione?
In un bellissimo testo della Sinistra Comunista, intitolato Lezioni delle controrivoluzioni si dice molto chiaramente che se c’è la controrivoluzione è perché la rivoluzione c’è. Non dovrebbe essere oscuro a nessuno questo passaggio dialettico: tutti hanno letto Marx là dove dice che il peggior nemico del capitalismo è il capitalismo stesso – o perlomeno ne hanno sentito parlare. Non si potrebbe affermare niente del genere se non fosse il capitalismo stesso a preparare le condizioni per la sua scomparsa: primo, perché socializza la produzione portandola al livello tecnico, organizzativo, spersonalizzato, necessario alla società futura; secondo, perché elimina oggettivamente la proprietà privata prima che scompaiano i soggetti che ne beneficiano, i capitalisti; terzo, perché prima dà vita e poi sviluppa la classe che, con il suo organo politico, può fisicamente rappresentare lo strumento principale per la distruzione della vecchia società e per l'esplosione di quella nuova. Allora, quale può essere uno strumento adeguato ad impedire che potenzialità già esistenti – attenzione, esistenti, non di là a venire – esplodano prendendo il sopravvento sulla vecchia società del profitto? Sono stati fatti dei tentativi con la costituzione di organismi sovranazionali, la Società delle Nazioni, l'ONU, il Fondo Monetario Internazionale, l'Organizzazione Mondiale per il Commercio, ecc. Comunque tutti questi organismi, chi più chi meno, soffrono del difetto di dover richiedere, per agire, il consenso delle nazioni che li hanno partoriti, di essere lenti e farraginosi, di avere potere esecutivo solo nel caso di essere chiamati dagli interessati a risolvere i problemi ma di non essere in grado di imporre le loro decisioni (sono cioè senza polizia e senza esercito). Non può, nel mondo delle borghesie nazionali, esistere un organismo borghese sovranazionale che abbia capacità politica esecutiva, potenza militare sufficiente, indipendenza e funzionamento democratico. Può solo esistere una forza che sia di segno maggiore a tutte le altre e si incarichi dell'ordine. In questo caso gli Stati Uniti. Logicamente essi fanno i propri interessi, ma è anche vero che in generale sono gli interessi del capitalismo e quindi delle nazioni capitalistiche subordinate.
Questo impegno finisce per esporre il "super-imperialismo" americano alle reazioni suscitate dalla necessità, da parte sua, di passare come un rullo compressore sugli interessi specifici degli altri imperialismi e di settori minori della società, come i paesi in via di sviluppo e in grado di utilizzare risorse, come quella petrolifera, per le loro prospettive di crescita. In una società dove la sola fonte di valore è il lavoro salariato, ogni prospettiva di crescita che non avvenga in base allo sfruttamento di salariati locali è appropriazione di plusvalore altrui. Di qui la lotta per conquistarlo o per difenderlo. Neppure gli Stati Uniti possono materialmente presidiare il mondo e controllarlo in prima persona. Quindi dovranno riuscire ad imporre al mondo un sistema congiunto di controlli, in modo da utilizzare forze locali senza perderne la direzione, una organizzazione mondiale del partigianesimo filo-americano, una gestione centralizzata della carne da cannone. Questo è anche il significato della guerra attuale, forse più visibile quando vi saranno ulteriori sviluppi, non necessariamente di tipo militare.
Quindi la questione del super-imperialismo si fa veramente interessante: se si pensasse non a una ripartizione di plusvalore sotto controllo centrale, ma ad una produzione e distribuzione dei prodotti organizzata centralmente, saremmo assai vicini a quel "piano di produzione centrale" che sta alla base della società nuova, che Marx già evinceva dal sistema d'industria senza la proprietà. Noi diciamo: proprio per il fatto che la sopravvivenza delle categorie capitalistiche è totalmente incompatibile con le potenti anticipazioni della società futura, l'ordine mondiale capitalistico, la piena pax americana non è realizzabile, mentre la guerra diventa sempre più il modo di essere della società attuale. Qualsiasi ordine sovranazionale dovrà essere necessariamente guidato dalla potenza maggiore; qualsiasi ordine nel caos capitalistico dovrà schiacciare interessi particolari; qualsiasi interesse particolare sarà un potenziale nemico – transitorio, coalizzato, suicida, "terrorista" o altro – del "super-imperialismo" automaticamente deputato a mantenere l'ordine.
Abbiamo nominato Hilferding. Ebbene, egli, nel suo libro, quello adoperato da Lenin, nota come la tendenza del capitale finanziario sia quella di andare verso la cartellizzazione generale, un unico potente centro di controllo del capitalismo. In tal modo ci si avvicina ad una società che regola consapevolmente la produzione per quanto riguarda i volumi e la dislocazione delle unità produttive. Ma, aggiunge, un tale cartello potrebbe in astratto eliminare la crisi pianificando le sue azioni in base al mercato, ma non potrebbe eliminare l'antagonismo della distribuzione, che è dovuto alla proprietà. Qui la contrapposizione degli interessi è ineliminabile, e ogni cartello globale finirebbe per collassare per ragioni politiche e sociali. Lenin riprende proprio questo concetto contro Kautsky e aggiunge: il capitalismo è destinato a esplodere e morire ben prima che possa realizzare le sue tendenze al controllo dell'economia. Una tesi conseguente è questa: se per assurdo il capitalismo potesse controllare l'economia non sarebbe più capitalismo ma una società diversa.
La questione del super-imperialismo non può quindi che essere risolta all'interno stesso del suo mostruoso formarsi, con la morte del capitalismo, non con la sua sopravvivenza pacifica. Gli Stati Uniti riuniscono il mondo industrializzato in una anomala alleanza fra concorrenti contro le forze emergenti che si oppongono al necessario futuro ordine mondiale o vogliono contare nel suo ridisegno, oggi le borghesie "islamiche", domani l'Europa o la Cina. Dopo l'Afghanistan saranno colpiti altri centri di opposizione, in una guerra molto lunga, come non cessa di ripetere Bush. In questa guerra sarà fatto valere il principio di Hilferding-Lenin della socializzazione massima del lavoro: trionferanno le multinazionali e i cartelli finanziari, il petrolio sarà a giusto prezzo, cioè non troppo basso, in modo da non costringere alla chiusura i pozzi texani e da garantire ai concorrenti degli Stati Uniti un capitale costante a buon mercato, e non tanto alto da soffocare l'economia mondiale a favore di quella "islamica"; saranno decisi ai vertici mondiali il flusso di capitali e l'allocazione delle risorse; sarà forse addirittura varato un piano Marshall per determinate zone a rischio. Ma non sarà mai possibile pianificare la distribuzione del plusvalore prodotto dalla classe operaia. A causa della proprietà e dei confini nazionali ci sarà sempre la corsa al maggior accaparramento, la concorrenza sui mercati, l'utilizzo di eserciti regolari e irregolari, insomma la guerra fra capitalisti con qualunque aspetto essa si manifesti.
Letture consigliate
- V. I. Lenin, L'Imperialismo, fase suprema del capitalismo, Opere Complete volume 22, Editori Riuniti.
- Nicolai Bucharin, L'economia mondiale e l'imperialismo, Samonà e Savelli.
Ogni marxista considera utili le conseguenze rivoluzionarie che avrebbe il crollo – disgraziatamente improbabile – della potenza americana, in una eventuale terza guerra degli Stati e degli eserciti. L'essenziale sarà di non fare una politica di "guerra santa" per nessuno schieramento. Una tale politica partigianesca è lì, sulla linea del tempo, nella memoria sicura dell'attuale generazione, a mostrare i suoi effetti e risultati (Da Battaglia Comunista, 1950).