Estinzione del Welfare State
La dottrina del welfare si contrappone decisamente alla dottrina marxista, eppure è per noi del massimo interesse, perché ci dimostra che l'avversario deve ormai accettare il combattimento aperto sulla teoria, e male si arrocca nella farragine del soggettivismo o del mercantilismo ondeggiante e inafferrabile. Matematicamente e storicamente parlando, quella modernissima dottrina mette in chiaro il bisogno di un'estrema difesa del capitalismo (cfr. Partito Comunista Internazionale, Vulcano della produzione o palude del mercato? 1954).
Nella società futura sarà immediatamente abolita la previdenza a tipo mercantile, che sarà sostituita da una forma superiore di produzione e riproduzione cui partecipano tutti i membri della società, anche quelli oggi non produttivi (cfr. punto "f" del Programma rivoluzionario immediato, riunione di Forlì del Partito Comunista Internazionale, 1952).
Oggi
Dal welfare allo "stato assistenziale"
Da un punto di vista storico generale, il capitalismo nasce con il problema dei poveri che esso stesso crea, nasce quindi con la sua politica sociale, che è in fondo il tentativo di trovare una soluzione alla povertà. E' una sua caratteristica quella di produrre di continuo, oltre che merci e plusvalore, una popolazione in esubero. La quale però è ridondante e povera solo relativamente alla possibilità di soddisfare i propri bisogni. Siccome questi sono in rapporto allo stadio raggiunto dalla forza produttiva sociale, ecco che il confronto fra l'enorme quantità di valore prodotto dal proletariato e la quota che in totale (considerando cioè occupati e disoccupati) gli viene lasciata, permette di rilevare una legge, quella della miseria crescente, definita da Marx come "legge assoluta, generale, dell'accumulazione capitalistica". In questo modo di produzione il pauperismo è dunque un fenomeno permanente che si accompagna allo sfruttamento, tanto che per lo stesso Marx è "l'ospizio di invalidità dell'esercito operaio attivo".
Se nei paesi a vecchio capitalismo questa legge si presenta in modo relativo (il livello di consumo del proletario aumenta, ma non in proporzione al valore che egli produce), nell’insieme del sistema capitalistico tende ancora all'assoluto, dato che in alcune aree del pianeta una buona parte della popolazione muore letteralmente di fame per il fatto che l'accumulazione avviene altrove e produce un drenaggio di valore locale.
La teoria borghese soggiacente a quello che viene comunemente chiamato Welfare State inizia a svilupparsi nel periodo fra le due guerre mondiali e si afferma definitivamente nel secondo dopoguerra. Ma per quanto riguarda l'assistenza (e la coercizione) sociale ha origini ben più antiche. Già Malthus affronta il problema di quale atteggiamento lo Stato debba assumere nei confronti dei poveri, basandosi sulle apposite leggi che il capitalismo inglese si diede fin dalle sue origini, all'inizio del '600.
Nell'accezione attuale, il termine "Stato del benessere" viene utilizzato come sinonimo di "Stato sociale", nel senso di una politica di spesa pubblica tesa a garantire sia la copertura economica degli strati poveri della popolazione, sia la distribuzione del reddito affinché non cadano i consumi di tutte le classi. Ciò viene ottenuto mediante leggi ed istituti con il compito di contrastare l'anarchia insita nel sistema capitalistico, in modo che questo non sia lasciato a sé stesso, e di indirizzare perciò una quota del valore totale prodotto dall'intero sistema.
Le forme specifiche di questo intervento permeano talmente la società moderna che gli individui ne sono assuefatti, percepiscono il fenomeno come naturale, come se fosse sempre esistita una distribuzione di valore. In realtà l'unico fenomeno paragonabile ha tutt'altra natura, ed è quello della distribuzione di cibo e spettacoli alla plebe nell'antica Roma. Fenomeno costoso e a volte rovinoso per l'imperatore e per lo Stato, mentre il welfare è per il capitalismo salvifico e promotore di nuova accumulazione.
Il welfare è figlio del liberismo, e lo ha ucciso per sempre. Oggi chi si atteggia a liberista dimentica che combatte contro le misure di protezione escogitate di fronte ai disastri provocati dal capitalismo "spontaneo". Crede di "liberalizzare" il mercato imponendogli la legge, quindi delle regole, senza accorgersi che proprio in questo modo impedisce d'autorità il decorso naturale del capitalismo verso forme chiuse, accentrate e monopolistiche. Lo fa naturalmente per mezzo dello Stato, del suo apparato legislativo, esecutivo e di controllo poliziesco. E si dimostra così più statalista di coloro che critica, introducendo forme di salvataggio nei confronti di capitalisti altrimenti destinati liberamente a soccombere.
Se, parlando di welfare, vengono in mente nell'immediato la previdenza, l'assistenza sociale, quella sanitaria, l'edilizia popolare o il programma di lavori pubblici, non hanno minore importanza gli interventi sul controllo generale dell'economia, come l'abbassamento del tasso di sconto, che regala ai capitalisti vantaggi nell'accesso al credito, o le leggi di sostegno alla produzione, che drogano il mercato interno a favore dei capitalisti nazionali e delle loro esportazioni.
In questo sistema, contrariamente a quanto affermano le volgarizzazioni del capitalismo da parte degli stessi capitalisti, non è affatto rilevante che vi sia uno "Stato imprenditore" o una serie di imprenditori privati. Se le leggi che regolano gli investimenti, il mercato interno e lo stimolo verso quello estero sono uguali per lo Stato e per l'imprenditore singolo, non fa nessuna differenza che quest'ultimo venga eliminato o meno. Tanto più che la "privatizzazione" è generalmente basata sulla vendita pubblica di azioni, titoli di possesso legale che vengono distribuiti nella società a migliaia di "capitalisti" che non contano nulla e che sono guidati dalle leggi dello Stato più che da minuscoli gruppi di maggioranza in balìa essi stessi della concorrenza. Il capitalismo funziona in quanto tale anche senza capitalisti (ex URSS) così come i capitalisti possono essere tali anche senza possedere le grandi quantità di denaro che maneggiano (azionariato diffuso, concessioni, appalti, intermediazione finanziaria, ecc.).
Lo stesso Keynes afferma che occorre "eliminare la figura del possessore di capitali" quando il suo "oppressivo potere addizionale" si affianca al funzionamento di un capitalismo che sfrutta il valore conferito al capitale in tempi di ridotta disponibilità; per giungere a questo è necessario ampliare le funzioni dello Stato affinché sia possibile "una discretamente vasta socializzazione dell'investimento". Ed ecco il punto cruciale, che milioni di stalinisti non erano riusciti a digerire: "La cosa importante – scrive Keynes – non è che lo Stato si faccia carico della proprietà dei mezzi di produzione; se è in grado di minare il volume totale delle risorse da dedicare all'aumento di questi mezzi o di variare il tasso base per gli stanziamenti a loro favore avrà già fatto tutto il necessario […] L'ampliamento delle funzioni dello Stato ci sembra necessario per evitare una completa distruzione delle istituzioni economiche attuali e anche la condizione per un fruttuoso esercizio dell'iniziativa individuale".
Del resto anche l'esperienza empirica dimostra, se pur ce ne fosse ancora bisogno dopo le dimostrazioni teoriche di Marx, che il capitalismo funziona meglio con pochi capitalisti e con molti salariati, con una raccolta centralizzata di capitali altrimenti inutilizzabili, con una massa crescente di profitto nelle mani di pochi centri di accumulazione per poter contrastare la tendenza al ribasso del saggio. Perciò al Capitale in generale conviene, indipendentemente dalla volontà dei capitalisti, che si devono adeguare alle sue leggi, un vasto rastrellamento di capitali nella società, ma un ristretto numero di gruppi di controllo, integrati con la politica dello Stato. Insomma, la vittoria della moderna centralizzazione dei capitali sulla vecchia concentrazione. Siccome lo Stato è al servizio del Capitale e non viceversa, ecco che diventa conveniente e necessario un controllo stretto dei pochi capitalisti o gruppi borghesi, accompagnato dalla massima libertà (di vendersi) per i proletari.
L'insopportabile piagnisteo populista sulle malefatte delle multinazionali e dei governi costituiti da borghesi corrotti e da lobby di potere rovescia i termini della questione: esistono certamente i fenomeni denunciati, ma nel lungo periodo si impone sempre l'interesse dell'accumulazione, non quello dei singoli. Durante l'interessante fenomeno detto "mani pulite" si calcolò, sulla base di ciò che era emerso dalle indagini e dai processi, che in quarant'anni l'intero ammontare del valore dirottato dalle varie lobby stataliste più o meno mafiose e dai politici corrotti fosse qualcosa come 125 miliardi di euro attuali. Un cifra impressionante se sparata ad effetto per campagne politiche atte a convincere i fessi, ma una sciocchezza dal punto di vista pratico: 25 centesimi a testa all'anno per ogni italiano. Lo Stato liberista, aumentando di un millesimo di euro la tassa sulla benzina o concedendo a un "privato" linee elettriche o telefoniche per "favorire la concorrenza e quindi i consumatori" e prelevando poi da capitalisti e restante "popolo" la sua tangente, spenna tutti infinitamente di più.
Ciò che in realtà il sistema ormai non sopporta è il fatto che, quando diminuisce l'incremento del plusvalore totale prodotto, si fa difficile la sua distribuzione presso strati sociali nullafacenti, parassitari o semplicemente addetti ad attività improduttive. Questa vera e propria assistenza pubblica di quel magma piccolo-borghese che serve da supporto alla politica della borghesia è il l'effettivo "costo" che il capitale deve affrontare. La mazzetta al disonesto, la corruzione individuale, pur eretta a sistema, è una goccia nel mare rispetto a quel che costa l'ammortizzazione sociale, la corruzione di classe, il mantenimento della palude.
In breve, dopo "stato del benessere" e "stato sociale", l'ulteriore termine escogitato dagli economisti, "stato assistenziale", è ben azzeccato, e in realtà non si riferisce affatto ai poveri veri, ai paralitici falsi o ai milioni di pensionati elettorali. Per gli economisti, sottolineare in modo spregiativo una pretesa degenerazione dello statalismo, colpevole di lesa libertà di mercato, è un modo come un altro per non essere fuori dal coro piagnone dei capitalisti in crisi. Ma capitalisti ed economisti non sono il capitalismo. La parabola del welfare, cui l'economia politica aveva dato corso per il salvataggio dell'asfittico sistema, si chiude con un attacco al welfare stesso per salvare il capitalismo… e tornare alle condizioni di partenza. Forse i capitalisti possono pensarlo, ma il capitalismo non si ferma certo per questo, e macina inesorabilmente un'altra dura realtà. Addirittura opposta a quella fatta bere anche ad ingenui sinistri.
Malthusianesimo di ritorno
Fin dalla sua nascita il capitalismo, osannato per la sua capacità di produrre ricchezza, si presenta con tremende contraddizioni. Quella più immediatamente riscontrabile riguarda la condizione di vita degli uomini, ai quali – come abbiamo appena ricordato – non è affatto distribuita la ricchezza che producono, mentre dilaga la miseria relativa e assoluta. Quando il Capitale s'impossessa della terra, l'espropriazione dei contadini porta in breve alla distruzione della solidarietà di famiglia e di villaggio. I vecchi vincoli sociali non sono sostituiti da nuovi. L'uomo non diventa solo povero, rimane anche solo. Nasce l'uomo libero da proprietà e da antichi vincoli famigliari allargati, vagabondo o proletario, quindi passibile di forca o di sfruttamento, cioè libero di scegliere se morire ancor giovane, di colpo, sulla forca, o poco per volta, di sfruttamento. Non prima però di aver figliato altra forza-lavoro a beneficio del Capitale. Ma non troppa, per non insidiare col numero la ricchezza da distribuire.
Qui entra in gioco Malthus, passato alla storia per aver detto che non ci può essere ricchezza per tutti se la popolazione cresce a ritmo esponenziale mentre la produzione cresce solo in progressione aritmetica (Saggio sul principio della popolazione, 1798). Da allora si parla di "malthusianesimo" per indicare un controllo della popolazione rispetto alla bassa capacità produttiva mirato ad innalzare la quantità pro capite di merci; oppure, paradossalmente, un controllo dell'alta capacità produttiva per adattare la quantità di merci al mercato e impedire la rovinosa caduta dei prezzi. C'è così un malthusianesimo "terapeutico", come quando si distrugge frutta in eccesso, e uno "profilattico", come quando si pagano i contadini per estirpare i frutteti o si tassano certi prodotti industriali.
Malthus aveva notato che i capitalisti potevano produrre in quantità illimitata e perciò vendevano alle classi ricche prodotti industriali a prezzo sempre più basso, mentre gli operai consumavano prevalentemente prodotti agricoli che invece rincaravano; e la crescita demografica sproporzionata degli operai in rapporto a quella della produzione agricola rendeva eccedente il loro numero. Per quanto le sue teorie da prete riformato, santificanti il capitalismo e lo sfruttamento, fossero aberranti dal punto di vista della teoria economica e della specie umana, Malthus non era così fesso da limitare la sua concezione unicamente a un fattore di popolazione, se non altro perché aveva scopiazzato da autori più bravi di lui. In realtà il suo schema completo, quello del Trattato di economia politica applicata (1820), è basato sul prodotto netto, cioè quella parte della produzione che può essere consumata senza intaccare la capacità produttiva esistente. Al pari di quello di Quesnay, dal quale deriva, è una funzione della produzione.
Marx criticò Malthus non tanto per il suo modello quanto per la sua difesa pretesca dell'accumulazione capitalistica primitiva sotto l'ordine feudale. Con l'esaltazione del consumo improduttivo e la mortificazione di quello vitale, Malthus difendeva condizioni sociali retrograde, in polemica con Ricardo, che almeno era per lo sviluppo della forza produttiva sociale in sé stessa senza preoccuparsi di ciò che sarebbe successo agli uomini in quanto agenti della produzione. Malthus esaltava la produzione borghese in quanto reazionaria, conservatrice di vecchi rapporti; Ricardo in quanto rivoluzionaria, demolitrice. Marx è sprezzante nei confronti di un modello di capitalismo che, disegnato da un prete, contempla una distribuzione del plusvalore non soltanto fra le classi capitalisticamente produttive ma tra "parassiti, fannulloni gaudenti, parte padroni e parte servi, che si appropriano gratuitamente dalla classe capitalista, a titolo di rendita o a titolo politico, una massa considerevole di ricchezza, pagando però le merci al di sopra del valore col denaro sottratto agli stessi capitalisti". Nel capitalismo il modello distributivo, qualunque esso sia, pensato alla Malthus o secondo criteri di moderno "benessere", deve necessariamente portare ad una ripartizione di classe del plusvalore. Mentre il modello ricardiano fa esplodere il sistema per troppa produzione, troppa energia, troppa velocità, il modello malthusiano lo fa esplodere come una fogna intasata. Ancora Marx: "Mentre la classe capitalistica è sferzata a produrre dall'impulso all'accumulazione, gli elementi economicamente improduttivi sono spinti solo dall'impulso al consumo e rappresentano la dissipazione. Ed è questo, invero, l'unico mezzo per sfuggire alla sovrapproduzione, che coesiste con una sovrappopolazione in rapporto alla produzione. Il miglior rimedio per entrambe è il sovraconsumo delle classi che stanno al di fuori della produzione. Lo squilibrio fra la popolazione operaia e la produzione è così soppresso dal fatto che una parte del prodotto viene divorato da non produttori, da fannulloni. Lo squilibrio della sovrapproduzione dei capitalisti [è soppresso] dal sovraconsumo della ricchezza sgavazzante".
Il welfare state è in fondo figlio di Malthus, dato che nasce dalla stessa preoccupazione distributiva che aveva il suo genitore, compresa la convinzione che le leggi per l'assistenza ai poveri siano inutili, anzi, dannose. I benesseristi sono molto preoccupati dell'esistenza e soprattutto della tendenza dei "poveri" ad aumentare con ritmo geometrico. In genere, alle leggi per una mera assistenza sociale contrappongono un sistema assicurativo, pubblico o privato ma del tutto capitalistico, abbinato ad una politica economica redistributiva del reddito che fa leva soprattutto sulla tassazione progressiva e su una legislazione economica appropriata.
Keynes è un economista che in genere non viene affiancato a quelli che hanno fatto la storia del welfare state (Marshall, Pigou, ecc.), ma ha molto a che fare con la sua realizzazione. Anch'egli disegna un modello a-classista in cui ciò che importa è il rapporto fra grandezze, per esempio risparmio, investimento, consumo, occupazione. O meglio: in cui il risultato del sistema è funzione del valore delle varie grandezze. Siccome queste grandezze non influiscono in modo proporzionale sul sistema, ecco che lo Stato avrebbe notevoli possibilità di influenzarne il comportamento agendo su di esse. Per esempio, il consumo non aumenta in proporzione al reddito, ma tende ad appiattirsi man mano che questo cresce; di conseguenza, aumentando il reddito di milioni di "poveri", c'è la sicurezza che tutto l'aumento finisca in consumo, mentre ciò non succede se aumenta della stessa percentuale il reddito di poche migliaia di "ricchi". Puntando sulla maggiore "propensione marginale al consumo" propria dei poveri e sulle altre leve politico-economiche in mano allo Stato, Keynes si prefiggeva di pilotare la distribuzione del valore prodotto nella società, alimentare la produzione ed eliminare crisi e lotta di classe.
Invece di convincere malthusianamente i proletari a non proliferare, sarebbe stato più proficuo adibirli a un lavoro qualsiasi in modo che ricevessero, con il crisma della legge e della moderna morale classista, la quota di valore derivante dall'imposta progressiva (togliere ai ricchi per dare ai poveri, una moderna versione di Robin Hood cara anche ai falsi comunisti, specie i più sinistrorsi). Gli uomini in esubero, insomma, invece di non nascere avrebbero dovuto non vivere, essere più che mai mero tramite di valore, "scavare buche al solo scopo di riempirle", affinché il ciclo dell'accumulazione non s'inceppasse sul crollo di produzione e consumi. La peggiore alienazione umana, gabbata per "benessere". Keynes ammise che lo schema fisiocratico del prodotto netto, e quindi la legge della domanda effettiva di Malthus, avevano influenzato la sua teoria economica.
Certo, la nascita del proletariato, fenomeno complementare a quello dell'espropriazione del contadino e dell'esplosione urbana occidentale, comporta anche teorie sul proletariato, da parte della conservazione (l'economia politica), ma anche e soprattutto della rivoluzione (Marx e la teoria del comunismo). Proprio per paura della rivoluzione la borghesia moderna ritorna sul problema. La feroce trasformazione sociale mette in pericolo l'assetto borghese, e la borghesia risponde con il cannone e con le riforme, in un alternarsi naturale, a seconda delle esigenze. Le nuove forme di pauperismo sono pericolose per due aspetti: il primo è la degenerazione sociale, la violenza, l'illegalità, terreni poco fertili per il senso civico del buon cittadino, più consoni al rifiuto dell'ordine produttivo della fabbrica e dell'ambiente di cui essa ha bisogno; il secondo, opposto e sicuramente il più importante per noi, è la tendenza spontanea all'organizzazione proletaria, non quella episodica, ma quella mutuata dallo stesso ambiente produttivo che obbliga alla razionalità, entra nei comportamenti collettivi e si manifesta con regolarità sempre maggiore attraverso inaspettate forme di lotta.
In Inghilterra le poor law, le leggi per i poveri, produssero più impiccati e deportati che operai produttivi e furono abbandonate nel 1834, dopo oltre due secoli d'inefficacia. La Germania di Bismarck, paese a capitalismo giovane e quindi sviluppatosi velocemente con le contraddizioni più moderne, fu la prima a istituire, tra il 1883 e il 1892, un sistema di misure sociali moderne a favore degli strati più poveri della popolazione. Ancora in Germania, dai ranghi stessi della borghesia nasceva, a cavallo della Prima Guerra Mondiale, la non troppo strana utopia borghese di un "socialismo del capitale", il cui massimo esponente fu il capitalista Walther Rathenau: "L'ordinamento cui noi perverremo sarà un ordinamento di economia privata, ma non di un'economia senza freni […] Noi rideremmo di qualcuno che volesse comprarsi un cannone per rendersi indipendente[…] nessuno si sogna di pretendere per sé un tratto di ferrovia o di rete telegrafica, di fondare un proprio sistema particolare di giurisdizione privata, ma ciò per l'economia viene accettato senza discussione […] L'economia dovrebbe invece essere suscettibile di un ordinamento razionale, di un'organizzazione cosciente, di una penetrazione scientifica e di una responsabilità solidale, in modo che possa rendere molte volte di più di quanto oggi si ottiene con la lotta di tutti contro tutti". Rathenau proponeva qualcosa di più di uno "stato sociale", vagheggiava uno stato integrato in tutte le sue componenti, una popolazione senza classi tutt'uno col Capitale. Il suo allarme e il suo programma furono riecheggiati nell'impressionante film Metropolis di Fritz Lang (1926), il cui finale di riconciliazione sociale piacque ai nazisti. Fu ammazzato nel '22 da un destro che non aveva capito nulla di come evolve il movimento reale.
Gli Stati Uniti, altro capitalismo giovane, furono costretti dalla Grande depressione, mezzo secolo più tardi, a varare il Social Security Act (1935), il primo corpo completo e articolato di leggi sulla moderna politica di protezione sociale da parte dello Stato. Nel frattempo l'Italia e la Germania avevano adottato misure simili, portando alle estreme conseguenze non solo il problema della protezione sociale, ma quello del controllo globale del fatto economico, almeno all'interno dei confini nazionali (all'esterno questa esigenza si manifestava ancora con necessità di controllo territoriale diretto). Naturalmente un tale controllo presupponeva come elemento fondamentale l'eliminazione – prima violenta e in seguito istituzionale – dei conflitti sociali e la collaborazione di classe.
Il capitalismo imperialista più vecchio, quello d'Inghilterra che aveva dato il via alle politiche sociali fin dal '600, arriva buon ultimo sulla scena del welfare moderno, nel 1942, scrivendone però il manifesto compiuto ad opera dell'economista Beveridge. A dire il vero questo lord di vecchio stampo, tra il riformista e l'utopista, studiando i disastri del capitalismo a cavallo del secolo, aveva prodotto un documento già nel 1909, ma era rimasto inascoltato. Nel 1944 ripubblicava una versione privata del suo rapporto, che conteneva un programma di keynesismo puro. L'autore di questo programma fu individualmente sconfitto in politica, e si ritirò a studiare le utopistiche new town, presto degenerate in squallide periferie metropolitane chiamate eufemisticamente "città giardino"; ma in generale la politica del welfare divenne ordinaria amministrazione in tutti i maggiori paesi capitalistici, raggiungendo l'apice negli anni '60 del secolo scorso nei paesi del Nord Europa, specie in quelli scandinavi.
L'Italia, che non aveva per nulla smantellato l'economia controllata dello stato fascista, fu caposcuola anche per tutto il dopoguerra, soprattutto con una politica mirata alla spesa pubblica, alle sovvenzioni industriali e ad una pesante redistribuzione del reddito. Per quanto il sistema, specie nel Sud, apparisse disastrato e a basso rendimento a causa di una borghesia parolaia pasticciona, nel suo complesso fu in realtà abbastanza efficiente, tanto da portare l'economia nazionale quasi alla pari con quelle di Francia, Inghilterra e Germania (valore prodotto pro-capite in unità di potere d'acquisto).
Il significato delle liberalizzazioni fasulle
Fu negli anni '70 che si raggiunge il massimo livello di applicazione delle politiche espansive dirette, vale a dire dell'intervento dello Stato per sostenere la produzione e i consumi attraverso tre canali principali: incentivi all'industria, distribuzione del reddito al fine di elevare la capacità totale di consumo delle fasce sociali senza reddito, investimenti pubblici (case popolari, infrastrutture, industria di stato, ecc.). Ma la generale caduta del saggio di profitto, ben evidenziata dalla caduta relativa della produzione industriale che ne è l'indice principale, provocò una conseguente difficoltà ad attingere alle fonti di valore per il sostegno di tali politiche. La conseguenza fu un generalizzato disavanzo nei conti pubblici, un ricorso al debito statale e quindi un aumento dello stesso debito consolidato e della pressione fiscale per la sua gestione nel tempo.
Negli anni '80 Inghilterra e Stati Uniti (tramite i "battilocchi" del momento Tatcher e Reagan, che diedero luogo ai rispettivi "ismi" nei loro paesi) furono costretti per primi ad abbandonare le vecchie politiche di controllo dell'economia per adottarne di nuove, poste genericamente sotto l'ombrello del termine deregulation. Non si trattava affatto, si noti bene, di eliminare il controllo, ma di istituirne un altro di tipo diverso e più efficace, quindi più stretto. Al controllo diretto dello Stato sugli elementi della produzione e del reddito, subentrò quindi un controllo indiretto, basato principalmente sulla manovra dei flussi finanziari.
Ora, è ovvio che i due unici paesi in grado di controllare mondialmente tali flussi (mediante i due storici strumenti da cui passa la quasi totalità della finanza mondiale che conta, Wall Street a New York e la City finanziaria a Londra), ne traessero vantaggio. Questo non poteva succedere agli altri paesi, e infatti il resto del mondo, pur costretto a seguire le politiche di deregulation, di cui avrebbero volentieri fatto a meno, non riuscì a mettersi al passo nemmeno in vent'anni.
Il capitale finanziario che muove da e verso i maggiori centri mondiali di smistamento è meno "speculativo" di quanto appaia a prima vista nelle quotidiane transazioni. In generale e nel volgere di qualche anno, questa circolazione smista e fissa effettivo valore, nel senso che si trasforma in proprietà industriale, e finisce per controllare all'origine, almeno in parte, il plusvalore che fluisce nelle mani dei maggiori possessori di capitali. Attraverso le borse mondiali e le banche di peso internazionale vengono acquistate aziende, effettuate fusioni, influenzati programmi di sviluppo, viene insomma modificato l'assetto della proprietà e della concorrenza a favore ovviamente dei gruppi capitalistici e delle nazioni più forti.
Un tale tipo di razzia sul plusvalore internazionale è possibile da parte di pochi paesi solo se molti altri paesi allentano il controllo interno sui flussi di valore. Questa è la ragione per cui gli Stati Uniti, l'Inghilterra, i maggiori gruppi finanziari e gli speculatori internazionali hanno iniziato a battere la grancassa sulla liberalizzazione del mercato, cioè sulla facoltà di dirigere meglio i flussi di capitali nel mondo intero. Questa è la ragione per cui i paesi che non hanno il potere di governare i flussi esteri non possono smantellare il vecchio sistema di protezione sociale interno, malgrado le roboanti prese di posizione dei gruppi borghesi più legati agli interessi del capitale internazionale o semplicemente più stupidi o servili. Questa è anche la ragione per cui paesi che hanno rigidità interne intrinseche, come Germania e Giappone, si trovano oggi in grande difficoltà: non potendo contare sulla possibilità di sfruttare internazionalmente i proletari del resto del mondo, sono costretti a trarre il massimo profitto dai propri, senza tuttavia ridurli ad una condizione da Terzo Mondo (non per bontà d'animo, ma per il sostegno dei consumi interni).
Così facendo, cioè mantenendo lo stato sociale e una politica di relativamente alti salari, perdono sempre più di competitività sul mercato mondiale. Essendo esportatori netti, questa loro condizione si è tramutata in disastro non appena la stagnazione mondiale si è fatta sentire. Il Giappone è in ginocchio da dieci anni e la Germania è sul punto di seguire la stessa parabola discendente. E così gli altri paesi con caratteristiche analoghe. La Corea, la cui produzione è sensibilissima al mercato mondiale, è precipitata nella rivolta sociale non appena ha provato ad adeguarsi alla concorrenza liberalizzando il mercato interno della forza-lavoro. L'Italia, che era in condizioni anche peggiori, sfruttando paradossalmente il corporativismo classista ereditato dal fascismo è invece riuscita, dal 1992-93 (quando si sfiorò una grave crisi sociale e la rivolta proletaria), a coinvolgere partiti e sindacati in una deregulation selvaggia che di fatto ha smantellato completamente il sistema di garanzie precedente (le attuali manovre come quella sull'articolo 18 non sono che scaramucce politiche all'interno degli schieramenti borghesi, come vediamo in altro articolo).
Stati Uniti e Inghilterra hanno semplicemente fatto da battistrada per tutto il resto del mondo capitalistico, costringendolo, nel volgere di vent'anni, a sintonizzarsi sulle esigenze del capitale mondiale, cioè a liberare il proletariato dei vari paesi da ogni tutela nazionale.
Siamo quindi di fronte ad un paradosso: Stati Uniti e Inghilterra furono i paesi che diedero corpo teorico, adottarono e portarono alle estreme conseguenze le sperimentazioni fascista, nazista e staliniana in campo sociale, tanto che le politiche del welfare furono sinonimo di economia anglo-americana e non altro; ma proprio Inghilterra e Stati Uniti furono i primi paesi a soffrire di questa politica. Che, per ammissione dello stesso Keynes, era già un tentativo di rimedio, una toppa. E' difficile andare oltre rattoppando la toppa, ritornare alle condizioni di partenza; anzi, un assurdo, dato che non si può far girare all'indietro né la storia né tantomeno lo sviluppo della forza produttiva sociale.
Evoluzione del sistema
Nelle intenzioni, la politica del Welfare State avrebbe dovuto prima di tutto rappresentare un rimedio alle tensioni sociali attraverso l'attenuazione delle contraddizioni del capitalismo, che sono dovute, ricordiamolo, agli effetti dello sviluppo continuo della forza produttiva sociale. Keynes lo disse apertamente: se il capitalismo fosse lasciato a sé stesso, avremmo una inevitabile rivoluzione. E' la stessa osservazione che fece Marx quando notò le capacità di auto-limitazione del sistema di cui stava rilevando le leggi: "Uno sviluppo delle forze produttive che avesse come risultato di diminuire il numero assoluto degli operai, che permettesse in sostanza a tutta la nazione di compiere la produzione complessiva in un periodo minore di tempo, provocherebbe una rivoluzione perché ridurrebbe alla miseria la maggior parte della popolazione". Il passo continua con un'altra osservazione su questo limite contro cui urta il modo di produzione capitalistico, forma per nulla assoluta di sviluppo come pretendono i borghesi, anzi, forma che entra necessariamente in conflitto insanabile con lo sviluppo stesso.
Per Marx, è noto, l'andamento del sistema è una funzione della produzione, mentre le scuole borghesi introducono parametri diversi, come i prezzi, la soddisfazione marginale o le propensioni psicologiche. Se Keynes non fu uno specifico cantore dell'economia del benessere e della protezione sociale, fu però il primo fra gli economisti a elaborare, per il capitalismo, una teoria sulla necessità di correttivi economico-sociali di utilizzo pratico, e lo fece lavorando su un modello dinamico atto a modificare il disequilibrio dei flussi di valore nel sistema. Voleva in ultima analisi ottenere una modifica dei fattori della produzione-distribuzione. C'è da sospettare che Keynes, senza mostrarlo, abbia attinto non solo da Quesnay e da Malthus, ma anche da Marx: la sua impostazione è un modello dinamico di flussi di valore a partire dalla sua origine, cioè dall'industria. Anche se molto più complicata di quella marxiana, noi la possiamo riferire con facilità allo scambio di valore fra le classi. Se Malthus aveva copiato malamente da Quesnay, Keynes lo ha fatto da Marx, con l'aggravante di nasconderlo.
Ciò non è per nulla strano: per dimostrare da un punto di vista materialistico la caducità del capitalismo sottoposto al lavorìo della rivoluzione che avanza (comunismo), Marx dovette sviluppare uno schema dinamico già preparato da un feudalesimo che, sopraffatto, registrava la vittoria dell'avversario mentre sulla carta lo descriveva sterile; Keynes dovette ricorrere alla dinamica nel tentativo ideologico di rattoppare il capitalismo e renderlo eterno, nascondendo a sé stesso il fatto che la sua classe era ormai sterile nella realtà. E in effetti sterile è una società che ha bisogno di drogare il proprio sistema non più in grado di funzionare da solo. Quest'operazione dell'economista inglese, più filosofica che scientifica, potrebbe spiegare sia la madornale incoerenza fra gli scritti dei diversi periodi della sua vita, sia la teorizzazione col senno di poi, quando fascismo e nazismo avevano già imboccato la strada "keynesiana". Incoerenza e rattoppismo riflessi in seguito su tutta la sua scuola e rinfacciatigli senza pietà dai liberoscambisti.
Ad ogni modo l'intervento massiccio e totalitario dello Stato in economia fu necessario per superare la catastrofica crisi mondiale degli anni '30. Più tardi, fino a pochi anni fa, in condizioni di accumulazione non troppo perturbata come in quest'ultimo lungo dopoguerra, le politiche keynesiane furono parimenti necessarie al sistema sia per controllare e indirizzare la crescita economica, sia per frenare i fenomeni depressivi e bloccare, soprattutto, la tendenza a quegli effetti cumulativi che avevano dato luogo alla reazione a catena sfociata nella Grande Depressione. In Vulcano della produzione o palude del mercato?, un testo della nostra corrente, vengono sottoposti a critica i risultati di un'altra scuola neo-malthusiana (attraverso un modello di J. J. Spengler), e si dimostra che tutti questi tentativi portano alla fine i borghesi ad inchinarsi di fronte alla marxiana funzione di produzione se vogliono capire i meccanismi economici e trarre conclusioni per le politiche nei confronti della loro stessa società.
La politica sociale dei vecchi paesi capitalistici avrebbe dovuto garantire un'attenuazione delle contraddizioni sommando l'assicurazione previdenziale a base contributiva e l'efficienza produttiva dovuta alla "programmazione" economica. Si doveva investire, per mezzo di politiche adatte ad un utilizzo razionale, l'enorme accantonamento di capitali in attesa del loro consumo differito. Di qui un benessere diffuso in una società più equilibrata e sicura, caratterizzata naturalmente dalla pace sociale benedetta da sindacati, partiti e preti progressisti. In quegli anni questo processo influenzò anche il soglio pontificio: l'enciclica Mater et Magistra, del 1961, rigettava il principio liberista secondo cui la socializzazione era una minaccia per la società. Accettava dunque la socializzazione e la dichiarava elemento irreversibile della crescita umana, nell'ambito della quale i credenti avrebbero dovuto dare il loro contributo. Naturalmente vi fu gran tripudio degli stalinisti fino a Mosca, dove non si era affatto capito la lungimiranza della Chiesa rispetto al processo storico che avrebbe portato alla loro distruzione.
La quantità di valore rastrellata nella società dalle politiche sociali fu enorme. In Italia giunse a rappresentare fino alla metà del cosiddetto costo del lavoro, circa il 10% dell'intero valore prodotto ex novo in un anno. Naturalmente nacquero anche sottoprodotti ideologici, come una specie di alternativa fra capitalismo e socialismo, vie di mezzo esplicitamente teorizzate o sottoposte a critica. Ma al di là delle intenzioni, cioè della programmazione o del liberismo sfrenato degli addetti ai lavori nello Stato, tutta la società ebbe a beneficiare dell'aumentata possibilità di consumo, compresi, seppure in misura ovviamente minore, i proletari, che ebbero accesso ad alcuni beni durevoli prima negati. Classicamente, alla corruzione delle classi sfruttatrici o parassitarie corrispose anche una corruzione del proletariato, tramite il veicolo delle sue organizzazioni degenerate. E' un fatto materiale, non certo da valutare in termini moralistici. Di qui la crescita di atteggiamenti consociativi che portarono il mondo politico, sindacale e del grande capitale apparentemente a "cooperare in nome del Bene Comune del Paese", in realtà ad accaparrarsi quote di plusvalore la cui distribuzione era permessa dal sistema keynesiano di controllo dei flussi.
Si assistette, lentamente ma inesorabilmente, all'espansione degli strati sociali "sgavazzanti" che vivevano sul plusvalore altrui, descrivibili esattamente con le parole che Marx utilizza contro Malthus e citate più sopra. Specialmente in Italia, gli ex partiti operai e i sindacati parteciparono al festino, radicandosi, direttamente o con organismi paralleli, nel campo delle cooperative, dei supermercati, delle assicurazioni e della vendita di servizi agli utenti tramite lo Stato (per esempio tramite i Centri di Assistenza Fiscale). Per molti anni il sistema funzionò senza troppi impedimenti, precisamente finché ci fu plusvalore da distribuire in abbondanza.
Il numero e la dimensione delle "istituzioni", cioè degli apparati sorti esclusivamente sull'onda della possibile "distribuzione del reddito" crebbe a dismisura, e con essi la burocrazia e la pratica clientelare, con gran danno per l'efficienza e l'adeguatezza dell'intero sistema. Mentre in Inghilterra e negli Stati Uniti il fenomeno coinvolgeva un vecchio e inefficiente apparato produttivo, che si sarebbe poi riconvertito prevalentemente ai servizi abbandonando allo sfacelo intere città ex industriali con gli impianti invasi dalle erbacce (la Rust belt, fascia della ruggine), in Italia si assisteva al conflitto mortale fra un apparato produttivo che stava diventando uno dei più moderni ed efficienti del mondo (con livelli di automazione e competitività studiati anche all'estero), e il bassissimo rendimento del sistema complessivo. Passati ormai guerra e piano Marshall da troppo tempo, i trasferimenti di plusvalore fra le classi e mezze classi si slegarono da qualunque programma di ricostruzione industriale e sociale, seguendo semplicemente gli interessi dei beneficiari.
Travolsero persino il sistema della sicurezza sociale propriamente detta, dilagando nella società intera, fin nelle sue pieghe nascoste, per esempio con la distribuzione, specie al Sud, di benefici esigui ma elargiti su larga scala. Mentre negli anni '50 la spesa pubblica rappresentava il 30% del valore complessivo prodotto, nel 1970 saliva al 36,3%, nel 1980 al 48,8% e nel 1985 quasi al 60%. Questa situazione, la cui genesi è implicita nella gran quantità di plusvalore disponibile nella società, nei problemi posti dalla sua distribuzione specie verso le mezze classi, e quindi nella teoria comunista della miseria relativa crescente del proletariato, non poteva evidentemente durare. Il sistema incominciò a perdere colpi negli anni '80, dopo che la crisi petrolifera e la concorrenza internazionale avevano eroso quote di plusvalore sia facendo aumentare il prezzo delle materie prime, sia rendendo evidente il divario di efficienza fra i diversi sistemi produttivi nazionali.
Senza una crisi generalizzata e una altrettanto generalizzata guerra che distruggano lavoro morto, cioè capitale accumulato, non si potrà dar luogo a un rinnovato ciclo di applicazione di lavoro vivo nella ricostruzione. Non si potrà neppure avere plusvalore a sufficienza per garantire il livello di vita attuale di tutte le classi. I meccanismi produttivi e distributivi, sotto la spinta della legge marxiana dei rendimenti decrescenti, stanno già provocando da tempo un accumulo enorme di valore in pochissime mani e una distribuzione di miseria enorme a scala planetaria. Gli strati intermedi della popolazione stanno già subendo un drastico salasso, i cui effetti si manifestano per ora in un indeterminismo politico dei governi, in una loro incapacità ad agire rispetto ai problemi e in una confusione di ruoli fra le classi, tutti fenomeni generalizzati ai maggiori paesi capitalistici.
Non c'è dubbio che, con le persistenti difficoltà d'accumulazione, nei prossimi anni il problema si farà gravissimo, come del resto evidenziano tutti i modelli macroeconomici, anche solo con la proiezione dei fenomeni dovuti al calo demografico e all'aumento dell'età media degli individui. Ma ci sono altri dati che aggravano la situazione, primo fra tutti l'integrazione mondiale, che provoca effetti catastrofici sul vecchio assetto del mondo diviso in nazioni sovrane. L'immensa circolazione dei capitali attraverso le frontiere, il non meno importante spostamento di uomini e attività produttive con il conseguente confronto diretto fra i salari in tutto il mondo, l'impotenza dei governi nazionali a far fronte alle nuove esigenze con legislazioni idonee a mantenere, se non il "benessere", almeno la pace sociale, sono tutti elementi che tendono a eliminare di fatto, nel tempo, le politiche nazionali del Welfare State per sostituirle con programmi mondiali di sopravvivenza del capitalismo e di esorcismo nei confronti della rivoluzione.
Brancolamenti economici e tentativi di progetto sociale
L'economia capitalistica moderna ci offre molti spunti per comprendere il passaggio necessario alla non-economia della società futura, dove sarà molto più semplice il controllo generale dei flussi di beni e di lavoro sulla base di una contabilità per oggetti e non per valore. Dove non vi saranno "ammortizzatori sociali" ma armonizzazione fra le varie componenti della società, che siano produttive o non ancora produttive, o non più. Per comprendere il passaggio alla società futura non c'è niente di meglio che comprendere ciò che già sta realizzando questa società, così com'è, con il suo controllo autoritario dei flussi di valore. Vi sono alcune difficoltà da superare, dovute soprattutto all'abitudine: per poter vedere la necessaria rottura dobbiamo avere in mente la società di domani, con tutte le sue caratteristiche di negazione della presente. Il procedimento contrario, cioè l'immaginare un'evoluzione graduale di questa società in una "migliore" non ci mostra nulla: invece di una trasformazione (passaggio ad altra forma attraverso la rottura della vecchia forma sociale) avremmo una ri-forma.
La forma sociale presente, basata sul valore, ha un "rendimento" bassissimo. Il fenomeno è stato analizzato a fondo in Scienza economica marxista e rimandiamo il lettore al testo. Ricordiamo soltanto che la nostra teoria dello sciupìo capitalistico non è un rigurgito di moralismo contro i capitalisti che s'ingozzano di plusvalore "rubato" ai proletari, ma una teoria della fisica dissipazione dovuta ad un sistema che cresce a ritmi e a rendimenti sempre più bassi. Una volta eliminata la dissipazione dovuta al capitalismo, la forza produttiva sociale esploderà verso utilizzi più razionali rispetto ai bisogni umani; eliminata la proprietà, non ci sarà ormai bisogno di Stato per indirizzare le energie (non più "valore") in ogni direzione a salvaguardare nel miglior modo la riproduzione della specie nel suo ambiente. La società di transizione sarà abbastanza matura da adoperare lo Stato solo per eliminare in fretta le ragioni materiali della sua stessa esistenza, cioè per far estinguere le classi. Non per divinizzarlo insieme con la Patria Socialista, come successe in ambito di rivoluzione arretrata.
Non ci saranno più crisi da superare o da evitare. Ogni provvedimento per l'indirizzo delle energie sarà attività di specie e non stratagemma per continuare il ritmo dello sfruttamento e dell'accumulazione. Si estinguerà allora anche il partito di classe, sostituito da un organo specifico del corpo sociale. In questo contesto una diminuzione dell'utilizzo-dissipazione di energia non sarà considerata una catastrofe, come quando diminuiva il PIL, bensì sarà perseguita, progettata, in armonia con l'attenzione prestata a tutta la biosfera, di cui l'umanità è solo una parte.
Quando borghesi come i citati Keynes, Spengler e neo-malthusiani vari, affrontano il problema della dissipazione di valore sotto la spinta di una crisi gravissima quale la Grande Depressione degli anni '30, lo fanno nell'ottica di chi vuole riprendere un ciclo aumentato di dissipazione senza che ad essa seguano effetti catastrofici. E per farlo cercano la cura per il capitalismo malato, lo drogano con ogni genere di doping. Keynes è il massimo esponente delle teorie dissipative dell'economia politica, il teorizzatore del lavoro inutile e del consumo sfrenato che rivitalizzano il Capitale. Egli non scherza affatto quando dice che scavare buche al solo scopo di riempirle, fare la guerra e costruire piramidi sono mezzi per sfruttare energia sociale a scopo di profitto. Anche quando traccia schemi asettici è come se impegnasse l'umanità ad un contratto faustiano con il Capitale: gli vende l'anima per avere punti di crescita, ma l'inferno è assicurato.
Di fronte alla catastrofe già avvenuta una volta, l'economista spaventato ha una sola preoccupazione: "Potrebbe ripetersi?". La domanda è anche il titolo della celebre ricerca di Hyman Minsky, il quale afferma senza mezzi termini: "Due generazioni di cittadini e di uomini politici hanno vissuto nel terrore che lo spettro di quel grande crollo ritornasse. Uno degli obiettivi principali dei riformatori era quello di organizzare le istituzioni economiche e finanziarie in modo che il grande crollo non potesse ripetersi".
Bene, finora ci sono riusciti, e c'interessa moltissimo sapere come hanno fatto, perché se il capitalismo è obbligato ad autolimitarsi, significa che ha incominciato a non essere più capitalismo. Siccome questo particolare modo di produzione è intrinsecamente instabile - ammette l'autore citato - il maggior avvenimento di questo dopoguerra è in realtà qualcosa che non è avvenuto: cioè, non c'è stata un'altra crisi catastrofica. I meriti di questo fatto straordinario, dato che c'erano invece tutte le premesse perché si ripetesse, sono attribuiti interamente all'intervento dello Stato. Se dunque lo Stato ha il potere di modificare l'indirizzo dei profitti e dei consumi (salari e investimenti), dovrebbe anche avere quello di esorcizzare le crisi catastrofiche per sempre. Esse infatti sono catastrofiche, storicamente inevitabili e cicliche solo quando non si sappia governare il processo di formazione del valore e la sua distribuzione. Keynes aveva una fiducia enorme nella possibilità di governare il capitalismo, perciò di eliminare le crisi e far vivere l'umanità nel benessere consumistico. Questo inno all'eternità del Capitale è significativo non tanto perché lo si può rinfacciare efficacemente nella polemica storica sulla realtà della miseria crescente, quanto perché ha un elemento tecnico di estrema importanza per noi comunisti: il valore prodotto può essere utilizzato al di fuori della volontà di coloro che ne hanno proprietà giuridica; vale a dire che i capitalisti, quando non siano eliminati dalla concorrenza, sono, almeno in parte, espropriati dal Capitale.
Sia Keynes che Minsky (quest'ultimo era consulente del governo americano quando scrisse il suo saggio), capitolano clamorosamente di fronte al marxismo: mentre nella teoria neoclassica dell'equilibrio – dice Minsky – il profitto è dato dalla produttività marginale degli investimenti moltiplicata per la massa del capitale investito (per noi: saggio di profitto per capitale anticipato), in una teoria dinamica che permetta di prevenire le crisi occorre sapere prima che cosa succede al profitto, cioè indirizzarlo; non basta un dato rilevato da serie passate. Affermazione davvero interessante perché, oltre a rappresentare in qualche modo un tentativo di rovesciamento della prassi, una politica secondo progetto, fa comparire nuovamente la nostra funzione di produzione. Infatti è il profitto-plusvalore che determina la produzione futura. La quale, a sua volta dovrà essere venduta, e lo sarà solo se posta di fronte ad una domanda solvibile. Alla fine questa dev'essere trovata per forza, a costo di stimolare il mercato, cioè suscitarlo, inventarlo. Da che il capitalismo è maturo, non è più il salario, cioè la parte di domanda solvibile rappresentata dai lavoratori, che stabilisce il livello della produzione di beni di consumo, ma viceversa. Il fenomeno è qualcosa di molto differente rispetto alla legge di Say (ogni volume di produzione trova da sé il suo mercato), che rifiutiamo. Nel nostro modernissimo caso interviene una doppia regolazione dovuta proprio alla maturità del capitalismo: 1) se il salario è, come lo definiamo sempre, la quantità di beni che serve a riprodurre la forza-lavoro, il valore di quest'ultima, cioè il suo prezzo medio di mercato, è stabilito dalla quantità di beni compatibile con date condizioni medie di vita (quelle cui si rivolge l'attacco pubblicitario prima di dar luogo alla produzione); 2) anche senza ipotizzare una produzione totalmente just in time, cosa impossibile, è comunque normale per l'industria adeguare con margini ristretti d'errore la produzione all'assorbimento del mercato. Lo stesso vale per i consumi industriali, cioè gli investimenti: essi sono richiesti non tanto dall'aumento della produzione e dall'obsolescenza materiale degli impianti quanto dalla concorrenza, che impone un ciclo di rinnovo sempre più frenetico, e sono programmati in base a dati abbastanza attendibili.
Come da antica polemica dei comunisti contro l'economia politica, la teoria del valore è in grado di informare in anticipo su che cosa succede nella società che produce e si riproduce, mentre la forma fenomenica prezzo è una realtà aleatoria che si forma in ritardo rispetto alla produzione e al comportamento del mercato. La nostra è una teoria e insieme un metodo di previsione, l'economia politica è una constatazione e un tentativo di rattoppo. Avendo rigettato la teoria del valore per ragioni di classe, i singoli capitalisti tentano di ricavare previsioni basandosi sull'andamento statistico della produzione e del consumo e ne proiettano la tendenza nel futuro. Ma lo Stato, capitalista collettivo, non può limitarsi a questo, deve avere un programma e intervenire sulla realtà cercando di prevenire disastri come quello del '29 che ebbe uno sbocco solo con la più terribile guerra.
Ora, la Grande Depressione ha avuto l'effetto di illuminare parzialmente alcuni borghesi, far loro abbandonare le teorie meccaniche dell'equilibrio e spingerli alla ricerca di modelli dinamici. Avrebbero potuto raggiungere più in fretta i loro risultati copiando direttamente Marx. Avendo a disposizione gli strumenti matematici successivi, le teorie delle relazioni, quelle dei sistemi complessi e i modelli computerizzati, sarebbero stati in grado di capire meglio il loro stesso sistema. Ma non potevano ammettere il meccanismo principale di questo sistema, lo sfruttamento. Nel citato Vulcano della produzione è scritto a chiare lettere che il capitalismo descritto da Marx è meno disastrato e più efficiente di quello che scoprono i capitolatori quando smettono di farne l'apologia pura e semplice. Se non fosse così sarebbe già morto e sepolto. Quando i moderni economisti si spaventano per i disastri sociali che il capitalismo provoca, diventano apocalittici e indagano sui "limiti dello sviluppo" predicando la necessità di prendere misure drastiche altrimenti sarà la fine. Con tutti i loro computer non ne azzeccano una e i loro scenari si dimostrano persino più catastrofici dei nostri. Ciò avviene perché tengono conto soltanto del livello dei prezzi, della disponibilità di risorse fisiche (in fondo, della teoria della rendita) e della degenerazione dell'ambiente. Nella loro visione soggettivistica vedono i capitalisti correre verso il fallimento, ed è vero, ma non realizzano il fatto che il capitalismo si avvantaggia con la distruzione continua di capitalisti e capitali (lavoro passato, morto) e che ciò comporta un effetto sulla durata storica dello sfruttamento (dominio sul lavoro attuale, vivo). Il capitalismo non è eterno comunque, Marx in ciò era "crollista", ma la sua esistenza può essere abbreviata soltanto dalla possibilità di un rovesciamento politico.
Se lo Stato, mediante una politica economica e sociale (Welfare State) si prende l'incarico di controllare il rovesciamento già avvenuto nella società, di controllare quindi il gioco della concorrenza, degli investimenti innovativi e produttivi, l'accesso ai mercati e il livello dei consumi, è chiaro che determina o perlomeno salvaguarda il livello dei profitti e dei salari (questi ultimi, proprio allo scopo di evitare la lotta di classe, sono intesi in senso lato, cioè sociale, come reddito destinato ai lavoratori produttivi, alle fasce improduttive, ai disoccupati, all'intervento di assistenza propriamente detta). La leva è quella ormai classica dell'imposta progressiva, del credito, dei tassi e dei sistemi assicurativi e previdenziali; agendo su di essa lo Stato controlla il mondo finanziario. Anzi, coalizioni di Stati tentano ormai di farlo anche a livello internazionale.
Che ciò avvenga operando direttamente o indirettamente non ha importanza, ma succede a livelli tali che parlare di capitalismo alla vecchia maniera per definire questo stato di cose è ormai un non-senso. In un testo della nostra corrente, Proprietà e Capitale, c'è un capitolo dedicato alla materiale formazione di una "economia comunista" già nella società attuale. Perciò la necessità di superare la vecchia forma sociale non si presenta nel programma comunista solo come "rivendicazione ideale", ma come evidenza concreta dell'inutilità di strutture sopravviventi all'erompere della forza produtiva sociale, anche molto prima della rottura politica rivoluzionaria.
La forma schiavistica era già morta al tempo del tardo latifondo romano; la forma feudale era già permeata di traffici e manifatture capitalistiche; la forma capitalistica matura ha già sviluppato completamente tutte le strutture materiali utili alla società futura. Il sistema di massiccia ripartizione sociale del plusvalore, abbinato al controllo drogato dell'economia è addirittura un qualcosa che va oltre il "normale" capitalismo. Esso ci permette di anticipare possibilità pianificatrici ben più potenti, ricordandoci che l'umanità ha già conosciuto antiche società urbane, ancora comunistiche, in grado di indirizzare immense energie verso la costruzione di opere che lasciano stupiti ancor oggi. Chi si accinga a studiarle dal punto di vista dell'utilizzo dell'energia sociale si rende conto facilmente come, dal capitalismo alla società comunistica sviluppata, verranno liberate potenzialità ben più grandi per mezzo della scienza e della tecnologia moderne.
Domani
Premesse per la società futura
Ma allora, seguendo la nostra teoria che fa del capitalismo la base reale del comunismo, dobbiamo vedere anche in queste realizzazioni lo zampino della vecchia talpa che scava sotto lo scranno della borghesia. Dobbiamo provare soddisfazione di fronte all'insensato balletto dei neo-classici neo-liberisti, i quali predicano ad ogni piè sospinto privatizzazione e demolizione dello stato sociale. Di fronte a processi di socializzazione irreversibile, vorrebbero tornare all'epoca precedente la Grande Depressione, quando misure come quelle attuali non erano neppure immaginabili. Insensati, perché saranno costretti a fare il contrario: a rafforzare lo Stato, non a indebolirlo; ad investire di più per il controllo sociale, non di meno; ad essere proiettati verso il mondo, non verso la patria.
La crisi catastrofica incombe come una spada di Damocle sulla testa della borghesia, che non può più accontentarsi di descrivere i processi, ma deve prevederli e prevenire le conseguenze di andamenti rilevati da una continua e ossessiva osservazione. Per questo è costretta a scendere sul nostro terreno e a mostrare, più chiaramente che mai, con quanta ansia tenti di difendere il suo sistema barcollante.
Benché l'approccio keynesiano non sia inserito nella storia del Welfare State, o perlomeno sia tenuto separato, è evidente per noi che il maturare parallelo di entrambe le esigenze terapeutiche per il sistema capitalistico malato si inserisce in un capitolo unico della controrivoluzione. Per gli economisti classici e neo-classici l'approccio alla realtà della produzione e del mercato era quello di dare – con espedienti analitici – spiegazione dei fenomeni in un modello di equilibrio fra produzione, occupazione, consumo e altre variabili strettamente connesse. Per gli economisti keynesiani - e in questo consiste, nonostante le incongruenze teoriche, l'interesse del loro approccio - produzione, occupazione, consumo, ecc., vanno spiegati nel loro processo di variazione.
Per molti economisti borghesi Marx è da annoverare fra i classici, in quanto egli avrebbe utilizzato le categorie adattandole vuoi alla filosofia che da lui prende il nome, vuoi alle esigenze della lotta di classe. Tali enormi sciocchezze sono spazzate via da una sola considerazione: lo schema di riproduzione allargata è un modello a retroazione positiva altamente dinamico, tanto da portare ad una crescita esponenziale; invece i fattori politici e sociali che stanno intorno alla produzione rappresentano un modello a retroazione negativa, in grado di frenare e addirittura far saltare il sistema. Keynesismo e Welfare State rappresentano il tentativo di conciliare l'intervento politico sullo schema di riproduzione, cioè di trasformare la retroazione negativa in positiva. La crescita eterna.
Ovviamente è una stupidaggine. Dal punto di vista fisico e biologico niente può crescere eternamente. Perciò se il sistema cresce, salta in virtù del sopravvento della prima retroazione; se non cresce, salta lo stesso in virtù del sopravvento della seconda, che lo annichilisce. In ogni caso la forza produttiva sociale è frenata dal modo di produzione capitalistico. Il comunismo, come movimento reale fortemente distruttivo nei confronti del presente, è un processo dinamico perfettamente descritto da Marx. Il quale svolge nello stesso tempo la critica contemporanea ai classici e quella preventiva ai neoclassici, keynesiani e neo-liberisti (ai quali ultimi lo Stato piace un sacco quando privatizza i profitti e socializza le perdite).
Se ad un certo punto il capitalismo, nella sua corsa a permeare il mondo, invece di espandere internazionalmente il sistema del controllo sociale, che si chiami Welfare State o altro non importa, dovesse restringerne la portata e basare la propria sopravvivenza, rispetto all'inevitabile attacco della classe proletaria, soltanto sulla forza delle armi, sarebbe spacciato. Non è impossibile che si giunga a quel punto, ma sarebbe veramente una non-soluzione, disperata, finale. Per adesso assistiamo ad una espansione rozza e primitiva che si traduce in fondi d'aiuto e d'investimento a favore di zone disastrate, in proliferazione di organizzazioni internazionali di aiuto, in migliaia di campi profughi e rifugiati di tutti i tipi, in interventi per assorbire eccedenze agricole e industriali invendibili. Sta di fatto che oggi, come negli schemi di supporto alla produzione o in quelli di protezione sociale, c'è una crescente ripartizione di plusvalore non solo all'interno dei singoli paesi ma del mondo. L'ONU si occupa quasi esclusivamente di un dibattito politico sull'argomento, mentre la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale, l'Organizzazione Mondiale per il Commercio, autentici organi dell’esecutivo del Capitale, se ne occupano dal punto di vista pratico.
Non essendoci nello schema keynesiano le classi, il modello diventa farraginoso e poco chiaro. Non si capisce per esempio da dove piovano le difficoltà del sistema che si vuole "salvare". Sembrerebbero alla fin fine dovute a semplici scompensi di distribuzione, perciò recuperabili con espedienti fiscali e di bilancio pubblico, mentre per noi sono dovute allo scontro fra produzione sociale e appropriazione privata del valore. Nonostante tutto, una cosa è chiara: lo schema keynesiano ci dice che il consumo è una funzione del reddito globale, anche se in maniera non proporzionale: cioè cresce l'investimento, cresce la produzione, cresce il reddito ma il consumo non cresce nella stessa misura. Come mai? Ecco la confessione: le fasce di reddito basso, quelle che potrebbero consumare di più, le più numerose, non possono; quelle di reddito alto sono poco numerose e hanno già tutto; gli investimenti si bloccano perché è bloccato il consumo e quindi si blocca la produzione. E' una teoria del sottoconsumo? No, perché, esattamente come dice Marx, non esiste crisi da mancanza di consumatori solvibili (è una tautologia, ogni consumatore è sempre solvibile per quel che consuma). C'è crisi perché s'inceppa il sistema intero della produzione. Nella farragine keynesiana sono riflesse le leggi reali della crisi capitalistica.
Dunque il consumo totale non cresce della stessa quantità del reddito, dunque il capitale prodotto non è reimmesso nella circolazione. Paradossalmente, in questo schema assolutamente borghese, i proletari consumano per definizione tutto ciò che ricevono, mentre i colpevoli di poca "propensione marginale" sono proprio i "ricchi". Se parte della popolazione possiede valore e non lo può consumare, la ripartizione forzata dei redditi esiste in potenza prima che a qualcuno venga in mente di escogitare teorie sociali per imporla. Nel sistema in quanto tale, la forza produttiva sociale mostra già la sua dirompente esuberanza, ma la sovrastruttura politica di classe non sa e non può far altro che utilizzare il valore in eccesso per rattoppare falle. Invece di sfruttare un gran numero di proletari, è costretta a mantenerli. A noi tutto ciò fa pensare immediatamente alle potenzialità della società futura, mentre a Keynes venne in mente una "teoria del rilancio della domanda effettiva" per eliminare definitivamente la povertà e salvare il capitalismo per sempre. In fondo era un ottimista.
Ma, ci chiediamo, se il capitalismo è giunto a questo punto, certamente irreversibile a meno di non immaginare uno scontro generalizzato e violentissimo fra le classi, e se la ripartizione del reddito all'interno della società ha raggiunto proporzioni così vaste da rappresentare un vero e proprio processo di espropriazione parziale delle proprietà, che cosa resta del libero mercato e soprattutto dell'essenza stessa del capitalismo?
Cancellazione immediata del Welfare State
Supponiamo di essere in una società che abbia messo una pietra sopra al dominio della borghesia. Nell'immediato essa si troverebbe ancora in una fase di transizione in cui vigono tutte le categorie precedenti, nessuna esclusa, perché è pura utopia pensare che dall'oggi al domani esse si possano eliminare con una serie di decreti. Che esistano capitalisti singoli inquadrati nel nuovo sistema politico o che vi sia capitalismo di stato non ha importanza, il problema è, appunto, politico, non economico, giacché anche l'economia sarà destinata ad estinguersi (lasciamo a fantasiosi utopisti frustrati l'immagine di una dittatura del proletariato giacobina, dove per "eliminazione" della borghesia si immagina qualcosa di molto letterale e tutto sommato meschino). In questo sistema la produzione avviene ancora per un mercato, le merci si scambiano secondo il loro prezzo oscillante intorno al valore, esiste l'equivalente generale denaro, e perciò esistono ancora gli asili, le scuole, gli ospedali, le pensioni e le assistenze a pagamento, non importa se nella forma differita dell'assicurazione sociale pagata con una ripartizione del valore tra le classi (che ci sono ancora, altrimenti a che servirebbe la dittatura del proletariato?).
Tale società futura ha già il potere effettivo di rompere i vincoli di valore anche se produce ancora valori, se cioè sfrutta ancora il lavoro umano per trarne plusvalore. Incomincia da subito a distruggere i rapporti di valore perché la produzione sociale viene spinta alle massime conseguenze; l'azienda viene gradualmente integrata in un sistema d'industria fino ad estinguersi; il complesso produttivo viene considerato sempre più un unico elemento della società, così come l'operaio globale già descritto da Marx produrrà una unica merce globale. Questa merce particolare verrà distribuita fra la popolazione, non da un'autorità al vertice di una piramide, ma da un sistema che l'umanità avrà progettato in modo che esso funzioni da solo, così come funzionano da sole le cellule di un organismo in base al loro DNA. L'autorità non sarà un uomo o un comitato, ma un programma sul quale saranno basati i movimenti degli uomini (che ne saranno i realizzatori) e dei prodotti.
In questa società il denaro circola come mezzo di conteggio e di scambio, ma non si accumula né nelle mani dei privati né viene raccolto da qualche ente statale per essere investito. Poco per volta il surplus si armonizza con le esigenze di riproduzione sociale e perciò si adegua a quanto è necessario per ristabilire le scorte e i processi di logorìo dell'apparato produttivo o, se così fosse utile, per aumentare le potenzialità generali e dare soddisfazione a nuovi bisogni. Nel tempo, certamente in tutto il mondo e non in un periodo molto lungo, la soddisfazione di questi bisogni perderà sempre più i suoi caratteri quantitativi (produzione per la produzione) e assumerà caratteri esclusivamente qualitativi (produzione per i bisogni umani).
Il primo passaggio è dunque una specie di capitalismo a riproduzione semplice e non più allargata, dove tutto il plusvalore viene "consumato". Infatti l'accumulazione avviene a favore di tutta l'umanità, nessuno si appropria del surplus, l'investimento diventa direttamente consumo sociale. Finché esistono ancora capitalisti tramandati dalla società precedente, essi possono soltanto fornire le loro esperienze tecniche e organizzative, se ancora ne hanno. In una situazione del genere l'umanità impara presto a produrre solo ciò che è umanamente utile e dimentica persino il concetto di profitto. Poco per volta il conteggio in denaro viene sostituito con il conteggio in quantità fisiche: nel sistema produttivo generale, contano i "pezzi" prodotti e le ore occorrenti ad ottenere il risultato. Non più fabbrica per fabbrica, posto di lavoro per posto di lavoro, ma nell'insieme, in modo da tenere sotto controllo soltanto il rendimento generale del sistema.
In tale sistema, che avrà certamente un rendimento sempre più alto grazie al superamento dello sciupìo capitalistico, le quantità prodotte saranno distribuite secondo criteri di circolazione naturale, vi sarà una sorta di osmosi sociale, per cui non vi sarà più ripartizione sociale di plusvalore ma solo una diffusione naturale del prodotto.
L'asilo, la scuola, l'assistenza medica, le pensioni ecc. saranno "gratuiti", ma non perché da qualche parte nella società gli uomini "pagheranno" l'ammontare dell'assicurazione sociale o le imposte come adesso. La società intera sarà come un sistema vivente in cui ogni organo svolge la sua funzione in armonia col tutto, e sarà quindi consapevole che l'asilo, la scuola, l'ospedale sono parte di sé, come lo sono la fabbrica o le strutture che ne rappresentano il sistema nervoso, come la circolazione sanguigna, il ricambio, le relazioni che rappresentano il metabolismo complessivo.
Non vi sarà "ripartizione del reddito", perché nonostante la sopravvivenza di categorie ancora capitalistiche non vi saranno più redditi. Non vi sarà neppure prelievo di valore "alla fonte" perché sarà la società stessa a programmare la distribuzione di risorse là dove sono necessarie all'armonia del tutto. Invece di separare merci, servizi, produzione e "prestazioni gratuite", essa unificherà ogni sfera dell'attività umana spazzando via la divisione sociale del lavoro, la differenza di natura fra le attività umane.
I salari, se avranno ancora questo nome, saranno rapportati a tempo di lavoro generico semplice e tutta la popolazione avrà qualche compito da svolgere. Il controllo che la società eserciterà su sé stessa tramite l'inventario e il movimento di quantità fisiche e non di valore, eliminerà alla fine ogni forma di "retribuzione", registrando l'attività lavorativa di ognuno su un supporto qualsiasi come per esempio una scheda elettronica. Su di essa, anche quando ci sarà ancora scritta una cifra che ricorda il vecchio denaro, sarà registrata in realtà una semplice quantità di lavoro. Vale a dire che a questo punto non avrà nessuna importanza se un numero significa "dollari" oppure "ore di lavoro", perché nessuno potrà accumulare quei numeri, chiedere un interesse, anticiparli come capitale che frutta plusvalore. Poi cadrà anche la necessità di "valutare" secondo il tempo di lavoro anche se rimarrà il rilevamento statistico di esso.
In una società che non sia basata sulla produzione di valore ogni programma keynesiano di previsione e di orientamento della domanda totale di merci non ha senso. E le specifiche politiche del welfare, essendo basate sulla ripartizione guidata del valore, si estingueranno rapidamente. Nell'immediato, anche quando il rovesciamento sociale avrà ancora a che fare con tutte le vecchie categorie del capitalismo, il Welfare State potrà essere abolito con una semplice decisione, stabilendone i tempi e i modi. E non saranno necessari molti anni.
Come dicevamo, non ci riferiamo a una "dittatura del proletariato" dura e pura che emana decreti tramite l'onnisciente partito da un centro pianificatore unico mondiale, visione caricaturale della rivoluzione che lasciamo ad altri. Nessun sistema complesso si lascia trattare come un teatro di burattini "cartesiano" e forse occorre precisare per l'ennesima volta, prima di concludere con la trasformazione reale della società, che cosa significhi per un comunista "rovesciamento della prassi".
Lo faremo non con le parole dello schema classico della nostra corrente, ma con termini equivalenti mutuati dalla stessa conoscenza cui essa attinse. Cartesio partiva dal presupposto che gli elementi complessi, poco conoscibili, fossero più accessibili all'indagine qualora fossero scomposti nei loro elementi semplici. Il mondo cartesiano, rivoluzionario per la sua epoca, era un mondo riducibile alla somma delle sue parti, ognuna delle quali analizzabile separatamente, anche nello spazio e nel tempo. Cartesio immaginava di poter trattare a questo modo anche i corpi viventi, organi con funzioni specifiche, macchine fatte di "pezzi", impalcature, collegamenti, leve. Prospettando una riduzione del complesso a semplice, del tutto alle sue parti costitutive, per poterle trattare e conoscere, aveva separato il corpo dall'anima, operazione al suo tempo temeraria. E una volta che le parti fossero state analizzate in quanto tali, esse potevano essere riunificate nel complesso da cui erano state divise, per cui il tutto risultava evidente all'indagine ancora e solo come somma aritmetica delle parti stesse. Oggi sappiamo che il pensiero "meccanicistico" è inadeguato rispetto alla conoscenza profonda dei fenomeni, ma già questa era una rivoluzione (più o meno contemporanea, tra l'altro, alla condanna di Galileo; fatto che spaventò Cartesio inducendolo a sospendere la pubblicazione dei suoi studi).
Questo approccio a una nuova teoria della conoscenza era rivoluzionario all'epoca perché frutto dello sviluppo delle forze produttive, che caratterizzava il capitalismo nascente. C'era la necessità di occuparsi delle applicazioni pratiche, di costruire macchine, di fare calcoli, di dare sistemazione alla tecnologia. La vecchia conoscenza speculativa era del tutto inadeguata a dare risposte. Occorreva quindi fondare una nuova conoscenza, renderla condivisa, toglierla dalle mani dell'artigiano, che la trasmetteva individualmente al figlio o al garzone, e metterla in quelle di una scuola che l'avrebbe trasmessa socialmente. Soprattutto occorreva toglierla dalle mani del vecchio Dio, che non la teneva in minima considerazione, quando invece sarebbe stata alla base della nuova società fondendosi con la nuova scienza.
L'inglese Francis Bacon, studiato e ammirato da Marx come progenitore del materialismo, poneva le questioni che qui c'interessano allo stesso modo razionalistico, e il filone si può seguire nei suoi sviluppi fino all'illuminismo e al positivismo scientifico. Tutto il capitalismo e specialmente l'economia moderna poggiano su una concezione cartesiana del mondo. Ma il mondo funziona in un altro modo, e la borghesia stessa l'ha ultimamente scoperto, utilizzando questa sua nuova consapevolezza con ottimi risultati.
In breve, la dinamica dei sistemi complessi dimostra che l'approccio alla conoscenza, e soprattutto il modo di intervenire per cambiare la realtà (applicazione della "volontà", rovesciamento della prassi), non possono essere basati sui "pezzi" di un problema visti separatamente, e che anche il tutto va affrontato come un qualcosa in movimento, che non è mai uguale a sé stesso e che soprattutto è formato da parti interagenti, per cui la loro aggregazione dà risultati assai diversi che se fossero semplicemente sommate l'una all'altra. E per "dinamica" non si deve semplicemente intendere il passaggio fra un punto definito nel tempo e nello spazio ad un altro punto dopo che sia trascorso altro tempo; in questo caso non saremmo per nulla usciti dal "meccanicismo", avremmo semplicemente fatto un confronto tra due fotografie scattate in istanti diversi.
Ciò significa che la conoscenza della dinamica insita nel modernissimo capitalismo – un sistema complesso che marcia verso la sua trasformazione – permetterà la progettazione del cambiamento ulteriore. Con questa conoscenza sarà cioè possibile varare un'apposita politica per trasformare gli iniziali flussi di valore in flussi di "valori d'uso". I quali non hanno bisogno di rapporto sociale (tra classi) ma di rapporto umano (di specie). Per dare un'idea in flussi di valore di scambio basta riferirsi a poche cifre: in un paese moderno risulta mediamente occupato in attività qualsiasi, produttive e improduttive circa il 40% della popolazione; il reddito dei soli lavoratori produttivi è il 20% del monte totale dei redditi, cioè del valore totale da essi prodotto in un anno; il valore redistribuito dallo Stato in welfare è superiore all'ammontare dei salari dei lavoratori produttivi (di circa un 25%); ciò significa che l'energia sociale complessiva devoluta al welfare per mantenere la pace sociale costa alla borghesia più di quanto le costi l'intera produzione di merci e servizi vendibili (il capitale costante è anch'esso lavoro e come al solito lo rapportiamo a zero).
Inoltre non si tratta di un prelievo alla fonte per investimento da utilizzare in consumo differito nel tempo da parte del diretto interessato (pensione, malattie, incidenti, istruzione, ecc.), ma di un prelievo dal reddito attuale per pagare i beneficiari del welfare attuale, senza legami con coloro ai quali il prelievo viene fatto. In poche parole, è ormai superato il concetto di assicurazione, mentre vige una pura e semplice diversione immediata di valore a fini sociali. Già questo ci permette di immaginare quali risultati potrebbe raggiungere una società in cui raddoppiasse la popolazione dedita alla produzione vera e propria e in cui tutti i suoi componenti, dai bambini agli anziani, partecipassero in quanto cellule differenziate alla vita complessiva dell'organismo sociale.
Oggi invece la cosiddetta protezione sociale esiste perché ci sono i poveri cronici, coloro che sono sbattuti fuori dal ciclo produttivo, coloro che devono studiare per entrarvi, i malati e gli incidentati, i neonati che devono crescere e gli anziani da rottamare. Tutte categorie sociali che, non essendo direttamente produttive, servono solo a fabbricare plusvalore attraverso l'industrializzazione della crescita, della vita e della morte. Che soffrano o meno al Capitale non importa niente. Come si vede, già facendo un elenco discretizziamo il problema, dividiamo cartesianamente i "pezzi" della società, classificando grossolanamente fra produttori di valore e non, cioè, dal punto di vista capitalistico, tra utili e non. In una società organica questa divisione non esiste e l'individuo entra ed esce dal ciclo vitale (nasce e muore) senza aver smesso per un attimo di essere parte attiva della società.
Il capitalismo, come vanno strepitando gli economisti e i governanti, ha effettivamente un problema grave, gravissimo, mortale. Oggi un individuo è "ragazzo" fino a trent'anni e rimane nel ciclo produttivo per ben poco tempo rispetto alla durata della vita; la maggior parte della popolazione attiva si dedica ad attività che sempre più riciclano valore altrui anziché produrne; gli anziani non possono essere trattenuti al lavoro lasciandone fuori i giovani. Perciò fra non molto l'uomo, in grado di raggiungere facilmente 90 anni di media e mandato magari in pensione a 70, dovrà essere mantenuto per una cinquantina d'anni in confronto ai quaranta di lavoro (cfr. figura). Ma da chi? Nessuna società capitalistica, per quanto opulenta, riuscirà a risolvere questo assurdo. Invece la società futura lo risolverà immediatamente, semplicemente eliminando la differenza fra tempo di lavoro e tempo di vita, e mettendo così da parte la suddivisione cartesiana in categorie distinte dedite a produrre valore, distribuirlo, fagocitarlo da parassiti. Semplicemente considerando la specie intera come un insieme complesso e dinamico che vive ed evolve, non che consuma (cioè, secondo i sinonimi: sciupa, logora, distrugge, guasta, esaurisce, erode, dilapida, sperpera, dissipa, ecc. ecc. Com'è potente la lingua, strumento più antico della società del valore, e quindi più sincero).Una formazione economico-sociale già pronta
Il capitalismo moderno ha già lavorato per noi, le potenzialità per una formazione sociale più avanzata ci sono già. Basterà la liberazione delle potenzialità attuali non solo ad aprire la strada ad una forma di economia superiore, ma a condurre al superamento dell'economia stessa. Ritorniamo all'immagine dell'avvenuta conquista del potere in un paese capitalisticamente avanzato e dei problemi che si presentano all'amministrazione della società nuova. Sappiamo che la somma dei prezzi è il valore totale e che questa grandezza di valore, di fronte ad una situazione generalizzata che non permette più l'appropriazione privata del plusvalore, è assimilabile a mera energia sociale, rappresentabile con ore di lavoro o unità di misura qualsiasi. La vecchia suddivisione, che vedeva il 20% della produzione totale andare ai produttori e l'80% a qualcun altro che ne beneficiava senza produrre, è caduta ed ora si possono fare altri calcoli. Per esempio, se ci basiamo sulla situazione giapponese mostrata dalla figura, vediamo che coinvolgendo nella produzione i giovani e gli anziani si può tranquillamente recuperare già immediatamente un buon 30% di energia produttiva e giungere al 50 invece del 20%.
Un altro recupero di rendimento si può agevolmente ottenere dalla natura della produzione, che ora potrà essere mirata al contenimento dello spreco: l'Istituto Battelle di Ginevra aveva calcolato qualche anno fa che la produzione di un'automobile che durasse vent'anni invece di dieci richiedeva un dispendio di energia (in tep, tonnellate di petrolio equivalenti) superiore del 16%, ma per via della durata permetteva un saldo finale, del 42% netto di risparmio. Ora, è certo che avere a disposizione i dati sull'automobile non è la cosa migliore, poiché la razionalizzazione sociale in questo campo sarà ancora più drastica con la limitazione del folle proliferare del trasporto privato; ma essi sono molto indicativi e vanno per esempio considerati insieme con quelli sul rendimento in altri settori, come l'agricoltura (cfr. l'articolo sul numero scorso). Oppure con gli effetti che avrebbe l'eliminazione di settori che non producono nulla e dissipano soltanto, come tutti i servizi legati al denaro, banche ecc.
Ciò che importa è che, da qualunque punto di vista si effettui il confronto, si riesce a salire agevolmente e grandiosamente sulla scala del rendimento sociale e quindi a distribuire meglio sia l'attività degli individui che gli individui stessi in confronto alle attività necessarie. Se invece del lavoro coatto e mercificato abbiamo semplice e libera attività umana, non c'è nulla di strano nel farvi partecipare anche i bambini e gli anziani, come succedeva nel comunismo primitivo. I primi assorbiranno esperienza e dilateranno le loro possibilità conoscitive e sociali imparando e producendo utilmente in compagini altamente organizzate come l'industria (la scuola come viene intesa oggi sarà un ricordo del passato e il bambino utilizzerà gli strumenti del linguaggio, mano, parola, scrittura, capacità di relazione, gesto produttivo, in un processo unitario); i secondi metteranno a disposizione capacità affinate dall'esperienza e conoscenze che oggi, in mancanza di una staffetta fra generazioni sui luoghi di lavoro, devono essere ricostituite ogni volta con una "formazione" specifica e anch'essa sottoposta alle leggi del valore, essendo la conoscenza trattata come "investimento" sull'uomo, esattamente come si fa con le macchine, gli impianti e le infrastrutture.
La società attuale produce pseudo-programmi prospettando di far lavorare gli anziani solo perché non può mantenerli in pensione (né sterminarli), e di far studiare – e quindi mantenere – i giovani fino a trent'anni solo perché non ha lavoro per essi; prospettando nello stesso tempo investimenti produttivi e perciò il licenziamento di lavoratori che vanno ad ingrossare ancor più l'esercito della sovrappopolazione inutile; prospettando l'eliminazione del pensionamento pubblico a favore di quello privato senza chiedersi dove saranno investite "produttivamente" le immense, ulteriori raccolte di capitali. Quest'ultimo ritornello della moderna economia politica è addirittura il più assurdo: i paesi che si basano sulla raccolta previdenziale privata devono gestire fondi pensione per una massa finanziaria che va dal 60% del PIL canadese al 140% di quello svizzero, passando dall'80% di quello degli Stati Uniti. Innalzare ulteriormente l'età pensionabile, come si continua a predicare, quando i posti di lavoro non aumentano e quindi l'unica via d'uscita diventa quella di ritardare l'ingresso dei giovani nel mondo del lavoro, è un non-senso che fa ingigantire il problema dei fondi raccolti. La tabella ci ha mostrato chiaramente che nelle fasce d'età precedente e successiva a quella lavorativa ci saranno molto presto più anziani che giovani, perciò per ogni anno di non-pensionamento degli anziani occorrerebbe già da adesso ritardare più di un anno l'assunzione dei giovani. L'età media effettiva di ingresso al lavoro nell'Unione Europea è 28 anni, quella effettiva di pensionamento è 60 anni (62,5 negli USA): portare quest'ultima a 65 significa innalzare l'ingresso dei giovani a più di 33, con tutto ciò che ne consegue rispetto all'economia e all'impaludamento sociale.
I pochi numeri che abbiamo presentato, rapportati non a denaro ma a ore di lavoro e sfrondati dallo sciupìo capitalistico, ci permettono di percepire con chiarezza che la società futura non avrà i problemi attuali, per la semplice ragione che anche solo dal punto di vista quantitativo della distribuzione del lavoro (che comunque non è certo un obiettivo sufficiente) tutto è già risolto. La nuova società non ha bisogno che del passo politico, nulla deve maturare ancora. Naturalmente neppure il processo politico s'inventa, ma è chiaro che l'umanità si trova di fronte a molti fenomeni che si potrebbero già trattare come non-problemi se "soltanto" si potesse dar corso alle nuove potenzialità. Già da oggi saremmo perfettamente in grado di integrare l'attività di tutti, dai neonati ai vecchietti non nel lavoro salariato che produce plusvalore, che poi occorre obbligatoriamente investire, ma nell'attività di produzione e riproduzione globale, senza partita doppia e surplus monetario finale.
La proprietà privata non solo degli oggetti e dei capitali, ma di tutto il globo terrestre apparirà assurda e l'homo faber, artefice della sua vita e dell'ambiente che lo circonda, cancellerà in fretta la sua storia "proprietaria", brevissima parentesi tra i due milioni d'anni di comunismo primitivo del passato e gli ancor più numerosi di comunismo sviluppato che verranno. Quando Marx affronta il problema della proprietà basilare, quella della terra, lo imposta nella dinamica storica che vede un passaggio continuo di generazioni, per cui "un'intera società, una nazione, e anche tutte le società di una stessa epoca prese complessivamente, non sono proprietarie della terra. Sono soltanto i suoi possessori, i suoi usufruttuari e hanno il dovere di tramandarla migliorata, come boni patres familias, alle generazioni successive". La borghesia, per parte sua, ha capitolato clamorosamente anche di fronte al suo ultimo baluardo, quello della proprietà, perché tutto il discorso sul welfare e sul keynesismo verte sul fatto che nel mondo sviluppato attuale una buona metà del capitale esistente è espropriato e indirizzato artificialmente nella società. Il capitalista, invece di essere il soggetto della proprietà privata, cioè chi priva qualcun altro del capitale, diventa l'oggetto della privazione, è espropriato. Certo, lo è a favore della proprietà e per la salvaguardia dei suoi stessi interessi (finché sopravvive), ma la proprietà non è più l'elemento essenziale, quel che conta è la sopravvivenza della classe che la rappresenta, ormai classe virtuale, memoria di sé stessa.
Ma la capitolazione più significativa sul piano della percezione da parte della classe dominante è proprio l'indirizzarsi di alcuni borghesi verso forme ibride di teoria economica. Un esempio è la scuola di J. W. Forrester, legata alla dinamica dei sistemi, che si basa su modelli computerizzati in grado di elaborare migliaia di relazioni in successione, modelli che vengono "caricati" con i dati dell'economia reale, verificati su serie di variabili del passato, quindi conosciute; i loro risultati sono, è vero, influenzati dall'operatore che gestisce il programma, ma offrono una buona visione dell'andamento critico e "al limite" del capitalismo, mostrano cioè curve di sviluppo dall'andamento asintotico, verso lo sviluppo zero o addirittura verso catastrofi irreparabili (com'è noto i comunisti sono "catastrofisti"). Un altro esempio è la scuola di Georgescu-Roegen, che tratta l'economia come scambio di energia in un sistema termodinamico chiuso, quindi entropico (dissipativo), e che viene anch'essa sul nostro terreno degli schemi di riproduzione allargata a rendimenti decrescenti. A livelli ancor più vicini a un approccio globale, sono stati sviluppati, presso istituti come il MIT, modelli dinamici di simulazione che vanno oltre il semplice schema economico e incominciano a tener conto di fattori diversi dalle risorse, dai capitali e dalle politiche economiche, e a integrare il mondo intero, la biosfera e anche l'energia che giunge dal Sole (pioniere di questa tendenza fu Carl Madden, scomparso prima di poter dare sistemazione alle sue teorie). Infine, serbatoio di inaspettate quanto fertilissime capitolazioni di fronte al marxismo, la scuola interdisciplinare, o meglio, olistica (una sola disciplina onnicomprensiva e non un collegamento fra discipline separate) di Santa Fe, che esplora il movimento delle molecole umane in relazione all'ambiente che le ha prodotte e a quello che esse stesse producono, tendendo a considerare il mondo come un unico sistema complesso, prodotto particolare di un universo dal quale dobbiamo smettere di sentirci estranei.
Insomma, la società nuova preme con forza su quella presente e ne scombussola persino le premesse ideologiche e scientifiche. Questo fenomeno ci dà la misura di come sia diversa dall'utopismo la dottrina che impropriamente deriva il suo nome da Marx. La nostra previsione sulla scomparsa del Capitale e della proprietà va ben oltre ogni immaginario sistema "pensato" od ogni "realistico" trasferimento di valore e proprietà dal soggetto individuale a quello sociale (si estinguerà pure questo soggetto, lo Stato). La nostra previsione si legge nella dinamica di questa società, nel suo necessario divenire, cioè nella liberazione quantitativa dovuta allo sviluppo capitalistico della forza produttiva sociale, dinamica che ormai si esprime, per chi in essa sa leggere, anche come liberazione qualitativa. E' oltremodo interessante notare che sta contemporaneamente morendo la visione volgare del partito, organismo che gli opportunisti e i sinistri poco preparati considerano ancora in termini quantitativi, mentre nel cervello sociale stanno esplodendo ovunque gli interessi verso i fenomeni qualitativi, anche dal punto di vista dell'organizzazione sociale.
Il passaggio dal welfare e dalle alchimie sulla ripartizione del plusvalore ad un organico metabolismo sociale con il suo ricambio molecolare, biologico, tra uomini e tra questi e l'ambiente, è uscito dai lavori di Marx e ha conquistato la scienza del nemico, tanto che lo si può leggere agevolmente nella sua produzione di punta. Per quanto occorra saper sfrondare i vari documenti dai fronzoli ideologici della borghesia, l'utopia è uccisa per sempre dalla realtà in movimento.
Mentre la natura utopica dei modelli ideali predispone i loro fautori ad attendersi la realizzazione di una società migliore da un'opera di persuasione e di reclutamento alle idee giuste ecc., la natura materiale del movimento che cambia la società ci mette sotto gli occhi un potenziale che nessuno dovrà creare; esso esiste, trasforma, distrugge ostacoli verso il futuro, dimostra le leggi del comunismo in divenire e resiste a qualsiasi critica. Chi rinuncia alla possibilità di mostrare con ogni mezzo la società futura sulla base delle evidenze attuali o addirittura lo rifiuta come metodo comunista e si culla nel metodo opposto, nell'utopia dei costruttori di società e di partiti non fa parte dell'attuale rivoluzione: "Nella sua sufficienza filistea – afferma la nostra scuola – questo metodo non è che il preparato alibi per le cricche politiche professionali, che non hanno mai sentita l'altezza della forma partito e l'hanno ridotta a palcoscenico per le contorsioni di pochi attivisti". E aggiunge: se queste cricche dovevano ritornare a concezioni esoteriche, non visibili a tutti, o limitarsi a manovre politiche per conquistare adepti in quantità, tanto valeva che restassero nelle sacrestie ad attendere il rivelarsi del verbo divino o stazionassero in permanenza nelle anticamere del potere, dove per i servi ci sono sempre dei piatti da leccare.
Il Welfare State non è argomento da rivendicazione comunista e neppure sindacale. L'operaio deve rifiutare l'ingabbiamento della sua condizione in contratti che lo legano all'avversario; deve rifiutare gli automatismi stabiliti per legge che lo inchiodano alla società capitalistica. La sua garanzia è nella forte organizzazione, in grado di mobilitare i proletari in qualsiasi momento, senza preavviso e senza programmazioni, per gettare in campo la forza e non la legislazione. Ma questa prospettiva può essere capita solo da chi non ha nulla a che fare con la mentalità leguleia del riformista e del "sindacalista" di professione, azzeccagarbugli che invece vivono sulla definizione delle regole, sul loro mantenimento e sull'attività sbirresca per farle rispettare in quanto legge.
Noi vediamo nel sistema della protezione sociale a carattere mercantile un ostacolo da demolire e da sostituire con ben altro che gli articoli di un codice e i trasferimenti di plusvalore. Siamo per la negazione perché nella società futura non ci saranno politiche del welfare, e ribadiamo che la vera politica comunista consiste nel proiettare il futuro nell'oggi, mentre in genere non si fa che proiettare l'oggi nel futuro, come nei peggiori film di fantascienza (qualcuno riesce a definirsi comunista addirittura proiettando il passato nel futuro, come fa chi fonda la propria concezione del mondo sulle arretratezze borghesi dello stalinismo, del maoismo e di altri "ismi" analoghi).
Esplosione della società futura
Sviluppando i temi sfiorati da Carl Madden, un filone economico-sociale tra quelli prima elencati elabora le sue valutazioni sulla società e sul suo progresso a partire dalla trasformazione dinamica che avviene su uno stock globale che l'umanità in un certo momento della sua esistenza eredita dalla storia del pianeta e da quella delle società e generazioni precedenti (cfr. Giarini). L'accumulazione sarebbe un fenomeno complesso che riguarda non solo il Capitale, coinvolto in minima parte nel sistema-Terra (e Terra-Sole) ma soprattutto l'intero ambiente e l'intero percorso storico che ha portato all'esistenza della "società monetizzata", la quale, a sua volta, evolve in modo contraddittorio: da una parte accumula nel suo ciclo; dall'altra disaccumula nel ciclo globale, cioè consuma ciò che la natura ha accumulato in milioni di anni. In questo curioso modello gli impianti, le costruzioni ecc., tutto ciò che normalmente viene considerato capitale fisso, è invece considerato capitale che fluisce con il perenne suo utilizzo nel ciclo di produzione: come in Marx viene rapportato a zero. Il capitale monetario, inoltre, è considerato a parte, come un valore d'uso necessario, nell'attuale periodo che l'umanità sta vivendo, per sviluppare la forza produttiva sociale e andare oltre.
Qualunque utilizzo venga fatto di un modello del genere (ed è chiaro che si tratta, nel caso degli autori, di salvaguardia di un capitalismo "dal volto umano"), a qualunque linguaggio si ricorra per descriverlo, le conseguenze estreme che se ne possono trarre è che non più di capitalismo si tratta ma di altro. La "gestione" dello stock è la chiave di volta del modello, ma anche in Marx la proprietà della terra, intesa quest'ultima in senso lato, è la chiave di volta di tutto il problema sociale. Proprio il trattamento della terra, che gli uomini ereditano e che hanno il compito di tramandare ai posteri intatta o migliorata, mai esausta e peggiorata, dev'essere indirizzato al miglior sviluppo futuro dell'umanità. Tutta la specie umana sarà dedita a questo compito. Non sarà suddivisa in lavoratori "produttivi", non produttivi, capitalisti, sovrappopolazione relativa, madri, bambini, vecchi, malati e parassiti. Nel nuovo metabolismo sociale non ci saranno poveri da assistere, pensionati da pagare o "propensioni marginali al consumo" da stimolare. Il lavoro delle madri e dei cuccioli umani nel garantire la continuità biologica della specie avrà "valore" identico a quello degli anziani nel garantire la continuità della conoscenza e dell'esperienza, complemento biologico delle biblioteche cartacee ed elettroniche. E non si chiederà a nessuno se ha pagato la tessera sanitaria quando si ammalerà o si spaccherà la testa cadendo.
Sistemato l'individuo al suo posto come cellula dell'organismo sociale, neppure i miliardi di individui che popoleranno la Terra saranno l'umanità, la specie umana, ma rappresenteranno una parte di essa entro il limite temporale delle esistenze singole, delle generazioni, delle epoche. Per la prima volta nella sua storia, coscientemente, scientificamente, l'uomo che vivrà nell'arco di un certo periodo si subordinerà alla specie, cioè si organizzerà in funzione non dell'attimo fuggente della sua propria vita e dell'aumento di capitale altrui ma ai fini dell'umanità a venire. Solo così l'individuo realizzerà anche sé stesso come uomo.
L'ingenua visione dell'economista che immagina uno stock universale con tanto di denaro e accumulazione capitalistica è ibrida, ma è certamente il frutto di una forte pressione materiale da parte della realtà in movimento. Marx fonda la sua teoria del futuro sulla differenza tra proprietà e usufrutto. Nel linguaggio corrente la proprietà è permanente, l'usufrutto è temporaneo. Nel diritto borghese la proprietà comporta il diritto di usare e di abusare del suo oggetto, mentre nell'usufrutto il diritto prevede solo l'uso ed esclude l'abuso. L'economista vede il problema e rileva che gli obiettivi della produzione capitalistica cozzano contro il limite dello stock, della sua natura, la quale non può sopportare una pura e semplice dissipazione. Introduce quindi un concetto giuridico: l'obiettivo locale non può essere disgiunto da quello globale, ma quest'ultimo comprende la natura e le generazioni future, ergo non si può affrontare il problema della produzione e dell'accumulazione attuale, transitoria, senza porre limiti alla libertà. Occorre cioè che vi sia uso senza abuso, un'assunzione di responsabilità verso il genere umano. L'economista borghese, costretto dalla teoria della dinamica dei sistemi, recita a modo suo un requiem alla proprietà.
Siamo già andati oltre le argomentazioni del politico, del giurista e dell'ambientalista che disquisiscono sui limiti sociali dell'inquinamento ecc.; la loro preoccupazione è di rattoppare il sistema in modo che si possa respirare e continuare a produrre, ricavando magari ulteriore plusvalore anche con i rattoppi, sperando di evitare problemi fra le classi, disturbi della tranquillità di sfruttamento o addirittura ribellioni. Siamo quindi, di nuovo, andati oltre la società borghese già in ambito borghese. Questa concezione olistica borghese scaturita nel tentativo di risolvere problemi della borghesia, non somiglia più né agli schemi keynesiani né alle misure legislative di Lord Beveridge per la protezione sociale. Ci dimostra come una prova sperimentale che il passaggio è stramaturo.
Integrata ogni componente sociale nella produzione e riproduzione di specie, sarà anche bloccata la dissipazione della conoscenza operata dalla società attuale, che giunge ad elaborare scienza ma poi la sterilizza, la rinnega, se questa dimostra la caducità del capitalismo o se non produce immediatamente profitto. Perciò, ridotto anche al minimo il tempo di lavoro necessario, che sarà collegato al tempo di vita in cui lavoro e altre attività anche gioiose non sono distinte, l'umanità farà esplodere ogni possibilità di conoscenza per badare a sé stessa in un tutto organico, e non avrà bisogno di uno Stato con i suoi "interventi sociali". Sparito il Capitale, lavoro morto che dominava il lavoro vivo, anche l'enorme accumulo di manufatti che ricopre il pianeta – altra ex manifestazione solida e palpabile del lavoro morto – rappresenterà un patrimonio da rigenerare a nuovi compiti e da passare alle future generazioni. Come la terra non può essere data in proprietà a nessuna classe in particolare senza consegnare l'intera società a quella classe, così l'industria e tutto ciò che rappresentava "capitale fisso" e "immobiliare" saranno trattati al pari della terra e presi in usufrutto dall'umanità vivente. Nessuno avrà "diritti", nessuno dovrà essere salvaguardato dalle differenze di distribuzione di valore.
Letture consigliate
- Karl Marx, Il Capitale, Libro I, cap. XIII (sul pauperismo, su Malthus, sulla sovrappopolazione relativa come legge generale dello sviluppo capitalistico).
- Partito Comunista Internazionale, Vulcano della produzione o palude del mercato? (dal paragrafo 30: "L'economia del welfare", al paragrafo 44: "Parassitismo e malessere"); Scienza economica marxista come programma rivoluzionario; Proprietà e Capitale. Tutti pubblicati nella nostra collana Quaderni Internazionalisti.
- Bruno Jossa, Economia Keynesiana, Etas Libri.
- Pierre Delfaud, Keynes e il keynesismo, Lucarini.
- Hyman P. Minsky, Potrebbe ripetersi?, Einaudi.
- Orio Giarini, Dialogo sulla ricchezza e il benessere, Mondadori Est.
- The Economist , "Pensions - Time to grow up", 16 febbraio 2002.
- Federico Caffè, Economia del benessere; Ernesto Rossi, Sicurezza sociale, entrambi in Dizionario di economia politica, Edizioni Comunità.
- Attilio Esposto e Mario Tiberi (a cura di), Federico Caffè, realtà e critica del capitalismo storico, Donzelli Editore.
- Mariano d'Antonio (a cura di), La crisi post-keynesiana, Boringhieri.
- Istat, Rapporto sull'Italia 2001, Il Mulino.
"È chiaro che una critica basata sul richiamo ad una situazione futura che nessuno ha ancora osservata o rilevata incontrerà sempre la fiera derisione di quelli che sono soliti dileggiare il dogmatismo, o perfino la ricaduta nella utopia, di noi marxisti rivoluzionari. In tutte le nostre lunghe ricerche noi abbiamo citato mille e mille passi in cui si vede che Marx fa sempre in modo esplicito il paragone tra le caratteristiche del processo capitalistico e quelle della produzione futura e società futura, dato preciso per il quale egli tiene il comunismo in atto, pur designandolo sotto diversi nomi e perifrasi. Ciò in tutte le opere, nei tre Libri del Capitale, opera massima, e possiamo dire in ogni capitolo di essa, anche se per mostrarlo appieno il lavoro critico deve saper gettare ponti sicuri tra pagine anche lontanissime tra loro" (da Scienza economica marxista come programma rivoluzionario).