Non sono soviet

"Certo, la proliferazione di queste assemblee nasce dall'odio popolare di fronte alla condotta della classe politica, ma questi meccanismi di deliberazione popolare nascondono un pericolo, dato che sono assimilabili al sinistro modello decisionale dei soviet, nei quali precipita il lirismo idealista della moltitudine, quasi sempre manipolata da una minoranza di attivisti ideologizzati" (La Naciòn del 14 febbraio 2002).

A Buenos Aires, nella Plaza de Mayo, teatro di scontri e manifestazioni durante la rivolta seguita al collasso economico e sociale dell'Argentina, si tiene il 16 febbraio la Asamblea Nacional de Trabajadores. Sono presenti 1.900 delegati, uno ogni venti lavoratori votanti nelle assemblee di base. Partecipano anche alcune migliaia di "osservatori" appartenenti alle 30 organizzazioni promotrici. Il giorno successivo i delegati si riuniscono in un teatro cittadino per votare un documento programmatico e un elenco di richieste da sottoporre al governo.

Mentre si svolge l'assemblea principale, studenti e operai riunitisi spontaneamente discutono in altre 20 assemblee di quartiere. E se nella prima si susseguono in tutta normalità gli interventi ufficiali dei partiti e delle organizzazioni che appoggiano il movimento, nelle seconde il clima si surriscalda e la situazione si presenta fuori controllo. Lo stesso fenomeno si riproduce in altre decine di assemblee tenute nelle province. Si dimostra così ancora una volta la caratteristica specifica del movimento sociale quando giunge al punto di rottura: da una parte le forze che tendono a rattoppare la situazione con un ritorno all'ordine, seppur gestito da esponenti politici nuovi; dall'altra quelle che tendono a superare il livello raggiunto e a rompere i cordoni dell'ordine, comunque. Da una parte l'ufficialità che tira un sospiro di sollievo indirizzando il movimento verso compiti costruttivi, come la gestione della distribuzione dei viveri, la trattativa col governo, persino la solidarietà verso Cuba e la commemorazione della riconquista argentina delle Malvinas (ritornate ben presto britanniche Falkland). Dall'altra la rabbia e il caotico odio verso tutto ciò che opprime, un furore cieco che si pone solo compiti distruttivi nei confronti dell'ordine esistente.

E' questa la rabbia che, in particolari momenti storici, porta a quei giorni in grado di sconvolgere il mondo, contro la quale si scagliano sempre le assemblee dell'ordine per quanto nuovo e combattivo. Giorni che si preparano, naturalmente, soltanto se esiste un indirizzo politico, un'organizzazione determinata a raggiungere obiettivi al di fuori dei rapporti esistenti. Ma, in assenza di questa, nei barrios, contro la parola d'ordine delle assemblee ufficiali "Piquetes y cacerolas la lucha es una sola", che si traduce come "operai e piccolo-borghesi unitevi", non ci sono altre parole d'ordine da contrapporre, solo disordine, caos, energia in via di dissipazione, e quindi rabbia moltiplicata dall'impotenza. Non è più possibile, quando si stabilizzano assemblee, si votano delegati e documenti, si interloquisce col governo, far partire "un nuevo Argentinazo para derrotar a Duhalde", "una nuova rivolta argentina per abbattere il nuovo presidente". Questa naturalmente sarebbe la via, impedire alla borghesia di stabilizzarsi, di controllare la società; ma che cosa può succedere dopo un altro argentinazo, dopo un altro Duhalde, se non c'è l'alternativa politica? Le rivolte politiche non possono avere le caratteristiche della lotta sindacale, non possono terminare con un contratto fra le parti senza snaturare sé stesse, il proprio totalitarismo, senza tradire le cause per cui sono nate.

La paura della borghesia è del tutto giustificata, ma non è ancora l'ora dei soviet, nemmeno in Argentina. Spaventano otto scioperi generali in tre anni, la determinazione dei rivoltosi nell'ultimo argentinazo, i blocchi stradali dei piqueteros, ancora in atto a febbraio in diverse province. Spaventano le tremende contraddizioni del movimento spontaneo che può rimettersi in marcia senza badare a ciò che dicono e fanno centinaia di "organizzazioni". O meglio, trascinandole a fare, rimescolandone le posizioni, facendole addirittura scontrare a randellate sulla piazza o a suon di votazioni, com'è successo a Buenos Aires, dove si sono scontrati due cortei peronisti e dove, nell'assemblea ufficiale di Plaza de Mayo, è stato votato un ordine del giorno per buttar fuori i delegati di un'organizzazione non troppo allineata, quindi "provocatori". Quando un movimento di sciopero così vasto prende piede, trascinando ogni strato sociale colpito dalla crisi, bloccando ogni attività per settimane, è un vero e proprio tradimento richiamarlo all'ordine nascondendosi dietro la condanna dello spontaneismo. Soprattutto quando marcia spedito verso sbocchi di cui i capi opportunisti hanno paura quanto la borghesia. La spontaneità possibile in un paese industriale moderno non è più quella caotica che si manifestava agli albori del capitalismo; per quanto sia espressione di mancanza di indirizzo e di programma, sono le radici stesse della società capitalistica matura, l'organizzazione di fabbrica, le comunicazioni presenti nella società industriale, l'abitudine all'uso dei mezzi tecnici, a darle una diversa impronta e a fornirle il potenziale adatto a superare la forza apparentemente invincibile dell'avversario.

Non è un caso che la rivolta argentina abbia utilizzato gli stessi metodi che spontaneamente i lavoratori nordamericani della UPS avevano adottato sulla base del loro specifico campo d'azione, organizzando picchetti mobili con cellulari e basi logistiche su Internet. Dal mondo giungono giornalmente notizie di scioperi e mobilitazioni che, se non fanno notizia e bisogna cercarle con attenzione, dimostrano come la lotta di classe non solo non sia morta, ma si avvalga di mezzi potenti che prima non c'erano. Nel numero zero di questa rivista dicemmo che la lotta della UPS sarebbe stato il paradigma delle lotte future: ebbene, per quanto riguarda l'Argentina, nei media italiani si è parlato molto del cacerolazo, la casseruolata comune fra proletari e piccolo-borghesi, ma poco, pochissimo del fenomeno dei piqueteros curtador de rutas, determinati, combattivi, organizzati, in grado di sfidare la forza dello Stato fino a subìre morti e feriti. Eppure basta guardare una cartina dell'immenso paese per notare subito quanto sia vulnerabile la raggiera di strade che si diparte dalla regione di Buenos Aires di fronte ad un movimento di squadre ben coordinate che possono bloccare il movimento merci dell'intero paese.

Anche in questo caso i proletari, collegandosi fra settori diversi, superando le differenze d'interessi e nonostante le grandi estensioni del territorio argentino, hanno dimostrato una grande capacità d'attacco. I piqueteros, dispersi e isolati all'inizio, hanno utilizzato la potenza del collegamento telematico e della mobilità, trasformando la debolezza della dispersione in forza mobile. Ed è stato proprio il nemico a fornirgli le armi adatte, merci innocue in tempo di pace, strumenti utilissimi in tempo di lotta. La borghesia sarebbe impotente di fronte a un movimento del genere se soltanto esso riuscisse a superare l'influenza nefasta di centinaia di organizzazioni sedicenti rivoluzionarie, tipiche del clima politico non solo sudamericano.

Certo, non è il caso di mitizzare un mezzo piuttosto che un altro. Come in passato, la borghesia può trovare il modo per neutralizzare temporaneamente un vantaggio proletario. Ma è certo che in ogni caso uno degli scopi della lotta, quando è frontale, è quello di impadronirsi, anche e sempre, delle tecniche di difesa e di offesa disponibili al momento. Come nelle guerre, né più né meno.

Da una parte il movimento "spontaneo" era effettivamente caotico, privo di direzione; dall'altra era continuamente alla ricerca di coordinamento, una necessità materiale per raggiungere i suoi obiettivi. E' facile tanto criticare quanto fare l'apologia delle caratteristiche del movimento argentino, ma esso non merita né critica né apologia, esige che la sua vera natura venga capita. Se il movimento è stato spontaneo e mediamente disorganizzato, è perché ha fatto a meno delle organizzazioni che c'erano. Per esempio i sindacati hanno influito assai poco sull'andamento degli scioperi, delle manifestazioni e degli scontri e si sono limitati a sancire uno stato di fatto, seguendo la corrente.

D'altra parte, non sempre gli scoppi d'ira e di violenza delle folle hanno avuto motivazioni politiche: spesso sono esplosi per fatti accidentali, per notizie sentite alla radio o lette sui giornali. Chi ha esperienza di lotte sa bene che non è quasi mai il motivo esplicito a far scoppiare la rivolta, bensì l'accumulo precedente, che ha sempre un andamento catastrofico, come quando un asse si rompe d'improvviso sotto l'effetto di un peso che si accumula. Il caos dei "soviet" argentini può essere il sintomo della disfatta come di una crescente erosione dell'organizzazione politica esistente. Nessuno può saperlo. Inutile criticare l'anarchia implicita nel caos, inutile accodarsi al coro borghese sull'irresponsabilità dei distruttori e degli incendiari, inutile far notare che qualcuno rubava latte e pagnotte mentre qualcun altro scappava con bei vestiti, sigarette e orologi di lusso.

Nessuna rivoluzione è mai avanzata in modo lineare, comprendendo di sé stessa ciò che è invece stato possibile scrivere dopo; nessuna si è svolta senza passare attraverso il caos, cioè il crollo di ogni vecchio ordine. E l'Argentina era, ed è, ancora ben lontana da una situazione rivoluzionaria, il caos è stato del tutto marginale, non avendo prodotto incrinature di rilievo nel sistema di controllo borghese.

Il fenomeno dei picchetti volanti non è nuovo. Si manifestò per esempio spontaneamente in Italia durante l'Autunno caldo, nel '69, per bloccare il tentativo di continuità del ciclo produttivo da parte della borghesia. Si manifestò nello stesso tempo in altri paesi. Ora sta prendendo piede internazionalmente, e si dimostra molto più efficace di un tempo data la rigidità del modello produttivo just in time o comunque legato all'outsourcing (cioè alla specializzazione nella produzione di semilavorati), e data la grande mobilità di questi fra le aziende. In Argentina il primo blocco stradale coordinato ci fu nel '91, al tempo della privatizzazione della siderurgia. In Bolivia fu subito copiato negli anni successivi: su un paese di montagne e di passaggi stradali obbligati nella foresta di pianura, i blocchi stradali ebbero effetti devastanti, con una reazione durissima del governo.

Più recentemente, in Argentina, altre ondate di picchetti si ebbero durante gli scioperi di Cutral-Cò, Plaza Huincul, General Mosconi, Tartagal, La Matanza, Córdoba, non più per un obiettivo limitato ma per rivendicazioni economiche generali, contro gli effetti della disoccupazione e la fame; picchetti che videro unirsi occupati e disoccupati, giovani studenti e vecchi pensionati, tutti con le famiglie, in occupazioni pittoresche ma efficaci delle vie di comunicazione.

"En esta protesta se yergue el Piquetero, en toda su magnitud, que vincula una necesidad con una acción práctica".

Così recita un volantino che non c'è bisogno di tradurre. Questa forse è la novità argentina: il picchetto sociale, in cui lotta non solo l'operaio ma tutto il suo mondo, non solo contro il padrone ma contro tutto il mondo capitalista. Sparano al piquetero – continua il volantino con lirica tutta sudamericana – perché egli "taglia" una strada che per il Capitale è importante; ma per lui è importante un'altra strada, quella della vita, "tagliata" dal picchetto dei capitalisti e dei loro partiti contro tutti noi. Questo è il "gran piquete" dove stanno piqueteros in guanti bianchi, i loro funzionari politici, i loro poliziotti, il loro esercito. Il governo sta sviluppando un'azione coordinata come la nostra contro il movimento: rispondiamo con un coordinamento nazionale di tutti i piqueteros!

Le assemblee rionali e di provincia raccolgono l'appello e lo fanno proprio. La necessità del coordinamento è talmente pressante che sembra per un momento andare oltre la solita parola d'ordine rispolverata nel momento delle lotte. Coordinatori improvvisati annunciano che il Chaco e la regione di General Mosconi sono ancora picchettati e occorre mandare rinforzi, che c'è una fabbrica bloccata, una raffineria in sciopero, una tessitura occupata, un porto assediato, i ferrovieri in subbuglio per gli annunciati 1.000 licenziamenti, i piqueteros che si apprestano a bloccare anche le ferrovie, una colonna di poliziotti che si dirige su una città.

Nell'assemblea nazionale, chiusa nel teatro, si dibatte e si vota su argomenti dettati dai compromessi fra gruppi politici, si consumano gli accordi, si fa entrismo incrociato, si espellono i dissenzienti, si trova l'unità agognata, fino alla diatriba successiva, uguale alle infinite precedenti, pubblicate in migliaia di pagine su opuscoli e su Internet con nomi e cognomi dei traditori del momento, con accuse e controaccuse senza fine e senza senso. Anche questo è un genere di caos che purtroppo le rivoluzioni e un movimento sano, vigoroso, devono secernere come un pus liberatorio da ferite infette. Solo una borghesia ancora più infetta può pensare che la rappresentanza ufficiale riunita nell'Assemblea Nazionale possa essere pericolosa. Essa è democratica e populista a dispetto degli operai e delle loro famiglie che hanno lottato, l'hanno voluta e hanno inviato i loro delegati. Solo una borghesia accecata dalla paura può mettere insieme, nello stesso calderone, anche le assemblee spontanee, occupate, secondo i giornali, a preparare addirittura un colpo di stato segreto (La Naciòn del 17 febbraio). Nessun paese, dicono i borghesi, può lavorare in una condizione di deliberazione popolare permanente, sotto la minaccia illegale di far cadere un'altra volta il governo, di buttar fuori tutti i parlamentari e di licenziare la Corte Suprema; con la paura che invece di deliberare e produrre documenti gli operai incomincino a prendere decisioni senza ascoltare nessuno.

Comunque, alla fine, è l'Assemblea Nazionale che conta di fronte al movimento generale. E approva il suo programma-rivendicazione per continuare la lotta:

"Libertà per gli arrestati; individuazione e punizione degli assassini dei compagni di lotta; cancellazione del debito estero; nazionalizzazione delle banche e delle industrie principali; nazionalizzazione dell'AFJP [il sistema dei fondi pensione]; annullamento dei licenziamenti e delle sospensioni; nazionalizzazione sotto il controllo operaio di tutte le industrie che licenziano; riapertura delle industrie fallite; immediata apertura dell'accesso ai piccoli risparmi; creazione di posti di lavoro genuini e permanenti; riduzione dell'orario di lavoro senza riduzione di salario; salario minimo garantito a occupati e disoccupati; basta con Duhalde e il Fondo Monetario Internazionale".

C'è miscuglio di populismo e rivendicazionismo, con una buona dose di demagogia, soprattutto non si dice come sostenere le rivendicazioni. Ma la borghesia non è in grado di avvertire certe finezze ed è spaventata dalla montagna che ha partorito quel topolino. I giornali in Argentina sono più realisti del re. Mentre il governo si mostra cauto per cercare di smorzare la rivolta, i giornali lo incitano a respingere le rivendicazioni delle assemblee per non incoraggiare con il successo una ripresa del movimento. Mentre la polizia agisce in sordina cercando di far dimenticare la clamorosa e assassina impreparazione dimostrata sulla piazza, i giornali la incitano a far rispettare le leggi con maggiore violenza. Mentre la borghesia cerca di scongiurare con la trattativa l'ennesimo sciopero generale che sta montando (e impegna come ammortizzatore sociale anche la moglie del presidente, campionessa di beneficenza modello Evita), i giornali incitano allo scioglimento dei comitati promotori.

L'informazione argentina è il più chiaro specchio della paura borghese. I giornali sono il termometro della febbre sociale e i giornalisti la amplificano anche se il movimento è in ritiro. Non essendo però in grado di capire, paralizzati dal terrore come sono, i borghesi non sanno far altro che minacciare e richiedere misure drastiche. L'odio contro le assemblee rionali li fa stravedere e arrivano a paragonarle ai soviet dell'Ottobre, copiando dai volantini trotskisti che, nell'abbaglio opposto, e anch'essi con lirica argentina, fanno lo stesso paragone:

"I lavoratori leggono ovunque questi resoconti meravigliosi [delle assemblee] con un senso di orgoglio ed ispirazione. Vedono in esse la nascita di un nuovo potere – un potere proletario – che sta crescendo nell'utero della vecchia società. È finora poco formato, come ci si aspetta da ogni embrione. Ha di fronte a sé una lunga strada per raggiungere la piena maturità. Ma è sano e sta diventando un bambino robusto, con buoni tessuti, cuore a posto e testa fina".

E' vero che il capitalismo è come una donna gravida e che partorirà la società nuova. Ed è vero che non si può essere gravidi "solo un poco" e che quindi siamo già in grado di anticipare la società futura non per mezzo di congetture ma di ciò che esiste realmente e che va liberato. Ma non è vero che ogni assemblea è un soviet. Il movimento argentino ha dato dimostrazioni importantissime, e anche le differenze fra la natura delle assemblee e quella delle organizzazioni politiche è essenziale per capire gli avvenimenti. Ma i soviet – o qualsiasi altra forma equivalente che la rivoluzione si darà – hanno come principale caratteristica quella di essere organismi prodotti dal dualismo di potere, e non era questa la situazione, se non in potenza; e inoltre devono essere permeabili all'influenza del proletariato e del partito rivoluzionario. Tolto il partito, che non esiste, anche l'influenza del proletariato è stata episodica e non c'è stata una saldatura tra le assemblee popolari e i comitati sorti nelle fabbriche, nei servizi e nei posti di lavoro pubblici. Lo sviluppo dell'organizzazione in senso classista è tutt'altro che sicuro, anzi, i potenti sindacati istituzionali stanno già facendo di tutto per eliminare l'influenza dei comitati sorti dalla base. Gli organismi nati dalle rivolte sono stati determinati da problemi materiali gravissimi ed ora sono posti di fronte all'alternativa micidiale di mollare tutto e farsi integrare oppure andare avanti e far saltare l'intero sistema. Ma si tratta di un'alternativa apparente perché, così come la situazione argentina è esplosa per cause mondiali, solo condizioni altrettanto mondiali potranno permettere al proletariato argentino e di tutto il mondo di far saltare il sistema.

Questo mentre dai frammenti di interviste ai rivoltosi scaturisce tutta la disperazione di chi è sul campo ad agire, ma è consapevole dei limiti della spontaneità pur ben organizzata di fronte a fatti giganteschi:

"E' dalla settimana scorsa che facciamo delle cose senza un programma d'azione… Non sappiamo ancora che cosa faremo domani… Stiamo facendo una rivoluzione settimanale… Le persone si stanno collegando ma la maggior parte ci chiede che cosa dobbiamo fare… Cosa volete che facciamo se non otteniamo un coordinamento?… Come possiamo cavarcela se mai fino ad ora era successa una cosa simile?…"

Nei documenti prodotti a migliaia si legge ovunque che è necessario collegare le avanguardie alle masse: la tragedia è che le masse marciano spedite, vanno avanti nella rottura degli equilibri esistenti, ma le cosiddette avanguardie gli corrono dietro, impotenti persino a contrastare il tentativo di recupero da parte del sindacato peronista CGT. Questo recupero sindacale è di per sé significativo: se il sindacato si mette alla testa del movimento vuol dire che nessuna altra forza lo può fare. In Polonia, per esempio, quando dal 1976 all'80 i proletari in rivolta si scontrarono con il sindacato, questo fu polverizzato dagli eventi e sostituito con un organismo nuovo. Cadde il governo e fu necessario un colpo di stato, ma le masse erano talmente forti che obbligarono i generali a non calcare la mano. Li obbligarono addirittura a intervenire per scongiurare l'azione delle colonne corazzate sovietiche accorse in "aiuto" al governo, ma ormai in una situazione locale e internazionale che non permetteva una ripetizione dei fatti ungheresi e cecoslovacchi. Ora, le condizioni che in Polonia erano favorevoli ad uno sviluppo politico del movimento, in Argentina mancano del tutto, perché le masse sono molto più avanti della loro direzione.

Il motivo principale va cercato non solo nel mancato collegamento fra il proletariato e il resto della società dei senza-riserve, ma soprattutto nell'ideologia democratoide, populista, confusionaria e magniloquente di quella che è diventata, purtroppo, la tradizione politica sudamericana, a tutti i livelli. Molto peggio che da noi. La maggior parte dei documenti colpisce infatti per l'assoluta mancanza di contenuto empirico, ridondante com'è di frasi ad effetto e soprattutto di formulette che dovrebbero distinguere le varie "posizioni", ma che in realtà controbattono soltanto a ciò che vari individui hanno detto in qualche oscura occasione. Un immenso pettegolezzo politico insensato, travestito da teoria.

E sul piano delle cause economiche e sociali le cose non vanno meglio, dato che si discute, anzi, si dibatte in surriscaldati parlamentini improvvisati sul perché la politica neoliberista abbia provocato il caos in Argentina mentre non è successo in Inghilterra, negli Stati Uniti o in altri paesi occidentali, perché l'Argentina affondi e il Brasile galleggi con le stesse politiche, ecc.; giungendo sempre alla conclusione che è "colpa" di qualcuno: il precedente governo, il superministro Cavallo, l'imperialismo americano, il Fondo monetario Internazionale, la corruzione estrema dei politici, l'avidità delle banche, gli esportatori di capitali, il romanticismo degli argentini, la loro mal riposta fiducia nel dio dollaro e l'indifferenza del mondo.

E si propongono anche soluzioni, tanto che da parte trotskista si plaude al rafforzamento dei comitati di quartiere, che sarebbe dimostrato dal fatto che alcuni dei loro componenti, lasciati i picchetti, si dedicano ora alle trattative col governo. La concertación era prerogativa dei sindacalisti e dei politici, ci vien detto, ma adesso è tutto un altro discorso, le discussioni col governo sono condotte con ben altri rapporti di forza:

"Infatti, il nuovo governatore di Buenos Aires ha affermato che è d'accordo sulla possibilità di incorporare i rappresentanti delle assemblee di quartiere nelle cosiddette commissioni di pianificazione per il reperimento e la distribuzione degli aiuti promessi. Questo mostra l'importanza che queste assemblee hanno acquisito".

Quando i rappresentanti ufficiali delle assemblee e dei picchetti si sono recati dal presidente Duhalde accettando il dialogo, hanno oggettivamente e soggettivamente ceduto. D'accordo, l'avrebbero fatto perché posti di fronte a rapporti di forza per nulla favorevoli, ma questa debolezza era dovuta soprattutto alla mancanza di prospettiva politica cui indirizzare il grandissimo slancio che i proletari e gli strati poveri hanno dimostrato. Insomma, l'hanno fatto tradendo vergognosamente. Tant'è vero che alla fine dell'assemblea nazionale, tenuta sotto la guida dei vari raggruppamenti politici, i delegati operai hanno sentito il bisogno di inserire nella risoluzione finale una condanna dei tentativi di trattativa col governo, smentendo clamorosamente i capi compromessi.

La nostra critica a comportamenti ambigui, conseguenza di sfavorevoli condizioni, non è critica ai rivoltosi nel loro insieme, ci vorrebbe; ma è doverosa. Marx osò criticare persino gli insorti della Comune che avevano pur tentato l'assalto al cielo prendendo il potere effettivo. Noi dobbiamo assolutamente demolire le idiozie di chi fa passare la debolezza per forza. Sono sintomatici i passi seguenti, che citiamo da un documento di uno dei tanti gruppi sostanzialmente simili:

"Questo è il potere vero per cui si deve al momento lottare: costituire e rafforzare assemblee di quartiere, comitati di fabbrica, di scuola, di università, dove tutti coloro che sono danneggiati dalla crisi possono partecipare insieme – lavoratori, studenti, piccoli commercianti – e coordinarli in un congresso nazionale dei delegati eletti. E' questo che rappresenta un'alternativa alle istituzioni del potere borghese, per passare ad un governo dei lavoratori e delle masse oppresse. Solo un tale governo può varare una politica che possa risolvere i problemi dell'immensa maggioranza, iniziando la trasformazione socialista dell'Argentina".

C'è in questa visione di irrealistico gradualismo non la forza che distrugge vecchi rapporti, non il soviet, ma un congresso, un'assemblea costituente, un parlamento alternativo

"che la faccia finita con la catastrofe dovuta al caos capitalistico e imposti la pianificazione democratica socialista dell'economia".

Per questo viene proposto un programma politico le cui caratteristiche ci suscitano una sgradevole sensazione di già sentito:

"Sciopero generale contro il governo; cancellazione del debito estero; salario minimo garantito; ripristino della scala mobile contro l'inflazione; eliminazione della disoccupazione; nazionalizzazione delle grandi industrie, di quelle in crisi e delle banche; riduzione dell'orario di lavoro; potere alle assemblee dei lavoratori, delle masse oppresse e dei soldati (per evitare un colpo di stato); costituzione di squadre di autodifesa operaia; solidarietà con tutti i movimenti rivoluzionari del mondo".

E' lo stesso programma dell'Asamblea Nacional de Trabajadores. Non c'è bisogno di fare una critica particolareggiata ad un programma del genere, gabellato come marxista. Popolare e anti-partito, miscuglio di sindacalismo, riformismo democratico e velleitarismo, ogni lettore potrà benissimo collegarlo a tanti altri programmi simili che la storia ha conosciuto, legati a ideologie e ad organizzazioni frontiste altrettanto somiglianti. E' solo curioso che, per spiegare tale "programma d'avanguardia", si faccia più o meno riferimento a quello che il "popolo" aveva già detto, anticipando spontaneamente le sue mille mosche cocchiere. Questo codismo da parte di chi si richiama a Marx è tragico non solo per le sue conseguenze immediate, ma anche perché si rigenera in continuazione, in sintonia con l'ideologia dominante, che impone le sue categorie e le infiltra ovunque.

Giunti a questo punto il superbonzo San Lorenzo, leader della CGT, può andare all'assemblea di Plaza de Mayo e gridare:

"La classe operaia, e specificamente il proletariato industriale, deve riconquistare la scena politica dell'Argentina ed esserne al centro".

E' quel che dicono tutti i sinistri del movimiento. Che hanno sempre detto. Che diranno ancora. Per l'unità, per la democrazia, per la giustizia e per la legge proletaria. Conclude soddisfatto un volantino trotskista distribuito via Internet:

"Il documento finale dell'Asamblea Nacional de Trabajadores è stato un grande successo per l'avanguardia rivoluzionaria. Noi salutiamo questo successo con tutto l'entusiasmo possibile. Siamo completamente d'accordo con le parole d'ordine approvate. Esse ci convincono che, sulla base delle richieste elencate, la rivoluzione argentina ora sta muovendo nella direzione giusta".

Sulla base di richieste al governo! Quindi in trattativa con esso. Senza partito. Senza programma conseguente. Con mille gruppetti che dicono le stesse cose ma coltivano ognuno il proprio giardinetto. Con le assemblee spontanee lasciate a sé stesse. Con la borghesia che si riorganizza e reprime.

Applausi.

Letture consigliate

  • I sedici giorni più belli - Lo sciopero significativo della UPS, "n+1" n. 3, marzo 2001.
  • Rivoluzione e sindacati (capitolo sul movimento in Polonia, sugli scioperi dei minatori inglesi e sui raggruppamenti interclassisti), Quaderni Internazionalisti.

Rivista n. 7