Una guerra che fa discutere
"Non disperazione, ma coraggio bisogna attingere dal fatto che 800 milioni di asiatici siano stati trascinati nella lotta per gli stessi scopi degli europei. Dopo l'esperienza dell'Europa e dell'Asia chi parla di una politica non classista e di un socialismo non classista, merita semplicemente di essere esposto in una gabbia insieme ad un canguro australiano" (Lenin, Il socialismo e la guerra, 1915).
Una guerra proteiforme
Non c'è dubbio che la guerra scatenata dall'attacco dell'11 settembre (data ed episodio che però si inseriscono in un lungo processo) sta continuando sotto altre forme. Ed è la guerra più complessa che l'umanità abbia mai combattuto. Le potenze capitalistiche sono molto attive con le loro diplomazie, soprattutto segrete. Anche all'interno degli Stati più potenti le fazioni della borghesia si combattono, e la lotta di classe in America ed Europa sta assumendo un volto parlamentare destrorso, dopo che le socialdemocrazie hanno contribuito una volta di più al disarmo del proletariato.
Si tratta di una guerra contro il terrorismo? Per il petrolio asiatico? Per il disegno di nuovi scenari geopolitici? Per opprimere le masse dei diseredati del mondo? Una crociata di nuovo tipo? L'inizio di una balcanizzazione globale contro l'emergere dell'Europa e della Cina come grandi potenze? O si tratta di un sostituto diluito nel tempo della Terza Guerra Mondiale? E se fosse tutto questo insieme e ancora di più?
I lettori ci hanno posto molte domande in seguito all'11 settembre, prima e dopo che comparisse il numero della rivista specificamente dedicato alle sue premesse e conseguenze. Se c'è stato un notevole affiatamento in "doppia direzione", come auspichiamo sempre, non sono mancati i dubbi. Anche questi fanno parte del lavoro.
In alcuni ha suscitato perplessità soprattutto la nostra insistenza nel definire guerra un atto terroristico per quanto spettacolare. Al quale sono seguite le ritorsioni degli Stati Uniti che, se pur estese a una nazione intera e contro il suo governo, si sono configurate come operazione di polizia più che come campagna militare. Occorre far subito notare che al solito non inventiamo nulla: argomenti a sostegno della tesi guerra li troviamo sia nella valutazione della guerra imperialistica moderna fornite dalla nostra scuola, sia nel dispiegamento di nuove dottrine militari da parte della borghesia. Per quanto i dettagli della questione siano già stati trattati sulla rivista, ci preme tornare soprattutto sul metodo di analisi su cui abbiamo basato la nostra definizione, evidentemente diverso da quello di chi continua a considerare terrorismo l'attacco all'America e terrorismo imperialistico la risposta di quest'ultima.
Per avere un'idea di come si possa non capire la guerra in corso, l'esempio migliore, anche se non unico, ce lo offre un giornale di partito del milieu terzinternazionalista. In esso si afferma che l'attacco agli Stati Uniti non significa certo l'inizio di una nuova epoca e che la prossima guerra sarà di tipo classico fra imperialismi. Questa posizione è molto comune. E si capisce il perché si abbia bisogno di una definizione del genere: non si saprebbe altrimenti come trattare l'argomento collegato, altrettanto classico, della "trasformazione della guerra imperialistica in guerra civile". Ripetendo pappagallescamente quest'altra formuletta, è inevitabile che ci sia bisogno di una guerra come la Prima Mondiale, durante la quale vi fu il glorioso Ottobre russo. La Seconda Guerra Mondiale non si presta già più, e non per nulla nessuno ha mai dato spiegazione del fatto che non vi è stata offensiva proletaria, anzi, vi è stata atroce partecipazione di classe al gran massacro; non solo, ma si sono teorizzate e praticate partigianerie a favore degli imperialismi maggiori contro quelli minori.
Ora, potremmo anche ammettere che con l'attacco dell'11 settembre non sia iniziata un'"epoca nuova", basterebbe che ci si mettesse d'accordo sul significato che diamo all'espressione (cfr. l'articolo La svolta nel numero 6 della rivista); ma aspettarsi che arrivi una Terza Guerra Mondiale classica è un atteggiamento che può derivare solo dalla lettura pedestre e diciamo pure volgarmente sfaticata dell'esperienza storica precedente. Le guerre sono fenomeni troppo importanti, specie nell'epoca imperialistica, per prenderle sottogamba. Le passate valutazioni dei marxisti sulla loro dinamica, sulla loro preparazione materiale e ideologica da parte delle borghesie, sulla dinamica dell'interguerra e soprattutto della vigilia, non possono essere bistrattate recitandole meccanicamente come un rosario marxista.
Sono passati 57 anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale e nel frattempo ci sono state circa 300 guerre locali che, sommate, hanno avuto effetti molto, molto più devastanti di un'unica guerra generale. Ma non basta l'aspetto quantitativo: queste centinaia di guerre sono state effettivamente una guerra mondiale combattuta dai maggiori imperialismi per interposta persona, con truppe di Stati o gruppi mercenari. Persino gli strateghi borghesi ammettono che per la maggior parte erano proxi wars, guerre per procura. Perciò, se il tipo di approccio "classico" è stato valido fino alla Seconda Guerra Mondiale, bisogna chiedersi se lo è ancora oggi. La domanda va fatta seriamente, abbinandola ad un altrettanto serio studio dell'imperialismo moderno e delle sue guerre (cosa che la nostra corrente ha fatto con memorabili testi, cfr. O rivoluzione o guerra). Certo, se si ha una visione dell'imperialismo americano identica a quella che Marx aveva dell'imperialismo inglese, non si può che giungere alla conclusione che tutte le guerre imperialistiche sono condotte allo stesso modo. Invece la Seconda Guerra Mondiale è stata condotta in modo completamente diverso dalla prima, e le guerre successive, dalla Corea al Vietnam, dal Golfo ai Balcani e all'Afghanistan, dimostrano che quelle future risponderanno ancor meno a criteri omologabili alle vecchie guerre. Non è una novità: il "generale" Engels studiò con attenzione l'evoluzione della guerra. Trotsky e Tukhacevsky non avrebbero potuto vincere la guerra rivoluzionaria contro forze di gran lunga soverchianti con una concezione obsoleta; e i migliori generali borghesi della Seconda Guerra Mondiale ne studiarono i testi e le campagne.
Comunque, basta leggere il Quadrennial Defense Review (la pubblicazione in cui gli esperti del Pentagono aggiornano ogni quattro anni la dottrina militare americana) per capire che si tratta di un'enorme sciocchezza pensare che tutte le guerre si preparino e si svolgano allo stesso modo. E, a proposito di "nuova epoca", se è vero che la strategia americana è di tipo globale almeno da un secolo, l'attacco, chiunque ne sia responsabile, ha dato un colpo di accelerazione ai processi storici. Gli Stati Uniti sono stati obbligati a teorizzare la guerra permanente, e noi abbiamo sempre sostenuto che a crisi cronica corrisponde guerra cronica.
Non solo. Per anni la nostra corrente ha sostenuto che il lebensraum (lo spazio vitale) statunitense, il ruscello che l'agnello intorbiderebbe al lupo pur bevendo a valle, fa il giro del mondo, e che quindi gli USA devono far la guerra a tutti almeno dal 1898 (guerra contro la Spagna) attirandosi l'odio delle famigerate "masse oppresse" (leggi: borghesie nazionali infuriate per la perdita di profitti locali). Per anni essa ha sottolineato la peculiarità di questo imperialismo, che riesce a impostare un controllo globale con mezzi militari (dinamica nave-aereo-comunicazioni) cui nessuno, ma proprio nessuno, può controbattere.
I rivoluzionari di qualsiasi epoca hanno sempre dato molta importanza alla "questione militare". È finito il tempo delle barricate, ma soprattutto, per parte borghese, quello delle trincee e degli assalti alla baionetta. O delle cariche di cavalleria, sopravvissute fino all'invasione della Polonia e della Russia da parte delle panzerdivisionen tedesche. Se dovessimo affidarci alle capacità militari di certe "avanguardie rivoluzionarie" staremmo freschi. Riprendendo la caustica battuta di un nostro vecchio compagno che nel 1950 aveva ridicolizzato i commentatori pseudocomunisti della Guerra di Corea, possiamo tranquillamente parafrasare: "È gghiuto o' Afghanistàn mmano a 'e ccriature!" (cfr. Schifo e menzogna del "mondo libero").
Chiarezza sulle "masse oppresse"
Non c'è solo il problema della guerra in sé, ma anche quello del contesto in cui essa si manifesta. Contesto che comprende centinaia di milioni di persone utilizzate, uccise o travolte in qualche modo dalle esigenze dell'imperialismo. Su questo argomento abbiamo ricevuto diverse richieste di spiegazione a proposito di parole d'ordine lanciate da vari gruppi. Per esempio a proposito della necessità di essere, come comunisti, "incondizionatamente solidali con le masse oppresse" dall'imperialismo. Pur non essendo responsabili delle fesserie altrui, riconosciamo che la tentazione individuale di schierarsi con i "deboli e gli oppressi" è prepotente; ma va corroborata da una valutazione critica dei fatti reali, alla luce degli schieramenti di classe e non di generiche popolazioni, in modo che non venga lasciata in balìa delle pulsioni sentimentali. Anche in questo caso una prima risposta si trova sulla rivista n. 6, bastano qui poche parole di integrazione.
Purtroppo oggi è impossibile rivolgersi alle "masse" che subiscono gli effetti dell'espansione capitalistica come fece l'Internazionale nel 1920 da Baku. Se l'Internazionale poté appoggiarle materialmente nello stadio di lotta anti-coloniale o di rivoluzione nazionale, e offrire materialmente ai paesi "liberati" la federazione con l'URSS rivoluzionaria, oggi entrambe le situazioni non esistono più. Al di là dell'arretratezza economica e politica, solo una situazione rivoluzionaria futura potrebbe, come dice un nostro testo, trasformarle "in uno dei proiettili contro la società presente". Oggi il problema non è l'esistenza o meno di un movimento specificamente "anti-americano", islamico o altro, come paventa l'intellighenzia americana, ma quello di constatare un crescente malessere capitalistico-nazionale rispetto agli effetti dell'imperialismo (chiamato oggi sempre più spesso globalizzazione), malessere che potrà avere effetti materiali sugli assetti futuri delle difese del capitalismo e innescare quella "crisi sistemica" che ormai anche certi borghesi considerano difficilmente evitabile se non cambia l'intero assetto economico e politico mondiale (ma in che modo? Vedi per esempio il libro di Chalmer Johnson, Blowback, contraccolpo, a cui l'edizione italiana ha stravolto stupidamente il titolo: Gli ultimi giorni dell'impero americano). Prese a sé le "masse oppresse" del mondo anelano "alla libertà, alla democrazia e al benessere", cioè al mondo americano, e vi si buttano non appena lo possono fare, come dimostrano le fasi di penetrazione capitalistica e liberazione da vincoli arcaici.
Non è vero che queste "masse oppresse" esigono soluzioni che i comunisti possano appoggiare. Le loro sono rivendicazioni di democrazia borghese, quando non addirittura istanze pre-borghesi; quindi al di fuori di un contesto di classe una vale l'altra, sono oggetto di meeting tra intellettuali o di studi dei servizi segreti per approntare partigianerie che affianchino i vari imperialismi. Ci troviamo in condizioni diverse quando una rivendicazione sia pure piccolo-borghese (diritti, libertà, ecc.) è posta dal proletariato in un momento di polarizzazione di classe, quando ottenere o non ottenere mette in questione un decisivo rapporto di forza. Ciò, in certi contesti, vale anche per le "masse islamiche oppresse": a Baku, nel 1920, per esempio, il contesto della lotta all'imperialismo era del tutto diverso da oggi; da una parte c'era l'effettiva necessità della lotta rivoluzionaria nazionale contro il colonialismo, dall'altra c'era la forza effettiva dell'Internazionale.
Sulle partigianerie per l'un imperialismo o per l'altro abbiamo già detto più volte. È impossibile uscirne finché i maggiori imperialismi ne hanno vitale bisogno. Nessun gruppo armato, oggi, potrebbe mai condurre una lotta indipendente dagli interessi di uno schieramento o dell'altro. Quando i Taliban lottavano contro i russi, poi contro i Tagiki di Massud, ricevevano armi dagli Stati Uniti; dopo l'11 settembre nessuno al mondo avrebbe più potuto fornirgli armi o denaro, quindi essi non sarebbero stati in grado, ammesso che l'avessero in programma, di passare alla classica guerriglia in cui gli afghani si sono storicamente dimostrati duri combattenti.
D'altra parte, se gli aiuti americani alle forze afghane anti-russe furono decisivi per la ritirata sovietica, un aiuto ai Taliban attuali da parte di una qualsiasi altra potenza non sarebbe paragonabile. Anche solo dal punto di vista puramente militare si capisce che combattere contro armi e organizzazione russa con l'aiuto di armi e organizzazione americane è tutta un'altra cosa che l'inverso. Per questo l'organizzazione che stava dietro al governo afghano ha evitato la guerriglia e ha preferito una dispersione internazionale, l'unico modo per tentare di sopravvivere.
L'appoggio americano alle poche, disorganizzate e mal equipaggiate truppe dell'Alleanza del Nord è invece stato decisivo. Il proto-esercito dell'Alleanza non avrebbe neppure potuto muoversi dalle valli in cui si era asserragliato, tanto più che avrebbe dovuto scontrarsi con forze quattro volte superiori di numero, mentre il rapporto dovrebbe, classicamente, essere invertito a favore dell'attaccante. L'attesa per l'avanzata militare su Kabul e gli altri centri urbani era dovuta quindi a debolezza di effettivi, alla mancanza di mezzi di trasporto e soprattutto all'inesistente capacità di fuoco delle poche armi rastrellate dopo la ritirata russa. In queste condizioni gli unici combattimenti sono stati quelli contro le sacche talibane rimaste isolate, e anche in questo caso dopo l'intervento della ricognizione americana e dei bombardieri. Insomma, gli afghani hanno fornito carne da cannone, la guerra è stata e continua ad essere americana.
Siccome è impensabile che altri imperialismi interessati a frenare l'esuberanza statunitense possano utilizzare (almeno apertamente) la pedina talibana, i giochi asiatici si faranno per forza ricercando partigianerie all'interno della coalizione tribale "vittoriosa", quella capeggiata dall'etnia pashtun di cui l'attuale capo del governo provvisorio, Karzai, fa parte. La stessa etnia in cui si radicarono i Taliban. Ma le etnie in Afghanistan sono molte e sono le loro tribù a controllare il territorio, non il governo centrale. La convocazione della Loya Jirga, l'assemblea degli anziani delle tribù, è stato quindi l'unica maniera per dare una parvenza di legittimità al governo Karzai. Ma proprio per questo Inghilterra, Russia, Cina, Iran, Pakistan e India stanno occupando le rispettive zone d'influenza tramite le tribù che riescono a comprare con denaro e assistenza. La popolazione è completamente in balìa di queste forze e non esiste un partito nazionalista borghese in grado di influenzarla. Come si vede non vi sono neppure lontanamente i termini per un appoggio comunista alle "masse oppresse" afghane.
La mancanza di prospettiva rivoluzionaria attuale per le "masse oppresse" (non solo afghane e asiatiche) ha posto degli interrogativi a più di un compagno in corrispondenza con noi. Come si esce da questo giro infernale? Come si potrà trasformare il potenziale reazionario in un potenziale rivoluzionario? Sono domande dirompenti che non possono trovare risposta nei luoghi comuni. Intanto ciò che è reazionario, per reazionario dev'essere trattato. Vecchie forme sociali, o anche solo sovrastrutture come la religione, possono innescare processi di cambiamento, ma se il cambiamento non riesce poi a criticare la causa stessa che l'ha generato, non c'è rivoluzione (concetto di rivoluzione in permanenza di Marx). Il contesto non può che essere internazionale, cioè devono venir meno le ragioni che provocano le partigianerie per i vari imperialismi; cioè devono, questi stessi, avere problemi così gravi da non poter controllare la situazione. In genere questo succede quando collassa il fronte interno, come successe al tempo della guerra del Vietnam o, più indietro e in condizioni totalmente diverse, in Russia nel '17. Senza crisi generalizzata dei rapporti interni ai vari imperialismi non c'è possibilità di saldatura fra proletariato e "masse oppresse" e tantomeno queste ultime possono affrancarsi da qualche tutore interessato. Ricordiamo che il flusso dei capitali, dell'energia e dei mezzi di produzione è in mano saldamente all'Occidente e che i paesi "poveri", con le loro popolazioni, ne dipendono interamente.
L'Afghanistan non ha infrastrutture produttive, ha poche strade e nessuna ferrovia. Per costruire anche solo alcune fabbriche e alcune migliaia di chilometri di comunicazioni ferroviarie e stradali – il minimo necessario per lo sviluppo di un mercato interno in un paese così vasto, arretrato e montagnoso – c'è bisogno di materiale importato dall'esterno, quindi soprattutto di capitali che localmente non esistono, né mai esisteranno finché dura la situazione innescata vent'anni fa e non risolta certamente dalla guerra attuale. Qui perciò anche episodi apparentemente secondari assumono importanza enorme. Leggiamo ad esempio sull'Economist che in vent'anni è stata bruciata tutta la legna. Non ci sono più alberi, fonte dell'unico combustibile a portata di mano della popolazione, che nei prossimi anni non potrà cuocere il cibo né scaldarsi, a meno che non riesca a procurarsi altri combustibili. Presso gli odiati invasori, ovviamente; con la sicura prospettiva di un ulteriore peggioramento del quadro economico e sociale e di una dipendenza moltiplicata verso l'Occidente.
Non sottovalutiamo affatto il problema delle "masse oppresse", ci vorrebbe. Ma tentiamo di porre il problema nei suoi termini materiali, collegandolo al grandioso fenomeno della migrazione di gran parte di queste masse verso le aree dove c'è capitale e lavoro. Negli ultimi cinquant'anni il capitalismo ha sradicato un miliardo di persone dai luoghi d'origine, facendo varcare le frontiere fra paesi a centinaia di milioni di esse.
Quando si parla di masse oppresse le contraddizioni fra proletariato occidentale e immigrati sembrano irrisolvibili. In realtà mostrano un inizio di incrinatura dei rapporti esistenti. Il proletariato occidentale, che si sente sempre meno garantito dalla passata sicurezza, tende in un primo tempo a scagliarsi contro i concorrenti che arrivano dai paesi in cui più bassi sono i salari. Ma in un contesto di crisi economica generalizzata, oltrepassata la soglia della sopportazione, lo stesso proletariato occidentale può essere la chiave per la formazione di un movimento univoco contro le borghesie nazionali e contro l'imperialismo egemone rappresentato dagli Stati Uniti. In ogni crisi sociale si è sempre manifestata una "polarizzazione" fra le classi, per cui, nel nostro caso, la saldatura fra proletari industriali e generiche "masse oppresse" diventa una certezza. Fenomeni del genere si sono già verificati, e a scala non piccola, per esempio durante la rivolta di Los Angeles, dove la lotta di tutti contro tutti era diventata la lotta di tutti contro la polizia e la guardia nazionale.
Le domande a raffica su come il mondo potrà uscire da questa situazione e imboccare la strada rivoluzionaria, insieme a quelle sulla passività delle masse in generale, denotano il malessere seguìto alla dimostrazione di strapotenza da parte americana, con il controllo totale degli USA sui movimenti delle altre potenze, fino alla prospettiva dell'eliminazione di ogni velleità di sovranità nazionale. È evidente e comprensibile la preoccupazione dei compagni rispetto al futuro. Tutto sembra così difficile. Tutto sembra così lontano. Eppure fenomeni sociali di portata immensa sono esplosi sotto i nostri occhi da un giorno all'altro: i fatti di Polonia dell'80, la rivolta cinese iniziata tra gli studenti a Tien an Men e terminata in un massacro di operai nelle fabbriche in rivolta, il collasso dell'URSS e del sistema di cui era il nocciolo. Farsi domande è il modo migliore per accingersi a rispondervi: in scienza il difficile non è trovare la formalizzazione che risolva i problemi, il difficile è porre esattamente la questione.
Dove troviamo la soddisfazione per quel che succede
Rileviamo in diverse lettere un esplicito moto di soddisfazione per l'attacco agli Stati Uniti. Per esempio: "C'è solo da compiacersi del fatto che questa arrogante borghesia provi sulla sua carne le frustrazioni e i dolori che ha inflitto per generazioni al mondo intero". Per quanto si possa comprendere a livello emotivo il "ben ti sta", a noi sembra che ci dovrebbero essere estranei moti psicologici di tal genere. Noi gioiamo esclusivamente quando vediamo marciare la rivoluzione verso il suo sbocco, quando cioè si presentano condizioni favorevoli al proletariato. In questo caso l'attacco ha rinforzato la borghesia americana, che avrà mano libera in tutto il mondo per far vedere i sorci verdi ad amici e nemici. Essa, se non ci fosse stato Bin Laden, avrebbe prima o poi avuto bisogno di inventarselo (e in effetti è una sua creatura). Non ci rallegrano i caduti civili – si è trattato pur sempre di un massacro di spaventosa gratuità – ma ci compiacciamo del fatto che questa guerra ha potenzialità notevoli per accelerare una crisi sistemica mondiale e quindi scatenare la forza più efficace che esista contro l'imperialismo americano: il collasso del fronte interno, come accadde al tempo del Vietnam. La differenza è che oggi un analogo collasso avrebbe conseguenze di portata immensamente più vasta, con effetti su tutti gli amici, i nemici e i concorrenti degli Stati Uniti, perciò sul mondo. Negli anni '70 non coinvolse il proletariato; ma, continuando così le cose, quest'ultimo potrebbe esserne protagonista, e così quello europeo e quello delle altre metropoli produttive. La soddisfazione non dovrebbe avere radici meramente psicologiche quando ci sono effetti potenziali, materiali, ben più grandiosi in ballo: se Lenin riteneva del tutto positivo che 800 milioni di asiatici fossero coinvolti nello scontro fra le borghesie europee durante la Prima Guerra Mondiale, noi riteniamo altrettanto positivo che tre miliardi di asiatici siano precipitati di forza nel processo di globalizzazione del Capitale e che antiche forme di produzione siano spazzate via definitivamente. Che qualche forza all'interno di questo processo colpisca l'America è una conseguenza logica, non è di per sé il fatto più importante.
Certo, per il momento, tutto ciò che è successo va a favore di una politica estera americana estremamente aggressiva, che sarebbe stata imposta al mondo lo stesso e comunque, anche senza l'attacco dell'11 settembre. L'episodio ha soltanto accelerato il processo, mentre ha scatenato un fenomeno del tutto negativo e per certi versi rivoltante anche dal punto di vista epidermico, e cioè la fanfara ideologica e patriottica, con tanto di corollario crociatista, che alimenterà per un pezzo la politica corrente.
Più volte abbiamo detto che gli Stati Uniti, con la loro dipendenza dal mercato mondiale e con la mondializzazione di tutti i processi capitalistici, stavano andando verso la ricordata crisi sistemica di grandi proporzioni. Vedendo che per undici volte consecutive l'abbassamento dei tassi della FED non dava risultati tangibili neppure a breve scadenza (cioè nel mondo della securitization, della finanziarizzazione borsistica), ci siamo chiesti come avrebbero potuto uscire dalla crisi. Da dieci anni il Giappone è in stagnazione e l'Europa non sta meglio, mentre gran parte delle nuove economie è in crisi almeno dal 1997. L'attacco dell'11 settembre ha permesso agli Stati Uniti di statizzare nuovamente l'economia e di iniettare nel sistema nuove risorse in deficit spending (spesa senza copertura in entrata) unico modo per tamponare il disastro all'interno; nello stesso tempo la guerra li ha proiettati nuovamente sulla scena internazionale come protagonisti trascinando con sé la great coalition, volente o nolente, per poi lasciarla sprezzantemente inutilizzata. Nel frattempo l'attivismo del Dipartimento di Stato americano tocca tutti i gangli vitali del pianeta, e un Bush sempre più triviale si permette di andare a trovare il Papa e chiedergli con noncuranza come vanno le cose con i preti pedofili: un segnale mafioso, per dire che anche la millenaria Chiesa, con la sua politica delle "masse oppresse", può essere attaccata su tutti i fronti. Di questi segnali ne vedremo parecchi.
Come da tradizione, leggiamo che negli States non tutti sono allineati con il governo, molti hanno reagito all'ondata di sanfedismo, anche se sono ovviamente una minoranza. E a lungo andare l'apparente monoliticità potrebbe incrinarsi. Il libro di Chalmers Johnson sulla politica estera americana nel mondo e sui contraccolpi che questa può avere sulla società internazionale ha avuto una eco enorme. L'autore, un professore specialista di affari asiatici (gran parte del libro è sull'azione degli Stati Uniti in Asia), non è un tradizionale critico della politica americana come un Chomsky o un Vidal. Egli si chiede come mai, nonostante la fine della Guerra Fredda e lo sfasciarsi dell'Unione Sovietica, gli Stati Uniti mantengano intatta la loro rete di 800 basi militari intorno al mondo. E scrive un catalogo di tutti i doppi giochi, i complotti, i colpi di Stato, le persecuzioni organizzate, gli ammazzamenti, le sistematiche corruzioni e l'iscrizione a libro paga di dittatori e satrapi in ogni continente in mezzo secolo. L'attacco agli Stati Uniti sarebbe quindi un contraccolpo a fatti che comprendono la guerra di Corea, il colpo di Stato organizzato dalla Cia contro Mossadeq nel 1953 e l'ascesa dello scià in Iran, fino alla Guerra del Golfo, che ha portato le truppe americane ad insediarsi permanentemente nei luoghi sacri all'Islam.
Anche i preti, con motivazioni moralistiche e senza dubbio all'estremo opposto rispetto a quelle dei nostri lettori e compagni, hanno reagito con un "chi la fa l'aspetti". Un giornale vicino al Vaticano come L'Avvenire a settembre aveva pubblicato un articolo intitolato: "Ora Washington impari a stare al mondo". È noto che il Vaticano è critico verso il mondialismo razzista americano, ma il tipo di approccio è sbagliato persino dal punto di vista religioso. Washington è esente da libero arbitrio, non può che attaccare, sopportandone le conseguenze; altrimenti soccomberà, facendo la fine dell'Inghilterra e lasciando il posto a qualche altra grande potenza, se mai potranno esservene in grado di accollarsi i suoi compiti. Non è un caso che il superfalco Luttwak, consigliere della Casa Bianca e del Pentagono, abbia scritto un libro, anni fa, intitolato C'era una volta il sogno americano, dove si analizza un po' ironicamente e un po' sul serio, la scivolata storica degli Stati Uniti verso una condizione da Terzo Mondo. L'America non può aspettare inerte che l'Europa si unifichi davvero o che Cina e India diventino, anche se non a breve, grandi potenze, mentre essa stessa si va trasformando da potenza industriale in una poltiglia finanziaria insensibile alle sue proprie leggi e parassita del mondo. Deve fare guerra preventiva, in modo da assicurarsi che questo mondo sia sufficientemente balcanizzato e controllabile, in modo da moltiplicare ulteriormente le sue già numerosissime basi militari, la sua "intelligence", i suoi reparti speciali e la sua capacità di interdire il territorio senza inviare truppe a terra. Per la guerra convenzionale deve trovare – e darsi da fare in modo che ci siano – truppe altrui, di paesi e popoli che nel frattempo sono stati messi l'uno contro l'altro. Questo sta succedendo in Afghanistan, dove non è affatto finita la guerra di Afghani contro Afghani, scontro in cui i nemici di oggi sono stati inventati ieri dagli Stati Uniti, compreso il diavolo bin Laden che nel frattempo è molto opportunamente sparito: come nel caso di Saddam Hussein, il demonio deve essere risparmiato se si vuole che la guerra contro di esso sia perpetua (scrivemmo dopo la Guerra del Golfo: possibile che non salti agli occhi che le truppe americane hanno occupato l'Arabia Saudita e non l'Iraq?).
Se da una parte queste sono scelte obbligate per gli Stati Uniti, pena la loro sopravvivenza, dall'altra il loro atteggiamento globale provocherà ben altro che il "contraccolpo" di Chalmers Johnson; ma Bush l'ha già detto: "Occorre che gli americani si abituino a convivere con lo stato di guerra anche interno". Come già si poteva leggere sull'illuminante Quadrennial Defense Review Report, uscito a settembre ma redatto molto tempo prima.
Quando la situazione è storicamente sfavorevole
Alle questioni dirette poste dai lettori se ne sono aggiunte di ulteriori, indirette, scaturite ad esempio da una corrispondenza con gli Stati Uniti. Come mai gli Stati Uniti, paladini di libertà e democrazia, perseguono una politica reazionaria? Non potrebbero raggiungere i medesimi risultati americanizzando il mondo come gli Inglesi inglesizzarono le borghesie delle loro colonie? Perché non attaccano per esempio l'Arabia Saudita, che è la fonte di tutti gli integralismi sunniti? Perché hanno fatto la guerra all'Iraq, repubblica laica, invece di favorire la conquista, da parte sua, di tutta la penisola arabica e farselo alleato? Perché non hanno deposto essi stessi lo Scià di Persia favorendo l'affermarsi di una repubblica borghese (era già pronta, democratica, filo-occidentale, sostenuta da un vasto moto popolare) invece di lasciare strada libera al ritorno di Komeini? Il fatto è che all'ordine del giorno vi è più che mai il motto "divide et impera" e il risultato – satrapie, dittature, mafie, tribalismi e massacri – è indifferente, purché siano fatti gli interessi del Capitale. Ma siccome il Capitale deve utilizzare uno strumento economico, politico e militare che sia all'altezza della sua azione a livello mondiale al di sopra delle singole borghesie, ecco che utilizza il più potente che ci sia sulla piazza. Solo che si tratta di uno Stato nazionale, il quale fa anche i propri interessi.
Potrebbe Washington agire diversamente? O meglio: quali determinazioni materiali potrebbero spingerla ad agire diversamente? La Russia di Putin deve stare al gioco. Sa benissimo che ai suoi confini meridionali può essere scatenato un putiferio di guerre islamico-tribali di tipo ceceno o afghano, mentre a Occidente è schierato il tradizionale nemico tedesco, perno di un'Europa che non è più serbatoio di alleati per il gran bastione reazionario di un tempo. E perciò accetta di buon grado di essere affiancata in pompa magna al Trattato del Nord Atlantico ritrovando negli Stati Uniti il vecchio alleato della Seconda Guerra Mondiale.
Gli altri Stati europei si sono comportati come marionette, compresa la superba Albione: abbiamo assistito alla partenza di truppe chiaramente configurate come d'attacco con gran sventolamento di bandiere e discorsi patriottici, veri mercenari partigianeschi, lacchè in cambio di nulla ma obbligati ad esserlo. La patria americana si difende ovunque quando lo spazio vitale dell'America fa il giro del pianeta, e gli altri si adeguino.
Noi ci danniamo quando un imperialismo si rafforza, anche se sappiamo che la forza di oggi sarà necessariamente la sua futura debolezza. Già c'è chi, anche tra gli americani, si spaventa per le dimostrazioni di forza oltranziste degli Stati Uniti e si chiede fino a qual punto potrà essere tirata la corda senza che si rompa il tacito patto di stabilità capitalistica instaurato fra borghesie che sono nella realtà ferocemente concorrenti sul piano nazionale. Non è assurdo ipotizzare che, ad un periodo di aggressività americana accresciuta, possa seguire una normalizzazione ipocrita dei rapporti mondiali.
Altra domanda che, conseguentemente, ci viene spesso rivolta, è: che possono fare i militanti di piccole organizzazioni sparse per il mondo di fronte allo scontro mondiale di forze gigantesche? La risposta, come spesso succede, è già nella domanda: le sinistre a livello microscopico possono fare poco o niente contro forze gigantesche. La storia non le ha suscitate o conservate per una battaglia campale a breve termine contro l'imperialismo; siamo pratici, come ci vien da dire ironizzando sugli sciocchi addebiti di astrattezza che ogni tanto i facitori di partiti e rivoluzioni ci fanno giungere.
Quando la situazione è storicamente sfavorevole ad un'azione di classe guidata dal partito, non si può far altro che "non tradire" e mantenere la linea del futuro di classe. Come appunto fece la Sinistra Comunista "italiana", rifiutando per esempio di schierarsi a favore di una corrente democratica borghese contro quella fascista, o a favore degli stalinisti contro i franchisti allo scoppio della guerra civile in Spagna, o nelle partigianerie successive. Come fecero per anni i bolscevichi, che giunsero alla vittoria proprio perché facevano parte dell'organismo che meno aveva subìto l'abbaglio attivista e frontista. Si può resistere sul terreno della preparazione e della sopravvivenza di una scuola, di una corrente effettiva che sappia un domani affrontare ogni situazione, senza, appunto, tradire e sbagliare fronte. Il lavoro per mantenere viva una linea del futuro di classe ha ottenuto un impulso positivo dalla guerra, che ha fatto discutere non solo di sé stessa.
Il mondo durante la nuova guerra
Con l'Afghanistan la guerra non è finita, e non è certo una nostra scoperta, ci pensa il governo americano a ricordarcelo tutti i giorni. Nelle corrispondenze con i compagni le ipotesi sulla natura della guerra in corso vengono integrate con quelle sulla sua prosecuzione. In parte ne abbiamo già scritto, e non si può dire molto di più sulla cronaca degli avvenimenti, a causa del segreto che avvolge e continuerà ad avvolgere le attività "militari". Si tratta di un "segreto" di natura diversa da quello cui siamo abituati, descritto anche nelle manifestazioni letterarie e cinematografiche, quello per esempio sul luogo dello sbarco nell'operazione Overlord, sulla decrittazione dei messaggi inviati con le macchine Enigma o quello sul controllo degli Stati minori durante il confronto USA-URSS. Le caratteristiche della guerra imperialistica attuale sono del tutto atipiche rispetto alla tradizione di intelligence scaturita dalla Seconda Guerra Mondiale e dalla Guerra Fredda, ma la loro necessità è così pressante da farle diventare tipiche della guerra futura. È molto significativa la giustificazione che gli Stati Uniti hanno dato a proposito del loro rifiuto del Tribunale internazionale in preparazione all'Aia: in futuro potrebbero essere accusati militari americani per operazioni legate alla "guerra al terrorismo" e giudicati secondo leggi non americane.
Il mondo sembra aver quasi dimenticato sia il "giorno terribile" che le non brillanti performances militari in Afghanistan ed è passato ad altro, fino alla prossima esplosione. Ma, in contrapposizione al dilagare della retorica e del viscidume di borghesie opportuniste e striscianti di fronte alla strapotenza del loro alleato-avversario, c'è un mucchio di gente che è stata colpita e obbligata a dire cose più sensate di prima. Non è un caso che tra gli scrittori, fabbricanti di fantasie per vendere libri, ve ne siano stati alcuni in grado di non sfornare solipsistiche opinioni, idee pure, ma di ragionare in base a proposizioni di buon contenuto empirico. Essi sono stati mossi improvvisamente da avvenimenti materiali d'importanza insondabile con i criteri correnti. L'artista è stato superiore all'analista borghese. Anche se non si è d'accordo con lui, si fa leggere e suscita emozione, perché la grandezza dei fatti lo adopera come portavoce, mentre annichilisce su luoghi comuni i quaquaraquà della politica.
In una discussione via e-mail, che ha visto uno scambio di estratti da materiali "comunisti" in generale e "bordighisti" in particolare, proprio uno scrittore (peraltro ammiratore di Bordiga) gira il coltello nelle ferite del "comunismo", riflettendo da un'angolazione particolare una sua percezione del reale – cioè della confusione ormai codificata fra Marx e i suoi epigoni – ma inserendo al centro del discorso l'esigenza dello sviluppo del capitalismo in aree che invece ne contrastano la piena avanzata:
"[Neppure Bordiga ha potuto fare a meno] dei souvenir linguistici e pseudoteoretici di Mosca e intanto fra la chincaglieria teorica del marxismo sovietico, conservata sotto vetro non solo nei musei stalinisti ma anche in quelli bordighisti, si è consumata la parabola del comunismo e dell’anticomunismo, che forse Bordiga avrebbe voluto evitare. Sta di fatto che alla conclusione della parabola, di comunismo non si parla né si parlerà mai più, se non nei libri di storia e nei fondi di Liberazione, dove la parabola prosegue come farsa. Quanto alle 'libertà', nessuno è disposto a interpretare la parte del massacrato o dell'internato. Nessuno se lo merita e prima o poi la teocrazia, il comunismo, la società illiberale sprofondano. Il 'guai a chi attenta al nostro modo di vivere' proclamato dagli americani, è un discorso in cui non sono in giudizio le 'libertà', se non come problema delle società chiuse, teocratiche o pseudosocialiste, che mancano di tutto e delle 'libertà' in primis, cioè del mercato in senso ampio, d’una cultura cosmopolita, d’una scienza non colpita da anatemi di stato. Dubito insomma che ci sia altra possibilità di sviluppo che lo sviluppo. Questo avviene e non può che avvenire nelle società avanzate, dove proprio grazie alle 'libertà' si studia la genetica, ci sono le tecnologie, si pubblicano i libri di Dick [un autore di fantascienza particolarmente critico verso la società americana, n.d.r.] e si girano film gialli. Gli altri devono mettersi in coda: le 'libertà' sono per loro (grazie ai Castro e ai bin Laden) un problema di politica interna; per le società avanzate (sempre grazie ai Castro e ai bin Laden) sono un problema di politica estera. Quello di bin Laden (e del progetto politico fondamentalista, meno naïf di quanto pretenda) è un terrorismo che vuol colpire i muslim e le loro società a rischio d’occidentalizzazione. Solo per comodità di discorso tira sulle Twin Towers e sul Pentagono".
Al di là dell'opinione, il problema del capitalismo mondiale è effettivamente quello di affrontare il non sviluppo che esso stesso induce e fare in modo di non morire di contraddizione. Il mondo è troppo connesso per sopportare i fondamentalismi che si alimentano nel medesimo tempo di capitalismo sviluppato e arretratezza sociale.
A dimostrarci come il mondo sia interconnesso e non sopporti le tensioni finanziarie provocate dai movimenti di capitali attraverso le frontiere, abbiamo la crisi decennale giapponese, nel 1997 quella dell'intera Asia, la crisi brasiliana, quella turca, il disastro argentino e l'immensa cancellazione del valore virtuale raggiunto dalle borse. Scoppia il caso Enron, "il più colossale crack della storia", azienda cui l'intero governo americano è collegato direttamente. Scoppia il caso della Arthur Andersen, società mondiale se ce n'è una, che ha certificato quella enorme concentrazione capitalistica in sfacelo dichiarandola a posto. Scoppia il caso WorldCom, che diventa a sua volta, nel giro di poche settimane, un crack più consistente di quello della Enron (e ciò significa che migliaia di altre aziende nel mondo sono nelle stesse condizioni di quelle che sono saltate). E scoppia anche il caso delle banche maggiori del mondo, che hanno prestato direttamente ai colossi crollati e garantito presso altre banche per altri prestiti.
Nessuno potrà mai fare calcoli su queste immense variazioni di valore, flussi di capitali, accumulazioni fulminee quanto truffaldine, disaccumulazioni folgoranti che riducono azioni da mille dollari a pochi cent. Nessuno potrà mai provare se queste tempeste sono pilotate da avvoltoi privati, da controllori ligi alla legalità, da governi interessati in una guerra sotterranea o se sono il frutto di tutto questo insieme. Purtroppo non abbiamo dati che si possano utilizzare con un minimo di decenza scientifica; invece che in presenza di fatti ci troviamo sommersi dalle opinioni dei giornalisti e dalla propaganda dei governi. Si capisce: essendo le opinioni e le dichiarazioni governative popperianamente inconfutabili come il Verbo, vanno benissimo sui giornali e nei parlamenti, luoghi dove la chiacchiera è infinita e indirizzabile come il proiettile attraverso il sistema di puntamento.
Ma vi sono ancora domande pressanti da parte dei compagni. Dove vanno l'Asia e i suoi paesi con miliardi di abitanti? Cosa sta succedendo realmente in Palestina? Dove attaccheranno prossimamente gli Stati Uniti? Cosa significa l'alternanza degli allarmi sull'antrace, sulle bombe atomiche rudimentali, sui grattacieli che devono ancora saltare e sugli obiettivi simbolici (agli occhi di al Queda) in giro per il mondo? Cos'è che ha fatto esplodere l'Argentina, e che cosa accadrà ai paesi nelle stesse condizioni come il Cile e il Brasile? Cinque capi di governo susseguitisi in dieci giorni a Buenos Aires non fanno solo statistica, c'è dietro qualcosa che masse di battitori di pentole non possono riuscire a cogliere.
Perché – ci chiedono dunque i compagni – chiamate guerra questo guazzabuglio, questo crescente disordine del sistema, questo precipizio verso caotiche e quindi ingovernabili soluzioni? Se scartiamo i giornalisti e i politici, che sull'opinione sono schierati, omologati, arruolati, come reclute dell'esercito per la guerra tecno-mediatica moderna, se scartiamo i già nominati scrittori, restano i militari, quelli veri, che in questo momento sono più seri dei politici. Sanno che cos'è la guerra moderna, "asimmetrica" o meno, e stanno chiacchierando poco, sono preoccupati, vedono in moto automatismi da crisi incontrollabile. Essi ricordano benissimo cos'è stata l'escalation in Vietnam, l'hanno studiata a scuola. Stanno zitti persino in Argentina, dove un po' di tempo fa, per molto meno, avrebbero combinato un golpe.
India e Pakistan schierano due milioni di soldati in Kashmir. Grande potrebbe essere la tentazione americana di scatenare l'India contro il fondamentalista Pakistan in caso questo non si sottomettesse. Infatti Musharraf è preoccupato e va a stringere la mano al suo rivale. Un miliardo di indiani aspettano che Washington faccia un cenno, perché è da anni che tentano di applicare una politica nazionale ed estera anti-fondamentalista. Monta la psicosi anti-islamica mentre ufficialmente tutti dichiarano il contrario. Su Internet si scatena un movimento mondiale per la salvezza di una donna in attesa di lapidazione islamica e riceviamo decine di e-mail. Ammirevole, ma qualcuno ci dica a chi è mai importato qualcosa, qui in Occidente, di una negra nigeriana. Quante donne hanno ammazzato sia i militi di Massud che i Taliban, entrambi creature dell'America? Quante gli amicissimi sauditi e pakistani? E senza che nessuno muovesse un dito? Islam è diventata parola magica, fa persino vendere libri.
Avevamo ricevuto un allarme da Londra: un sito sinistrorso, pacifista, solidale con le masse oppresse e diffusore di buon senso anti-imperialistico era stato attaccato da hackers ed era stato distrutto con una ventina di siti collegati. Nello stesso periodo due milioni di computer nel mondo (compresi alcuni della nostra rete) avevano subìto un attacco per mezzo di un'ondata di virus diversi, di cui due nuovi, non riconosciuti dai consueti programmi di protezione. Può darsi che non vi fossero nessi con la guerra, che la CIA e il Mossad non c'entrassero nulla, ma chi lo può sapere. Sta di fatto che dopo l'11 settembre gli americani non staranno tranquilli per un bel po': Internet per l'intelligence USA è come il mare per i pesci.
Nel frattempo Bush stabilisce che Arafat non deve più essere il capo dei palestinesi; una volta si sarebbe mosso qualche killer dei servizi, adesso dopo due giorni si svolge una grande manifestazione a Gaza contro il governo palestinese da parte di palestinesi esasperati. L'Europa abbozza, il governo italiano si allinea. Altro che ingerenza negli affari interni di altri paesi, adesso si detta direttamente la loro politica. E si scopre che al Pentagono ci sono piani per l'invasione non solo dell'Iraq ma anche del Canada e dell'Olanda (in quest'ultimo caso nell'ipotesi che il tribunale internazionale, non riconosciuto dagli Stati Uniti, catturi cittadini americani).
Tornando alle proposizioni con contenuto reale, le sole su cui dobbiamo basare la nostra valutazione della guerra in corso, occorrerebbe che i militanti di tutti i variegati raggruppamenti, invece di regredire a parole d'ordine settecentesche sui "diritti e le libertà" sposate dai loro capi, imparassero dagli americani non tanto la definizione di libertà e diritto, materia evanescente quanto l'opinione, ma il loro sano procedere per fatti, specie nelle materie inerenti alla complessità, cosa che li ha portati ad essere molto vicini alla scienza (che non è scientismo) così come la vedeva Marx, demolitore di filosofie (che poi sono opinioni). Invece di andare a scuola da guru ex figli dei fiori ed ex un po' di tutto, apprendano dalle espressioni più genuine della forza produttiva sociale, questa scienza che è diventata un attrattore di cervelli non perché li paga, ma perché è lì in America che si è insediato il capitalismo più avanzato, ergo la base reale, non ideologica, del comunismo. I "marxisti" hanno sempre concionato parecchio sulla "teoria della conoscenza": bene, gli americani hanno fatto poltiglia della vecchia conoscenza e hanno messo in pensione tutto il filosofume con teorie assai consistenti. Finalmente. E così facendo hanno anche fatto poltiglia dell'opinione, per sempre. Anche se poi con l'opinione ci marciano spudoratamente, eccitando il popolo, e vanno tutti quanti alla guerra con in testa Dio, la bandiera e il "Destino Manifesto". La nostra corrente aveva scritto, contro l'antistalinismo democratoide montante, un provocatorio Plaidoyer pour Staline; chissà se contro il rincoglionimento anti-imperialistico di maniera ne dovremo scrivere uno anche per Zio Sam.
Ma, ci scrive un compagno, gli americani balcanizzeranno il mondo nella maniera più reazionaria, a cominciare dall'Europa, precisamente dall'Italia, l'anello più debole. È vero, e ce ne sono sintomi evidenti, come l'acquisto dell'aereo militare A400, l'esautoramento di Ruggiero da ministro degli esteri, l'ottusa acquiescenza berlusconiana, e altri fatti che traspaiono soltanto indirettamente dai rapporti fra l'Italia e l'Unione Europea. Questi processi politici globali non sono tuttavia pilotabili a piacere. Se rispetto al mondo poco sviluppato gli americani facessero piazza pulita di qualche rimasuglio di vecchia società, come hanno fatto con i vecchi stati coloniali riducendoli a provincia insignificante, a noi dovrebbe andare benissimo. Effettivamente però, come ci viene fatto osservare, finora, agendo come nazione, gli Stati Uniti sono stati estremamente contraddittori. Per mantenere in piedi il "mondo libero" contro il "comunismo" hanno fatto leva non proprio sulla modernità: mentre gli stalinisti sterminavano la vecchia guardia bolscevica, hanno incominciato a mettere sul loro libro paga l'altra metà degli assassini che c'erano sulla piazza, e quando hanno vinto la guerra contro i non reclutabili (l'Asse Roma-Berlino-Tokio) hanno incominciato a far fuori non solo coloro che i berluscones del mondo si ostinano a chiamare comunisti, ma anche semplici liberali borghesi.
Gli Stati Uniti non rinunceranno facilmente alla loro potenza, che gli permette di spadroneggiare senza tanti complimenti, ma può darsi che di fronte a un mondo come quello che si sta preparando debba essere necessario cambiare rotta e agire in modo meno brutale. L'Inghilterra aveva inglesizzato le borghesie colonizzate, mentre gli americani se ne son sempre fregati di queste sottigliezze, tuttavia l'attacco dell'11 settembre, a parte la reazione immediata, più triviale che mai, potrebbe comportare un affinamento dell'approccio verso il mondo. L'America avrà una politica estera insolente, ma di fronte a fatti materiali consistenti non sarà mai suicida. Noi ricchi "occidentali" siamo solo 800 milioni, mentre gli "altri" sono quel che manca a sei miliardi e passa, una sovrappopolazione relativa crescente al ritmo di 80 milioni l'anno. La matematica sarà pure poco adatta a descrivere i fenomeni caotici della società, ma a questi livelli funziona benissimo. Se il mondo intero serve all'Occidente, quest'ultimo non può far fuori il mondo (abbiamo sviluppato questo tema nel n. 6 della rivista con la metafora "predatori-prede" tratta dal matematico Volterra). Secondo la teoria (americana) dei sistemi, col vecchio metodo politico e militare americano la "civiltà" ha già perso contro la "barbarie". Se non dovesse cambiare nulla, come dice qualcuno, addio libertà di discoteca, di minigonna e di tivvù.
Prima o poi gli esperti di sistemi – o anche solo l'andamento materiale dei fatti – faranno muovere i politici diversamente da oggi. Il militare "tecnico" Colin Powell parla già il linguaggio della nuova politica americana, che non c'entra affatto con il confronto tra "falchi" e "colombe". Powell, in realtà più falco dei beceri bushiti, semplicemente capisce che questa guerra pone problemi delicatissimi e va combattuta con armi adatte. Per ora è zittito, ma è difficile che lo sia definitivamente. Se la corrente che egli rappresenta fosse messa a tacere tutto il mondo ne risentirebbe e l'America in modo catastrofico. Al di là delle simpatie o antipatie (opinioni), le popolazioni e chi le governa avvertono i segni di debolezza del più forte. Nella giungla il "contraccolpo" alla Chalmers Johnson è inevitabile; e quanto prima potrebbe venire a galla tutta la violenza prodotta dai precedenti rapporti dell'America col mondo e finora repressa.
Non si parla di bruscolini, ma di Europa, Giappone, Cina, India, mondo islamico, più che consistenti entità reali. Per adesso queste ultime, che poi sono quasi il mondo intero, non possono disquisire sul proprio futuro, possono solo schierarsi. Se non si esce da un punto di osservazione posto all'interno dei rapporti esistenti, tutti sono obbligati a schierarsi. Lo dice persino Scalfari che non c'è via d'uscita, e un Berlusconi mette in pratica con zelo. Come mettono in pratica pure coloro che sono con le "masse islamiche oppresse", ubbidendo meccanicamente all'ordine: "con noi o contro di noi", come dice il Bush-American-pensiero. Un'altra soluzione la si può vedere solo ponendosi altrove nella storia, al di fuori degli schieramenti, in un altro universo politico. "Iperuranici", ci avevano chiamati, e l'avevamo considerato un complimento, dato che l'attributo ci pone oltre l'orizzonte meschino di questa società. Per questo siamo piuttosto colpiti dal riscontro che in tutti questi mesi abbiamo registrato.
Ma torniamo alla guerra e al nostro dialogato in doppia direzione con i compagni. Di fronte al pericolo di una disfatta sistemica gli americani capiscono e reagiscono, basta leggere quel che scrivono nei documenti e negli studi poco adatti alla propaganda popolare. Per questo siamo convinti che a lungo andare cambieranno musica. Anche se non è naturalmente impossibile che perdano la testa (essendo per tradizione propensi ai finali western con sparatoria), cosa che si rivelerebbe del tutto catastrofica per loro e assai interessante per noi.
La quantità di documenti anti-imperialisti basati sul mangime per polli distribuito dall'America è impressionante, ne abbiamo ricevuti e ne riceviamo tuttora a valanghe. Non si è capito che la paccottiglia patriottarda e crociatista, vero specchietto per le allodole, è materiale bellico che serve ad attirare l'avversario sul proprio terreno. Ci saranno duecento esperti a scrivere un discorso di Bush, e altri duecento a far muovere un Giuliani secondo copione strappalacrime, e magari mille ad organizzare un God bless America collettivo e i viaggi-pellegrinaggio a Washington di tutti i premier del mondo. Da Goebbels in poi la propaganda ha lo stesso peso dei carri armati, per questo Hollywood è molto più efficiente di ogni ministero e persino dell'industria tradizionale. Quand'eravamo piccoli, a scuola, dopo la guerra, ci facevano vedere dei filmini di propaganda dell'USIS, molto meno noiosi delle lezioni. United States Information Services, direttamente dall'ambasciata americana, compatibili con la concomitante propaganda sovietica, viste le alleanze nella guerra partigiana. Libertà, giustizia, diritti e democrazia, manipolazioni genetiche dei cervelli, passate ai sessantottini e ai loro figli, virus debellabili con un solo vaccino, il comunismo, quello autentico, non geneticamente modificato. In questa penisola proiettata nel Mediterraneo come una portaerei, laboratorio per il resto del mondo da sempre, dobbiamo tenere gli occhi aperti sulla dinamica della politica italiota made in Washington dai tempi della signora Luce.
Oltre all'Italia vi sono paesi molto vulnerabili rispetto alla prospettiva di una integrazione totale nella politica estera americana. L'Arabia Saudita, da noi indicata come uno degli obiettivi primari della guerra americana anche se non se ne sente parlare, ha pubblicato recentemente sull'Economist, il più prestigioso periodico economico del mondo, prima un comunicato a piena pagina, poi, dopo alcune settimane, un altro a 12 pagine, inneggiante a re Fahd d'Arabia (che però è ormai inabile, lo sostituisce il fratello). Si diceva pressappoco: per carità, chi ha mai detto che siamo reazionari e finanziatori di terroristi; noi siamo modernissimi e buoni come il pane, addirittura filantropi. Non è esattamente quello che i sauditi dicevano e facevano fino a ieri. Perciò avevamo trovato molto significativo questo intervento, e oggi la nostra impressione viene confermata. L'ultimo summit del Consiglio di Cooperazione del Golfo, che raggruppa Arabia Saudita, Bahrein, Oman, Qatar, Kuwait, Abu Dhabi, Dubai e altri emirati minori, ha emesso una dichiarazione d'intenti in cui, fra varie assicurazioni di fedeltà ai principii di moderazione, modernità e anti-terrorismo, viene espressa solidarietà "all'Arabia Saudita in merito alle false accuse miranti a collegarla agli attentati dell'11 settembre. È ingiusto che cittadini sauditi siano oggetto di sospetti privi di fondamento". Tutti vedono chiaramente che ciò significa una cosa sola: la politica di delegittimazione del fondamentalismo, già operante sul campo di battaglia, è giunta al suo cuore, come avevamo previsto. E un appello viene lanciato proprio dal più alto consesso del fondamentalismo e della finanza "islamica".
Si tratta di un appello al mondo islamico che è anche, oggettivamente, una dichiarazione di resa. Solo che gli americani non accettano mai rese, il nemico lo annientano e poi lo processano pure (a meno che non gli serva per continuare la guerra, come nel caso di Saddam Hussein o di bin Laden). Dall'Economist avevamo tratto due cifre significative, utilizzate sul n. 6 della nostra rivista: la finanza islamica cresce del 15% all'anno, quella americana del 2% lordo (allo stesso saggio cresce la popolazione). Altro che bin Laden. Altro che politica europea. Altro che aperture mediterranee. E ovviamente anche la politica estera italiana è un affare interno americano, come diciamo fin dal 1945. Del resto: poteva Roma imperiale, dopo aver distrutto la potenza di Cartagine, lasciar scorrazzare in Nordafrica il numida Giugurta, esponente di una società ancor più arcaica di quella cartaginese?
LETTURE CONSIGLIATE
- Partito Comunista Internazionale, Imperialismo vecchio e nuovo, 1950; ora in America, ed. Quaderni Internazionalisti.
- Partito Comunista Internazionale, Schifo e menzogna del "mondo libero", 1950; ora in O rivoluzione o guerra, ed. Quaderni Internazionalisti.
- Partito Comunista Internazionale, Plaidoyer pour Staline, 1956; ora in Il Battilocchio nella storia, ed. Quaderni Internazionalisti.
- Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, Quadrennial Defense Review, edizione del settembre 2001.
- Chalmers Johnson, Gli ultimi giorni dell'impero americano, Garzanti, 2001.
- Edward Luttwak, C'era una volta il sogno americano, Garzanti, 1994.
New York, scritto mentre succede.
So che l’impensabile è accaduto. E so esattamente che cosa accadrà. Sono un ingegnere meccanico, conosco le strutture. Quelle torri non sono progettate per reggere. Gli Stati Uniti sono in guerra. Maledettamente vero. In senso lato, anche il resto del mondo è in guerra. C’è un unico quesito: contro chi?
Nel mondo del dopo, assistiamo al requiem della geometria bellica. Se non si riesce a trovare il nemico, non esiste più fronte. Traduzione: non può più nemmeno esistere uno schieramento militare classico. Un’unica risposta: le famigerate "forze speciali" con le cui imprese, o malefatte, allago i miei romanzi più o meno apocalittici. Gruppi di guerrieri al massimo dell’addestramento e della specializzazione, che operano in qualsisi ambiente, terreno, condizioni climatiche. Benvenuti nella tecnica bellica del terzo millennio. Nel mondo del dopo, assistiamo al requiem degli eserciti convenzionali.
Nel mondo del dopo, le borse mondiali, inclusa Wall Street, segnano perdite nell’ordine delle decine di percento. Miliardi di dollari svaniti nel nulla. Il sistema economico della globalizzazione è dominato da una delle leggi fondamentali della fisica caotica: "effetto farfalla". Piccolissime variazioni che innescano titanici collassi attraverso sistemi di equazioni in molte dimensioni nel campo della matematica complessa. L’effetto farfalla potrebbe tradursi in un "global economic meltdown", crollo economico globale. Nel mondo del dopo assistiamo al requiem della prosperità.
(Da "Requiem, riflessioni sulla fine d'un mondo", di Alan Altieri).