Orizzonte di lavoro
"Porre i problemi relativi alla natura ed all'azione del partito significa essere passati dal campo della interpretazione critica dei processi sociali a quello della influenza che su tali processi può esercitare una forza attivamente operante. Il trapasso costituisce il punto più importante e delicato di tutto il sistema marxista. Questo passaggio, dalla pura conoscenza all'intervento attivo, va inteso secondo il metodo del materialismo dialettico in maniera totalmente diversa da quella dei seguaci delle ideologie tradizionali. I principii e le dottrine non esistono di per sé come un fondamento sorto e stabilito prima dell'azione; tanto questa che quelli si formano in un processo parallelo" (Partito Comunista Internazionale, Natura, funzione e tattica del Partito rivoluzionario, 1945).
"Il punto più importante e delicato di tutto il sistema marxista". È bene sottolinearlo. E soprattutto: il passaggio dalla conoscenza all'intervento attivo i comunisti lo intendono in modo completamente diverso da tutti. Il problema è proprio questo, il passaggio. Quando l'umanità, o perlomeno una sua parte, giunge a porsi un problema, dice Marx, vuol dire che nei fatti è già maturata anche la soluzione. Leggiamo bene la citazione d'apertura. Si tratta di un'affermazione perentoria volta a demolire la granitica certezza degli opportunisti che la tattica – cioè l'azione – possa essere "scelta" e quindi applicata dal partito o, peggio, dai suoi capi. Ed ha una duplice valenza: se la riferiamo al momento in cui il partito produce effetti reali partecipando al cambiamento, vuol significare che si è giunti alla biforcazione storica in cui l'arma della critica lascia il posto alla critica delle armi; se intesa come monito per coloro che pretendono di "scegliere" la qualità dell'azione in ogni momento, vuol significare – all'opposto di quanto pensano schiere di volontaristi – che le condizioni per passare alla critica delle armi non dipendono dal partito né da chicchessìa ma si determinano in un processo "parallelo", unico. Non per nulla le Tesi da cui è tratto il passo citato proseguono con una pagina sul determinismo e sulla necessità di "non porre più nei banali termini tradizionali la domanda se l'uomo è libero nel suo volere o determinato dall'ambiente".
Dare spaccio al bestione trionfante
Il lavoro di precisazione non ha mai termine, perciò ribadiamo oggi concetti che già erano stati ripresi con forza nel 1945. Anche e specialmente contro impostazioni aliene che si sono stratificate, e continuano a stratificarsi, sulla teoria originale. Parafrasando Giordano Bruno, come nella nostra rubrica fissa, diciamo che si dà "spaccio a la bestia trionfante", tessendo una rete di relazioni in un lavoro aperto contro la pedanteria e il luogo comune, contro l'egocentrismo e la velleità di potenza dei costruttori di rivoluzioni e di partiti. Nessuna rivoluzione ha mai compiuto il suo percorso senza provocare la nascita e la maturazione di una scuola rivoluzionaria, una corrente fisica, fatta di uomini e opere, di programmi e di possibilità materiali, di organismi e di direzione; senza che si formasse e sviluppasse, insomma, il partito formale in armonia con quello storico. Siamo non al '45, ma all'ABC, alle Tesi di Roma del Partito Comunista d'Italia, 1922. Scritte, ricordiamolo, in contrasto con l'Internazionale che aveva una concezione prettamente "costruttivistica" del partito rivoluzionario mondiale.
Anche Lenin, che passa per l'artefice della Rivoluzione d'Ottobre, trascorse, sì, la vita a tessere e disfare relazioni, ma nella consapevolezza che il partito è il risultato dialettico di determinazioni e volontà, di delimitazione ferrea del programma e di apertura sulla sua possibilità di radicamento, di organizzazione in senso stretto, chiusa, e di organizzazione in senso lato, aperta, di lose organisationen che circondano il nucleo politico e rappresentano il terreno di coltura rivoluzionario. Il partito è imperniato sul programma e funziona come un corpo vivente in cui non c'è bisogno che i vari organi ricevano delucidazioni dal centro sulle proprie azioni, scrive proprio Lenin nella celebre Lettera a un compagno del 1902. E questa non è l'unica opera in cui insiste sulla dialettica delle relazioni sociali, per la quale "centralizzazione rispetto al programma" non è in contraddizione con "decentramento rispetto alle responsabilità dei singoli nodi della rete organizzata", individui o comitati che siano. Nell'insieme del suo lavoro Lenin tratta come un tutt'uno determinismo, volontà, tattica, organizzazione; non solo sente genericamente l'esigenza di organicità ma la pretende; utilizza ancora il vecchio lessico socialdemocratico che non gli consente di mettere in rilievo l'importanza della questione, ma anticipa tutti sull'unità dialettica fra le parti del partito e il tutto, mentre per esempio una Luxemburg, in aperta polemica con lui, si ferma ad una concezione vagamente illuminista.
Dopo un secolo esatto, nonostante le potenti precisazioni della Sinistra Comunista "italiana" sul centralismo organico, per molti la concezione del partito è ancora quella borghese, ritagliata sul modello meccanicistico cartesiano: una macchinetta "costruita", fatta di leve, rotelle e molle, cui basta dare la carica per farla muovere verso masse che la attendono a braccia aperte e ne mettono in pratica le parole d'ordine assaltando Palazzi d'Inverno. Concezione semplicistica e superficiale che proprio Lenin aveva già demolito. La soluzione da lui abbozzata e portata a precisione scientifica dalla Sinistra Comunista è nella natura dei fatti sociali. Ogni società è fatta di cellule viventi differenziate, in relazione fra loro e raggruppate secondo insiemi che sono organici rispetto al modo di produzione in cui vivono. Ma siccome la società è in continuo cambiamento verso un nuovo livello di ordine, un nuovo metabolismo, ecco che compaiono cellule mutanti in grado di raggrupparsi secondo nuovi criteri. In fondo è lo stesso processo descritto dal Manifesto, in una situazione in cui il potenziale per la società nuova è di molto accresciuto e nella quale, di conseguenza, si dovrebbero porre i problemi con accresciuta maturità. Certo, l'esito del processo dipende da molti fattori, ma è un dato di fatto che la società intera, comprese parti della classe dominante, si stia muovendo verso un'insofferenza marcata nei confronti delle condizioni esistenti. È in tale contesto che dobbiamo trarre soddisfazione dalla risposta che il nostro lavoro ottiene, comprese le occasioni di incontro e di contatto.
Subito dopo l'11 settembre e con la guerra in Afghanistan esse si sono ovviamente intensificate, così come si è intensificata la corrispondenza. E stiamo notando che diminuisce la pulsione al dibattito fra tesi diverse mentre aumenta il bisogno di conoscenza, di approfondimento. Aumentano quindi le domande, che, come si sa, contribuiscono moltissimo al lavoro di chi è sollecitato a rispondere. Domande che sempre più spesso sono nette, precise, senza fronzoli personalistici, mirate a integrare ciò che nelle relazioni svolte nelle varie occasioni per forza di cose era solo accennato. Insomma, un vero lavoro comune. Bisogna sottolineare con forza che l'essenza del lavoro è nelle domande più che nelle risposte. È la domanda ben formulata, indirizzata alla ricerca del fondamento di un fenomeno, che induce a una risposta adeguata, coerente con i fini della ricerca stessa, ed evita la chiacchiera a vuoto. Questa è la situazione più favorevole, che riversa nel registratore argomenti traducibili in semilavorati in grado di circolare fra i compagni e prendere forma fino alla pubblicazione. È anche la situazione più difficile, che i pigri evitano, perché obbliga a far lavorare i cervelli in connessione invece di metterli semplicemente in mostra come tanti televisori accesi cui nessuno bada.
Luogocomunismo: tanti padri, una madre sola
Situazione difficile, perché è più arduo orientarsi verso il futuro piuttosto che adagiarsi sul passato. Per parte nostra ci sentiamo tutt'uno con una corrente storica che, a cominciare dai suoi capostipiti, ha detto cose fondamentali sul futuro. Domande sul futuro, quindi.
Per esempio, nel corso delle riunioni locali, degli incontri itineranti e nella fitta corrispondenza scambiata sulla "guerra planetaria degli Stati Uniti" è stato possibile, attraverso interessanti sequenze di domande e risposte, affrontare o approfondire una serie di questioni poi oggetto di alcuni articoli comparsi sul numero scorso di questa rivista (La svolta, La guerra e la classe e Super-imperialismo?). In particolare, affrontando il tema della globalizzazione, cioè dell'imperialismo moderno, lo si è messo in relazione al fatto che per imperialismo si deve intendere la struttura del capitalismo mondiale e non la politica dei governi, come già Lenin mostrò contro Kautsky. Ma dove o in che cosa avrà sbocco questa struttura? Quali saranno le sue linee evolutive? Quali conseguenze vi saranno nella società? Tutte questioni che saranno ulteriormente sviluppate.
È con questo approccio che abbiamo potuto prevedere, già dal 12 settembre, con buona approssimazione, il corso successivo dei fatti: l'attacco agli Stati Uniti avrebbe scatenato, localmente e nel mondo, in modo aperto ma anche e soprattutto segreto, una guerra con modalità nuove se pure con motivazioni vecchissime. Sarebbe cioè continuata la marcia americana per la conquista di uno "spazio vitale" che da molto tempo ormai è il mondo intero. Sarebbe saltata l'ipocrita finzione delle alleanze con il sopravvento del diktat mondiale dal nome contingente "guerra al terrorismo". E già il 6 ottobre, il giorno prima del contrattacco americano in Afghanistan, non ci era stato difficile prevedere il tipo di mobilitazione militare con l'utilizzo massiccio di partigianerie locali, il coinvolgimento altrettanto partigianesco di altri paesi più o meno alleati nella politica americana di dominio e l'inizio di una politica di divisione fra le potenze emergenti (India contro Pakistan), preludio alla fomentazione di divisioni fra le vecchie potenze (che ci fa la Russia nella Nato se non in funzione di contenimento antigermanico?). Né poteva sfuggirci il fatto, del resto già da noi dimostrato al tempo della Guerra del Golfo, che gli Stati Uniti sono costretti – per debolezza e non per accresciuta vitalità – ad una politica di intervento sempre più diretto negli affari interni degli altri paesi, alleati o meno.
Le nostre previsioni non sono altro che il prolungamento di un'analisi che altri hanno fatto prima di noi sulle determinazioni irreversibili del capitalismo, sui suoi percorsi in ogni sua fase; quindi non ci arroghiamo alcun merito particolare. Il fatto è che, invece di basarsi su questa dinamica, è abitudine diffusa fotografare il momento specifico e correre dietro ai particolari di cronaca; perciò il luogocomunismo si è particolarmente scatenato dopo l'11 settembre. Di fronte a eventi di portata immensa non si è trovato in genere nulla di meglio da fare che ripetere le solite, terribili formulette sull'imperialismo e le sue malefatte, rituali già disintegrati dalla critica di Lenin all'inizio del secolo scorso. La mefitica persistenza di questo fenomeno ha una ragione sola: mentre il veicolo di trasmissione è formato da molteplici gruppi e partiti che fanno da altoparlanti e rivendicano la paternità delle famigerate "parole d'ordine" sulla base di presunte differenze di contenuto, l'origine del segnale, la madre di tanto rumore, è unicamente l'ideologia populista, democratica e moralista della classe dominante.
Si è dimenticato troppo facilmente che l'attenzione dei comunisti dev'essere sempre attratta dal fenomeno principale e solo in subordine dagli aspetti secondari: invece di riflettere sulle determinazioni mondiali che hanno portato gli Stati Uniti a subìre un attacco e a reagire con una specie di guerra contro il mondo, si è puntato tutto sugli effetti che l'attacco e il contrattacco hanno avuto. Così si è persa di vista l'impotenza del proletariato occidentale di fronte al classico e necessario disfattismo nel cuore delle metropoli e si è esaltata una moralistica "condanna" degli attacchi contro le "masse oppresse" quando non si è fatta addirittura l'esaltazione di un inesistente movimento di massa contro l'imperialismo americano.
In sintonia con la nostra impostazione del lavoro, più di un intervenuto ai nostri incontri ha notato come, di fronte alla minaccia di guerra, l'Europa ufficiale si fosse presentata in ordine sparso, i gruppuscoli avessero perso la testa non riuscendo a inquadrare il problema e, cosa importante, si fossero formate esili ma decise correnti disfattiste all'interno degli Stati Uniti e di Israele. È molto significativo il fatto che invece, fra l'abbondante materiale ricevuto via Internet, non vi fosse nulla che prendesse in considerazione questo movimento. Iniziato in sordina nell'università di Berkeley in California, come ai tempi del Vietnam, era stato in un primo momento sopraffatto dall'ondata crociatista, ma era infine sfociato in una manifestazione nazionale a Washington con 100.000 persone (20 aprile 2002). In Israele 350 soldati della mitica Tsahal, la forza armata nazionale, appoggiati da alcune migliaia di civili, avevano rifiutato di combattere ed erano finiti davanti alla corte marziale. A Gaza i palestinesi avevano organizzato una dimostrazione contro i dirigenti arabi corrotti. In tutti e tre i casi non si trattava del solito pacifismo, ma di un rigetto della guerra all'interno di paesi in guerra che, fatte le debite proporzioni, ricordava le fondamentali sollevazioni contro la guerra del Vietnam.
È altrettanto significativo che, per quanto riguarda il conflitto israelo-palestinese, a nessuno dei numerosi gruppi e partiti "comunisti" sia sembrato degna di nota la spinta materiale che ha obbligato frazioni delle rispettive borghesie a promuovere ripetuti meeting congiunti al fine di bloccare il massacro nell'ambito di una soluzione laica, inter-etnica, fuori dalla spirale da vicolo cieco. Ci siamo perciò trovati di fronte al tremendo paradosso di una generale regressione da parte "comunista", persino in confronto ad alcune istanze borghesi.
Altri problemi sollevati riguardavano la disperata necessità per il Capitale mondiale di riuscire a controllare i flussi di valore, vale a dire l'urgenza di un "governo" mondiale con potere esecutivo, proprio mentre Europa e Stati Uniti lottano per il consolidamento delle loro posizioni e mentre sono ancora ignote le conseguenze dello sviluppo di paesi dal capitalismo estremamente aggressivo come la Cina e l'India, con le loro popolazioni pari a quasi la metà dell'intero genere umano. Sempre durante questi incontri emergeva poi l'esigenza del proseguimento del lavoro sui temi affrontati anni fa con il Quaderno La crisi storica del capitalismo senile sulla sincronizzazione delle economie maggiori e della crisi "cronica" del sistema mondiale, discorso che sta andando avanti con l'ulteriore scambio di materiale fra compagni.
Dal fitto comunicare nasceva infine la richiesta di affrontare la questione del petrolio e delle materie prime, della loro circolazione nel mondo in cambio di plusvalore e del tentativo di controllo delle aree in cui maggiori sono i giacimenti, tutti fattori che metteranno sicuramente in evidenza il rapporto dialettico fra la crisi, la guerra economica sempre più serrata fra le borghesie dei vari paesi e il fronte di lotta fra borghesia e proletariato. Di conseguenza s'imponeva il bisogno di mettere sul tappeto e sviluppare anche la questione della maturazione dei fattori che stanno alla base dello storico "rovesciamento della prassi" nelle rivoluzioni, cioè dell'azione della classe rivoluzionaria attraverso il suo organo politico.
Tutto questo è materiale di lavoro, con risvolti pratici in grado di occupare i compagni per mesi; del resto, come si diceva, abbiamo già iniziato a metterlo a disposizione attraverso la rivista e il sito Internet. È per questa esigenza di lavoro pratico che non solo evitiamo, ma anche combattiamo, qualsiasi tentativo di dibattito opinionistico, che noi riconduciamo a un'abitudine democratica non solo dura a morire, ma anzi potenziata dal fatto che anche la televisione l'ha fatta sua con quelle micro-riproduzioni del parlamento che sono i talk show.
Se però da una parte non ci interessano i "dibattiti", i confronti su tesi contrastanti che concrescono generalmente sulla base di idee "personali", dall'altra, siccome lavoriamo molto attraverso la comunicazione, quindi attraverso anche la disamina dei risultati individuali, non disertiamo certo quegli incontri che siano occasioni di lavoro nel senso più ampio del termine. Consideriamo una pura perdita di tempo i dialoghi imperniati sul "secondo me", perché alla fin fine ci si saluta restando ognuno arroccato sulle proprie posizioni, in genere già ben solidificate e difese a volte con una tenacia degna di miglior causa. In questo tipo di contrapposizione è difficile anche demolire interpretazioni soggettive sul nostro lavoro. Quando ad esempio ci si dice, polemizzando: "Io non sono d'accordo né su come voi ponete la questione del partito, perché secondo me il partito esiste ed è l'organizzazione x; né sul fatto che la Sinistra Comunista "italiana" abbia fornito l'unica critica coerente alla politica della Terza Internazionale, perché secondo me c'era una sinistra più vasta; né sul fatto che solo la Sinistra Comunista "italiana" abbia risposto a tutte le questioni inerenti al capitalismo maturo e al problema della transizione alla nuova società, perché secondo me vi sono altri interessanti apporti; né sulla questione degli elementi di comunismo presenti in questa società e che sarebbero anticipazione della società futura, perché secondo me voi sbagliate a vedere in questa società futura un'estensione del sistema di fabbrica", che si può fare? Non si può che rispondere: "Non possiamo impedire che un qualche individuo si senta il centro del mondo!" (sull'individualismo cfr. il nostro Militanti delle rivoluzioni).
"Comunismo di fabbrica"?
In un tale contesto diventa inutile controbattere che, se noi ci riferiamo spesso alla Sinistra Comunista "italiana" e ne adoperiamo massicciamente il patrimonio teorico, non è perché a tutto essa abbia dato risposte perfette ed esaurienti, ma perché, in generale, è stata determinata a dare risposte molto più precise di qualunque altra corrente sulla dinamica della rivoluzione e della complementare controrivoluzione. Che, se ribadiamo la presenza di elementi di comunismo in questa società… beh, su questa ipotesi Marx costruisce l'impalcatura del suo immenso lavoro. Che non ci passa neppure per la mente di concepire il comunismo come una mera estensione della fabbrica capitalistica.
Ora, non è mai il caso di trasformare una discussione in una partita di ping-pong, ma vale la pena di ribadire qui alcuni concetti.
L'insieme capitalistico comprende la fabbrica al solo scopo di valorizzare il Capitale, ma la cooperazione di tanti operai parziali, cioè l'operaio complessivo tramite il quale si realizza il piano di produzione, mostra la negazione della legge del valore (Marx).
Dopo decenni di falsificazione, e anche di cancellazione pura e semplice della teoria rivoluzionaria, non è facile cogliere gli elementi funzionali del processo di valorizzazione del Capitale e, nello stesso tempo, vedere nei medesimi elementi la loro negazione. Proprio per questo lo studio, sui testi di Marx, della storia che ha portato al Capitale moderno è indispensabile. Un minimo di dialettica ci permette di leggervi quanto sia storicamente determinata la formazione del capitalismo, cioè quella dinamica grazie alla quale si passa da un processo individuale di lavorazione ad un processo sociale globale. Contemporaneamente, riusciamo a capire la necessità storica della morte del capitalismo. Senza questo nesso dialettico potrebbe sembrare quanto meno strano che, presentandoci come comunisti, e quindi come nemici dell'attuale società, prendiamo a modello alcuni suoi elementi portanti. Ma noi non rivendichiamo affatto elementi del capitalismo. Mettiamo semplicemente in luce, sulla base di chi ci ha preceduto, le sue contraddizioni fisiologiche, oggi portate alle estreme conseguenze, tanto da dimostrare già la sua negazione. La società futura non sarà affatto basata sulla divisione sociale del lavoro, ma utilizzerà al massimo grado la divisione funzionale (quella che oggi è relegata alla sola fabbrica) tra i membri della società. Nulla a che vedere con una pretestuosa accusa di voler estendere il "comunismo di fabbrica" a tutta la società. La società futura eliminerà non solo il lavoro coatto ma, sopra ogni cosa e completamente, la millenaria separazione fra tempo di lavoro e tempo di vita, compresa l'omologazione bestiale, ideologica, comportamentale e attitudinale, cui sono costrette masse di uomini (la psicologia di massa del fascismo, che Reich estende giustamente all'URSS, non è un fatto meramente… psicologico).
Marx osserva che il rapporto capitalistico fra gli uomini è un rapporto strumentale per impadronirsi l'un l'altro del prodotto. Quest'ultimo è alieno all'individuo in quanto la produzione non è più individuale, e nello stesso tempo alieno alla società in quanto frutto dell'antitesi fra produzione sociale e appropriazione privata. Lo scopo della vita diventa lo scambio stesso, quindi la lotta. In un rapporto umano, invece, lo scopo della vita è la soddisfazione di bisogni umani tramite la produzione l'uno per l'altro, perciò il lavoro non si differenzia dal godimento altrui, è la stessa cosa, perché "il rapporto è reciproco, dalla tua parte accadrebbe quel che accade dalla mia". Il lavoro diventa libera manifestazione della vita e dunque il suo godimento. In più sarebbe effettivamente esaltata, con l'estinzione dell'individuo egoista, la peculiarità dell'individuale perizia. L'insieme delle operazioni parziali non sarà più azione dell'operaio sociale ma si trasformerà nel contributo differenziato di ognuno alla vita dell'uomo-società.
Noi non facciamo altro che mettere in risalto il moderno livello di cooperazione. Esso rappresenta la potenzialità vera, effettiva, reale, dell'integrazione di tutte le forze produttive sparse per il mondo intero a realizzare fisicamente l'unità della produzione di specie in un unico insieme organico globale. In questa potenzialità consistono i risultati di specie che noi esaltiamo, mentre il borghese esalta il mercato, la concorrenza, il cieco agire delle forze di natura, cioè l'aspetto primitivo, anzi, animale, dei rapporti tra gli uomini, quello che contraddistingue la lotta per l'esistenza, la selezione darwiniana. La borghesia esalta per la sua propaganda i grandi risultati della scienza e dell'industria, dell'organizzazione del lavoro e del piano razionale di produzione, a volte con toni illuministici fuori epoca, a volte millantando conoscenze che non possiede, a volte spingendosi, con politiche di tipo fascio-stalinista, al controllo del fatto economico. Ma ideologicamente si dimostra isterica e s'indigna fuori misura di fronte ad ogni prospettiva di progetto cosciente nel processo sociale di produzione, come fosse una bestemmia contro gli inviolabili diritti della proprietà, dell'iniziativa personale e della libertà di capitalisti che non esistono neppure più in quanto tali, essendo divenuti meri funzionari del Capitale. Non si accorge che, così facendo, sputa sulla sua stessa rivoluzione ed esalta l'aspetto peculiare della giungla, il bellum omnium contra omnes.
In risposta a quest'ennesima diceria sulle "nostre concezioni" citiamo infine Marx che, nel capitolo XII del Libro Primo scrive: "È quanto mai caratteristico che gli apologeti entusiastici del sistema di fabbrica non sappiano dire, contro ogni organizzazione generale del lavoro sociale, nulla di peggio se non che trasformerebbe l'intera società in una fabbrica".
Quando la comunicazione s'inceppa
Nel mondo capitalistico la separatezza dell'uomo dall'uomo, che Marx chiama anche autoestraniazione o alienazione a seconda dei contesti, non può non avere effetti pratici anche fra gli elementi che si richiamano al comunismo. In un'altra delle occasioni d'incontro cui ci stiamo riferendo, tale separatezza si è manifestata in tutta chiarezza persino fra compagni che avevano insieme organizzato una riunione sulla guerra, proprio, immaginiamo, per comunicare. Ora, indipendentemente dall'interesse che può aver prodotto o meno la relazione sull'argomento, il fatto è piuttosto interessante. Quell'incontro si è svolto in due tempi che, nonostante le intenzioni, sono risultati del tutto separati. Da una parte vi è stato un incontro informale, durante il quale vi è stato un ottimo scambio d'informazione in un'atmosfera assolutamente favorevole; dall'altra vi è stata una riunione pubblica dove la relazione sulla guerra e le sue implicazioni mondiali è rimasta tronca, soprattutto per via di una curiosa sospensione dell'affiatamento spontaneo raggiunto precedentemente.
Non si tratta evidentemente di "divergenze", dato che per definizione in un incontro pubblico cui si invitano tutti gli interessati non si può pretendere che i partecipanti mettano sul tappeto inesistenti omogeneità. Piuttosto si fa sentire il peso di tradizioni dure a morire e che spesso frustrano ogni tentativo di uscirne. Dato il tipo di lavoro che facciamo, centrato sul tentativo di liberarci il più possibile da quello che abbiamo chiamato luogocomunismo, è inevitabile che, quando non c'è la possibilità di andare oltre ciò che si è stratificato nella storia, s'inceppi ogni discussione. In pratica è sempre difficile, come abbiamo detto proprio in quella sede, comunicare fra elementi che non si sforzino di adottare un linguaggio e un metodo di ricerca comuni. E questi ultimi non possono essere presi a prestito né dalla politica corrente, né da quelle politiche che hanno provocato disastri storici di portata immane.
Nel nostro lavoro ci sforziamo di ricorrere ad un metodo che per comodità chiamiamo "scientifico" (nel senso che consideriamo i risultati della nostra scuola come parte integrante della scienza in generale, al pari della fisica, della matematica, della biologia, ecc. e non come speciale disciplina "politica"), perciò non possiamo utilizzare le categorie opinabili tipo stalinismo e anti-stalinismo, parlamentarismo e anti-parlamentarismo, antifascismo democratico e antifascismo sedicente rivoluzionario, autoritarismo statalista e anti-autoritarismo libertario. Possiamo parlare di tutto ciò, ma in relazione ad alcuni punti fermi, per noi assiomatici, che sono al di fuori dell'oggetto in discussione: in pratica sono quelli riguardanti il divenire reale, materiale, del modo di produzione capitalistico senza riguardo alle sovrapposizioni ideologiche. Diventa praticamente impossibile comunicare quando ci si risponde invece ricorrendo alle suddette categorie. L'incomprensione è dunque dovuta ad un fatto ben preciso, cioè all'influenza del passato persino sulle giovani leve, che sembrerebbero le più adatte a scuotersi di dosso l'influenza nefasta delle mediazioni, cioè delle troppe interpretazioni e personalizzazioni che hanno stravolto gli assiomi e che hanno dato luogo ai tanti "ismi" cui troppi si ricollegano, per giunta lavorando ulteriormente di interpretazione.
La storia non è mai andata avanti prendendo pari pari dal passato, ma ergendo su di esso, come su di un basamento, i fatti nuovi, adoperandolo come patrimonio conoscitivo, per distillarne esperienza e non ripeterne gli errori. E quel che vale per i fatti vale per le persone, dato che la controrivoluzione le adopera, cercando soprattutto nei giovani terreno vergine su cui riversare il contenuto di mille scuole. Gli effetti si vedono a bizzeffe nei vari Sessantotto, ricorrenti come le epidemie di virus influenzale e, come questo, mutanti nella loro invarianza genetica.
Ecco spiegati i motivi della nostra avversione ai dibattiti e ai confronti fra opinioni (quest'ultime spesso chiamate pomposamente tesi). La pratica nefasta di riferirsi a interpretazioni passate del marxsimo e costruire su di esse ulteriori interpretazioni di gruppo è stata funzionale – e lo è ancora – solamente alla giustificazione dell’esistenza di una miriade di piccole tribù sedicenti comuniste, chiuse al mondo, quindi autoreferenziali per intrinseca natura. Benché tutto ciò succeda in misura sempre minore (si incomincia forse ad avvertire la necessità di rompere strade già battute che non portano da nessuna parte, e questo è sicuramente un dato positivo), è ancora forte la tentazione di trovare qualche "padre fondatore" nelle innumerevoli ramificazioni del "pensiero rivoluzionario", in modo da evitare la fatica grande, e ritenuta contraddittoria, della continua elaborazione sulla base di un programma invariante. Noi rifiutiamo sia l'adorazione unilaterale di santini speciali in cappelle private (con relativo sfratto di quelli sgraditi), sia l'adorazione in massa di incongruenti inquilini in affollati pantheon. Di conseguenza rifiutiamo il modo di procedere "tesi contro tesi" che deriva dal confronto dei sacri testi dei santi o, piuttosto, dal confronto tra le interpretazioni delle interpretazioni su di essi.
Non è vero che è difficile comunicare sulla base di fatti invece che scambiarsi sterili opinioni mai reciprocamente accettate. Abbiamo tolto apposta dal nostro linguaggio tutta l'artificiosità della segnaletica tribale fatta di etichette, simboli, riferimenti abusati, orpelli lessicali, tutto quello che fa dell'informazione un prodotto pubblicitario, e abbiamo scelto di parlare di fatti, di relazioni e di collegamenti in modo che l'interlocutore interagisca con questi e non con un "prodotto" predigerito.
Nonostante queste nostre premesse siano sempre dichiarate, ci spiace quando non si afferma il senso della necessità di evitare consuetudini bloccanti; quando il nostro rifiuto del dibattito è scambiato per rifiuto di discussione tout court. Se in una chiacchierata alla buona fra compagni si riesce a considerare normale la differenza e a concentrare l’attenzione sulle cose che interessano reciprocamente, perché in certe riunioni le cose devono cambiare e ognuno finisce per fare il suo comizietto? Rispondere concretamente a questa domanda sarebbe un bel passo in avanti.
Ci si potrebbe obiettare che il nostro atteggiamento non permette la discussione semplicemente perché non "vogliamo" sintonizzarci su ciò che gli altri hanno da dire. Niente di più sbagliato: ci interessa invece moltissimo ciò che il lavoro di altri ha eventualmente prodotto nell'ambito del gran movimento materiale che va sotto il nome di comunismo, anche quando c'è da prendere semplicemente atto che siamo distanti anni-luce. Noi siamo lettori e ascoltatori accaniti di ogni traccia che i nostri detector possono captare, esattamente come lo erano i nostri antenati di scuola, di corrente, di partito storico. Quello che non ci interessa è sentire l'ennesima interpretazione di ciò che hanno detto Marx, Lenin, Bakunin, Trotsky, Pannekoek o Bordiga. Perciò il detector, per ricorrere ad una analogia tecnica, è tarato per essere sensibile al segnale voluto e per filtrare il rumore di fondo.
Quando teniamo riunioni pubbliche in cui esponiamo i risultati di un lavoro, capita che qualcuno ci inviti a ripeterle altrove; e lo facciamo volentieri ovunque. Se poi questo qualcuno interagisce chiedendo, tentando precisazioni, magari criticando per andare oltre, siamo assai soddisfatti, perché è esattamente il risultato che ci siamo prefissati di ottenere. Quando ciò succede ci sembra che sia perché il nostro lavoro si è esteso e ha coinvolto altri. Ma non è questo che avviene di solito. E quindi le aspettative di molti finiscono per essere deluse da una parte e dall'altra (e vedete, quando si dice "da una parte e dall'altra" vuol dire che di mezzo c'è un vuoto).
Se in risposta alla presentazione e alla relazione – poniamo – sulla guerra vengono introdotte, sulla base di percorsi politici che ci sono estranei, osservazioni del tutto ideologiche su argomenti stranoti e strapubblicati, che potremmo mai rispondere? Che tipo di "dialogo" sarà mai possibile tra un certo numero di persone inchiodate al "confronto fra opinioni", che prima o poi sfocia sempre nell'ampio ricorso, come da copione, a citazioni dai testi ritenuti classici dalle parti? Sarebbe veramente cosa utile avviare una riflessione sul perché si perpetuano questi meccanismi e sul modo di mandarli definitivamente al diavolo. Questo è il senso delle cose che vorremmo trasmettere ai compagni che ci chiedono precisazioni, relazioni, incontri informali, documentazione o risposte su argomenti specifici. Dobbiamo fare in modo che prendano piede forme di comunicazione fuori da prassi abusate e fini a sé stesse, specie fra i giovani. È in fondo soprattutto sulle loro spalle che pesa il compito di mettersi in sintonia col partito storico.
Un sistema condiviso, ma non tra "fessi eccellenti"
Da sempre, ma specialmente da quando si è diffuso il mezzo informatico e abbiamo un sito Internet dedicato al nostro lavoro, la corrispondenza rappresenta il veicolo per la maggior parte delle relazioni cercate con il lavoro stesso. Perciò proseguiamo prendendo spunto da un'esigenza diffusa, ben sintetizzata in una e-mail ricevuta proprio dopo una delle riunioni sulle quali ci siamo soffermati nei paragrafi precedenti:
"Speriamo di ritrovarci ancora, magari per un'iniziativa in cui si potrebbe prendere in considerazione la rottura della 'vulgata' introdotta in Italia e in Europa dalla Sinistra Comunista, anche e soprattutto a partire dal piano scientifico, antropologico e semantico, tre piatti caldi che molti ultra-sinistri faticano ancora a sentire prima che a capire. Dovreste fare un bilancio delle riunioni avute, proprio per la loro particolarità da non sottovalutare, per continuare a chiarire il criterio di analisi che esse esprimono, quel che a prima vista appare come un punto di vista e che [invece] non prescinde per nulla da un metodo prospettico che bisognerebbe, se non assumere, almeno conoscere".
Nella lettera il compagno continua dicendo che questo riscontro, "squisitamente psicologico", non cambierà probabilmente la situazione, ma almeno aiuterà a respirare, cioè ad alleviare la fatica della comprensione, a evitare confronti donchisciotteschi, a non lasciarci trascinare dalle terribili incertezze già sottoposte a critica irreversibile dal vecchio Vladimiro in Un passo avanti e due indietro. Tutto sommato, grazie all'acuirsi dell'attenzione dopo l'11 settembre e la guerra in Afghanistan, c'è stato un positivo scambio d'informazione, e le riunioni di cui ci siamo occupati sono state solo alcune delle occasioni. La corrispondenza si è infittita, è stata cercata la discussione, sono venuti a trovarci compagni, si è rafforzata la base materiale per una maggiore comprensione dei problemi posti dallo sbocco futuro di questa società. Come dice il compagno nella sua lettera, l'acuirsi della sensibilità, del "sentire", porta ossigeno, permette di respirare meglio. Non sarà facile – e non è certo solo questione di volontà – abbattere le barriere che finora hanno impedito di fare salti di qualità nella conoscenza, di appropriarsi di armi più sofisticate rispetto a quelle comunemente utilizzate. E la prima barriera da abbattere dev'essere quella che riguarda la comunicazione, in modo che si possa trasmettere, fra tutti coloro che si richiamano in un modo o nell'altro ad una società diversa, il contenuto scientifico, antropologico e semantico, appunto, del programma rivoluzionario fissato, da Marx in poi, anche dalle sconfitte e dalla controrivoluzione. Altrimenti, continua il compagno, "si rischia con molto far play di mettere assieme un sistema condiviso e perpetuo di fessi eccellenti".
Il sistema condiviso e perpetuo di fessi eccellenti purtroppo esiste da molto tempo, non c'è bisogno di "metterlo assieme". Tanto per non dare dispiacere a chi ci accusa di essere schematici, proviamo a ragionare una volta di più in base a schemi che rompono con quelli consueti, e consideriamo tutti i raggruppamenti "rivoluzionari" in base a un certo numero di invarianti presenti in essi.
In pratica basta andare sul nostro sito Internet alla pagina Organizations e cliccare sulle centinaia di indirizzi che vi si trovano; sulle pagine corrispondenti, cliccare di nuovo sugli altri link sicuramente presenti fino a che, fra le migliaia di gruppi e partitini così trovati, non si riesca a individuare le caratteristiche comuni. Si troverà un numero enorme di partiti e gruppi che coltivano i tipici concetti della rivoluzione borghese quali libertà, uguaglianza, pace, ecc. Si troverà invece un numero davvero esiguo di organizzazioni che fanno riferimento alle categorie originarie del marxismo e al loro contenuto programmatico. Si vedrà perciò che il grande insieme è sostanzialmente democratico, riformista, anti-imperialista di maniera, terzomondista, antifascista, pacifista, ed è composto da organizzazioni il cui numero si approssima allo zero assoluto man mano che ci si avvicina, con andamento esponenziale, all'asse del contenuto coerente al patrimonio del partito storico, quello necessario al partito formale che guiderà la prossima rivoluzione (figura 1).
È chiaro che, in una situazione del genere, è ancora ben lontana ogni possibilità di sviluppo di una forza organizzata che esprima il programma necessario ad affrontare la futura catastrofe (soluzione di continuità) rivoluzionaria. Siccome però abbiamo una concezione materialistica e non ideale del partito storico, dobbiamo essere in grado di individuare, nel mondo delle strutture ordinate non ancora emerse dal caos capitalistico, le caratteristiche del partito che manca. Con questo criterio, basato dunque sul contenuto e non sull'apparenza formale o addirittura su ciò che le organizzazioni in oggetto pensano di sé stesse, rileviamo l'esistenza di un crescente numero di individui o di altri tipi di unità biologica organizzata (scuole e correnti scientifiche, community informali su Internet, gruppi dediti al rifiuto totale di questa società, ecc.). Oggi la grande scuola rivoluzionaria che ha dato vita al partito storico e alla quale cerchiamo di essere aderenti, si trova collocata in questo insieme (fig. 2).
Il diagramma della figura 2 mostra sette insiemi, ma potrebbe essere più complesso. È incredibile come tutto intorno a noi il partito storico stia giganteggiando ed è tremendo constatare come la quasi totalità dei gruppi "rivoluzionari" sia inchiodata alle formule delle rivoluzioni passate, soprattutto quella borghese. Prendiamo un giornale, una rivista, un libro o Internet. Vi troviamo ovviamente merda borghese, ma se sappiamo leggere vediamo che c'è anche una ricerca appassionata fuori dall'omologazione sociale e scientifica. Vediamo tentativi di legare conoscenze prima separate: in sociologia si cita la teoria matematica delle catastrofi; in biologia si affrontano certi processi dal punto di vista dell'entropia; in fisica si esplora l'unificazione delle forze e addirittura delle scienze; in matematica si pongono le basi per una teoria delle trasformazioni biologiche; in economia si cerca di quadrare la materia specifica con la fisica del caos; in psichiatria si applica la logica dei computer per spiegare e guarire la schizofrenia; in etologia si adoperano schemi elettrici per dimostrare la dialettica del quantitativo/qualitativo; in ecologia si tracciano schemi logici della conoscenza umana. E in campo marxista... che cosa si fa in campo marxista?
Un marxista tradizionale si pone – e pone ad altri – la domanda solita: che si fa "in pratica"? Determinismo meccanico o volontà umana? Quale tattica è quella corretta? Quale delle mille correnti del "marxismo" risponde alle esigenze mie e della rivoluzione? Difficile "scelta". Ma ragioniamo: quella brava gente che abbiamo appena citato, fisici, matematici, biologi, ecc., che fa? Gioca, o cerca invece di arrivare a qualche risultato pratico? Applica volontà per giungervi? E con quale teoria? Con una logica lineare od operando connessioni dialettiche entro un mondo che si sa complesso? E perché i partiti "newtonista", "darwinista" o "einstenista" non impediscono agli scienziati di studiare le stesse cose, di fare gli stessi esperimenti e di raggiungere gli stessi risultati? Perché le differenze fra di essi stimolano la ricerca invece che il sub-cretinismo parlamentare? Si capisce che a volte ci sono anche i furbi che infilano qualche proposizione scientifica qui e lì per far scena; si capisce anche l'esistenza di ipotesi al limite del consentito, scientificamente parlando; insomma, si capisce che bisogna avere un po' di sana diffidenza verso i borghesi; ma non si capisce nel modo più assoluto come possa sopravvivere un milieu (non un individuo né un insieme specifico) che, mentre si dice pronto a fare il partito e la rivoluzione, si basa nella sua quasi totalità su proposizioni assolutamente prive di contenuto empirico, si basa su idee. E questo mentre il mondo, come dice Engels in Dialettica della natura, sta velocemente imparando a rovesciare la prassi, ad applicare volontà. Certo, esiste ancora una sproporzione enorme fra il caos capitalistico e il progetto, specie quello necessario per una vita di specie, ma il movimento è reale e non lo fermerà nessuno.
Largo ai giovani, ma…
Ci sono giovani compagni con cui abbiamo recentemente discusso, evidentemente attratti dal tipo di lavoro che facciamo, che spesso contribuiscono a diffonderne i risultati, specie attraverso la rivista. Altri non li conosciamo, ma abbiamo con loro uno scambio epistolare che rivela quanti siano gli interrogativi che la società odierna pone: la globalizzazione, la guerra, la difficoltà di affrontare in modo classico la lotta "sindacale" nell'ambiente dei nuovi e selvaggi rapporti di lavoro. E al solito mettiamo bene in chiaro, con tutti coloro che si mettono in relazione con noi, il nostro "chiodo fisso": cioè che preferiamo lavorare su ipotesi non opinabili, e quindi escludere il ricorso a interpretazioni aggiornate di formule politiche delle rivoluzioni passate, con tanto di evocazione dei morti. I grandi rivoluzionari sono vivi nel partito storico e li si sbeffeggia se s'incensano le loro icone.
Quest'ultimo punto è forse il più difficile da affrontare. Persino chi è più attento alle questioni e più nauseato dai luoghi comuni comunisteggianti, fa una gran fatica a togliersi di dosso abitudini deleterie. Succede spesso che si discuta e lavori non sulla base dei fondamenti fissati da Marx, ma su ciò che ne hanno ricavato vari esponenti del movimento rivoluzionario. I condizionamenti dovuti allo scontro di forze gigantesche dovrebbero essere considerati con molta attenzione. A partire da Engels, il corso degli eventi ha profondamente inciso sull'interpretazione e sull'uso della teoria originaria e, siccome sul campo ha per ora vinto la controrivoluzione, le aberrazioni hanno avuto il sopravvento rispetto alla continuità. Da Lenin a Trotsky, dalla Luxemburg a Grossmann, da Rubel a Rosdolsky, da Bordiga a Gorter, per non parlare dei giorni nostri, capi rivoluzionari o semplici studiosi sono stati variamente determinati a condurre battaglie con modalità e contenuti diversissimi. Ovviamente è buon metodo affrontare e studiare anche ciò che la storia ha prodotto, ma per farlo occorrono strumenti critici che si acquisiscono soltanto con l'assimilazione dei caratteri generali della teoria, mai sposando una corrente particolare.
Dovrebbe essere chiaro che se ci mettiamo a discutere su ciò che ha detto Tizio in confronto a ciò che ha detto Caio mettendoci nei panni dell'uno e dell'altro, non caviamo un ragno dal buco. Diverso è quando si riesce a discutere su ciò che accomuna e ciò che rende diversi Tizio e Caio in confronto ad un filo rosso che cerchiamo di individuare sulla base dello schema più sopra abbozzato.
Bisogna osservare che in campo scientifico – e noi pretendiamo di rientrarvi – non è permesso "aprire" a caso sugli argomenti della ricerca, ma si è soliti elaborare in base a dati e assiomi tramite un linguaggio esplicativo utile a comunicare fra uomini. Ogni processo di questo genere è basato su conoscenza acquisita, perciò "chiuso" per quanto riguarda la difesa contro le contaminazioni. Ma la conoscenza della natura e della società non è mai data una volta per tutte, essa prosegue necessariamente verso nuovi livelli. Quindi se si pone la necessità di andare al di là della difesa dei risultati raggiunti, se cioè si elabora conoscenza acquisita e se ne aggiunge per andare verso nuovi livelli, occorre "aprire" il processo conoscitivo. Solo che non lo si può fare in un modo qualsiasi, occorre farlo sempre in base al quadro di riferimento generale. Invece sembra che in ambito "marxista" sia doveroso "personalizzare" il quadro di riferimento, che quindi a questo punto non è per nulla "generale".
A noi in tutta sincerità "piacciono" altri tipi di impostazione. Non è evidentemente una questione estetica, ma di possibilità di comunicazione col prossimo e di miglioramento del lavoro. È ovvio che non potremmo parlare a questo modo se pretendessimo di essere il partito della rivoluzione come fanno tanti. Oggi siamo ancora in una situazione in cui le molecole sociali non sono abbastanza polarizzate per dar vita ad organismi univoci in grado di rappresentare il partito formale in gestazione, tantomeno in sviluppo. Questo anche se qualcuno è tanto folle da credere di essere addirittura il protagonista centrale del processo. Volete la citazione? Eccola fra tante possibili: "L'esistenza delle organizzazioni rivoluzionarie è un dato essenziale della vita del proletariato. [L'organizzazione x] è oggi il principale punto di riferimento e di raggruppamento in seno all'ambiente politico proletario e anche per la classe operaia". Inutile precisare che l'organizzazione x è del tutto sconosciuta alla classe operaia e che la sua influenza verso l'esterno è zero come quella di tutti i gruppetti simili. Perciò dev'essere più che mai sviluppata una consapevolezza dei limiti (se non altro per evitare il ridicolo) e un'attitudine al lavoro sistematico di ricerca e di collegamento, l'unico in grado di portare risultati permanenti.
I rapporti fra compagni che intravedono la possibilità di svolgere un lavoro comune, o perlomeno di mantenere un contatto positivo, devono essere impostati sulla ricerca a fini di conoscenza comune migliorata, mai sul "confronto", nemmeno fossimo fra giocatori di poker che "vedono" reciprocamente le carte per stabilire chi si becca il malloppo. Occorre, in altre parole, che le differenze, inevitabili, si trasformino da ostacolo in fattore positivo, eliminando man mano fumi, incertezze, retaggi del passato, pregiudizi, e tutto ciò che fa parte dell'ideologia, cioè tutto ciò che non ha contenuto empirico ma solo ideale. Quello che fa maggior impressione ai compagni con più militanza sul groppone è vedere giovani entusiasti intrappolati nell'una o nell'altra fazione in cui si è suddivisa la storia del movimento rivoluzionario; essere, come diciamo fra di noi, portatori sani di virus che in passato hanno combinato tanti guai, quindi portatori di malattie dovute all'adozione non di un programma universale, ma di specifici cavalli di battaglia, etichette discriminatrici che stanno alla base di "posizioni" differenziate nonostante la pretesa matrice unica. Posizioni che, come disse un vecchio rivoluzionario, sono adatte solo a "prenderlo in quel posto".
Letture consigliate
- Partito Comunista Internazionale, Natura, funzione e tattica del partito rivoluzionario della classe operaia, Edizioni Il programma comunista, 1970.
- Partito Comunista Internazionale, Considerazioni sull'organica attività di partito quando la situazione è storicamente sfavorevole; Tesi sul compito storico, l'azione e la struttura del partito comunista mondiale (Tesi di Napoli); Tesi supplementari (Tesi di Milano); Edizioni Il programma comunista, 1970.
- Partito Comunista Internazionale, Il Partito Comunista nella tradizione della Sinistra, Edizioni Il Partito Comunista, 1986 (una completa raccolta di commenti e citazioni dai principali testi della Sinistra sul partito).
- Lenin, Da che cosa cominciare, Opere complete, Editori Riuniti, vol. 5, 1959; Lettera a un compagno sui nostri compiti organizzativi, Opere complete cit., vol. 6, 1959.
- Lettera ai compagni n. 31, Demoni pericolosi, ed. Quaderni Internazionalisti, 1995.
- Lettera ai compagni n. 33, Militanti delle rivoluzioni, ed. Quaderni Internaz., 1996.