Divide et impera

Dieci paesi europei si sono incondizionatamente schierati a favore della guerra americana contro l'Iraq. Senza sparare un colpo, gli Stati Uniti hanno quindi vinto la prima battaglia. Hanno diviso l'Europa obbligando Germania, Francia, Russia e Cina a prendere posizione. Incominciano così a definirsi gli schieramenti: da una parte gli "amici" da cui gli Stati Uniti attingeranno le partigianerie atte a combattere e pagare per loro la Enduring freedom, meglio ribattezzata "guerra infinita", dall'altra i nemici che saranno bersaglio economico, politico e militare.

L'Unione Europea non c'è più, se mai c'è stata. Un'Europa Unita a 25 membri, con mezzo miliardo di abitanti e il 30% dell'economia mondiale, in grado di sviluppare un proprio mercato verso la Russia, l'Asia e il Mediterraneo, avrebbe potuto rappresentare a breve la fine dell'egemonia americana. Comunque, per la balcanizzazione che si delinea, più candidati ci sono, meglio è. Prendiamo la Turchia, col governo islamico e l'irrisolta questione curda, che già mobilita la NATO per chiedere provocatoriamente "protezione" dall'Iraq e 30 miliardi di dollari per il servizio che dovrà rendere agli Stati Uniti come base logistica per la guerra. Prendiamo l'ex Cecoslovacchia divisa in due, i cui "rivoluzionari di velluto" sono adesso in prima linea con l'America nella sua Guerra Santa. Prendiamo l'Italia che, con quella borghesia versipelle che si ritrova, potrebbe far la fine della Iugoslavia, se solo pretendesse che i suoi ministeri effettivi non risiedessero a Washington.

Prendiamo la Russia. Ex grande potenza nemica, era però chiusa, vittima predestinata di un mercato globale che invece è apertissimo. Disgregatasi l'URSS, credeva di conservare un po' di residuo prestigio per i propri fini, ma nei fatti s'è mossa a totale vantaggio degli Stati Uniti. L'ingranaggio perverso dell'integrazione capitalistica mondiale obbliga tutti a gravitare intorno all'America. Soprattutto i nemici, sfruttabili più degli amici-concorrenti a fini di dominio. La Russia ha molti abitanti islamici ed è circondata da paesi dove sono in maggioranza. È quindi estremamente ricattabile sotto la minaccia di ulteriori spaccature. La politica di Putin può – a ragione – essere considerata un suicidio, ma un'altra non c'è: l'ex grande potenza terrestre, in cambio di un po' di merci e di un posto di rappresentanza sulla scena mondiale, deve cedere il passo all'ex nemico, potenza tipicamente aeronavale. E questo nel cuore dell'Asia, che i geopolitici chiamano heartland, sempre considerato come perno fondamentale del Grande Giuoco per il dominio globale.

La Russia è contraria alla guerra contro l'Iraq perché ha interessi immediati e strategici in tutta l'area. Ma non può nulla: la sua sovranità dipende in effetti dalla vendita di materie prime all'estero. Come un paese del Terzo Mondo. Avendo ancora un grosso esercito, che stenta a mantenere, lo trasformerà in un corpo di polizia locale del nuovo mondo globalizzato. In Cecenia le sue prestazioni sono state pessime, come nella guerra d'Afghanistan: un imperialismo minore ha bisogno di occupare il territorio, ma non trova chi lo faccia per lui, quindi ogni campagna militare gli costa troppo in materiale e uomini. Per questo la grande Russia è ridotta a fare esercitazioni di mercenariato locale, oggettivamente per conto degli Stati Uniti, nell'ambito di una divisione internazionale del lavoro sui suoi 15.000 chilometri di confine con l'immensa area ex sovietica. Che, essendo assai turbolenta, necessita di controllo incrociato, perché oltre Atlantico l'industria e la finanza che contano redigono giganteschi progetti di oleodotti e gasdotti, mentre raccolgono i dollari necessari per quando ci sarà un profitto in sicurezza.

Il Kazakistan ha le maggiori riserve locali di petrolio; il Turkmenistan quelle di gas; il Kighizistan ha i più alti investimenti americani per abitante; l'Uzbekistan, con 25 milioni di abitanti sui 57 dei cinque paesi dell'area, ha l'esercito più numeroso e ben armato, attira gli investimenti esteri più consistenti, ha il più forte movimento islamico contro il governo, il maggior numero di prigionieri politici e la più grande base aero-logistica americana di tutta l'Asia continentale, con 2.000 soldati, ed è anche l'unico paese che considera sé stesso come un piccolo imperialismo locale, tanto che suscita preoccupazioni fra i vicini per le sue mire territoriali; per questo motivo, il Tagikistan, confinante con la Cina, ne riceve aiuti e, avendo combattuto una jihad contro la Russia, riceve aiuti anche dall'Iran. Cinque paesi che, manco a dirlo, sono schierati con gli Stati Uniti e si avviano verso una stabilizzazione interna di tipo berlusconesco, con imprenditori proprietari di televisioni e governi. Ecco perché il Grande Giuoco, se si svolgerà solo fra potenze e non fra classi, avrà uno sbocco prestabilito: la pax americana.

Il prossimo obiettivo a lungo termine non può essere che la Cina, anche se sarà un osso duro. Occorrerà una preparazione lunga, che parta da lontano, diciamo dal Medio Oriente e dai gangli vitali della finanza mondiale. Non è affatto necessario che già oggi ci siano piani americani in questo senso; piani o no, la Cina sarà comunque un bersaglio. La dottrina della guerra preventiva non è una novità, la "pace" non esiste più da un pezzo, nemmeno come intermezzo fra una guerra e l'altra. La guerra moderna non è un "periodo", è il modo di essere del capitalismo. Perciò, com'è successo con l'URSS, si cercherà di evitare lo scontro militare diretto contro la Cina, assai problematico dal punto di vista pratico. Come non c'è stata Cortina di Ferro in grado di durare, così non ci sarà Grande Muraglia che possa resistere all'artiglieria delle merci e del denaro. Masse umane enormi possono essere mobilitate creando più sconquasso dei telegenici bombardamenti a tappeto con ordigni dai nomi romantici. La Cina ha molte etnie interne, alcune già in lotta contro il governo centrale. La nuova dottrina di guerra prevede l'uso di intelligence e provocazione su scala industriale, c'è da giurare che sia già operativa sul posto.

A Vladivostock i russi sono passati da 600.000 a 200.000 in pochi anni, mentre gli immigrati cinesi sono passati da zero a 80.000. Flussi migratori si sono diretti anche verso Khabarovsk, Ussurijsk e altre città dell'estremo oriente russo. Continua dunque la diaspora plurisecolare che ha portato milioni di cinesi fuori dalla Cina, fonte di valuta e di conoscenza, ma anche facile bersaglio: in Indonesia, per esempio, durante la crisi del '97-98, vi fu un massacro di commercianti cinesi accusati da provocatori governativi di speculare sui generi alimentari. D'altra parte nella stessa Cina penetra l'arma distruttiva più efficace, l'emulazione dell'America, che ha già coinvolto 200 milioni di cinesi, 200.000 figli dei quali studiano stabilmente negli Stati Uniti. E intorno alla Cina ci sono anche paesi che possono essere istigati contro di essa per ragioni storiche ancora all'ordine del giorno: non sarebbe la prima volta che Russia, India e Giappone puntano i loro cannoni verso il suolo cinese.

La guerra all'Iraq non sta dunque maturando in un contesto locale sulla testa di un individuo fra i tanti sostenuti o bombardati dagli Stati Uniti. Il groviglio geopolitico è così complesso che troppe variabili sfuggono anche agli strateghi del Pentagono, resi un po' boriosi e ottusi dalla strapotenza chiamati a gestire. Nel Kuwait e negli Emirati affluiscono di continuo truppe e mezzi d'occupazione, mentre si ammette ufficialmente l'infiltrazione di commando in Iraq. L'Egitto col fondamentalismo, la Turchia col Kurdistan ed entrambi (140 milioni di abitanti) con l'arma del dollaro, sono tenuti costantemente sotto ricatto affinché offrano supporto diretto alla guerra. L'Arabia Saudita, finora utile bastione reazionario amico, adesso diventa esecrabile nemico. Paese semi-occupato militarmente, è circondato da possenti basi militari, indicato agli americani e agli islamici come arcaico e brutale, fondamentalista ma nello stesso tempo blasfemo nei confronti dei severi dettami del Profeta, corrotto e dissoluto, doppiogiochista e fautore di complotti. Con tanto di documentazione ufficiale fornita dalla Rand Corporation, un "serbatoio di cervelli" a finanziamento privato che da sessant'anni sforna "analisi" a pagamento e di cui fanno parte o sono consulenti ex ministri della difesa, ex direttori della CIA, ex segretari di Stato, l'attuale ministro della difesa, l'attuale capo di stato maggiore, insomma tutta l'intellighenzia dell'esecutivo storico degli Stati Uniti. Questo è terrorismo bello e buono e sarà interessante vedere come non solo l'Arabia Saudita, ma anche la Francia, la Germania, la Russia, il Giappone, la Cina e l'India potranno sottrarsi all'abbraccio mortale con l'imperialismo supremo.

Ora, da più parti si teorizza che stia nascendo un impero a stelle e strisce, una specie di nuova forma economico-sociale. Sciocchezze. Noi rimaniamo al vecchio, invariante e pur modernissimo imperialismo con tutti i suoi lati deboli, debolissimi. Non siamo così pessimisti nei confronti della rivoluzione. Il fatto che ci sia una sola strapotenza in grado di mettere in riga tutte le altre non fa cambiare la natura dell'imperialismo rispetto alla più o meno paritetica "banda di predoni" del tempo di Lenin. L'11 settembre è stato funzionale ai piani americani al massimo grado, ma non ha cambiato di una virgola la strategia degli Stati Uniti verso gli altri paesi imperialisti, che sono i veri avversari storici, a differenza dei Saddam Hussein di turno. Questa guerra allucinante non si prepara tanto per attaccare l'Iraq, o "per il petrolio" (come i più semplificano), quanto per produrre effetti nel mondo intero, precisare gli schieramenti, individuare i veri nemici, farli sbilanciare e alla fine farli impiccare con le proprie mani. Ma ogni imperialismo dominatore ha bisogno dei paesi dominati, ne è dipendente. Quando sulla scena mondiale rimane un unico paese imperialista come massima potenza, e quando il suo spazio vitale è il pianeta intero dal quale dipende per la vita e per la morte, questo imperialismo non è forte, è debole, come dimostra la sua isteria.

Si estinguerà prima il tè nel deserto che la Coca-Cola o il plasticoso Big-Mac globalizzato. Scomparirà il pasto conviviale nel gran piatto unico di riso o cuscus cui attingere con le mani, sopraffatto dai fast-food che offuscano i minareti. A Teheran e Baghdad si beveva liberamente whisky, si proiettavano i film di Hollywood e si ascoltava musica rockettara, prima che l'ottusa politica imperialista provocasse l'ondata jihadista. Negli emirati esplode l'american life, in Arabia si estendono i gigamercati all'americana e i paesaggi urbani alla Las Vegas. La moschea come tramite sociale, la preghiera come legame comunitario, la semplicità e il coranico rifiuto degli eccessi come igiene spirituale, stanno morendo, non rivivendo.

L'odio contro l'America è enorme, come la sua vittoria su tutto. L'effetto immediato ci sta sotto gli occhi, ma il suo sbocco non sarà un ritorno al passato. È assurdo, ma si continua a chiamare "dittatura" il dominio politico, "autocrazia" il dominio personale, "teocrazia" il dominio religioso, e non ci si accorge che questa società non ha coniato un nome per il dominio delle merci, il più immondo, disumano e assassino, o meglio lo chiama "libertà" e ne va fiera. Il Capitale ha sgominato ogni concorrente e sta ora divorando sé stesso, avvicinando la rottura rivoluzionaria.

Rivista n. 10