Evitare il traffico inutile

La circolazione delle merci, ossia il loro effettivo aggirarsi nello spazio, si risolve nel trasporto. L'industria dei trasporti costituisce da un lato un ramo di produzione indipendente, quindi una particolare sfera di investimento per il capitale produttivo; dall'altro si distingue per il suo apparire come prolungamento del processo di produzione. (Marx, Il Capitale, Libro II cap. VI.III).

Riduzione dell'ingorgo, velocità e volume del traffico, vietando quello inutile. (Partito Comunista Int., Il programma rivoluzionario immediato, riunione di Forlì, punto "g", 1952).

Oggi

Comunicazioni come estensione del processo produttivo

Tutta l'immensa massa di costruzioni che copre la crosta terrestre come un cancro con le sue metastasi, le città, le case, le fabbriche, tutto dev'essere collegato con un'altrettanto immensa massa di infrastrutture. Per trasportare merci e uomini, per comunicare, occorrono percorsi e strumenti. E dato che la rete dei rapporti fra uomini e cose, nell'epoca dello sviluppo massimo del lavoro sociale, è un generalizzato mettere in comune delle risorse (anche se in modo mostruosamente estraniato), invece dei termini specifici trasporti, telecomunicazioni, poste ecc., è meglio utilizzare l'onnicomprensivo comunicazioni. In effetti questo mettere in comune risorse è un fenomeno molto più vasto di quello che i tecnici borghesi dell'organizzazione intendono per sinergie, ed ha implicazioni più profonde. D'altra parte le poste sono ormai diventate in ogni paese centri complessi di servizi, e – nell'era telematica – anche merci immateriali vengono trasportate, anzi "portate oltre", lungo la rete nervosa del complesso sociale. Un oggetto fisico può essere spostato da un luogo all'altro e il rapporto fra il mittente e il destinatario si esaurisce nel movimento a senso unico, mentre l'informazione condivisa li mette in rapporto sia biunivoco (ogni individuo di un insieme può essere collegato con un individuo e uno solo di un altro insieme) che generalizzato (rapporto di uno a molti e di molti a uno nello stesso tempo), così che ogni soggetto è parte integrante del tutto. La comunicazione, insieme con l'economia (che lega gli uomini in un rapporto sociale di valore), dà luogo alla più integrata socializzazione del lavoro che la storia abbia mai visto. Non a caso Engels, nell'Antidühring, chiama organismi di comunicazione ferrovie, poste e telegrafi.

Anche da questo punto di vista, dunque, lo sviluppo del capitalismo è rivelatore dei motivi per i quali i nostri maestri hanno sempre dato un'enorme importanza al movimento materiale che getta le fondamenta della società futura. Abbiamo visto ripetute volte, sulla base dei loro scritti, che una critica al capitalismo va imperniata non tanto sul fatto che esso è un particolare tipo di società "proprietaria", ma perché questo moderno sistema della proprietà dà il diritto a una certa classe di sfruttare il lavoro di un'altra nel modo più generalizzato e universale, nella piena libertà degli interessati sul mercato del lavoro. Quindi la nostra critica non è tanto rivolta a persone o anche classi che si arricchiscono, ma soprattutto a un modo di produzione che si rivela specificamente dedito alla mera riproduzione del Capitale e annichilisce l'umanità della nostra specie.

Scoperte, una volta per tutte, le leggi fondamentali del sistema basato sulla produzione di merci, ha sempre più importanza l'indagine sul come esse vengono prodotte e scambiate. Progetto e produzione di merci in quanto tali non avrebbero alcun senso se non fossero collegati all'intero sistema produttivo. Ogni fase del ciclo produttivo è determinata non solo da quella che l'ha preceduta, ma ancor di più da quella che seguirà, perché il semilavorato deve adeguarsi all'insieme e non viceversa. Perciò i "trasporti" non sono che il tramite fra una fase e l'altra, così come nella linea di montaggio il "pezzo" viene "portato oltre" da un operaio all'altro. Ed è sempre più frequente il caso di aziende che distaccano alcuni dei propri progettisti presso i fornitori per armonizzare le forniture rispetto alle fasi successive.

Abolizione della proprietà nel sistema della proprietà

Se già Engels aveva sottolineato gli elementi di massima socializzazione della sua epoca, è ormai improprio continuare a definire questo sistema come quello della proprietà privata (da "privare"), anche se essa è ancora fatta valere su singoli aspetti di una società in cui, nella pratica, ogni sua parte componente non può veramente "privare" le altre parti di qualcosa. L'abisso fra le classi, dovuto a sottrazione di valore da parte di quella dominante, non impedisce che mai come oggi gli uomini abbiano tanto apportato, condiviso e fatto condividere. Ogni classe esiste in funzione dell'altra. Il capitalismo, uscito dalla sua fase primitiva, è ormai un sistema integrato di lavoro, scienza, macchine e uomini – capitalisti o liberi venditori di forza-lavoro – nel quale l'esistenza fisica di un proprietario non ha nessuna rilevanza se non sul piano del mantenimento del potere di una classe; classe che domina non tanto a vantaggio dei suoi singoli membri, per ricchi e potenti che siano, quanto, soprattutto, a favore di una forma di produzione già morta, che all'umanità non può più offrire nulla. Proprio l'immensa infrastruttura, rivoluzionata nell'800 con l'introduzione del sistema ferroviario e telegrafico, ci mostra come il Capitale abbia bisogno di socializzare al massimo il sistema della produzione: le comunicazioni possono essere appaltate in lotti ai singoli capitalisti, ma rimangono un irreversibile fatto sociale.

Solo da questo punto di vista sistemico possiamo valutare appieno il complesso insieme produttivo borghese. E solo superando la concezione "volgare" condannata da Marx, quella che si traduce non nella soppressione del sistema della proprietà ma nell'estensione di essa a tutti gli uomini, possiamo individuare il potenziale rivoluzionario che preme per essere liberato. Engels più volte rilevò, contro l'impostazione ideologica di Dühring, che il crescente intervento dello Stato e la socializzazione sempre più spinta del lavoro bastavano e avanzavano per definire il capitalismo, il quale, di per sé, cioè astraendo dalla classe degli individui possessori di capitali, tende a negare sé stesso proprio con l'espropriazione degli espropriatori e soprattutto ad affidare allo Stato il ruolo di pianificatore dell'economia (quindi dell'intero universo dei rapporti sociali).

La socializzazione del lavoro nel capitalismo ha raggiunto vertici più alti che non nelle società non ancora giunte alla proprietà, allo Stato e al denaro, nelle quali immani opere testimoniano ancor oggi il grande potenziale "energetico" delle comunità non estraniate. Eppure quelle società funzionavano proprio su una rete di scambi di oggetti, perciò di valori d'uso e non di valori di scambio. Proprio perché conoscevano soltanto una divisione tecnica del lavoro e non erano ancora giunte ad una sua vera e propria divisione sociale, comunicavano e trasportavano così come fanno le varie parti di un organismo, le quali comunicano gli impulsi nervosi o sono attraversate dal sangue che trasporta nelle vene gli elementi metabolici. La società umana futura, spingendo alle massime conseguenze questi caratteri (anche tramite l'uso finalmente umano della scienza) non sarà un "modo di produzione" ma parte della natura funzionante secondo un organico metabolismo.

Comunicazioni come nervature della fabbrica globale

Il funzionamento del sistema capitalistico, tecnico e disumano, incurante delle proprie cellule che ritiene utili solo in quanto produttrici brute e mediatrici di valore, è paragonabile a quello di uno dei suoi moduli portanti, assomiglia cioè ad una fabbrica allargata, nella quale il processo di produzione esce storicamente dagli edifici della vecchia manifattura e l'operaio parziale viene sostituito dall'operaio globale (cfr. Operaio parziale e piano di produzione). In tale contesto il controllo dell'economia nazionale – e persino internazionale – spinge la socializzazione ad un passo dalle caratteristiche della fase inferiore della società futura. Questo particolare modo di essere del capitalismo maturo ha dunque dei risvolti pratici importanti.

Abbiamo visto che il sistema dei trasporti è paragonabile ad una estensione dell'apparato produttivo. Ovviamente risponde anche al criterio della "circolazione" delle merci, ma pochi si rendono conto che la maggior parte del trasporto e delle comunicazioni non avviene dal produttore al consumatore ma fra produttori. Oltre ad essere un'altra verifica sperimentale degli assunti marxisti (importanza primaria della produzione di mezzi di produzione e non di beni di consumo), questo dato di fatto ci introduce meglio alla fabbrica diffusa, in quanto ci rende subito evidente l'analogia fra gli spostamenti dei semilavorati all'interno della fabbrica e gli spostamenti degli stessi semilavorati all'esterno: il tutto avviene in una rete di comunicazioni di diverso tipo che affascia l'insieme e lo rende assolutamente solidale. Attenzione, non soltanto "intrecciato", come fa notare Lenin a proposito del lavoro sociale mondiale, ma unitario. E ciò, naturalmente, è in contraddizione acuta con la sopravvivenza delle borghesie nazionali e delle stesse nazioni, ma di questo ci siamo occupati altrove (cfr. Globalizzazione ).

A tale proposito è bene ricordare che ci hanno sempre fatto sorridere coloro che da anni predicano la "fine del taylorismo" immaginando un'epoca post-fordista, come se la fabbrica d'oggi fosse un'altra cosa rispetto a quella di un secolo fa. In effetti la differenza va vista con la vecchia manifattura, tipo di fabbrica sopravvissuta giusto fino a Taylor. E anche in questo caso il personaggio che dà il nome all'ennesimo "ismo" non fu il geniale "creatore" di un metodo, ma il perspicace applicatore di metodi che si stavano facendo strada man mano che la scienza coinvolgeva anche l'organizzazione e non solo le macchine e gli impianti. Il taylorismo, una volta reso unitario al di là delle esperienze empiriche e assurto a disciplina formalizzata, non è altro che la trasposizione organizzativa, empirica del capitolo di Marx sulle macchine (Libro I del Capitale): l'operaio, inserito nel sistema della produzione macchinizzata, diventa operatore parziale di un ciclo complesso, così come il semilavorato è materia parziale del prodotto finito. Ora, nel sistema chiuso di fabbrica, ad ogni operaio o gruppo di operai corrisponde una fase di lavorazione, a sua volta identificata con un reparto. Nel sistema aperto delle fabbriche, conseguenza dell'ulteriore divisione sociale del lavoro e quindi dell'ulteriore specializzazione, un'intera fabbrica specializzata nella produzione di un certo semilavorato sostituisce il reparto, e il trasporto fra le fabbriche specializzate sostituisce la linea di montaggio.

Formulette che si leggono sui giornali, come outsourcing e just-in-time production cycle ("rifornirsi all'esterno" e "ciclo di produzione in tempo reale") sono utilizzate in genere come termini di moda, senza che emerga l'importanza di quel che sottintendono, ossia la proiezione verso l'esterno di ciò che da un secolo succedeva già all'interno delle fabbriche. Rifornirsi all'esterno significa integrare a sé il sistema dei fornitori e dei clienti, in modo che il flusso dei materiali e delle informazioni sia unitario; produrre just-in-time significa integrare nel tempo e nello spazio il flusso dei materiali in modo che non vi sia né un deposito permanente degli stessi in attesa da qualche parte (non solo nel magazzino ma anche lungo tutto il processo), né un flusso disomogeneo rispetto alla velocità di scorrimento della produzione (sincronia, per evitare i cosiddetti colli di bottiglia). Tutto questo, a vari gradi di perfezione, è sempre stato oggetto di studio da parte dei responsabili del ciclo produttivo. Osserviamo che già Taylor integrava le rilevazioni sul campo con il lavoro di formalizzazione svolto negli uffici "tempi e metodi", per cui la fabbrica diventava un organismo pre-ordinato, nel quale era già prevista ogni dinamica, compresa quella dei flussi delle forniture dall'esterno. Dal punto di vista dei principii organizzativi non c'è quindi nessuna differenza fra l'interno e l'esterno della fabbrica per la semplice ragione che in un caso e nell'altro stiamo parlando di un ciclo di lavorazione unico che deve sottostare a delle regole uniche.

Fondamentale fu l'unificazione dei criteri di misura e delle parti (viti, cuscinetti, ingranaggi, ecc.), cui seguì molto più tardi quella dei processi. La logistica industriale è il criterio di alimentazione della produzione. Essa prende il nome dall'arte militare degli approvvigionamenti e in origine significava "arte del calcolo". Infatti il sistema capitalistico di produzione è diventato così complesso da rendere necessaria ormai la pianificazione della sua dinamica, opera per la quale non bastano dei buoni organizzatori.

La logistica come controllo economico

Più il sistema diventa complesso, più i meccanismi che ne garantiscono il funzionamento rimangono invisibili alla stragrande maggioranza della popolazione. Quasi nessuno sa che cosa succede realmente quando, ad esempio, utilizziamo un cellulare, accendiamo una lampadina, viaggiamo in treno, facciamo il pieno dal benzinaio o acquistiamo un'automobile. Queste e gran parte delle nostre azioni quotidiane si riferiscono a reti di tale complessità che non potrebbero funzionare senza piani centralizzati, oltretutto precisi al punto da limitare le probabilità di intoppo (che sono milioni) ad eventi statisticamente trascurabili. Gli esempi potrebbero essere moltissimi, tutta la nostra vita ruota intorno a processi pianificati. Tradizionalmente si intende per logistica la pianificazione del flusso dei materiali attraverso un'organizzazione, che può essere di qualsiasi tipo, da un esercito a una fabbrica. In quest'ultimo caso il flusso va dalla materia prima, fornita dalla Terra, al prodotto finale, fornito dalla fabbrica di beni di consumo al consumatore. In mezzo c'è l'enorme settore, di gran lunga il più importante, della produzione dei mezzi di produzione, impianti, ecc. Si capisce meglio a questo punto ciò che si diceva prima a proposito del traffico: dal produttore al consumatore si percorre solo l'ultimo, breve e insignificante tratto dell'intero percorso. Il Capitale s'impernia su sé stesso, non sull'uomo.

Sul campo il termine è utilizzato assai male, essendo in genere associato ai movimenti dei pezzi in officina o degli autocarri sulla strada. Ma è evidente che la logistica è non solo movimento di "pezzi", semilavorati o autoveicoli che siano, ma anche e soprattutto azione di uomini, scambio di informazione, previsione, progetto, calcolo. Con l'avvento della cosiddetta qualità totale, e soprattutto di Internet, le maggiori aziende hanno dovuto ri-progettare tutta la loro logistica, cosa che le ha obbligate anche a ri-progettare buona parte dell'intero sistema produttivo materiale.

Così si affievolisce la differenza fra le poste, gli autotrasporti, le ferrovie, le compagnie aeree, le flotte e i servizi logistici integrati come UPS, FedEx, DPWN (Deutsche Post World Net, che ha assorbito la DHL), e… gli eserciti. Tutti questi organismi hanno propri mezzi terrestri, navali ed aerei e ne utilizzano di altrui (nel '91 l'esercito USA utilizzò un ponte aereo in parte costituito da aerei civili affittati per portare mezzo milione di uomini in Iraq e dintorni). La macchina da guerra moderna, centralizzata, pianificata, dispotica, è l'esempio più calzante per definire l'apparato della produzione industriale basato sull'efficienza logistica. Il generale Schwarzkopf, che comandò la Guerra del Golfo e quindi una delle più complesse operazioni logistiche mai pianificate, una volta tornato a casa mise le sue competenze al servizio di una grande catena di supermercati. E c'è ancora qualche borghese fuori-di-testa che blatera sul liberismo o, peggio, qualche ingenuo militante che s'indigna per le "privatizzazioni" selvagge o per gli effetti della globalizzazione. Il liberismo è un'isoletta di anarchia di mercato in un oceano di pianificazione dura.

La logistica anche come controllo sociale?

Le reti di fornitura mondiale, le comunicazioni e i materiali trasporti connettono talmente ogni attività sul pianeta che c'è da stupirsi come non ci sia ancora stato lo scontro definitivo fra i salari del proletariato occidentale e quelli del proletariato del mondo detto eufemisticamente "in via di sviluppo". La realtà è che la divisione sociale del lavoro permette per il momento di mantenere nei paesi industrializzati il nocciolo essenziale delle produzioni ad altissimo sfruttamento (drenaggio di plusvalore relativo) mentre nei paesi capitalisticamente marginali il saggio di sfruttamento (cioè il rapporto fra plusvalore e salario) rimane molto basso. Ciò provoca un aumento dell'importanza internazionale della logistica, dato che i proletari dei paesi "poveri" producono per quelli dei paesi "ricchi", e lo possono fare soltanto se questi ultimi continuano ad essere una classe in grado di consumare. È quindi necessario dislocare lontano alcune produzioni, anche a decine di migliaia di chilometri, e far viaggiare le merci, connettere le fabbriche, muovere uomini, progettare flussi, muovere diplomazie, firmare accordi fra nazioni e farli rispettare, ovviamente con magistrature e polizie e, quando non basta, eserciti.

Un tale tipo di attività è destinato a diventare sempre più importante. La McKinsey, una società di consulenza per dirigenti, ha calcolato, estrapolando dai bilanci delle maggiori società e proiettando a scala nazionale, che il mercato delle attività logistiche "vale", solo negli Stati Uniti, 1.000 miliardi di dollari, il 10% del PIL americano, e cresce del 4% all'anno (il mercato europeo è sui 200 miliardi). L'industria incomincia a praticare l'outsourcing anche in questo campo e le aziende di servizi specializzate in progettazione logistica per conto terzi (third party market) fatturano già 50 miliardi di dollari, una cifra in crescita del 18% all'anno. Società multinazionali come Caterpillar e Fiat, obbligate a sviluppare per sé capacità logistiche globali, adesso le mettono in vendita e si occupano di logistica altrui.

La merce per essere vendibile deve avere un valore di scambio e un valore d'uso, non importa dove quest'ultimo sia generato, se nella pancia o nell'immaginazione. La logistica è una merce perfetta perché lega in un vincolo indissolubile il fornitore e il cliente. La Ford, per esempio, ha uno dei suoi stabilimenti a Toronto, dove produce 1.500 furgoni commerciali al giorno su tre turni, cioè non si ferma mai. Ha affidato la logistica alla TPG, uno dei più grandi fornitori di "logistica intelligente". La produzione just-in-time prevede, come abbiamo visto, la connessione diretta delle linee di montaggio della Ford con quelle dei fornitori. La TPG ha organizzato 800 servizi di trasporto al giorno che portano i pezzi semilavorati provenienti da 300 fornitori diversi. Si dirà che è una follia, uno spreco gigantesco. Vero, ma il risparmio, nonostante la logistica costi molto, è nelle economie di scala, dato che i fornitori sono reparti della fabbrica globale e costruiscono pezzi non solo per la Ford. Il sistema è gestito da un software della TPG che si integra con la produzione computerizzata della Ford, ma che in pratica la domina, dato che ne controlla i flussi in entrata. Infatti i semilavorati arrivano a 12 punti lungo le linee di montaggio che debbono essere sincronizzati e la cui alimentazione non può mai subire ritardi maggiori di 10 minuti. I semilavorati sono naturalmente caricati sugli autocarri nella giusta sequenza da 200 operai disposti lungo l'intero flusso, il quale è controllato da 10 pianificatori in una sala computer, che possono "tracciare" dettagliatamente i percorsi grazie a un transponder allegato ad ogni fornitura. Gli autocarri sono guidati da padroncini il cui compenso diminuisce del 2% all'anno per contratto (settennale). La maggior parte degli addetti salariati sono precari. La Ford utilizza un sistema analogo in Europa, così come la Volkswagen e le altre case automobilistiche.

A qualcuno sembra davvero che il mondo stia avviandosi verso un oscuro orwelliano 1984 planetario, dato che gli Stati diventano parte integrante della pianificazione logistica, mentre le grandi aziende capitalistiche ricordate nei paragrafi precedenti offrono i progetti teorici e i mezzi per l'attuazione. Il capitalismo liberista e selvaggio, che si presenta come appendice a mostruosi apparati di controllo globale, la precarietà e la dispersione del proletariato, l'isolamento e l'incertezza in cui piomba l'individuo senza riserve, tutto ciò sembra precipitare la lotta di classe nel regno dei ricordi storici, come se non potesse più "risorgere". Non siamo per nulla d'accordo. La lotta di classe non scompare mai. Va da sé che questo sistema diventa estremamente vulnerabile proprio alla lotta di classe: essendo costituito da flussi progettati per connettersi perfettamente l'uno con l'altro nel tempo e nello spazio, può essere attaccato in ogni punto con effetti disastrosi sull'intero ciclo di produzione nazionale ed anche mondiale. Per chiunque abbia provato a organizzare scioperi, la lettura di questi dati sulla logistica fa prudere le mani, tanto il sistema appare – ed è – esposto, fragile, assolutamente indifendibile da parte dei singoli capitalisti. Come al solito, ha prodotto da sé stesso gli agenti della propria morte, a livello sempre più alto, nonostante l'apparente capacità di controllo. E per quanto riguarda la "dispersione" della classe, non più concentrata nelle grandi industrie di un tempo, ebbene, essa è oggi certamente negativa, ma solo perché domina ancora l'ideologia balorda, dovuta alla deleteria teorizzazione congiunta ordinovista, stalinista e anarco-sindacalista, dell'operaio-azienda, del gruppo legato alla specifica produzione, del consiglio di fabbrica come cellula separata, mentre la storica e forte posizione classista è sempre stata quella dell'organizzazione territoriale al di là della fabbrica e del mestiere. Un'organizzazione sindacale seria non si strutturerebbe mai sotto gli occhi del padrone, integrandosi col suo ciclo produttivo, giungendo persino a consegnargli l'elenco degli iscritti per la trattenuta della quota sindacale.

Il reazionario trasporto privato

Abbiamo visto come la società capitalistica, dopo aver rivoluzionato il mondo, sia ormai del tutto incapace di introdurre elementi nuovi, nel senso di utili all'evoluzione dell'homo faber, dell'uomo che produce e come tale si riproduce. Scienza e tecnica "progrediscono", certo, ma invece di liberare l'uomo dalla fatica e dal lavoro come pena, lo inchiodano alla macchina, al grande automa generale, come Marx chiamava la fabbrica macchinizzata e il sistema delle fabbriche.

Un esempio illuminante di come, a quella vera e propria rivoluzione che è stata l'ascesa dell'industria, delle ferrovie e del telegrafo, si possa accompagnare un fenomeno assolutamente reazionario, è dato dall'automobile. Non abbiamo nulla contro la forma che un qualsiasi mezzo di trasporto possa assumere, ma certo l'automobile non è solo un mezzo di trasporto, è una maledizione sociale. Essa nasce come sviluppo della carrozza a cavalli privata quando il movimento degli uomini, delle merci e delle informazioni era già assicurato dalle ferrovie, dalle navi e dal telegrafo in una rete sociale. Persino la carrozza era già in gran parte pubblica, e infine si era trasformata, pur mantenendo i cavalli, in omnibus viaggiante su rotaie e in grado di trasportare decine di persone. Vale la pena elencare alcuni risultati contraddittori dell'avanzata del sociale e dell'assurdità del privato:

1) Mentre il motore elettrico faceva balzare il rendimento delle macchine motrici dal 5% scarso del carbone-vapore al 95% e più, l'automobile rimaneva schiava delle leggi della termodinamica e il suo rendimento non riusciva storicamente a raggiungere il 30%, che si supera appena nei mostri tecnologici da formula uno. A proposito di rendimento e motori elettrici: il record mondiale di velocità per automobili (105 Km/h, Jenatzy su Jamais Contente) fu ottenuto nel 1899 su un'auto elettrica e non fu mai superato, per quel tipo di auto, fino al 1968.

2) Mentre l'elettricità, prodotta in modo centralizzato e distribuita in rete, prefigurava una società organica contro il localismo decentrato del vapore (veramente proudhoniano, dice un testo della nostra corrente), il motore a combustione interna rimaneva nient'altro che una sostituzione rumorosa e inquinante del cavallo.

3) Mentre le reti sociali di comunicazione erano passibili di continui miglioramenti nella loro struttura, quindi nel rendimento generale, l'automobile privata esaltava l'individualismo e la dissipazione, oltre che, naturalmente, l'aumento del caos dovuto al suo muoversi anarchico e scoordinato.

4) Mentre nelle reti sociali è possibile progettare i flussi e costruire modelli matematici in un vero e proprio rovesciamento della prassi, nel caos molecolare del trasporto privato il massimo livello raggiunto è l'invenzione del semaforo per impedire che gli automobilisti si ammazzino e intasino gli incroci (en passant: l'incrocio non è previsto nel traffico organico; nelle reti vi sono solo nodi, utili a sbrogliare i flussi, non a incasinarli).

5) Mentre in una rete sociale è possibile ottimizzare la fruizione del mezzo singolo, lo stesso mezzo consegnato al privato passa una enorme parte della propria esistenza inutilizzato (frequente il caso dell'automobile ferma in garage mentre il proprietario va a lavorare in autobus, oppure dell'auto che si consuma nel traffico, dove gli autobus non possono circolare a causa sua, e poi resta tutto il giorno nel parcheggio della fabbrica).

6) Mentre la rete sociale è alimentata e gestita da una struttura altrettanto sociale, il caos molecolare del trasporto privato è alimentato da una serie di servizi privati assolutamente dissipativi: concessionari, distributori, assicuratori, carrozzieri, meccanici, gommisti, elettrauto per ogni veicolo (riparare un autobus che porta mediamente 50 persone richiede quasi la stessa energia sociale utilizzata da un veicolo che ne porta una).

7) La rete sociale minimizza la dissipazione con il piano centrale e con alti rendimenti intrinseci, mentre il movimento molecolare è per sua natura altamente dissipativo. Costruire una rete richiede meno energia che costruire elementi separati, l'attrito ferroviario e navale è molto basso (se rapportiamo a 100 l'attrito dei cuscinetti di un'auto spostata a motore spento, l'attrito stradale è da 2.000 a 2.200), la manutenzione centralizzata di un grande parco macchine è più efficiente del capillare servizio assistenza clienti privato, ecc. ecc.

L'automobile in quanto tale

Se affermiamo che l'automobile è una vera calamità sociale non è certo perché siamo inclini a romanticismi passatisti, ma perché si tratta di un particolare tipo di merce che non ha nessuna possibilità di comparire come elemento importante, seppure trasformato nella sua natura e nel suo utilizzo, nella società umana futura. Oggi invece, oltre a passare per importante, obbliga la società intera a modellarsi secondo le sue esigenze, che non sono di certo quelle degli uomini, anche se questi ultimi pensano di essere essi stessi a modellare il mondo, compresa ovviamente l'automobile.

L'impatto ambientale dell'automobile non è quello immaginato dalla maggior parte degli ecologisti, i quali preferiscono in massa le brodaglie moralistiche cucinate dai loro politicanti piuttosto che gli studi seri che alcuni tecnici scrupolosi e preoccupati per le sorti della biosfera hanno preparato nei dettagli. Non si tratta infatti di proporre automobili che consumano poco o che vanno a idrogeno, come quelle presentate dai comici (appunto!), si tratta di stabilire se l'umanità ha bisogno di questo aggeggio elevato a sistema oppure no.

Da quando l'uomo ha iniziato ad utilizzare un'energia diversa da quella animale, si è trovato di fronte al problema di ricavare dall'incremento di potenza più benefici di quanto "costi" la dissipazione di energia. Per esempio, la costruzione di una condotta d'acqua per far girare le macine di un mulino deve costare meno di quanto il mulino potrà produrre nel tempo di durata dell'impianto. In regime capitalistico il calcolo è basato sul valore, ma il problema del rapporto fra l'energia anticipata e quella ottenuta si affaccia in tutte le società, qualunque sia il modo di produzione che le esprime. Si tratta di leggi fisiche e l'ideologia non c'entra, o meglio: c'entra in quanto oggi la si utilizza per mascherare la vera natura del problema ecologico, che comprende quello dell'automobile (cfr. Controllo dei consumi, sviluppo dei bisogni umani).

Analizziamo dunque l'automobile nell'ottica del consumo di energia sociale. Il motore a scoppio, l'abbiamo visto, arriva a un rendimento massimo del 30%. Ciò significa che l'automobile, dopo che è stata fabbricata e messa in circolazione, butta via il 70% del carburante che usa per muoversi. Esso viene dissipato per la maggior parte sotto forma di calore e prodotti combusti, energia non recuperabile ai fini del moto. Le statistiche ci dicono che un'auto, quando si muove, trasporta in media 1,5 persone, nonostante sia progettata in genere per 5. Si sfrutta quindi l'energia del carburante a questi fini per 1,5/5, cioè per il 30%. Ora, il 30% di effettivo utilizzo per trasportare lo stupido bipede motorizzato, sul 30% del rendimento termodinamico, ci dà il 9% di rendimento calcolato su macchina e persone. Ma la macchina pesa una tonnellata, mentre 1,5 persone pesano circa un quintale, perciò il nostro 9% diventa 0,9% non appena teniamo conto che, oltre alle persone, l'automobile deve muovere la sua propria massa. Ecco un vero specchio del capitalismo: la specifica merce-auto, lavoro passato, morto com'è lavoro morto il Capitale, non serve che a sé stessa!

Ma questo è un calcolo ancora molto, molto imperfetto rispetto a quanto dicevamo sul rendimento dei sistemi. Nessuna società sensata terrebbe conto soltanto della dissipazione locale, senza badare alla dissipazione globale. Vi sono effetti non quantificabili (leggere un libro comodamente seduti sull'autobus invece di dannarsi nel traffico caotico evita sia il calo di rendimento sulle altre attività della vita che l'assunzione di medicinali per l'ulcera o la depressione del guidatore), ma ve ne sono di ben formalizzabili in modelli di simulazione, come l'intera dissipazione comportata dal ciclo produttivo, dal sistema di supporto, dalle infrastrutture, dall'effetto sull'ambiente. Un'automobile, per esempio, è formata da circa 10.000 componenti e solo il 30% di essi è prodotto nella "fabbrica di automobili": per il restante 70% le parti provengono da molte altre fabbriche, spesso ubicate in diversi paesi lontani fra loro (con la crisi Fiat è in progetto la ristrutturazione dell'indotto che produrrebbe per la Germania). È il sistema mondiale delle comunicazioni a permettere il montaggio del prodotto finale. Perciò un'automobile, ben prima di essere messa su strada, ha già percorso, divisa in componenti, più della strada che farà in tutta la sua vita, a bordo di altri autoveicoli, treni, aerei, navi, i quali, a loro volta…

È fin troppo facile concludere che il sistema dell'automobile non solo ha rendimento assolutamente ridicolo – cosa comune a molti altri tipi di sistema – ma assorbe una quantità enorme di energia senza dare nulla in cambio, senza compensare questa dissipazione con una contropartita (come succedeva invece nell'esempio della condotta d'acqua), dimostrandosi utile soltanto alla mera valorizzazione insensata e ottusa del Capitale. Di fronte a una società senza automobile come sistema, a che potranno mai servire le smart logistic, le logistiche intelligenti, oggi al servizio della merce meno intelligente della storia?

Dissipazione quantificata

Abbiamo visto che la logistica si occupa del trasporto razionale degli oggetti nello spazio in modo da ottimizzare l'intero servizio alla produzione. Ciò significa operare anche nel senso del tempo che, insieme allo spazio, è una variabile della velocità. Ma spazio e tempo, entrambi monetizzabili dalla società dei rapporti di valore, non sono disponibili che in quantità limitate. Questo solo fatto ci obbliga ad affrontare il problema dell'automobile superando il fatto banale che si tratta di un aggeggio su ruote per trasportare persone, e quello, altrettanto banale, che queste persone perdono un sacco di tempo per trovare spazio (parcheggio).

Prendiamo la forma-valore per tradurre in ore-lavoro il costo sociale dell'assurdo sistema. Ricordiamo che ciò è possibile in quanto il valore corrisponde al prezzo medio sociale e che non c'è valore che non derivi tutto da applicazione di forza-lavoro, cioè salario + plusvalore. In altre parole, la sommatoria dei prezzi corrisponde al valore totale. Se dividiamo il PIL italiano (plusvalore + salario, valore prodotto ex novo in un anno, 1.250 miliardi di euro) per il numero dei lavoratori salariati (un po' più di 10 milioni, l'operaio globale deve comprendere anche i servizi non vendibili, scuola, ecc.; togliamo solo un forfetario milione di parassiti puri), abbiamo che ogni salariato produce un valore di circa 120.000 euro all'anno (fatevi i conti in tasca e calcolate il saggio di sfruttamento generale).

Dalle cifre disponibili deduciamo che un'autostrada media in Italia (paese con una politica degli appalti più movimentata della geologia) "costa" a lavori finiti circa 20 milioni di euro al chilometro lineare, quindi circa 170 anni-uomo di lavoro medio ogni 5 ettari, compresi cavalcavia, svincoli, gallerie, macchine, progetti, prospezioni, ecc. Ciò significa che, se aggiungiamo parcheggi all'aperto, sopraelevati e sotterranei, più pompe di benzina, e tutto ciò che l'auto si crea al suo intorno, l'infrastruttura per l'automobile "costa" suppergiù 34 anni-uomo per ettaro attrezzato, più naturalmente la manutenzione, il rinnovo ecc. Siccome in Italia ci sono 1.200.000 ettari solo di strade (la rete di gran lunga più fitta del mondo), ipotizziamo almeno 2.000.000 di ettari per il totale delle aree attrezzate a fini automobilistici, vale a dire almeno 68 milioni di anni-uomo. Inoltre, tutto ciò, se ci basiamo sulle tabelle normalizzate dell'industria, non "costa" meno del 10% all'anno per la sola manutenzione, cioè altri 6,8 milioni di anni-uomo: ricordiamo che si tratta di lavoro sociale medio e che comprende il passaggio di valore delle attrezzature, ecc.).

In Italia circolano (o stanno fermi occupando spazio) 32 milioni di auto e 4 milioni di veicoli commerciali, 36 milioni in totale, la maggior densità del mondo, superata solo dal piccolissimo Lussemburgo. Tutti questi mezzi li possiamo valutare a una media ponderata che ci dà circa 0,1 anno-uomo cadauno, quindi incorporano lavoro complessivamente per almeno 3,6 milioni di anni-uomo. Aggiungiamo anche in questo caso il 10% di manutenzione, 360.000 anni-uomo.

In Italia si immatricolano 2,4 milioni di veicoli nuovi ogni anno: ciò significa che, terminato il ciclo produttivo, vengono immessi altri 240.000 anni-uomo; ma supponiamo che tutto ciò vada semplicemente a rimpiazzare i mezzi rottamati, non cambierà di molto le nostre conclusioni. In più dovremmo aggiungere cinque milioni di motocicli del parco esistente più 400.000 motocicli nuovi immessi ogni anno, di cui non abbiamo tenuto conto, così come non abbiamo conteggiato il movimento di carburanti, che è cresciuto al crescere del parco circolante: nel 1993 ogni italiano consumava energia per 0,6 Tep (tonnellate di petrolio equivalente), nel 2001 per 0,7, un quintale in più.

Soffermiamoci per ora sui dati fin qui raccolti e che possiamo riassumere così: abbiamo un parco motorizzato dal rendimento ridicolo dell'1%, che "vale" 4 e per muoversi ha bisogno di una massa di infrastrutture per 75. Che cioè al solo fine di esistere, ha bisogno di infrastrutture che "valgono" tre quarti di tutto il valore prodotto ex novo dal proletariato italico in un anno intero di lavoro. E siamo ad una valutazione approssimata per difetto, eseguita su un campione, quello italiano, che è solo il 4% dell'intero sistema mondiale dell'automobile, il quale sta marciando verso la Cina e l'India, dove due miliardi e mezzo di potenziali fruitori (sì, anche i vecchi e i neonati, perché l'auto è esaltazione non solo dell'individuo ma della famiglia) sono già tenuti d'occhio dagli esperti di marketing.

Domani

La rete di comunicazioni come emblema di alto rendimento

Prima di inoltrarci nella descrizione della rete di comunicazioni della società futura attraverso il solito metodo di mostrare come si possano liberare le potenzialità già raggiunte adesso, occorre sottolineare ancora il gigantesco sciupìo insito nella società capitalistica, che ha un concetto poco scientifico di rendimento quando lo debba applicare alle cose sociali.

Per rendimento si intende normalmente il rapporto fra ciò che otteniamo con una certa attività e ciò che è "costato" ottenerlo. Che il computo per l'intero processo avvenga in unità di misura di un tipo o dell'altro, denaro o energia, non fa differenza. Abbiamo detto "normalmente", e infatti possiamo applicare il volgare "dare per avere" a molti fatti della vita quotidiana, nonostante sia un ragionamento sbagliato. Abbiamo per esempio depositato del denaro in banca e questa ci garantisce un certo surplus nel tempo: il rapporto fra la somma in più e quella anticipata è il rendimento del denaro, o interesse, mettiamo del 5%. Abbiamo seminato un quintale di grano e ne abbiamo raccolti 30: il rendimento sarà ancora la quantità ottenuta diviso la quantità anticipata, in questo caso il 3.000% che in agricoltura si chiama resa (potenza del lavoro del Sole, miseria dell'umana trivialità finanziaria). Per rimanere in tema partiamo verso una meta con l'automobile e 40 litri di benzina nel serbatoio: ci spostiamo di 400 chilometri e avremo un rendimento di 400/40, ovvero 10 km al litro (in questo caso le unità di misura sono incompatibili, perciò non possiamo scrivere la percentuale).

In ogni caso il rendimento, alto o basso, non ci ha impedito di raggiungere lo scopo prefissato, la nostra azione è stata sempre efficace. Al capitalismo questo basta: stabilito un obiettivo, gli è sufficiente raggiungere lo scopo, per esempio la valorizzazione del Capitale attraverso la costruzione di 60 milioni di veicoli gommati all'anno con quel che ne consegue. Eppure, questo modo di operare, comunemente accettato in campo economico-sociale, sarebbe assurdo in ogni disciplina scientifica, a partire dalla meccanica: un sistema efficace che permetta di raggiungere lo scopo è anche efficiente se, e solo se, lo fa col minimo dispendio di energia. Il capitalismo non è efficiente, è dissipatore. A proposito di sciupìo, cioè di entropia, cioè di fine delle illusioni di crescita infinita: ci sono 250 milioni di veicoli nel mondo, un parco che ha un rinnovo completo in venti anni; ma producendo 60 milioni di esemplari all'anno il parco può avere un rinnovo in quattro anni; la differenza dev'essere per forza colmata da nuovi acquisti e il ritmo del vulcano produttivo non è compatibile con la palude del mercato.

C'è un qualcosa di patologico nell'economia politica, quando si nasconde la differenza fra efficacia ed efficienza. Se per ottenere il 5% di interesse debbo sottostare a contratti-capestro, il rendimento diventa relativo; idem se ottengo 30 quintali di grano da 1 con un costosissimo lavoro di preparazione del terreno o se per fare 10 chilometri a passo d'uomo con la 500 su di una discesa in un giorno in cui ho fretta consumo ben un litro di carburante. Il caso dell'automobile è anche emblematico per un altro motivo: non si possono utilizzare parametri non compatibili e non è possibile quantificare, per esempio, la fretta. In definitiva c'è un solo modo universale e sicuro per stabilire il rendimento, cioè l'efficienza di un sistema: misurare l'energia in uscita e in entrata e metterle in rapporto. Qui il capitalismo cade fragorosamente perché è un sistema ad alto consumo di energia: l'uomo, giunto al capitalismo della fase suprema, non ha ancora imparato a utilizzare su larga scala sistemi a bassa temperatura per muovere le sue macchine, deve bruciare qualcosa (l'energia di origine idroelettrica è un infinitesimo del totale e in molti paesi non vi è acqua a sufficienza). L'evoluzione è uscita dal corpo biologico dell'uomo e ha coinvolto il suo spazio "esterno", ma non ne ha potuto mantenere il metabolismo, la bassa temperatura, il mirabile rendimento: l'uomo biologico, una volta mangiato ciò che gli serve per vivere, fa 60 chilometri a piedi con un piatto di spaghetti alla carbonara in più.

C'è un modo per limitare l'utilizzo di sistemi ad alta temperatura ed alta entropia (dissipazione): dar vita ad una società che prenda a modello il metabolismo degli organismi viventi e non produca energia bruciando qualcosa ma la prenda là dove è dissipata dal modo di essere della natura (vento, maree, ecc., soprattutto Sole). In questo caso la rete delle comunicazioni si comporterebbe come quella che negli organismi viventi sovrintende al ricambio, cioè all'omeostasi del sistema o, se vogliamo usare un termine "sociale", all'equilibrio e all'armonia. Come? Portando le materie prime, i semilavorati e le macchine agli uomini invece che gli uomini ad essi. Ma non si "spende" in questo modo più energia? No, perché in un sistema razionale vi sarà sempre più comunicazione e meno trasporto, più informazione e meno lavorazione, compresa innanzitutto quella che brucia materia per avere energia. Il mondo non ha bisogno di 60 milioni di nuovi veicoli all'anno per trasportare fessi e merci di qua e di là in modo insensato; nell'epoca in cui sta morendo il quantitativismo produttivo, è più che mai maturo il salto a quella del qualitativismo. L'automobile è già un oggetto fuori epoca, degno di finire nel museo degli orrori.

"La grande industria – diceva Engels nell'Antidühring (Cap. "Produzione") – insegnandoci a trasformare il movimento di molecole in un movimento di massa a fini tecnici, ha in notevole misura emancipato la produzione dai limiti di luogo […] La società emancipata dai limiti della produzione capitalistica, può andare ancora molto più avanti. Producendo una generazione di produttori provvisti di un'educazione sviluppata in tutti i sensi, che intendano le basi scientifiche di tutta la produzione industriale e ognuno dei quali abbia praticamente percorso da cima a fondo tutta una serie di rami della produzione, essa crea una nuova forza produttiva che compensa largamente il lavoro richiesto per il trasporto a grandi distanze di materie prime e di combustibili". Vigorosa pagina dovuta al movimento reale di allora, che oggi lo stesso Engels riscriverebbe in termini ancor più precisi, sotto l'influenza di una società che ci mostra molto meglio le potenzialità di quella futura, che sarà ad alto rendimento proprio mediante l'emancipazione dai limiti di luogo portata alle massime conseguenze, e mediante la relativa introduzione di reti di connessione mondiale.

L'automobile come sistema di produzione

Troppi militanti straparlano di "abbattere il capitalismo" senza sapere nulla del sistema in oggetto e soprattutto di ciò che non si abbatterà affatto perché già realizzazione della società futura che agisce in questa. L'odio verso una società infame non giustifica rigurgiti di luddismo. Marx ed Engels ci hanno tramandato i loro insegnamenti dopo aver passato la vita a studiare nei dettagli questo sistema, la sua scienza e le sue rivoluzioni tecnologiche, traendone conclusioni pratiche, funzionali all'abbattimento del capitalismo più di ogni frase fatta figlia di ideologie. L'avvento della società futura è un problema di prassi, non di pensiero e tantomeno di sentimenti, specie adesso che scienza e tecnologia non possono rivoluzionare più nulla, solo schiavizzare ulteriormente il lavoro umano.

Abbiamo visto che l'automobile, in più di un secolo, continua ad essere la solita carrozza senza cavalli, un prodotto "maturo", come dice la sociologia industriale; una merce da buttare e dimenticare, come diciamo noi, uno dei maggiori imbrogli della vantata tecnologia capitalistica, che scalda come una stufa, rende poco più di una locomotiva a vapore e sputacchia veleni nell'aria che respiriamo. Un obbrobrio da far vergognare l'orgogliosa civiltà, se non fosse così presa di sé, quindi irrimediabilmente ottusa nei confronti del futuro. Ma, a dimostrazione che la rivoluzione non dorme mai, l'automobile è anche stata la merce che, nonostante le sue caratteristiche, ha spinto di più al cambiamento del modo di produrre merci. E questo per noi ha un significato grandioso che non è marxisticamente permesso sottovalutare, perché spariranno le merci, ma resterà la produzione.

Mentre l'automobile non c'interessa né come valore di scambio (merce) né come valore d'uso nel senso attuale, c'interessa moltissimo come il capitalismo è giunto a produrla innalzando ulteriormente il livello di socializzazione del lavoro. La rete di produzione automobilistica sforna un prodotto "vecchio" ma è essa stessa in continua evoluzione. È quella che ha introdotto su più larga scala il principio che si può fabbricare qualcosa con "meno di tutto", principio anti-quantitativo per eccellenza, nonostante la persistenza di una grande massa di impianti. Ovviamente il capitalismo ne fa un uso iper-produttivistico, ma anche noi siamo ovviamente a favore di reti produttive che, come quella in questione, utilizzino rispetto al passato meno lavoro umano, meno materiali, meno tempo per reagire al cambiamento, meno superficie di stabilimento, meno impianti, meno burocrazia, meno apparato di controllo, meno energia. E che producano meno giacenza di scorte, meno scarto, meno inquinamento. Secondo il concetto di efficienza, meno di tutto ciò significa in ultima analisi – se non ci fosse il capitalismo – meno lavoro e quindi più tempo di vita liberato.

Un altro principio stabilito nella produzione automobilistica ed emigrato verso altri settori è quello detto della co-makership, o del "produrre assieme", cioè il considerare il confine della singola fabbrica non come una chiusura ma come una zona di passaggio, permeabile ai flussi di materiali semilavorati e soprattutto di informazione utile alla qualità del prodotto in uscita e in entrata. È evidente che tutto ciò si presta all'apologia del sistema attuale da parte della borghesia e dei suoi tecnici, ma basta operare una non troppo difficile conversione per provare quanto siano state potenti le anticipazioni di Marx sul lavoro sociale: scompare del tutto l'antica alternativa fra il costruire all'interno, per non devolvere parte del profitto ad un fornitore esterno, e il costruire all'esterno puntando sull'economia permessa dalla grande scala di produzione delle aziende specializzate su un solo prodotto. Il risultato pratico è che con il nuovo sistema della produzione integrata tra fabbriche non ha più nessuna rilevanza il dove e per chi si produce ma il come. In un tale contesto la differenza che passa tra industria (l'apparato produttivo che la nuova società eredita) e azienda privata è messo in evidenza dal fatto che la seconda è già estinta nei fatti.

L'evoluzione stessa del sistema verso la rottura dei limiti capitalistici mette in luce l'importanza dei collegamenti e dei flussi fra moduli che, nonostante oggi siano "privati" e indipendenti, fanno realmente parte di un'unica industria integrata, diffusa ma rispondente ad un piano centrale, quindi per nulla federalista e proudhoniana. Di più: questi moduli sono collegati non solo dai flussi materiali e informativi, ma anche da sistemi comuni di approvvigionamento cui fanno capo. Negli Stati Uniti il 75% dei fornitori diretti di componenti auto lavora già in un sistema inter-aziendale su Internet, legando le varie realtà come se fossero una fabbrica sola. General Motors, Ford, Renault, PSA, Nissan e Fiat, hanno sottoscritto un accordo con Oracle (software), CommerceOne (logistica delle forniture) e Freemarket (e-mercato) per l'approvvigionamento via Internet attraverso un unico portale specializzato su cui gestire in linea il flusso completo, dal fornitore al cliente, fino alla logistica dell'assistenza. Freemarket è un luogo virtuale, come altri 2.000 esistenti nel mondo, escogitato per fare incontrare domanda e offerta senza far muovere, nella fase progettuale, né merci né persone. Vi è un sistema mondiale di fornitura via Internet, il World Trade System, che collega fabbricanti di fabbriche, di macchine e di merci con fornitori e clienti, mettendo a disposizione 50 milioni di articoli fra materie prime, semilavorati, parti di montaggio, attrezzi e accessori. La Ford sta costruendo a Colonia uno stabilimento interamente progettato per questi nuovi criteri di produzione, per cui l'intero processo (che gestisce anche 700 robot) sarà collegato con la rete "esterna" a monte e a valle dell'assemblaggio, in modo da essere in grado di recepire cambiamenti di progetto fino a una settimana prima dell'immissione in produzione. Questi sistemi sono l'effettiva espressione del moderno macchinismo in grado di essere cooptato quasi così com'è nella società futura. Al contrario, i tentativi di umanizzazione del processo produttivo si sono tutti rivelati inganni moralistici e truffe sindacali, tutti risolti in fallimenti catastrofici, a partire dalle utopie di Adriano Olivetti fino alla vera e propria regressione storica degli esperimenti neo-artigianali di certe fabbriche svedesi.

Come si vede, ci troviamo sempre e comunque di fronte ad un sistema che può essere efficientissimo se tutto funziona (e non è così), ma che presenta una estrema vulnerabilità se qualcosa s'inceppa, aumentando enormemente il potenziale offensivo di classe. Non a caso gli studi per questo tipo di ristrutturazioni prevedono anche la "costruzione del consenso" operaio, lo sviluppo di una "dedizione responsabile" incondizionata cui viene data la massima importanza e alla quale vengono chiamati a collaborare i sindacati (che accorrono da sé, senza aver bisogno di solleciti).

C'è l'automobile nel futuro?

No, non ci sarà come la conosciamo adesso, cioè come macchina a basso rendimento, come sistema finalizzato al profitto e naturalmente come mezzo di trasporto privato. Come abbiamo già visto in articoli precedenti riguardo a molti fenomeni sociali, anche in questo caso non abbiamo da inventare nulla, non dobbiamo far altro che basarci su fenomeni già esistenti. Ricordiamo sempre che stiamo parlando di cambiamenti nell'ambito del programma rivoluzionario immediato, cioè della transizione reale e non di utopie. Perciò non sarà inutile a questo punto ripetere che non bisogna fare confusione fra l'evoluzione dei sistemi complessi verso forme superiori e la rottura politica che permette il cambiamento della forma economico-sociale. Ogni società matura incomincia a esprimere al suo interno i caratteri della società successiva, mentre fino all'ultimo conserva tracce di quella precedente. Quindi i caratteri della transizione sono quelli che ci permettono di descrivere la società futura attraverso alcuni fenomeni già presenti in quella attuale. È normale. Ben diverso, anzi l'opposto, sarebbe se concepissimo il cambiamento come effetto di un'azione volta a riformare le condizioni esistenti, migliorare la società facendo leva anche sui fenomeni evolutivi in essa presenti, in modo del tutto gradualistico. Non si tratta ovviamente di questo: un conto è la trasformazione continua che ogni sistema complesso presenta quando sia in grado di auto-organizzarsi, un conto è la rottura politica che interviene nei sistemi sociali per sancire, accelerare o anche provocare il cambiamento sostanziale (l'arrivo degli europei in America, per esempio, provocò il collasso dei sistemi precedenti): quello che, in ogni processo ad accumulo continuo di contraddizioni sfociante in una soluzione discontinua, viene chiamato "catastrofe" (nel caso citato, l'accumulo di potenza in Europa e il conseguente espansionismo provocò la catastrofe altrove). La catastrofe sociale definitiva del capitalismo sino ad oggi non c'è stata e per ora non è visibile, ma l'accumulo di contraddizioni è fondamentale e la rende sicura come il determinismo.

Una delle contraddizioni maggiori è quella della soppressione della proprietà privata nell'ambito stesso della proprietà privata. Ora, non c'è nulla di più privato dell'automobile, tanto che essa induce addirittura patologie da possesso, da simbologia sociale, da territorio protetto, da proiezione sul territorio altrui, ecc. In una società dove l'iniziazione dell'adolescente è scomparsa, il possesso dell'automobile rappresenta uno dei riti sostitutivi. La stessa mobilità individuale offre l'illusione di autonomia a un Ego che mai nella storia è stato così stritolato dalla massificazione imperante, quindi così bisognoso di gratificazioni. Tutto ciò incomincia a essere incrinato dalla stessa forma della proprietà. Negli Stati Uniti il leasing dell'automobile per le aziende è un fatto normale, mentre quello per gli utenti privati era quasi inesistente fino a dieci anni fa. Ma nel 1997 il 33% delle automobili (il 50% di quelle di lusso, il 60% nei quartieri borghesi californiani) era già preso in affitto dai privati. La Mitsubishi vende solo la metà delle automobili che produce, le altre le concede in affitto.

Ma il leasing è ancora un ibrido primitivo in confronto al servizio vero e proprio già offerto da alcune società di autonoleggio. Non il semplice noleggio, che prevede l'uso saltuario, ma la condivisione, cioè la disponibilità di un mezzo di trasporto "individuale" come se lo si avesse in proprietà. La Car Sharing Network, per esempio, permette di avere un'auto in qualsiasi momento, in 300 città d'Europa, avvisando telefonicamente con pochi minuti d'anticipo. Esistono strutture che permettono di prendere l'auto in un luogo e lasciarla in un altro. A Torino è operativo da poco un esperimento del genere gestito dal comune: una rete di 16 parcheggi permette di coprire l'area metropolitana in modo che ogni utente non debba mai percorrere più di 400 metri per raggiungerli. Non si paga carburante né parcheggio, si dispone di un mezzo sempre nuovo, e assicurazione, manutenzione, riparazione sono a carico della struttura che offre il servizio; si può inoltre viaggiare nelle corsie preferenziali dei mezzi pubblici. L'individuo percepisce questi sistemi come più costosi dell'auto in proprietà, ed essi per ora non sono presenti in modo capillare. Tuttavia gli permettono di pagare solo per l'uso effettivo del mezzo e alla fin fine il bilancio dell'uso sociale, con il criterio dell'efficienza e non dell'efficacia, presenta un rendimento che è già di gran lunga superiore a quello del possesso individuale. Se prescindiamo da che cosa è l'automobile in generale adesso, la semplice estensione di una rete simile, con tanti nodi e veicoli quanti ne servono ad un traffico che non si svolga sotto il segno del profitto, risponde già in buona parte ad esigenze comunistiche, di non-proprietà e non-valore, cioè di valori d'uso condivisi.

Quindi nella società futura vi sarà un'efficiente rete di comunicazione che, per quanto riguarda il movimento delle persone e delle cose, comprenderà sia percorsi prefissati che percorsi variabili, e questi ultimi saranno realizzati solo per i luoghi non raggiungibili con la rete normale. Vi saranno certamente mezzi auto-mobili (non si può ricoprire tutta la crosta terrestre di ferrovie, tramvie, metropolitane, ecc.), ma faranno parte della rete complessiva come terminali, navette, ecc. e, ovviamente, saranno macchine tecnicamente agli antipodi rispetto a quelle attuali, così come sarà diversa l'infrastruttura di cui avranno bisogno. Il traffico privato non dovrà essere proibito quanto estinto, a causa del cambiamento reale nei bisogni degli uomini, come avverrà per tante altre caratteristiche della società attuale.

Quale mezzo "auto-mobile"?

La società futura, semplicemente, non potrà mantenere il motore a scoppio. Il ciclo termodinamico di tale apparato non ha permesso e non permetterà più grandi cambiamenti. Sostanzialmente esso è rimasto quello progettato da Otto e da Diesel, e il suo rendimento, anche nei casi più sofisticati di applicazione, come abbiamo visto, è del tutto ridicolo. Inoltre la poca elasticità d'uso obbliga il motore Otto-Diesel a montare il gruppo cambio-differenziale, che per esempio è del tutto inutile sul motore elettrico. Tuttavia, anche quest'ultimo non è la panacea che si millanta: è vero che ha un alto rendimento, ma utilizza energia che deriva dalle centrali termo-elettriche, le quali bruciano combustibile e quindi hanno rendimento basso; non tanto quanto l'automobile, ma alla fine, tra distribuzione lungo la rete e, soprattutto, accumulo in batterie, finisce per essere altrettanto scarso. Una batteria, infatti, non solo "rende" assai meno energia di quanta ne occorra per caricarla, ma deve anche essere costruita, ovviamente con dispendio di energia. Ciò che in un'auto elettrica si risparmia in organi meccanici, si perde in batteria, la quale, oltretutto, pesa moltissimo. Il riscaldamento invernale dell'abitacolo comporterebbe un consumo insostenibile, mentre il motore tradizionale, almeno, lo fornisce utilizzando il calore altrimenti dissipato all'esterno. Si calcola dunque che l'intera catena per far funzionare le automobili con l'elettricità, se si vogliono mantenere prestazioni compatibili (tranne il rapporto velocità/autonomia, che sarebbe penalizzato comunque), necessiterebbe dei 5/3 dell'energia bruciata direttamente nel motore endotermico. E l'inquinamento sarebbe più o meno lo stesso.

Un discorso un po' diverso si può fare per i mezzi che consumano l'elettricità direttamente, senza passare attraverso l'accumulo in batteria (treni, tram, metropolitane), o che trasformano a bordo l'energia termica in energia elettrica (ibridi). E comunque il vantaggio non sarebbe strepitoso, non arriverebbe al 25% sull'intero sistema. Lo stesso vale per altri metodi di propulsione, motori a idrogeno, ad aria compressa, a gas da biomassa, ecc. Non esiste espediente tecnologico – e neppure sociale – che possa far cambiare la legge fisica che inesorabilmente ci dice: dell'energia che si anticipa per ottenere un risultato se ne può utilizzare solo una parte.

Perciò, per superare i guai prodotti dal ridicolo rendimento del motore a scoppio e di quello per nulla entusiasmante dei suoi pretesi sostituti, non vi è altra via che rifiutare massicciamente non solo il trasporto privato, ma tutto quello inutile, e soprattutto ottenere che il mezzo di trasporto non eserciti la sua dittatura sul sistema bensì ne sia governato. L'umanità futura avrà le auto-mobili, se servirà, ma non la dittatura di una particolare merce sul sistema delle merci, sarà libera da ogni merce. Non si potrà certo eliminare il trasporto nocivo o anche solo inutile se non attraverso un piano razionale e globale di produzione che preveda l'abbattimento drastico del bisogno generalizzato di energia e l'ottimizzazione generale delle risorse, e impedisca quel movimento insensato di persone, oggetti e materiali che l'uomo d'oggi non sopporta ma ritiene comunque inevitabile, come se dipendesse da una legge di natura. Molti, quando sentono parlare di "pianificazione", vanno in paranoia e pensano alla Russia o a uno di quei film prodotti a Hollywood con un occhio alla propaganda sul meraviglioso "mondo libero". Ne hanno un rifiuto ideologico, anche se spesso si dicono rivoluzionari. Ma questo succede solo perché non sanno cosa sia un "piano" e questa società ha tutto l'interesse a non farglielo sapere.

La "libertà" è nel piano

Tutti hanno letto o almeno sentito parlare della frase di Marx secondo cui comunismo significa passaggio dal regno della necessità a quello della libertà. A quell'espressione corrisponde una realtà molto semplice: gli animali sono "liberi", cioè soggetti ad un'unica legge, quella della giungla; ma proprio questa legge li rende schiavi dell'imprevisto e dell'arbitrio. Invece gli uomini sono in grado di rovesciare la prassi della giungla, di progettare il proprio avvenire, darsi un ordine, e coordinare i propri sforzi per grandi realizzazioni, di muoversi, insomma, su di un terreno sociale sviluppato che comprende la previsione e quindi la pianificazione. Non c'è mai stata attività veramente umana, anche nelle società più antiche, capaci di grandissimi progetti e realizzazioni, che non abbia obbedito a regole utili per sfuggire alla condizione aleatoria dei mangiatori, dei mangiati o dei morti di fame.

Che nelle società di classe si siano ristabiliti a livello sociale l'imprevisto, l'arbitrio e la fame, non toglie nulla al fatto che l'uomo è ormai profondamente e irreversibilmente coinvolto nella progettazione della propria vita. Come lo stia facendo la società cui oggi egli è giunto, chiama in causa la dialettica: negazione della negazione è affermazione e perciò, dato che questa è la società più organizzata della storia e nello stesso tempo quella che usufruisce di meno dell'organizzazione dal punto di vista umano, diciamo che non occorre più aggiungerle nulla, ma solo abbatterla.

Leonardo da Vinci è il primo che supera il concetto delle città ideali disegnate per il Principe e ci introduce alla città funzionale, in cui al progetto urbano si affianca, come un tutt'uno realistico costruibile, quello delle vie di comunicazione: strade e canali (insieme, per consentire il traino delle chiatte da trasporto), percorsi separati per carri e per pedoni (questi ultimi sopraelevati; caro Le Corbusier, dove hai copiato di nuovo?). La città progettata del Rinascimento ha una pianta circolare a raggiera, perché il cerchio rappresenta la forma geometrica in cui le distanze sono ottimizzate. Con una forma simile si dispongono le strutture di molte specie viventi, seguendo il determinismo naturale. E molte città, antiche e moderne, nella loro crescita, finiscono per assumere una struttura ad anelli concentrici e viali a raggiera. Così sono progettate le metropolitane che, nel sottosuolo, non devono rispettare l'impianto ortogonale delle città ma solo il razionale rispetto di una funzione. Così è progettato il futuro grande anello ferroviario che collegherà 20 città tedesche. L'uomo non ha più limiti nella progettazione e nella pianificazione dell'ambito produttivo, perché mai dovrebbe averne riguardo ai problemi del traffico?

Ma se il progetto si limitasse al disegno di ciò che si vuole ottenere, non varrebbe nulla per la comprensione e per il governo dei sistemi dinamici. Si tratti di produzione, si tratti di traffico, vi sono certo dei modelli di programmazione che tengono conto dell'ottimizzazione dei flussi e che sono in grado di simulare infinite situazioni dinamiche. Ora, nei modelli attuali di simulazione e ottimizzazione del traffico, vi è un nucleo dedicato alla simulazione del movimento effettivo nelle specifiche situazioni (città o reti di comunicazione fra città) e un modulo dedicato all'azione di semafori, alla costruzione di nuovi percorsi, alla realizzazione di svincoli, ecc. Com'è evidente, questi modelli si occupano soltanto di disciplinare la crescita mostruosa del traffico che c'è, mentre in futuro lo sforzo di pianificazione sarà volto ad evitarlo. Oggi nessun Principe capitalista potrà mai ingaggiare un Leonardo per progettare una società senza traffico privato.

Una società in grado di dominare con un piano razionale l'anarchia insita nel mercato lo potrà fare. E attenzione: "dominare" per noi significa soprattutto "conoscere", in questo senso diciamo che l'uomo può dominare la natura. La centralizzazione che sarà manifesta nel piano, sarà tanto più efficiente quanto più sarà in grado di progettare delle regole per evitare il controllo centrale. Vale a dire che una società organica non avrà caporali addetti alla direzione del traffico o all'osservanza degli ordini dall'alto, saremmo daccapo. Una società organica funziona armonicamente secondo programma come un organismo che vive, si riproduce ed evolve secondo il suo programma genetico, un organismo che per funzionare non ha bisogno, al suo interno, di altri organismi speciali "superiori". Il piano centrale per le comunicazioni e per il traffico sarà tanto più efficiente quanto più sarà in grado non tanto di "governare" il sistema quanto di imporre al sistema sempre più alte e armoniche capacità di auto-organizzazione.

E questo vale per tutto, non solo per l'argomento specifico che qui abbiamo affrontato.

Letture consigliate

  • Daniel T. Jones, Daniel Roos, James P. Womack, La macchina che ha cambiato il mondo, Rizzoli, 1998.
  • Daniele Robiglio, Osservatorio sulla componentistica autoveicolare italiana, Camera di Commercio, Industria, artigianato e agricoltura di Torino, 2002.
  • Christopher E. Borroni-Bird, "Designing AUTOnomy", Scientific American del 16 settembre 2002 (sulla progettazione di un'auto a celle di combustibile).
  • "A moving story", The Economist del 5 dicembre 2002 (sulla logistica dei trasporti).
  • Documentazione su siti Internet. Federal Highway Administration: www.fhwa.dot.gov; Ministero dei trasporti e delle infrastrutture: www.infrastrutturetrasporti.it; tecnologie per il trasporto urbano, la logistica e la programmazione del traffico: www.ropeways.com, www.lift.com, www.systra.com/technologies/agt.htm e www.poma-otis.com; un modello matematico di simulazione del traffico urbano: www.tpsitalia.it/brochure/.
  • Operaio parziale e piano di produzione, nel n. 1 di questa rivista (settembre 2000).
  • Globalizzazione, opuscolo nella nostra collana Quaderni Internazionalisti (1999).
  • Controllo dei consumi, sviluppo dei bisogni umani, numero 3 di n+1, marzo 2001.

Rivista n. 10