L'importanza del movimento americano contro la guerra

Pace? Meglio di voi sappiamo che non potete fermarvi, solo la rivoluzione mondiale lo può, distruggendo il vostro potere. E la vostra "pace" non sarà rimpianta (cfr. PC Int., Non potete fermarvi, 1951).

Tre classiche linee di demarcazione sulla guerra

Un lettore ci scrive dagli Stati Uniti che "si sta sviluppando un'attività febbrile contro la guerra, anche se in termini pacifisti, ancora ben lontani da una vera opposizione classista" e si rammarica per la minima consistenza dei vari movimenti, di fronte ai quali sta una massa amorfa "chiusa in un bozzolo di irrazionalità montante che solo la vecchia talpa potrà spezzare". È vero, sembra che il mondo sia lontanissimo da una polarizzazione sociale, unico fattore che potrebbe spezzare l'ondata dell'irrazionale. Ma è anche vero che la vecchia talpa non muore mai e scava, scava…

Il 18 gennaio a Washington e San Francisco due grandi manifestazioni avevano portato in piazza mezzo milione di pacifisti. Il 15 febbraio, mentre in tutto il mondo manifestavano 110 milioni di persone, a New York, la "città martire", i manifestanti davano vita all'episodio più significativo. L'esilissima minoranza che si mobilitò contro la guerra in Afghanistan sta crescendo in fretta, tanto che persino i media di solito schierati a favore della crociata governativa consigliano di non dimenticare l'ondata contro la guerra del Vietnam. Ha ragione la borghesia di preoccuparsi: se la situazione è fluida e non è possibile tracciare confini fra il pacifismo astratto e inconcludente e forme di movimento più radicali, è anche vero che l'opposizione alla guerra ha radici sociali profonde.

Soprattutto nelle manifestazioni di Washington e New York erano già chiari i tre classici aspetti, ben distinti l'uno dall'altro, della lotta contro la guerra: il pacifismo borghese, quello anarchico e quello che non si può definire pacifismo ma è rifiuto ragionato di una guerra specifica, che è comune anche al movimento genuinamente comunista. Ovviamente la realtà non ci fa il piacere di schierare in campo i rappresentanti fisici di queste posizioni in blocchi facilmente individuabili, ma il pacifismo in quanto tale si rivela già come separato da una realtà che è più grande di ogni idea. Certo, si son visti cartelli con scritto "No alla guerra imperialista, guerra di classe!", ma in questo caso era molto più importante il crescere del moto oggettivo di rifiuto che non la manifestazione esteriore di qualche substrato ideologico. In fondo anche la nostra classicissima parola d'ordine: "trasformare la guerra imperialista in guerra civile", diventa un semplice orpello ideologico salva-coscienze quando non vi siano, schierate sul campo, forze reali in grado di raccoglierla.

Il pacifismo pragmatico americano dà risultati assai diversi rispetto a quello idealista europeo: tenta almeno di essere operativo. Durante la guerra del Vietnam il movimento anti-guerra non assunse caratteri politico-ideologici, ma produsse decine di migliaia di renitenti alla leva e almeno 10.000 disertori (tutti poi amnistiati da Carter alla fine del conflitto). Ancor oggi la maggiore organizzazione di ex veterani del Vietnam contro la guerra (Vietnam Veterans Against the War) conta 30.000 iscritti e ha preso una dura posizione rispetto all'attacco in Iraq, mettendosi alla testa di migliaia di persone al raduno di New York. Questo atteggiamento empirista, che è quasi sempre nocivo allo sviluppo della forza combinata teoria-azione, partito-classe, nel caso americano produce più effetti che non la ormai tradita tradizione rivoluzionaria europea, la quale risale al disfattismo della Prima Guerra Mondiale e alla lotta contro il tradimento bellicista socialdemocratico. Sconfitta però nella Seconda, non ha potuto misurarsi con le borghesie nazionali, e nel secondo dopoguerra è stata rispolverata dallo stalinismo, stravolta in pacifismo antifascista, democratico e coesistenziale. Passata a un sessantotto che non era da meno, ha infine perso ogni contatto con la realtà dell'imperialismo attuale, restando sempre niente più di uno slogan.

Non a caso l'unico altro esempio di disfattismo attivo recente l'hanno dato i soldati ribelli di Israele, nazione impegnata in una odiosa guerra di oppressione. La lotta contro la guerra non è una questione di "posizioni", di "dibattiti" o di "comitati" che scompaiono tra una guerra e l'altra, ma di forza reale, contrapposta a quella delle borghesie belligeranti. Ogni tentativo pratico di fermare i combattimenti da parte di soldati, potenziali o effettivi, non è più pacifismo: la manifestazione di New York, vietata, avvenuta ugualmente e infine incapsulata in un enorme apparato di controllo (compresi i tiratori scelti sui tetti), è disfattismo, perché l'America è in guerra.

Esame storico di ogni guerra, non pacifismo

Il pacifismo borghese è un moto morale dell'individuo, completamente slegato dalla realtà dei fatti, assolutamente non in grado di influire sugli avvenimenti; e quindi non è neppure da prendere in considerazione se non come fenomeno sociale (ma questo vale per tutti i fenomeni). L'atteggiamento di fronte alla guerra da parte dell'anarchismo, almeno quello del filone storico, si avvicina invece a quello del comunismo in quanto anch'esso è per il pieno riconoscimento e appoggio alle guerre civili, quelle in cui una classe oppressa si solleva contro la classe che opprime: gli schiavi contro i padroni, i servi contro i feudali, i proletari contro i borghesi. Tuttavia se ne discosta completamente quando afferma di essere incondizionatamente contro tutte le altre guerre. Il comunismo ha un altro approccio: noi, "dal punto di vista del materialismo dialettico di Marx riconosciamo la necessità dell'esame storico di ogni singola guerra nel suo carattere specifico", diciamo con Lenin, il quale precisa: ogni singola guerra, non solo tra le classi, ma anche ogni guerra nazionale, cioè tra Stati. Nella storica posizione anarchica c'è dunque un vuoto logico, perché soltanto una forza superiore e contraria potrebbe impedire una guerra borghese, e non può essere certamente il pacifismo ma un'altra guerra, quella di classe.

Allora, da una parte ci troviamo di fronte al borghese autentico, militarista ed espansionista, che giustificherà o meno la guerra con parole di civiltà, progresso o altre baggianate, che però la farà questa guerra, con conseguenze materiali più o meno importanti ma tremendamente concrete. Dall'altra abbiamo il pacifista borghese che condanna ogni guerra in nome di un ideale, che propugnerà il disarmo, che si affiderà alla soluzione negoziata o a quella stabilita da un consesso superiore alle parti. Insomma, sposterà a livello globale ciò che accetta a livello nazionale, nei parlamenti. Il comunista tiene d'occhio il primo, dato che in certe situazioni storiche è in grado di sconvolgere il mondo, anche con effetti positivi per la crescita numerica e d'importanza del proletariato, e irride al tartufesco secondo.

Nella storia, scrive sempre Lenin, non sono per nulla rare le guerre fra Stati che, nonostante gli orrori in generale e il tormento inflitto al proletariato in particolare, hanno abbreviato periodi storici, liquidato residui del passato, impiantato capitalismo moderno (e quindi un proletariato) dove prima non c'era. Tutti sanno che Marx auspicava la vittoria militare dell'Inghilterra capitalista contro la Russia reazionaria; più difficile ricordare, a proposito di storia medio-orientale, che ben diverso ne sarebbe stato lo sviluppo se per esempio l'espansionismo borghese dell'Egitto di Mehemet Alì avesse potuto mantenere, e quindi sviluppare modernamente, il Sudan, l'Arabia, la Siria e Creta, strappati all'arretrato dispotismo turco nella prima metà dell'800. L'Egitto aveva conquistato i luoghi santi dell'Islam, ed essendo nell'atto di compiere il balzo verso il capitalismo, era diventato un elemento propugnatore di modernizzazione. È certo che l'Arabia e tutto il Medio Oriente ne sarebbero stati influenzati, se l'Egitto non fosse stato sconfitto dall'azione congiunta di Inghilterra, Francia e Turchia, imperialismi che assunsero il controllo dell'importante crocevia mondiale, producendo una rinnovata potenza dell'impero ottomano e il ritorno della monarchia wahhabita ultra-reazionaria nella penisola arabica. Un marxista che fosse vissuto all'epoca avrebbe auspicato la vittoria dell'Egitto aggressore, così come plaudì alla sconfitta dei vecchi imperialismi in Medio Oriente nel secondo dopoguerra ad opera della forza militare ed economica americana. Gli esempi potrebbero essere centinaia.

L'anarchico, con noi propugnatore della violenza di classe, non riconosce invece nessun possibile ruolo positivo alla violenza della guerra fra Stati, che considera manifestazione di massima autorità, dittatura, gerarchia, statizzazione, subordinazione di uomini nei confronti di altri uomini, tutte categorie cui riserva un odio ideale. Essendo convinto che la questione può essere risolta con volontà e coscienza, riduce la sua concezione dei processi storici al rifiuto o alla partecipazione dell'individuo, cosa che, nei confronti della guerra, specialmente quella moderna, è impossibile collegare con una qualche realtà che produca effetti pratici. Quindi la probabile guerra che si sta preparando con l'invasione del Medio Oriente (non la solita operazione di polizia cui qualcuno ancora pensa, ma un allargamento che coinvolga il futuro assetto dell'intera area) non andrebbe esaminata dal punto di vista di una impossibile pace borghese ma in relazione alle sue determinazioni e ai possibili sviluppi.

Le guerre ambigue degli Stati Uniti

Quando gli Stati Uniti inviarono i paracadutisti a Suez nel '56 contro i residui colonialisti inglesi e francesi, o quando sbarcarono in Libano contro i Francesi nel '58, attuarono un colpo di mano oggettivamente "progressista" in quanto diedero il colpo di grazia al vecchio mondo coloniale. Ovviamente gli stessi Stati Uniti sono colonialisti in proprio, quindi reazionari, anche se il loro "spazio vitale" non è individuabile in un territorio preciso ma fa il giro del pianeta. Perciò l'attuale putiferio guerrafondaio americano è assai sospetto, nel senso che gli obiettivi dichiarati e il contesto in cui sta maturando non coincidono, troppo limitati gli obiettivi rispetto alla enormità dei problemi crescenti nel contesto.

La posta in gioco è molto più ambiziosa che non la testa di un despota locale. Con la Prima Guerra del Golfo il laico Saddam rimase al suo posto alla guida del moderno Iraq. Ora, se le vie del Signore sono infinite, quelle dell'imperialismo sono molto meno numerose e la guerra americana è sempre stata prevedibile: l'obiettivo non è mai stato uno specifico territorio, ma un disegno geopolitico. L'Iraq è un pretesto, lo vedono tutti, ma per che cosa? Non è impossibile che venga fatto saltare anche quel funesto covo di reazione che è il reame saudita. O la lugubre teocrazia iraniana. O l'autocrazia militare pakistana, maestra di conservazione terroristica di Stato, di proliferazione talibana e detentrice di quelle "armi di distruzione di massa" di cui gli occhiuti ispettori dell'ONU non hanno bisogno di sospettare. O il folle regime nord-coreano, retto da una famiglia auto-divinizzatasi. Tutti esempi che cozzano contro il capitalismo globale molto più degli sconfitti residui coloniali europei. Si capisce che un intervento diretto degli Stati Uniti in un'area immensa che va dal Medio all'Estremo Oriente avrebbe una portata storica altrettanto immensa, ben diversa dai classici interventi amerikani, come quello "esterno" in Cile, tanto per fare un esempio, dove una corrente borghese riformista moderna veniva sostituita con un'altra fedele ma più grezza e arretrata. Si capisce ancora di più come Francia e Germania siano i paesi più preoccupati di tutti nel vedere sfumata la loro sovranità.

Può darsi che gli Stati Uniti non abbiano l'intenzione di impegnarsi realmente in una guerra di occupazione e perciò di lunga durata, come successe con gli avversari nella Seconda Guerra Mondiale che furono sconfitti, occupati per decenni e socialmente riplasmati. La guerra oggi è fatta soprattutto di disinformazione, e quindi è difficile valutare i propositi ufficiali. Può darsi perciò che l'America, stretta da una crisi generale gravissima, abbia semplicemente perso la testa e si accinga contro la storia a rafforzare, come in passato, la fascia dei regimi più socialmente arretrati. Anche in tal caso ogni considerazione va fatta sulle determinazioni passate e sulle prospettive in scenari materialisticamente plausibili. Questo è il terreno su cui si devono misurare i comunisti. La valutazione dell'intera area geo-storica interessata e di tutta la nostra epoca sono indispensabili per evitare che la grandiosa parola d'ordine "trasformare la guerra imperialista in guerra civile" sia semplicemente buttata al vento, banalizzata a livello di trito cliché.

Il duplice nesso classista

Lenin alla vigilia della Prima Guerra Mondiale non fu affatto pacifista, ma valutò, con tutto il partito, che di mera guerra fra imperialismi si trattava, che il proletariato avrebbe avuto tutto da perdere, che sarebbe stato portato ad un massacro mai visto e che avrebbe messo in pericolo i vantaggi conquistati, specialmente la capacità di organizzazione classista. Quel che interessava non era tanto la pace, che i partiti socialisti avevano ormai eliminato dai propri programmi, quanto proprio la guerra, che metteva in mano ai proletari enormi possibilità sovversive. Questi avevano quindi il compito di combattere contro tutte le borghesie belligeranti, in primo luogo la propria. E fu così stabilito un altro duplice nesso: l'"inevitabile legame delle guerre con la lotta delle classi nell'interno di ogni paese", e l'"impossibilità di distruggere le guerre senza distruggere le classi".

Le dimostrazioni odierne, a differenza di quelle per il Vietnam, stanno avvenendo prima che la guerra incominci sul campo. E il movimento operaio americano, che all'epoca fu mobilitato a favore della guerra contro Hanoi, oggi si schiera in gran parte sul fronte anti-guerra. Certamente i pacifisti, rispondendo con manifestazioni preventive alla dottrina della guerra preventiva, pensano di poter contrastare la politica del governo e di influire sugli eventi, mentre mai nessun governo è stato tanto sordo alle loro voci: ma è significativo che l'anticipo sia riuscito, segno evidente dell'accelerazione dei processi trent'anni dopo il Vietnam.

Il movimento contro la guerra ha messo in sordina quello, apparentemente fortissimo, dei no-global, terreno di caccia e d'intervento per l'attivismo universale e quindi, ovviamente, del pacifismo borghese e della risposta anarchica. Niente è più globale della guerra moderna e dei nuovi rapporti che ingenera fra gli Stati: sembrerebbe allora il campo ideale per la lotta contro l'obiettivo insito nel nome stesso di questo movimento che si reputa all'avanguardia. Invece, paradossalmente, è stata l'ondata contro la guerra – globale – che ha utilizzato i Forum – no-global – per organizzarsi. Il movimento di Seattle si è perciò dimostrato del tutto di retroguardia, codista, ed è confluito, senza mostrare iniziativa alcuna, nel movimento contro la guerra. Al quale le solide radici dell'antimilitarismo americano hanno permesso di ignorare completamente la propaganda battilocchiesca su Saddam Hussein, e di rifiutare la logica crociatista, facendogli superare ogni contingentismo e centrare in pieno l'obiettivo: la guerra contro il mondo è necessariamente guerra anche interna, e alla fine è anche la società americana che viene militarizzata come in un lager.

L'America antimilitarista non è pacifista

Piccoli indizi, che ci mostrano una società per nulla monolitica come vogliono invece far credere gli opinion makers, i facitori di opinione, e i sondaggi. Il nucleo del movimento anti-guerra americano è la gioventù metropolitana d'America, quella che nel momento critico in cui partono le truppe batte il ritmo sociale, come sempre. Di fronte ad essa, l'immensa polverizzazione di abitanti dei paesini country a stelle e strisce che rappresenta la "maggioranza silenziosa", carne da sondaggi, non conta più niente. E non conta nemmeno il partito della cattiva coscienza dell'Occidente consumatore, di coloro che hanno perso la tradizionale razionalità pragmatica agganciando sentimentalmente il cuore al sottosviluppo di un "terzo mondo" ancora più arcaico, dei nostalgici dell'artigianato, della produzione contadina, dei propugnatori del piccolo commercio (magari "equo e solidale"), del micro-prestito bancario, della difesa di tutto ciò che non è più neppure tipico di un capitalismo nascente ma ormai semplice rimasuglio del passato.

L'abbiamo avvertito, il cambiamento, anche attraverso le più che mistificate immagini trasmesse dalle televisioni: qui in Europa s'è visto ciò che abbiamo sempre creduto "America", il pacifismo del cuore, il carnevale colorato, i giocolieri da circo, la passeggiata con la famiglia, la musica, le suore e i preti, i politici guerrafondai provvisoriamente convertiti alla non più vergine colomba; là in America la tensione, il disfattismo, la ricerca di come fermare effettivamente la borghesia americana. L'America esprimerà tante contraddizioni, ma almeno non è pacifista.

Letture consigliate

  • Lenin, La guerra e il socialismo, Opere complete, vol. 21, Editori Riuniti.
  • PC Int., Tartufo o del pacifismo, 1951, ora in: O rivoluzione o guerra, raccolta di testi, nei nostri Quaderni Internazionalisti.
  • Vietnam Veterans Against the War, sito dei veterani del Vietnam contro la guerra, da cui si può navigare verso altri siti: http://www.vvaw.org/index.html
  • War without end? Not in our name (Guerra infinita? Non in nostro nome), Sito pacifista radicale, da cui si può navigare verso altri siti: http://www.notinourname.net/

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"Oggi la propaganda per la pace, se non si accompagna all'appello all'azione rivoluzionaria delle masse, può soltanto seminare illusioni, corrompere il proletariato inculcandogli la fiducia nell'umanitarismo della borghesia e facendo di esso un trastullo nelle mani della diplomazia segreta dei paesi belligeranti. In particolare, è un grave errore l'idea della possibilità della cosiddetta pace democratica senza una serie di rivoluzioni" (Lenin, Conferenza delle sezioni estere del POSDR, 4 marzo 1915).

Rivista n. 10