Rispunta la "programmazione"

"Se dalle società per azioni passiamo ai trusts, che dominano e monopolizzano intere branche dell'industria, non solo non esiste più produzione privata, ma non possiamo parlare più neppure di assenza di un piano" (Engels, Antidühring).

Il "mondo occidentale", in gara con quello orientale, fa passi sempre più importanti sulla via della millanteria pianificatrice, detta a milioni di uomini i suoi programmi in cifre di produzione, di consumo, di stanziamenti, di investimenti, di remunerazioni del lavoro, di interessi finanziari e margini di profitto sui costi. Sono i Marshall, gli Hoffman, gli Zellerbach, i Dayton, che alla scala europea o nazionale passano ai pazienti le ricette presuntuose della loro farmacopea economica, prescrivono cifre di resa allo sforzo di lavoro e al gioco dei capitali, con sorrisi di disprezzo per ciò che resti al di sotto della loro attesa. Né mancano di porre in rilievo che ogni loro richiesta, sia per il burro che per i cannoni, è fatta per la salvezza della Libertà e della Civiltà minacciate (PC Int., Profeti dell'economia demente, 1950).

Mirabolanti infrastrutture dell'azienda Italia

Programmazione economica. I più giovani la sentono nominare a sproposito nell'ambito delle abituali "manovre finanziarie", come se un decreto contingente avesse qualcosa a che fare con il concetto di "programma", mentre i più anziani la ricordano come uno dei cavalli di battaglia del parlamentarismo riformista del dopoguerra. In auge per vent'anni, fallì, ma non certo a causa della sbandierata vittoria su di essa del presunto libero mercato. Era già morta prima di nascere, uccisa dalla continua contraddizione fra l'esigenza centralizzatrice del Capitale e l'anarchia congenita della società capitalistica.

Eppure i due schieramenti italici, oggi impegnati nel superare ogni record di cretinismo parlamentare, millantano, ognuno a proprio modo, capacità di programmazione. L'attuale capo dell'esecutivo disegnò in televisione mirabolanti piani per il riassetto dell'economia e del territorio, a partire dalle "infrastrutture dell'azienda Italia", avvicinandosi più di altri, nonostante gli sberleffi dei sinistri, alle reali caratteristiche del capitalismo, quindi ai suoi reali bisogni d'intervento dall'alto oltre che alle esigenze degli affaristi privati. E comunque oggi stiamo assistendo, all'interno dello schieramento di opposizione, ma complementare, alla nascita dell'ennesima "cosa", con il sindacalista Cofferati sul trampolino di lancio, basata, manco a dirlo, su ipotesi di programmazione economica negoziata. Mirabilia del sindacato-ministero.

Sappiamo che il capitalismo è statale, non liberista, fin dal suo nascere. Esso ha sempre dovuto barcamenarsi fra il caos prodotto dal movimento molecolare dei capitali e l'esigenza di controllo centrale. La programmazione economica non è quindi una novità, anche se è passata nella storia sotto diverse forme, dagli arsenali delle repubbliche marinare agli atelier di Re Sole, al Gosplan russo. In Italia aveva preso la forma del modello fascista che, sconfitto in guerra, vinse però in politica e fu reintrodotto nel dopoguerra sull'onda del Piano Marshall (Hoffman, Zellerbach e Dayton, nominati nella citazione di apertura, erano rispettivamente capo dell'ECA, ente per la ripresa del commercio; capo dell'ERP, piano per la ricostruzione europea; capo delle truppe d'occupazione in Italia). Il processo di fascistizzazione della società, anche sotto vesti democratiche, risulta assolutamente irreversibile, tanto che gli attuali governi, a cominciare da quello americano, sono menati per mano dal Capitale a realizzare le solite istanze riformistiche con più centralismo, più Stato che mai.

Più del semplice keynesismo, meno di un piano

La programmazione propriamente detta fu introdotta in Italia col Piano Saraceno nel 1964, ma la nostra corrente se n'era occupata fin dagli anni '50 quando, volente o nolente, la borghesia italica dovette agire con un minimo di razionalità varando provvedimenti per la ricostruzione post-bellica. Saraceno, con molta lucidità, aveva già detto nel 1945 che non si trattava di teorizzare libero mercato o programma, bensì di raggiungere risultati concreti e, se c'era da stabilire priorità e tempi, ciò era giocoforza un programma. Diciamo che piano avrebbe sottolineato meglio il significato di progetto che presuppone gli strumenti adatti alla sua realizzazione, mentre programma indica sia un progetto operativo che un'aspirazione. Si capisce, però, che con gli occupanti americani in casa si preferì evitare ogni riferimento all'economia statalizzata, cioè "fascista" (o stalinista, che sotto questo aspetto è la stessa cosa). Vent'anni dopo i politici si appropriarono del programma-aspirazione per le chiacchiere della macchina elettorale e lasciarono il piano-progetto all'industria e… a Mussolini-Stalin.

Il modello specifico degli anni '60 era importato, anzi re-importato, dal Nord Europa (Olanda, poi Svezia e Francia), ma la programmazione, anzi, la pianificazione, era già stata peculiarità storica dell'italietta. Introdotta con storico anticipo dal fascismo, fu largamente esportata ben prima che l'ineffabile Keynes pubblicasse la sua Teoria Generale nel '37. In effetti la velleità di programmazione anni '60 era un ritorno al fascismo (certo, democratico, per carità!) più netto di quello delle politiche keynesiane, dato che si occupava non solo della politica macroeconomica, cioè degli interventi di breve e medio periodo a sostegno all'economia, ma di obiettivi più ambiziosi, come il riassetto geologico del territorio, la pianificazione della crescita urbana, il servizio nazionale delle comunicazioni e trasporti.

Mentre le politiche macroeconomiche si limitano ad agire sulle variabili dei flussi di valore all'interno della società, la programmazione, come il fascismo, ambiva a correggere il capitalismo attraverso la autentica realizzazione della "riforma sociale", che invece, tradizionalmente, era stata inchiodata dalla democrazia nelle aule parlamentari, oggetto di pure chiacchiere. Si trattava di drizzare le storture del mercato, di evitare le crisi catastrofiche attraverso l'armonizzazione degli squilibri strutturali dovuti allo sfruttamento indiscriminato del territorio e alla insopprimibile lotta di classe.

Non a caso il Piano Saraceno ereditava pari pari il piano Vanoni per l'incremento del "reddito" e la sua ripartizione sociale (no, cari sinistri parlamentari di oggi: non si tratta solo di far pagare le tasse ai "ricchi", ma di riformismo borghese applicato alla direzione dell'economia, cosa che voi adesso non vi sognate nemmeno, venduti anima e corpo al dio mercato). Un anno dopo, nel 1965, veniva varata la programmazione nazionale in Inghilterra, con un obiettivo di crescita "stimolata" del 25% in cinque anni. Se proprio non vogliamo risalire al solito Marx e alla sua sussunzione reale del lavoro al Capitale, notiamo almeno che gli stessi borghesi registravano il dato di fatto: nel suo libro Il Nuovo Stato industriale, del 1967, Galbraith sosteneva che il fabbisogno di capitale e di tecnologia di una grande industria moderna è tale che essa deve per forza assoggettare alle proprie esigenze sia i singoli consumatori che il mercato, e che per far ciò ha bisogno di programmazione interna ed esterna. Il modello sperimentale berlusconiano che abbiamo sotto agli occhi è veramente il paradigma dell'azienda che travalica i suoi confini e si fa società, assoggettando alla propria programmazione persino il governo e la sovrastruttura politica e giuridica. Siamo effettivamente alla materializzazione dell'azienda Italia; e, se badiamo al solito fatto che sono gli uomini che decidono ma lo fanno come agenti di spinte materiali precise, siamo ad una programmazione integrata fra aziende tramite lo Stato a favore del Capitale impersonale. Non ha importanza se tutto ciò assume una forma fenomenica con la faccia di Berlusconi.

Economia col pacemaker

Il piano del '64, divenuto poi legge, si fondava sull'urbanistica, e più precisamente sulle famigerate infrastrutture. Senza infingimenti e concessioni al liberismo astratto, esso ammetteva che la programmazione, con annesso piano urbanistico, era parte integrante del Piano Economico Nazionale, precisando che le interconnessioni fra Piano e programmazione regionale doveva avvenire ad ogni livello. Anche in questo caso non ha importanza (se non forse per dimostrare la capitalistica anarchia e l'a-scientificità dell'economia politica) che la speculazione partisse prima delle infrastrutture.

In effetti il capitalismo non può sfuggire alle proprie determinazioni e i capitalisti fanno quello che possono, non quello che vogliono: la banale condizione di equilibrio di un sistema economico è che l'investimento sia uguale al risparmio, la produzione uguale al consumo (riproduzione semplice). Un sistema in crescita (riproduzione allargata) necessita di un ritorno nel ciclo produttivo di parte del valore prodotto nel ciclo precedente. In termini macroeconomici semplici l'equilibrio si ottiene dunque allorché l'investimento intenzionale e la spesa pubblica eguagliano il risparmio più le imposte. Perciò in condizioni di equilibrio abbiamo la classica torta dalle misure fisse, per cui, se qualcuno si accaparra la fetta grossa, agli altri rimane ovviamente quella piccola. Peraltro la fetta pro-capite rimarrebbe sempre la stessa anche se crescessero della stessa misura sia il valore prodotto ex novo che la popolazione. Questa è per esempio la situazione mondiale da qualche anno a questa parte.

Ora, perché negli anni '80 hanno preso piede le politiche Tatcher-Reagan e da allora il liberismo sfrenato è diventato quasi un dogma, mentre apparentemente le passate velleità di riforma programmata sono state dimenticate? E perché adesso queste ultime ritornano sia nei discorsi dei destri che in quelli dei sedicenti riformisti in un paradossale miscuglio?

Quando l'economia va stimolata (ed è dalla Grande Depressione del '29 che deve esserlo) occorre che lo Stato raccolga del valore nella società e lo indirizzi a fini produttivi in modo da innescare un circolo virtuoso nella produzione di beni strumentali e di consumo. Dal punto di vista dei segni di valore, cioè del denaro come equivalente generale, che lo Stato emetta cartamoneta in cambio di beni e lavoro per opere pubbliche, oppure emetta titoli del debito pubblico in cambio di denaro non fa nessuna differenza. Ma i risultati sono assai diversi a seconda della situazione storica in cui a queste operazioni si ricorre.

Quando la crisi deriva semplicemente dalla bassa efficienza di un sistema che non riesce ad utilizzare parte delle risorse esistenti (lavoro, spazi di mercato, canali di esportazione, ecc.), allora vi è possibilità di recupero della parte sotto-utilizzata per innescarvi una produzione reale di valore, quindi un reale incremento dell'attività economica.

Quando però la crisi deriva da saturazione nell'uso delle risorse e il recupero di efficienza del sistema è problematico, allora la spesa pubblica produce un incremento dei prezzi (inflazione). Un effetto positivo per il saggio di profitto può essere raggiunto lo stesso, perché l'inflazione riduce i redditi reali, soprattutto i salari, con effetto di risparmio forzato, per cui la svalutazione di moneta e titoli equivale ad un aumento di imposta per finanziare la spesa. Se questa è concentrata su settori che i privati non riescono a mettere in moto o a "stimolare" per conto loro, abbiamo un trasferimento di "reddito" (la cui fonte, qualunque classe ne benefici, è sempre il plusvalore prodotto dalla forza-lavoro) dal settore privato a quello pubblico.

Infine, può esservi il caso di saturazione nell'uso delle risorse e impossibilità di reperire valore sul mercato interno, per cui ci si rivolge al mercato finanziario mondiale, come ha fatto per esempio l'Argentina prima della spaventosa crisi in cui è caduta.

In ogni caso, raggiunto lo stadio di crisi cronica in cui gli incrementi nella produzione di valore sono bassissimi, ciò che conta non è il debito e neppure l'intervento dello Stato in forma diretta, dato che esso può manovrare i capitali senza dover fare il capitalista in proprio; ciò che conta è un piano che sia coerente con le risorse, libere e oziose, sature e indisponibili o presenti da altre parti, in paesi lontani. Quindi, liberista o programmatore, ogni governo deve pianificare comunque la sua condotta, lasciando l'ideologia in pasto ai parlamenti e ai giornali. La programmazione è insita nel capitalismo nascente "colbertiano" come in quello maturo "tatcheriano", e il liberismo non è mai esistito.

Piano territoriale, nazionale e mondiale

Come si vede, oggi non c'è nulla di nuovo sotto il sole, tranne la spudoratezza con cui gli odierni destri e sinistri parlano a vanvera: Berlusconi di grandi progetti liberisti e Cofferati di programmazione negoziata, due magnifici ossimori (contraddizioni in termini), gli uni rigettando lo Stato a favore del libero mercato proprio nel momento in cui lo utilizzano al massimo, gli altri facendo la stessa cosa ma aggiungendo qualche parola sul "sociale" e progettando perennemente "cose" che non sono neppure partiti riformisti. Entrambi schiavi delle determinazioni di un Capitale insofferente dei controlli su sé stesso ma assolutamente bisognoso di un controllo dell'ambiente in cui si muove e in cui cerca disperatamente di valorizzarsi.

Negli anni '60 la programmazione non funzionò per nulla, dato che le città e le infrastrutture crescevano più in fretta della produttività dei legislatori: la città si estendeva velocemente alla campagna circostante, poi ai comuni vicini, perciò i programmi avrebbero dovuto prevedere e anticipare lo stesso movimento dai municipi alle aree ex agrarie, ai comuni delle cinture urbane, alle regioni amministrative (che non c'erano ancora) e infine alle interconnessioni del livello più alto, ovvero a tutto ciò che avrebbe dovuto essere previsto nel piano al livello più alto. Il fallimento della programmazione era nelle premesse oggettive: siccome la borghesia teme sempre i suoi stessi slanci, essa procedeva in senso inverso rispetto ai fatti. L'economia spontanea si muoveva dal locale al planetario e la politica si accodava invece di dirigere. In una legge del 1942 il fascismo, almeno, aveva già equiparato alla regione il piano territoriale, come parte integrante del suo piano nazionale ed era partito da questo per arrivare al territorio.

In questa "friabile penisola" asfaltata, disboscata, incendiata, supercostruita, trapanata e pavimentata, il territorio casca a pezzi. I viadotti, i trafori e i mega-ponti berlusconiani rischiano di essere parte supplementare del sistema in sfacelo. Le alluvioni sono ricorrenti e la programmazione territoriale non c'è mai stata. Perciò le solite infrastrutture saranno come il belletto che usa il necroforo quando "prepara" il cadavere. Dopo l'alluvione nel Polesine (1951) fu varata subito una legge chiamata "Piano orientativo per i fiumi". Nel 1966 diverse città, tra cui Firenze e Venezia finirono sott'acqua. Per la piena dell'Arno, che non aveva mai superato gli argini da che esisteva la città, si mobilitarono migliaia di volontari per salvare il salvabile. Questo per dire che il piano per i fiumi, nonostante gli stanziamenti per decine di miliardi di euro attuali, non era mai stato preso sul serio, tanto che si era speso soltanto un terzo dei fondi stanziati, mentre gli altri due terzi s'erano dispersi. Ogni "programmazione" capitalistica non può che essere un servizio per il Capitale e questo trova sempre dei servizievoli agenti. Se ne frega del territorio in quanto habitat da passare ai posteri integro se non migliorato, e lo tratta solo come supporto alle sue attività di valorizzazione.

Si faranno le infrastrutture, e ci sarà pure qualche specie di programmazione, se non altro quella dei cantieri e del traffico di mazzette. E ci sarà senza dubbio quell'altra specie di programmazione, quella negoziata, alla Cofferati, abituato al rapporto corporativo e quindi al compromesso. Ma quello che escludiamo è che ci possa essere, adesso o nel futuro capitalistico, un piano nazionale che tratti come parte integrante di un tutto ogni singola struttura, che tratti cioè l'insieme del territorio nazionale come un organismo i cui organi non possono certo funzionare ognuno per conto proprio. Allora, nella generale parcellizzazione degli interventi, ecco che le "opere" berlusconiane (o cofferatiane se un giorno andasse al governo la programmazione negoziatrice) saranno varate e drogheranno ulteriormente l'economia, non nella forma di un piano di rilancio, come si usa anche dire, bensì come ennesimo rattoppo di situazioni. Ogni volta che lo Stato distribuisce ingenti somme per opere pubbliche non scatta solo il meccanismo degli appalti e la corsa delle mafie: scatta un sistema intero di distribuzione di plusvalore sotto forma di risarcimento per espropri, di anticipi per costruzioni e forniture varie, di lubrificante per burocrazie e trame legali, ecc. per cui non tutto il denaro finisce speso per l'effettiva realizzazione di infrastrutture o comunque di opere utili alla popolazione e ai suoi traffici sia pure capitalistici, ma va a rimpinguare i capitali privati.

Su questo terreno entra in gioco anche il liberismo economico da quattro soldi dei sinistri che, anche se chiamato pomposamente "programmazione negoziata" è solo un modo per chiamarsi in causa, sedersi a tavolino come al solito, firmare un compromesso e magari partecipare al bottino, come ammise sfottendo maestro Craxi. Liberismo non diverso dal berlusconismo, perché considera alla stessa stregua lo Stato, che è inteso come strumento di controllo dell'azienda-paese (mai sentito parlare di "dispotismo di fabbrica"?). I padri della programmazione economica italica avevano le idee chiare e trattarono anch'essi il sistema-paese come un'azienda, ma almeno ebbero l'accortezza e la lungimiranza di stendere progetti a medio termine. Oggi tutti navigano a vista e il termine programmazione è persino stonato sulle loro bocche. Non è solo Berlusconi che tratta l'Italia intera come un'azienda privata, questa è la mentalità di tutti gli aspiranti al governo ed è un fatto mondiale, come insegna al solito l'America.

La "spartizione in uno"

Mentre Firenze e Venezia andavano sott'acqua e parte della memoria storica dell'umanità andava perduta, i socialisti del governo di centro-sinistra varavano il piano Pieraccini, che contemplava l'ennesima legge urbanistica e una versione riveduta del piano idrogeologico nazionale per il territorio. Sappiamo che non se ne fece nulla e i miliardi stanziati per il disastro finirono in tasca ai privati "per danni subiti". La prevenzione non è proprio nel DNA del capitalismo. Perciò mentre il Capitale globale, impersonale, spinge per grandi tentativi ― addirittura mondiali – di pianificazione e di controllo dell'economia, la maggior parte dei possessori individuali di capitali si abbandona alla molecolare attività di ricerca di profitto quando non di semplice reddito, che per le mezze classi è ripartizione sociale del profitto. Si ingrossano perciò storicamente le file di professionisti, artigiani, piccole imprese, sottoprodotti della rete di interessi gran-capitalistici alimentata dal cadere delle briciole della proverbiale torta, sempre più striminzita in confronto all'immensa energia sociale occorsa per cucinarla.

E così, mentre noi siamo per la conquista dello Stato e del suo massimo utilizzo al fine di disfarcene definitivamente e buttare questo arnese di dominio fra i ferri vecchi della storia, la classe dominante e il suo codazzo di ignobili non-classi teorizzano da una parte la libertà di traffici ("meno Stato più mercato") ma, nello stesso tempo, dello Stato hanno bisogno come del pane e lo mettono oggettivamente sul piedistallo: primo, perché è l'unico strumento tramite il quale si riesce ancora a far girare il sistema e a mettere un po' d'ordine nel bordello generale; secondo, perché vige l'eterna prassi della privatizzazione dei profitti e socializzazione delle perdite (adesso le chiamano anche "esternalità negative"). Sono intolleranti delle regole ma, non appena si profila un concorrente o la possibilità di rosicchiare una rendita, si appellano alla Gazzetta Ufficiale come a una bibbia, unico appiglio a protezione dai loro simili, mettendo in moto l'esercito degli azzeccagarbugli e dei burocrati. Sono perciò liberisti e statolatri insieme, precipitati tutti quanti ben più in basso del vecchio e austero liberalismo borghese.

Nonostante l'ideologia, benedetta da ultimo con la crociata americana da esportazione, oggi non si assiste ad altro che alla continuazione del processo, inarrestabile, irreversibile, dell'inflazione dello Stato, inteso come controllo e non come espressione di nazione: il Capitale, insofferente delle frontiere, ha avuto bisogno di un piano europeo che già non basta più, dato che gli occorrerebbe un piano mondiale. E la politica, pur parlando a vanvera di programmazione e di fantomatiche infrastrutture (che dovrebbero proiettare le comunicazioni italiche verso il resto del mondo), è ferma alle regioni, alla "libertà" federalistica delle amministrazioni locali (e anche in questo gli smidollati sinistri si sono infognati nell'accettazione più sbracatamente codista e servile).

La necessità di pianificazione mondiale, nonostante le spinte contrarie dei capitali individuali e nazionali, è una tendenza storica irreversibile. In un articolo del 1949 (Inflazione dello Stato, appunto), la nostra corrente faceva notare come le guerre e le rivoluzioni avessero portato a continue ricomposizioni territoriali e che, in epoca capitalistica moderna, lo Stato non facesse che crescere d'importanza e di superficie. La storia non si ripete, ma non può neppure svolgersi in infiniti modi: la Seconda Guerra Mondiale mise in moto la più grande concentrazione di forza, di strumenti, di organizzazione e di tecnologia mai visti per impedire che la Germania sopraffacesse la Polonia e le altre nazioni vicine. Proprio la Polonia, appena riunificati i suoi tre brandelli, fu invece spartita di nuovo fra le due potenze confinanti. Terminata la guerra, fu riunita, ma finì sotto un solo dominatore: "La peggior sorte per una romantica, generosa, civile e libera Nazione con la maiuscola è questa di oggi, la 'spartizione in uno'". Scomparso il dominatore orientale, vinto con i dollari e con il mercato internazionale dei capitali più che con le superbombe e gli eserciti, la borghesia e il proletariato polacchi non sono certo i soli a doversela vedere con un ulteriore effetto della Terza Guerra Mondiale (quella in corso, come diciamo in altro articolo): la marcia verso la "spartizione in uno" del mondo intero.

È proprio nelle ricorrenti velleità di pianificazione o, chiamiamola pure, programmazione, che si vede l'inadeguatezza della classe dominante a… dominare non solo la classe avversa ma il suo stesso sistema economico. C'è un mondo capitalistico oggettivo che spinge verso la pianificazione mondiale (la quale peraltro sta cercando di darsi gli strumenti adatti attraverso la maggiore potenza imperialistica) e c'è un mondo meschino, non solo borghese, legato ai soggettivismi locali, nazionali o, nel migliore dei casi, continentali, che si dimostra anacronistico, antistorico, di fronte all'ascesa grandeggiante del piano generale.

Formidabili conferme

Siamo all'apoteosi del capitalismo dirigista, vera società di transizione, come diceva Lenin, altro che trionfo del libero mercato e balle propagandistiche interessate. Questa è l'epoca della caduta – tendenziale fino a un certo punto – del saggio di profitto: dal 1950 al 1970, in tempi di "programmazione", il valore prodotto ex novo dagli apparati industriali d'Occidente crebbe in termini reali del 4% all'anno e la produttività crebbe del 5,4%. Nell'epoca della presunta sconfitta dello statalismo (peraltro a opera dello Stato), tra il 1980 e il 2000, il valore è cresciuto solo dell'1,6% e la produttività solo del 2,8%. La produttività (cioè la composizione tecnica e organica, più macchine, più organizzazione) cresce più del valore prodotto: ecco una prova formidabile delle leggi scoperte da Marx: sempre più capitale viene messo in moto da sempre meno forza-lavoro e una massa crescente di uomini non serve semplicemente più al sistema attuale. Non fu il liberismo a far cadere valore e produttività, fu al contrario la caduta di valore e produttività a instillare nella testa degli uomini l'esigenza di cercare qualche espediente, uno qualsiasi pur di sfuggire all'incubo della caduta del profitto: ecco perché si è rispolverato il liberismo, già morto e sepolto fra le due guerre (ammesso e non concesso che sia mai esistito), ovvero l'illusione che si potesse, con il miracoloso mercato, con le leggi selvagge della "mano invisibile" di Smith che tutto aggiusta, rimediare alla dittatura inesorabile della legge del valore. Già il capitalismo aveva escogitato quel capolavoro che sono le leggi antitrust, con le quali lo Stato impone il libero mercato ad un capitalismo che per sua natura tende al monopolio. Adesso siamo all'ipocrisia parossistica: siccome i paesi in via di sviluppo non possono subire la concorrenza dei colossi statali industriali, e governano perciò la loro economia e la loro società con regole rigide, ecco che per la libertà di traffici dei paesi maggiori si impone ad essi il "libero mercato", sul quale ovviamente non possono che soccombere. Vediamo allora l'aspirante imperialista unico che predica liberismo a casa d'altri e razzola in casa propria nello statalismo spinto. E siccome in questo modo viene a mancare un altro Stato sufficientemente robusto da rappresentare una minaccia diretta reale, il "nemico" sul piano concreto, ecco che nasce la guerra a tutti quanti per finalità (naturalmente!) del tutto ideali e umanitarie, da scatenare prima che la minaccia si realizzi.

Dal centro dell'impero giungono dunque rumori di guerra sempre più forti; e nessuna guerra, di qualsiasi tipo fosse, è mai stata condotta senza una pianificazione, previa e postuma, come dimostrano i Roosevelt con i Marshall & Soci prima nominati. Sembra del tutto ovvio che proprio i maestri del cretinismo parlamentare, codisti come sono, con i sinistri in prima fila, smettano di balbettare sul liberismo e si diano da fare di nuovo con la programmazione in sintonia con l'imperialismo padrone.

Letture consigliate

  • Friedrich Engels, Antidühring, Opere complete di Marx-Engels, vol. XXV, Editori Riuniti.
  • PCInt., Profeti dell'economia demente, ora in Imprese economiche di Pantalone, nella nostra raccolta Quaderni Internazionalisti.
  • PCInt., Inflazione dello Stato e Ancora sull'inflazione dello Stato, ora in Bussole impazzite, nella nostra raccolta Quaderni Internazionalisti.
  • PCInt., Drammi gialli e sinistri della moderna decadenza sociale, nella nostra raccolta Quaderni Internazionalisti.
  • John Kenneth Galbraith, Il nuovo Stato industriale, Einaudi, 1968.

***

"Io non partecipai ai dibattiti di quel tempo in tema di programmazione. Io ritenevo allora e continuo a ritenere oggi, che il discorso sul programma non dovesse farsi in termini di scelta pregiudiziale. Questa fu purtroppo l'impostazione data al problema della programmazione prima e durante il centro-sinistra, sulla scia del grande - e mi pare inconcludente - dibattito svoltosi nel mondo occidentale. La scelta da farsi non era tra adozione o rifiuto dello strumento programma, ma tra i diversi obiettivi che l'azione pubblica può porsi; se essi implicheranno azioni a non breve scadenza e di grande impegno occorrerà pure stabilire delle priorità. Nascerà quindi quel tanto di programma che i fini voluti richiedono. Da noi invece avviene che, insieme alle polemiche sulla fine del capitalismo o sulla resurrezione dell'economia di mercato, se ne scatenino anche sulla natura del programma. L'alternativa non doveva essere quindi tra programma o non programma, ma fra portare a termine o no il processo di ricostruzione. Era un problema di rapido adeguamento delle nostre strutture ai livelli di quelle possedute da paesi che si erano industrializzati un secolo prima di noi. Poteva il mercato generare una simile trasformazione?"

Pasquale Saraceno, Intervista sulla ricostruzione, 1977

Rivista n. 10