Teoria e prassi della nuova politiguerra americana

(Abstract del numero monografico di "n+1", n.11, marzo-giugno 2003)

Introduzione

Alla base di ogni nostra valutazione politica sta l'analisi che il modo di produzione capitalistico si caratterizza per aver ridotto a merce ogni bisogno umano e che la merce, in sé, non è il suo fine ultimo. Esso è - indubbiamente grazie alla vendita delle merci prodotte - la realizzazione del plusvalore estorto alla massa di proletari inseriti nel processo di produzione. Questo plusvalore - o tempo di lavoro non pagato - una volta che la merce realizza il proprio valore sul mercato attraverso lo scambio, diventa plusvalore: unico motivo propulsore del modo di produzione del capitale e, dunque, della sua accumulazione.

La quantità di plusvalore prodotta diventa allora la "cartina-tornasole" della vitalità del capitalismo: il momento storico del suo processo che è dato - come per ogni organismo biologico - da nascita, maturità e morte. Per usare la classica nostra formula, che sempre meglio impareremo a maneggiare, la quantità del plusvalore prodotto ci mostrerà la parabola del plusvalore, ovvero, la parabola del capitalismo.

Il mondo capitalistico è posto di fronte ad una concreta possibilità di collasso, dovuto alla mancata produzione di plusvalore. Insomma, i "soldi" mancano perché manca il plusvalore".

E' fondamentale leggere i fenomeni eclatanti (vedi 11 settembre, guerra in Afganistan e in Irak) con una chiave di lettura che sia data dai "fondamenti di una teoria della guerra". E' grazie ad una tale teoria che potremmo capire che ogni "singola guerra" non è altro che un momento, un aspetto particolare dell'unica guerra che il capitale mondiale impone agli USA di condurre contro il mondo intero ... per salvare il capitalismo stesso.

E' qui che incontriamo la paradossale contraddizione del capitalismo. Da una parte, è sua legge intrinseca la libera circolazione e contrapposizione delle merci e dei capitali, che favorisce però l'anarchia e il caos di questa stessa produzione e circolazione; dall'altra, esso ha bisogno di un progetto, di un controllo di questa produzione e circolazione che vincoli la libertà sopra accennata.

Vediamo allora che gli USA - strumento del capitale - da una parte sono costretti ad imporre l'"ordine americano" per la libera circolazione del plusvalore mondiale; dall'altra, devono imporre il proprio ordine per impedire la libera e caotica circolazione del plusvalore mondiale (dunque, controllo e progetto su tali flussi). Oltre a ciò, gli altri paesi imperialisti devono contrapporsi agli USA per non rimanere strangolati dalla mancanza di plusvalore, nello stesso tempo in cui devono assoggettarsi alla grande potenza per non rimanere ugualmente strangolati dal caos della circolazione mondiale.

Insomma, gli avversari dell'America sono costretti a morire d'asfissia "graduale" per sfuggire quella caotica, nello stesso tempo in cui l'America deve morire per iper-ossigenazione per sfuggire l'asfissia.

I° - Basi oggettive della guerra senza limiti

Luttwak scrisse nel 1976 un libro sulla strategia dell'impero romano al fine di mostrare come fosse possibile trarre qualche esperienza dall'antica storia. Egli afferma - comunque già prima ne aveva parlato Stalin, e soprattutto Tukacevsky, mostrando come ormai non si potesse parlare più di guerra fra eserciti, ma guerra fra nazioni - che ci troviamo oggi di fronte alla prospettiva non di un conflitto decisivo, ma di un permanente stato di guerra, e che, partendo da una tale considerazione, la vecchia lezione del generale prussiano avrebbe perso tutto il suo valore e che, per tal motivo, oggi vi è gran bisogno di "nuovi ideologi militari".

Accettiamo indubbiamente il fatto che le "armi di distruzione di massa" abbiano portato all'accelerazione della comprensione che parlare di guerra già fin dall'inizio del 1900 aveva significato solo se si parlava di guerra fra nazioni (concetto comunque tutt'altro che estraneo a Clausewitz) e che nella situazione attuale si debba parlare di permanente stato di guerra. Stupide sono le affermazioni del tipo: "oggi è ridicolo prendere lezioni da Clausewitz". Nuovi ideologi militari? Ma se è proprio von Clausewitz che introduce per la prima volta la dialettica nello studio della guerra e ne dà una teoria dinamica, dove regnano le relazioni, i paradossi dovuti all'unione degli opposti ed il gioco continuo delle trasformazioni fra quantità e qualità.

Non accettiamo dunque il giudizio di Luttwak su Clausewitz, ma siamo d'accordo con lui a proposito del declino degli USA e soprattutto sul fatto che il declino della loro potenza ha affetti catastrofici per il mondo intero.

Ma il declino è inarrestabile. Le analogie possibili con l'impero romano finiscono, perché non c'è sangue dei barbari oltre i limes, perché non ci sono più i limes. Le frontiere dell'imperialismo sono ormai frontiere interne e l'unico scontro generale possibile è quello fra l'impero in decadenza irreversibile e la rivoluzione comunista della specie. Borghesia e proletariato sono le classi che saranno strumento di questo epocale scontro.

Quante stupidaggini sull'impero

Comprendere gli scopi della guerra significa andare oltre l'aspetto fenomenico di questa o quella battaglia. Il reale obiettivo della guerra è dato dalla sua dinamica: dalle relazioni umane che le stanno a monte e da tutto l'insieme delle relazioni a livello geo-storico.

Parlare di impero americano è in ogni caso una sciocchezza perché, se è vero che l'America tende a dominare il mondo (ne avrebbe bisogno lo stesso capitalismo), è pur vero che il capitalismo si basa sulla differenza fra le industrie e sulla concorrenza che tende ad eliminarla e poi ancora ricostituirla in un infernale rincorrersi per non uscire dal mercato. Tutto ciò si riflette a livello degli Stati. E' normale che fra questi ne possa emergere uno. Ma non può durare "in eterno".

La guerra preventiva dell'America è dovuta non alla volontà di durare "in eterno", ma ... almeno un po'! Questa guerra preventiva degli USA non è diretta tanto contro l'Afganistan o l'Iran quanto contro ogni velleità "europeista" o "islamica" o "cinese" che le si volesse contrapporre.

L'Europa è un gigante economico - pur essendo un nano politico. La sua moneta (Euro) sembra pesare sempre più sui mercati internazionali dove sempre più paesi sembrano convertire la propria valuta in Euro. Importante ricordare che, se alla sua nascita il rapporto Euro/dollaro era di 1/0,9, è ora di 1/1,2: appare evidente che se petrolio e materie prime vengono pagate in dollari, la quantità di queste acquistate aumenta del 33% se pagate in Euro, con enormi benefici per il proprio tasso di profitto finale.

Se consideriamo che buona parte delle riserve valutarie di Russia e Cina stanno convertendosi in Euro, è facile capire che al momento in cui l'Europa diventasse una realtà unitaria, per gli USA - ed i suoi dollari - sorgerebbe il tempo dei sorci verdi.

Se a ciò aggiungiamo la prospettiva di una unitaria finanza islamica, diventa chiaro l'obiettivo della guerra preventiva dell'America.

II° - Il secolo delle guerre mondiali

Prima di cominciare a sviluppare qualsiasi discorso sulla guerra in corso, bisogna dare una definizione della stessa. Con Clausewitz affermiamo che la guerra è un atto di forza per costringere l'avversario a sottomettersi alla nostra volontà; dunque, la forza è il mezzo e la sottomissione dell'avversario è lo scopo.

Osserviamo che con questa classica definizione, la guerra non è data solo dallo "scoppiettio" in atto delle cannonate (v. a tal proposito anche il nostro "Forza, violenza e dittatura", dove si precisano i concetti di violenza "potenziale" e violenza "in atto"). Va ricordato lo stesso capitale di Marx dove si precisa che il costante rapporto fra borghesia e proletariato - il costante rapporto fra salario e plusvalore (= saggio del plusvalore) è espressione di una guerra civile latente.

Detto questo, è evidente che l'"11 settembre" può essere soltanto un episodio della guerra; quindi, una scusa propagandistica ma non certo il motivo propulsore delle successive guerre in Afganistan e Irak.

La guerra è un processo globale e storico che vede gli Stati Uniti uscire vincitori in un mondo capitalistico ormai "unipolare". A pag. 14 è inserita una tabella esemplificativa che aiuta a comprendere il processo di centralizzazione del mondo capitalistico, attraverso le fasi di ascesa mondiale del capitale targato USA.

E la rivoluzione?

Da parte nostra ci sforziamo di mostrare che non bisogna subire il fascino reverenziale della potenza degli Stati Uniti. Se le forze rivoluzionarie dovessero contrapporsi all'unipolarismo USA dopo accumulo di pari armamento (cannoni, bombardieri, ecc.), non vi sarebbe salto qualitativo per alcuna rivoluzione. Il nostro testo lo dice chiaramente: guerra imperialista e rivoluzione, non vanno messe in temporale sequenza, ma in antitesi: se avanza una controrivoluzione è per contrastare una rivoluzione in atto.

Ma torniamo un po' indietro. Perché, con tutti i problemi urgenti che si potrebbero affrontare, si va a riesumare un vecchio libro di un generale prussiano e, particolarmente, le sue 28 tesi iniziali? E' presto detto: 1) per dimostrare ancora una volta la potenza del metodo di astrazione; 2) per mostrare il legame dialettico fra guerra e politica; 3) per mostrare come già il vecchio Clausewitz avrebbe potuto capire che la guerra è data dalla natura del capitalismo e non da questa o quella politica, come potrebbe sostenere un odierno Kautsky. A rigor di logica, non può dunque esistere un imperialismo "americano", o "tedesco", o "cinese". Esiste la fase imperialistica del capitalismo.

Come insegna già Clausewitz, lo studio della guerra non può essere affrontato per elementi discreti, per "grani", ma come un insieme organico.

"Vom Kriege non è un libro sulla guerra, ma un prodotto della guerra" che sopravvive nel tempo. Come tutte le opere prodotte in una fase storica di profonda rottura rivoluzionaria, esso potrà essere inglobato da teorie successive, ma mai distrutto.

La guerra trattata dal von Clausewitz è una forma della politica. Per tal motivo, ai vari neologismi che il processo storico ha creato (dal concetto di geopolitica a quello di aree geostoriche; da quello di geoeconomia a quello di geoguerra), la nostra rivista aggiunge il concetto di politiguerra. L'opera di von Clausewitz è duratura nel tempo perché anticipa il fatto, diventato eclatante con l'imperialismo che la vera politica di quest'epoca non è distinguibile dalla guerra.

Occorre ricordare anche un antico generale cinese, Sun Zu, vissuto circa 2500 anni fa. Questo cinese viene ricordato, accanto al prussiano ed accanto alla "teoria dei giochi", per ribadire che la guerra - al di là di ogni aspetto fenomenico - si basa su alcuni principi generali che non sono attribuibili ad una classe o all'altra. Semmai le rivoluzioni introducono nuovi metodi che poi ogni classe addotta se si mostrano efficaci. Ad esempio, le affermazioni di Sun Zu "il controllo dei molti è uguale alla gestione dei pochi", oppure "controllare molti è come controllare pochi, è solo un problema di disposizioni e di segnali", sono regole generali che troviamo pure in Clausewitz e nella teoria dei giochi.

Questo vale ovviamente anche per la rottura rivoluzionaria che il comunismo imporrà, ed è per tale motivo che neghiamo la possibilità di esistenza di una "dottrina militare proletaria". Al massimo, si possono introdurre nei principi generali quelle che sono le caratteristiche specifiche della propria rivoluzione.

L'esistenza di una "dottrina militare proletaria" presenterebbe una palese contraddizione di termini in quanto una qualsiasi dottrina si caratterizza per il suo scopo e lo scopo del proletariato è quello di negare - con tutte le classi - anche se stesso. L'esistenza dunque di una "dottrina militare proletaria" avrebbe senso solo se negasse l'esistenza di una tale "dottrina militare proletaria".

Possiamo però parlare della necessità di una teoria comunista della guerra imperialista. Per tal motivo è utile partire dal livello teorico più alto: appunto il Vom Kriege del Clausewitz. Questo per evitare di cadere in certi giudizi e banalità, che "più che crimini diventano errori" (parafrasando il Talleyrand).

Partire dai 28 punti di Clausewitz ci permetterà di vedere con maggiore chiarezza quanto sia velleitario il "progetto" di unificazione mondiale degli USA.

Non è la "violenza-Usa" che noi condanniamo. Bismark, nella sua epoca, non usò certo una violenza inferiore. Ma la sua era violenza rivoluzionaria, perché portò all'unificazione della Germania. Quella USA è controrivoluzionaria, perché non può unificare un bel nulla: suo scopo fondamentale è, da una parte, bloccare sul nascere ogni velleità di possibili concorrenti al proprio dominio mondiale e, dall'altro, fermare l'assalto della società nuova: fermare il mondo nella sua corsa irreversibile verso di essa.

Contro le velleità del capitalismo conservatore, come contro quelle dei "partigiani di ogni fronte"; contro le congetture ed i piani più astrusi ed idealistici, noi ricordiamo che "la guerra non è un fenomeno che si lasci adoperare".

III° - Ventotto tesine senza tempo

1. - Le parti e il tutto

Tesi classica di von Clausewitz è che "la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi"; tesi che non deve essere solo letta e ripetuta a memoria: essa dev'essere pure digerita. "Guerra" e "politica" non sono enti che si contrappongono come ogni buon pacifista potrebbe ritenere. "Guerra" e "politica", come "guerra" e "pace" sono elementi di un'unica realtà nella quale convivono. Ormai la guerra è lo stato permanente di una società basata sulla continua concorrenza fra individui, aziende e Stati. La pace non esiste più. Il fenomeno è strettamente connesso ad un altro: la cronicizzazione della crisi di accumulazione.

Per definire il concetto di "guerra", von Clausewitz deve definire quello di "politica". Se la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi, allora anche la politica è la continuazione della guerra con altri mezzi, e la politica non è altro che l'intelligenza dello Stato: La guerra non è altro che una delle forme sotto cui si presenta l'intelligenza dello Stato.

Il metodo adottato dal generale prussiano è a noi familiare e ben illustrato ad esempio nell'articolo su Einstein, che a sua volta si basa su "Per la critica dell'economia politica" di Marx. Si parte dall'insieme caotico per cogliere le determinazioni più semplici (gli invarianti) e da qui ritornare all'insieme complesso che finalmente si riesce a decifrare.

Dunque, se la politica è l'intelligenza dello Stato, essa ne rappresenta l'andamento economico e sociale. L'azione dei singoli e dei gruppi va analizzata in rapporto a tutta la dinamica rappresentata dallo Stato, dalla sua storia e dallo sbocco cui questa dinamica conduce.

Nel Von Kriege i "grani" di storia si sono ordinati da soli grazie all'ondata della rottura rivoluzionaria borghese. L'insieme organico si impone e l'attualità viene sopraffatta.

Che lezioni trarne? Cosa c'è stato prima dell'11 settembre 2001. Quale concatenazione continua dobbiamo rintracciare invece di limitarci ad un semplice elenco di incomprensibili avvenimenti discreti?.

Quale percorso seguire, quale astrazione dobbiamo operare?

2. - Tre assiomi

Per definire il concetto "guerra", bisogna ricorre a pochi semplici assiomi e ricordare che questa può essere qualcosa che non si combatte sempre con spade e cannoni. Le tre categorie semplici sono dunque "atto di forza", "imporre la propria volontà" e "avversario".

Il concetto di "guerra", dunque, si allarga a tutte le possibili relazioni presenti in natura. Su questa base ci chiediamo se tale concetto può essere considerato un invariante universale, presente pure nella società futura: problema che si presenterà nella forma di dialettica interna alla società, mantenimento della positiva bio-diversità anche all'interno della nostra singola specie, incoraggiamento di dinamiche assolutamente necessarie affinché qualunque società non precipiti nel ristagno e quindi nella decadenza.

Tornando ai nostri tre assiomi, sottolineiamo che il fondamentale è il terzo: "avversario", ed il capitalismo ha fondamentalmente tre avversari: 1) ogni forma sociale sopravvissuta del passato, 2) ogni forma di concorrenza, 3) ogni forma di lotta che sia espressione della società futura.

Non si può comprendere nulla della guerra in corso se non si inserisce ogni suo singolo aspetto in un tutto dinamico. Ma allora, se si riesce in questo, si comprende bene che il nemico fondamentale diventa la marcia della società futura e si comprende che la guerra del capitale contro di essa si svolge solo in minima parte con i cacciabombardiari e con i militari di professione; la parte preponderante dell'esercito borghese è formato da un'armata molto più potente e coinvolgente, fatta di polizia, magistratura, scuola, famiglia, consumi, ecc..

3. - Sul principio moderatore

Nell'analisi del processo di produzione e circolazione, capita di "discretizzare", a fini didattici, il movimento del capitale: M-D-M-D ..., oppure D-M-D-M ... , avendo ben chiaro che non si vuole introdurre un "elemento primo" di partenza. Sarebbe come cadere nell'infantile storiella dell'uovo e della gallina.

Allo stesso modo, per comodità di linguaggio, a volte capita di discretizzare la situazione generale di guerra in guerra-pace-guerra-pace ... Come per il caso precedente, pure questa discretizzazione non va assolutizzata: si cadrebbe nell'errore (peggio del crimine!) della "teoria del battilocchio" (o del cattivo).

Dunque, sulla base delle nostre tre categorie semplici siamo costretti ad affermare che la guerra guerreggiata è dunque la continuazione non tanto della politica quanto di un'altra guerra non condotta con le armi.

Nella condotta della guerra non vi può essere un principio moderatore. Il solo principio moderatore, dice von Clausewitz, può provenire dalle ragioni che la originano, dai rapporti fra le nazioni che sono giunte a combattersi; perché la guerra trae origine da determinazioni precedenti e farà più o meno leva sulle emozioni a seconda non del grado di civiltà, ma della grandezza e durata degli interessi in conflitto.

Affermare che vi possa essere un'etica, un "principio di moderazione", è solo propaganda mediatica subito messa da parte quando gli interessi battono cassa.

4. - Sul libero arbitrio

Libertà: parola senza senso in ogni sistema di interazioni.

La guerra fa esplodere l'impiego assoluto della forza e le chiacchiere sul "diritto delle genti" sono appunto solo chiacchiere. Al di là di tutte le stupidaggini dette sull'11 settembre 2001, resta il fatto che l'azione degli USA era già programmata dalla loro stessa storia, ed infatti il governo agì secondo schemi sfacciatamente prestabiliti.

Se la guerra è - e lo è - un "atto di forza per imporre la propria volontà all'avversario", si può affermare con sicurezza che essa si è svolta, e si svolgerà soprattutto in futuro, in modo sotterraneo fra le potenze concorrenti durante un lungo processo che dalla caduta dell'URSS ha portato gli Stati Uniti ad avere basi permanenti in Arabia, Kuwait, Oman, Qatar. Georgia, Armenia, Afganistan, Uzbekistan, ecc., lungo un asse che unisce anche via terra, quasi concludendolo, il loro circuito aeronavale planetario. Ci vuol poco a capire che il "quasi" si elimina congiungendo l'Irak all'Afganistan, cioè eliminando il regime iraniano e facendo della Cina il futuro obiettivo.

Ecco allora che se si vuol unire il problema del petrolio a quello della guerra, vediamo che esso non è solamente un combustibile, quanto soprattutto un'arma.

Chiudendo questo capitolo sul libero arbitrio, osserviamo che gli Stati Uniti non sono liberi di lasciare che il mondo possa assestarsi secondo proprie tendenze spontanee. Come dire: la negazione del libero arbitrio non si impone esclusivamente a chi deve subire l'effetto di una qualsiasi forza, ma anche a chi impone la forza.

5. - L'estremo della guerra

Due avversari possono scontrarsi quando entrano in un campo di simmetria (il nostro testo parla semplicemente di simmetria, pag. 31). Se all'interno di questo campo si raggiungesse l'equilibrio perfetto, non potrebbe esservi scontro, perché la difesa sarebbe perfettamente simmetrica all'offesa: le due forze si annullerebbero. Se invece una delle due uscisse da tale campo simmetrico, ugualmente non vi sarebbe scontro, per l'evidente disparità delle forze. Il problema, dunque, per due avversari e quello di spostare l'equilibrio simmetrico a proprio favore. Questo è un compito permanente per ognuno dei contendenti, perché nella concorrenza fra capitalisti all'interno di uno Stato, vige il motto mors tua, vita mea. Figuriamoci nella concorrenza spietata fra Stati capitalisti sul mercato mondiale per la conquista di un proprio spazio vitale.

La guerra moderna non presenta il classico "fronte" fra contendenti; per tal motivo, dal momento che la società intera partecipa alla guerra senza fronti, ecco che questa stessa società viene trattata come un esercito in guerra.

Perfino le ONG (organizzazioni non governative) diventano strumenti di guerra, perché sono chiamate a rattoppare i "disastri umanitari" provocati dagli eventuali bombardamenti. I compiti del dopoguerra ai militari non interessano più, è la politiguerra che ha bisogno di strutture supplementari.

6. - Determinazioni del futuro

L'analisi del corso del capitalismo mondiale (v. Programma Comunista, anni '50/60, oltre al nostro Quaderno n.1) ci mostra la sua inesorabile marcia verso la catastrofe. Essa mette bene in evidenza: 1) l'affievolirsi sempre maggiore delle sue violente oscillazioni verso la linea dello zero del coma irreversibile; 2) la sincronizzazione delle economie maggiori, dunque l'impossibilità di trovare la salvezza nella "mors tua, vita mea" (ora: mors tua, mors mea); 3) l'irreversibilità della parabola.

La crisi degli USA e dell'"Europa" è accentuata dal fatto che sulla scena mondiale si affacciano paesi come la Cina e l'India la cui crescita reale marcia intorno al 5% annuo.

Nemmeno la fantomatica lotta alla povertà dei paesi poveri può rilanciare l'accumulazione, perché bisognerebbe dirottare buona parte del plusvalore prodotto verso questi ultimi per poter costituire le basi di un rilancio della circolazione mondiale, ma questo significherebbe togliere il plusvalore-ossigeno alle asfittiche economie occidentali. Sarebbe la riedizione del peso el tacon del buso.

Di fronte a questa crisi è tutto uno spuntare di palliativi con presunzione di "teoria". Fra le ultime quelle dei neoconservatori americani che in realtà non fanno altro che rispolverare vecchie teorizzazioni degli ex trotsckisti James Burnham e Bruno Ricci (rispettivamente con la Rivoluzione manageriale e La burocratizzazione del mondo). Queste teorie hanno la pretesa di scoprire chissà quale nuova realtà partendo dal fatto che i menagers d'industria stanno diventando i veri gestori del potere politico.

Siamo alle solite: non siamo in presenza di chissà quali scoperte se non si dimentica che già Marx ed Engels avevano parlato della progressiva inutilità dei capitalisti - sostituiti via via dagli stessi salariati d'industria - e relegati ormai a semplici tagliatori di cedole del capitale azionario. Comunque, al di là di specifici giudizi che si possono dare a questi "neocons", va riconosciuto che questi ibridi politici sostengono apertamente da molti anni la necessità di un'azione diretta degli Stati Uniti per un controllo mondiale a partire da un ridisegno del mondo capitalistico.

Non sarà mai sottolineato abbastanza che se è vero che sono un "pugno di intellettuali neocons" a stendere delle pezze teoriche per l'azione degli USA, è pur vero che questo pugno di intellettuali poggia su di una vera e propria ossatura sociale. La sua rozzezza teorica non conta nulla per il semplice motivo che 'ha ragione' per forza: fra tutti i paesi del mondo solo gli Stati uniti potrebbero rappresentare la salvezza capitalistica. Nessun accordo è possibile su questo argomento, la politica globale deve essere per sua natura unilaterale.

7. - Complessità della guerra come processo

La guerra è un processo che ingloba tutti quegli elementi fenomenici quali '11 settembre", Afganistan, Irak, ecc. Termini come 'terrorismo', 'bin laden', 'bene', 'male', 'civiltà', ecc., diventano solo ingredienti delle varie misture con cui si condisce la droga del consenso. Le stesse che, con segno negativo, condiscono il dissenso quando non si esce dai meccanismi della società esistente. Come c'è sempre simmetria in una qualsiasi guerra, così c'è sempre simmetria nella pura e semplice 'opposizione' alla guerra borghese. Per spezzarla occorre mettersi completamente al di fuori dei campi avversari. Indignarsi contro la "sopraffazione americana", contro l'"imperialismo americano" è stupido. Gli Stati Uniti fanno semplicemente gli Stati Uniti.

La 'vecchia Europa', come la chiama beffardamente Rumsfeld, piange di fronte alla tabula rasa fatta dagli americani della sua già frammentata sovranità nazionale: ma se la prenda con se stessa per aver permesso al suo avversario di sfruttare fino in fondo un'intelligenza militare più risoluta.

8. - La guerra non è un urto istantaneo

La guerra imperialista moderna, 'incomincia' mettendo in moto ben più degli eserciti e 'finisce' dopo aver dato luogo a una serie di premesse per ulteriori sviluppi. Si pensi al Trattato di Versailles del 1918, al piano americano del 1945: piani che chiudono un periodo storico per aprirne di nuovi e ben più "conflagranti".

Alla banale osservazione del "si sa come comincia, ma non si sa come finisce", la nostra rivista contrappone la ben più corposa osservazione di Engels: ogni guerra comincia con le modalità e tecniche con cui era terminata la precedente. Nella Prefazione a Le lotte di classe in Francia, Engels parla della "impossibilità per ogni guerra moderna, dopo il 1870 in Europa, di essere locale. La guerra sarà ormai sempre mondiale".

E di fronte a questo mondo in oramai perenne guerra, a proposito delle possibili alleanze antiamericane, osserviamo che l'Europa (ammesso e non concesso che si possa parlare di Europa in senso unitario) è esattamente in una situazione del genere: da quando è caduta l'URSS si comporta come se nei suoi ministeri vi fosse insediato direttamente un proconsole americano. Se ciò poteva considerarsi "normale" quando era praticamente occupata dalle truppe USA, nello scenario storico attuale un simile scenario stride enormemente. Diventano persino ridicoli i sussulti di indipendenza su punti d'inconsistenza totale, come la legittimità o meno della guerra all'Irak fatta dipendere da quel serbatoio di chiacchiere e corruzione che è l'ONU.

9. - Relatività dei risultati della guerra

Può sembrare assurdo - ma non per questo meno vero - che il rapporto fra lo sviluppo del commercio mondiale e la produzione dei massimi paesi al mondo è ferma al 1913. Da questo punto di vista dunque, il XX secolo si caratterizza per una situazione internazionale bloccata sulla difesa a oltranza della crescita interna, per cui ogni paese, liberoscambista per quanto riguarda le proprie merci e protezionista per quanto riguarda quelle altrui, agisce oggettivamente contro l'estensione del mercato mondiale.

La teorizzazione della guerra infinita viene dunque a cadere in un mondo che, oltre a non risolvere i problemi per cui ha combattuto due (o tre, dipende) guerre mondiali, ne ha fatto sorgere di nuovi e più tremendi (vedi i dati statistici sulla povertà).

Data la situazione, si può dire che è lo stesso capitalismo a piantare una vera e propria 'fabbrica sociale di terroristi' provenienti da tutte le classi. Un esercito potenziale che può alimentare tutte le diseredate guerre infinite, da una parte, e, dall'altra - simmetricamente -, piantare una 'fabbrica sociale di partigiani'.

E grazie a questi serbatoi di "carne umana" che possono aver corso le cosiddette proxi wars: guerre per procura.

10. - Sulla moderazione verso l'esterno

La cosiddetta attività di intelligence è fondamentale per conoscere le intenzioni e la reale forza di un avversario.

Sappiamo bene comunque che qualunque processo di acquisizione delle informazioni si accompagna con la perdita di una parte delle stesse e questo implica ripercussioni nella tattica e nella strategia, perché un margine di non-conoscenza produce un'incertezza che allontana la guerra dall'assoluto e fa intervenire elementi di moderazione.

Alla base del Quadrennal Defense Review Report del 30 settembre 2001 veniva descritto lo scenario uscito dalla guerra fredda ed esso veniva descritto fluido e imprevedibile. In esso si legge che il comportamento militare della superpotenza deve abbandonare i criteri basati sulla minaccia rappresentata da un nemico ben conosciuto e quindi ben valutabile dal punto di vista del pericolo accertato; deve invece prepararsi ad affrontare il nemico probabile, studiare quale potrebbe essere e prepararsi a prevenire gli attacchi di una guerra definita asimmetrica. Ora la dottrina militare contempla la possibilità che proprio gli Stati Uniti stessi diventino un obiettivo e siano attaccati sul proprio territorio, dal loro stesso interno.

11. - Obiettivo politico della guerra

L'obiettivo politico della guerra in questa fase (USA-IV), dato un processo di decolonizzazione ormai irreversibile, non può essere quello del dominio territoriale diretto. Agli USA conviene l'esistenza di borghesie nazionali in grado di vivere in maniera indipendente, pur se legate "a doppio filo" a quella americana (vedi l'esempio della Germania, Italia e Giappone, dopo il 1945).

La difficoltà è data dal fatto che in questo avvio di guerra infinita non è ancora chiaro lo schieramento generale e gli americani non si fidano di nessuno. Fondamentale risulta dunque l'azione di intelligence.

12. - Sulla sospensione della guerra

Come, durante le operazioni belliche, la "sospensione" è un concetto che ha a che vedere con l'osservazione, con il raccogliere le forze per un nuovo attacco, e non ha nulla a che vedere con la pace, così, il prevalere di un periodo di azione politica-diplomatica non ha nulla a che vedere con la sospensione della contrapposizione fra avversari, fra Stati; quindi non ha nulla a che vedere con la sospensione della guerra.

Dunque, le dichiarazioni sulla guerra infinita - a tempo "indeterminato" - sono espressioni della presa d'atto che tutto il secolo trascorso è stato un secolo di guerra. La guerra infinita non diventa tale perché la si dichiara; al contrario, la si dichiara perché finalmente si prende atto della sua esistenza.

La cronica crisi di produzione del plusvalore e quindi di autovalorizzazione del capitale porta a questa situazione.

In ogni caso, la guerra del capitalismo può essere sicuramente duratura: non certo infinita.

Condanniamo pure la tesi possa rilanciare l'accumulazione del capitale, perché la formazione di valore dovuto alle "spese militari" è insignificante rispetto all'insieme dell'economia.

Concludendo. Il problema "tempo" - sulla durata e sulle sospensioni delle operazioni belliche - non dipende da fattori locali, ma globali. Da ciò deriva, dato che non si possono controllare tutti gli elementi di questo fenomeno globale e complesso, che è impossibile prevedere corsi e punti di arrivo di un'azione bellica.

Ciò non ha nulla, ovviamente, a che vedere con la critica del determinismo fatta a von Clausewitz: sono gli uomini ad avere incapacità di conoscenza, nonostante i fatti si muovano in maniera concatenata, causale e deterministica.

13. - Ricerca del non-equilibrio

Il modo di produzione capitalistico è concorrenza (guerra) continua sul mercato per piazzare le singole merci e realizzare plusvalore. Da ciò arriviamo alla considerazione che la ricerca del non-equilibrio, già insita nella dinamica del capitalismo in generale, si riflette via via nei comportamenti delle borghesia nazionali concorrenti, dei capitalisti singoli che cercano di sopraffarsi l'un l'altro e, in ultima istanza, nel modo di fare la guerra, in campo politico, economico e propriamente militare. La guerra non sarà mai più quella di un tempo, perché la rivoluzione borghese l'ha permeata della stessa violenza assoluta che è stata ed è necessaria alla nuova classe dominante per conquistare i mercati. Non si gioca più su un teatro vasto quanto alcuni campi di grano [come avrebbero "desiderato" i vecchi ufficiali contemporanei di Clausewitz] ma su interi continenti; non si mettono in campo solo soldati e baionette ma l'intera società ed il suo complesso di relazioni.

Ogni sosta deve essere vista come migliore preparazione per la successiva offensiva e sarà avvantaggiata quella parte che riuscirà ad arrivare ad una situazione di non-equilibrio all'interno di quel campo di simmetria di cui si è parlato in precedenza. I fattori di vittoria stanno nella sorpresa ed in tutto ciò che riguarda la preparazione degli scontri decisivi, dall'intelligence ai nuovi armamenti, esattamente come specificato nelle "nuove" dottrine americane, così ben descritte già da von Clausewitz.

14. - Continuità delle operazioni e tendenza all'estremo

La guerra oggi non ha nulla a che vedere con le grandi battaglie campali di un tempo (vedi i 70.000 morti a Lipsia nel 1813; battaglia della Somme nel 1916, con più di 1 milione di morti). Oggi possiamo parlare di industrializzazione della carneficina ed i momenti di "pausa" non sono altro che preparazione preventiva ad un successivo scontro.

Vedi Paul Wolfowitz che fin dal 1992, appena collassata l'URSS, propugnava un'immediata preparazione al fine di stroncare preventivamente la eventuale rinascita di una rivale potenza globale (vedi Excerpt of Defense planning guidance, 1992, New York Time).

15. - Principio di polarità

Si ha polarizzazione in campo sociale/militare quando gli interessi contrapposti non ammettono sfumature, il compromesso è impossibile e la società presenta schieramenti obbligati, quindi disposti a battersi per un fine estremo, ovvero per la scomparsa, l'annullamento di uno dei due. E' quello che abbiamo sempre chiamato dualismo di potere (vedi Russia 1917): è in una situazione del genere che entra in gioco la "volontà"; è in quella situazione che può verificarsi il rovesciamento della prassi.

Va detto tuttavia che il principio di polarità perfetto non esiste. Parliamo di campo di simmetria proprio perché le forze contrapposte cercano continuamente di spostare l'equilibrio a proprio favore. Attenzione: nonostante vi possano essere anche delle enormi differenze fra due contendenti, lo scontro può risultare possibile, purché vi sia questa relazione di polarità, o relazione simmetrica.

Qui sta il nocciolo della nostra critica ad ogni proposizione sulla possibilità della "guerra asimmetrica", perché uno squilibrio evidente dal punto di vista quantitativo può rivelarsi un equilibrio dal punto di vista delle relazioni qualitative.

16. - Attacco, difesa e principio di polarità

Attacco e difesa si pongono in un rapporto di polarità quando il peso specifico delle due forze si presenta in rapporto inversamente proporzionale, relativamente alla situazione specifica: può essere che la difesa formata da 1000 uomini e l'attacco formato da 2000 si annullino a vicenda. Nella guerra moderna, il rapporto difesa-attacco diviene ancora più difficile da esaminare, ma in ogni caso non potremmo mai parlare di possibilità "asimmetriche".

L'11 settembre è stato per gli USA indubbiamente un fatto shockante, ma non è stato quell'avvenimento a dar vita all'attuale strategia americana la quale era già chiaramente impostata, come ben illustrato dalla tabella n.2 di pag. 52. Occorre dire ad ogni modo, che la strategia USA mette pesantemente in causa il principio di polarità.

Gli Stati Uniti stanno attaccando? e attaccando chi? Si stanno difendendo? E difendendo da chi?

Una potenza declinante è per definizione conservatrice, quindi in difesa. Nel caso degli USA questa condizione diventa assolutamente macroscopica. Le misure che i loro avversari concorrenti mettono in campo e che vanno dalla costituzione di blocchi economici alla costituzione di monete transnazionali, dalla pesante ristrutturazione della divisione internazionale del lavoro alle forme di reazione "terroristica" diffusa, ecc., sono considerate in blocco dagli americani come una vera e propria aggressione militare. Ed è vero, perché la storia del processo di accumulazione ha portato ad un drastico ridimensionamento del peso economico degli Stati Uniti rispetto all'insieme degli altri paesi. Nella ipotesi clausewitziana di equilibrio nella politiguerra ciò richiede di per sé un aumento della potenza militare.

17. - Difesa, attacco e sospensione dell'azione

I neocons accusano gli USA di essere stati incapaci di comprendere che, con gli anni '90, il mondo era diventato unipolare e, quindi, di non aver saputo adeguare la propria struttura militare ai nuovi compiti.

Noi contestiamo questa visione: se con la caduta dell'URSS era venuta a mancare la situazione di polarità, non erano venute a mancare le armi offensive alla Luttwak [che] aveva sparato bordate micidiali. Questo nonostante tutte le sciocchezze dei sinistri e dei pacifisti che vedono l'uso delle armi solo quando fanno ... bum!. Insomma, la fine della fase USA-III vede la caduta del bipolarismo per il semplice motivo che gli avversari degli USA non possono affrontarlo direttamente; in poche parole, sembra proprio che gli USA non abbiano nulla da attaccare e niente da cui difendersi. Insomma, si era stabilizzato un sistema che fino alla crisi della cosiddetta new economy aveva permesso un equilibrio da imperialismo unico rentier cui gli Stati clienti versavano un contributo al 'padrone' per la sua sopravvivenza, e quindi in ultima analisi anche per se stessi.

In questo nuovo mondo unipolare, l'"Europa" ha continuato a mostrarsi come quella vecchia accozzaglia di nazionalismi che è sempre stata e non si può certo pensare ad una sua capacità di mostrare i muscoli contro l'America.

Detto questo, lo scenario presenta la possibilità di obiettivi (per gli USA) quali Corea, Siria, e soprattutto Iran, che geograficamente si frappone fra Irak e Afganistan. Gli Usa si apprestano dunque a marciare a grandi passi verso il controllo del mondo.

Ciò provocherà l'inevitabile contraccolpo. La guerra che l'America crederà di aver vinto, provocherà vincoli insopportabili. La borghesia americana non potrà ovviamente sopprimere né le borghesie nazionali né soprattutto il proletariato e gli strati oppressi che non tarderanno ad esplodere; altri Stati canaglia di peso specifico un po' più consistente si aggiungeranno alla lista: poniamo Russia, o Giappone, o Cina, o Germania, ecc..

18. - Disequilibrio dell'informazione

Al fine della vittoria nella guerra è fondamentale il lavoro di intelligence (spionaggio), ed anche da questo punto di vista sembra difficile muoversi contro gli Stati Uniti.

I superfalchi americani vorrebbero un ulteriore balzo centralizzatore rendendo tutto l'apparato militare perfettamente sinergico, ma a questo proposito possiamo riscontrare un difetto di principio: la massima centralizzazione data dalla tecnologia e dalla gerarchia militare è incompatibile con la necessaria flessibilità delle forze (pag. 57). Si ripropone il dualismo Karpov contro computer, o Clausewitz contro Jomini. La tattica e la strategia militare può essere vincente solo se autoadattativa in rapporto all'evolversi dell'avversario e dell'ambiente. Oltre a ciò, si deve considerare che la gran quantità di informazioni raccolte fino ad un certo momento possono perdere il loro valore data la continua evoluzione dei rapporti con Stati amici o presunti tali.

Cosa ancora più importante: se, come abbiamo detto in pagine precedenti, non è solo l'esercito ad essere in guerra ma tutta una nazione, è evidente che il difetto di principio di cui parliamo si presenta in modo ancora più macroscopico. Infatti, sempre dal documento sulla guerra preventiva, possiamo leggere che, dal momento che le minacce provenienti da governi e gruppi stranieri possono essere portate all'interno degli Stati Uniti, dovrà essere assicurata la giusta fusione fra l'intelligence e sistema legislativo. Perciò dovrà essere controllato non solo il mondo, ma soprattutto la popolazione americana, l'unica in grado davvero di far saltare i piani per l'assurdo universo americanizzato.

E' proprio il caso di ripetere: ben scavato, vecchia talpa!

19. - La guerra ed il calcolo della probabilità

Si registra in Irak un fenomeno diverso rispetto a quanto accaduto nel 1945 in Europa e Giappone. In Irak, oggi, gli USA registrano un fenomeno di incertezza: la guerra si allontana dall'"assoluto". Crolla la polarità dello scontro; gli USA rischiano di trovarsi invischiati in una situazione dove manca la chiara simmetria del combattimento. Vi è una palpabile mancanza di strategia; piani precisi non ne esistono e l'America ormai naviga "a vista". Non è che gli Stati Uniti abbiano perso, come sarebbe naturale per via delle caratteristiche irreversibili dei corsi storici, la loro forza propulsiva e stiano miseramente bluffando con progetti immani di ridisegno dell'Universo mentre in realtà annaspano senza sapere bene cosa fare?.

Persa dunque la condizione di polarità, o di precisa simmetria, per gli USA non solo le certezze vengono a crollare, ma anche la stessa probabilità di vittoria diventa un qualcosa di indecifrabile.

20. - La guerra, il caso, il gioco

L'arte della strategia consiste nel tenere sotto controllo parametri complessi, quindi facilmente sfuggenti, e non esistono "principi geometrici" che possano permettere una soluzione definitiva del problema [utile studiare il rapporto Clausewitz-Jomini]. La vera arte della guerra consiste nel saper valutare una gran quantità di elementi che sono nello stesso tempo prodotti e fattori della dinamica generale, e sono soggetti all'effetto della retroazione, perché sul campo si scontrano forze vive e intelligenti, non oggetti inanimati. E' la combinazione di complessità, caso e scontro di volontà opposte che rende la guerra simile al gioco.

E' verso la metà del secolo scorso che ha grande sviluppo la "teoria dei giochi" che cerca di individuare una legge sui comportamenti umani quando due o più persone entrano in conflitto. Vi sono due casi fondamentali: 1) il gioco a somma zero: i due avversari hanno pari possibilità ed il gioco può finire in perfetta parità, ma, se non si verifica questa situazione, l'uno vince e l'altro perde tutto; 2) gioco a più avversari: si conoscono le regole del gioco, ma non si possono conoscere le influenze che delle relazioni fra giocatori possono esercitare su altri. In quest'ultimo caso entrano in gioco le soggettività e le capacità di far fare all'avversario scelte che lo portano alla rovina (compellence): esempi di compellence lo vediamo chiaramente nel gioco della dama e degli scacchi, oppure, nella vita reale, l'acquisizione non amichevole (takeover) di un'azienda sul mercato. Altro grande esempio di compellence (e di gioco a più variabili), è stato il comportamento USA di fronte alla crisi Irak-Kuwait, che fece scattare la guerra del '91.

L'azione di compellence presuppone un alto livello di intelligence, ma il flusso delle informazioni presenta sempre dei vuoti: per tal motivo, l'azione militare non può svolgersi sulla base di puri principi geometrici, dovendo riempire questo vuoti con delle congetture e con il calcolo delle probabilità. Il testo cita Sun Zu : in combattimento ci sono solo forze normali e forze straordinarie, ma le loro combinazioni sono senza limiti e nessuno può dire di capirle tutte, perché queste due forze su riproducono mutualmente, la loro interazione è senza fine, come degli anelli concatenati, chi può stabilire dove uno comincia e l'altro finisce?

Ma la congettura e la probabilità sono elementi troppo sfuggenti e, quindi, per sfuggire al loro dominio, bisogna aumentare in modo inversamente proporzionale il peso dell'intelligence e della relativa compellence. Sarebbe la classica trasformazione della società capitalistica in un grande carcere mondiale: finalmente un unico mondo capitalistico assoggettato totalmente alle leggi del capitale e ... chiuso alle influenze delle "forze del male".

Peccato che, se può essere chiuso il mondo capitalistico dagli attacchi dei venusiani, l'età capitalistica della specie umana lo renda aperto a tutta la sua storia precedente e quindi a quella comunistica futura.

21. - Natura oggettiva e soggettiva della guerra e del gioco

Lo sviluppo impressionante della tecnologia in quest'ultimo secolo non deve far dimenticare l'importanza dell'elemento umano, che alla fine decide sempre. Oggi non possiamo più parlare di guerra fra eserciti, ma di guerra fra nazioni.

E' un processo irreversibile com'è irreversibile la tecnica produttiva raggiunta dal capitalismo. Anzi gli apparati militari corrispondono perfettamente agli elementi portanti del modo di produzione, alla flessibilità dei reparti, alla retificazione del processo produttivo e dell'informazione, alla centralizzazione del piano ed alla decentralizzazione delle decisioni rispetto ad esso. Da tutto questo nasce un paradosso, una contraddizione insopprimibile: mentre la macchina militare, compresi gli uomini che la dirigono, rappresenta la volontà, quindi il contrario dell'aleatorietà, un insieme di uomini, preso a sé, in rapporto ad un altro insieme di uomini che lo fronteggia, è in grado di introdurre elementi "caotici", parametri non lineari che sfuggono al controllo.

Da ciò si comprende bene che coraggio, rischio, fiducia, convinzione, nonché una buona dose di fortuna, sono elementi fondamentali se correttamente collocati all'interno delle dinamiche storiche e particolarmente dei suoi momenti di crisi. La macchina della guerra, che sembra così perfetta, è in tal modo sottratta all'"assoluto , al cosiddetto elemento matematico, che non trova nessun saldo punto d'appoggio nei calcoli di quest'arte" a causa delle determinazioni soggettive.

Sul campo reale, oggi troviamo da una parte una potenza che non può avere avversari sul piano della tecnologia militare e, dall'altra, miliardi di uomini che imparano sempre più a non avere paura della morte, perché l'imperialismo ha insegnato loro a guardarla in faccia ogni giorno.

22. - L'arte della guerra, la logica, l'istinto e l'intuizione

La guerra è politica e viceversa; e la politiguerra ha bisogno di scienza che ci obblighi a dimostrare l'intima concatenazione delle cose. Ma la scienza della guerra non va intesa come pura matematica e logica. Nessuna azione di guerra può essere condotta su di una base scientista e nessuna vittoria è sperabile senza l'intervento dell'istinto e dell'intuizione.

L'azione militare è sempre un tentativo di rovesciare la prassi e una teoria della guerra deve inglobare tutti i suddetti elementi.

Quale forza borghese può oggi definirsi capace di utilizzare una simile arte? Marx si faceva beffe del partito storico borghese del XIX° secolo. L'attuale partito storico della borghesia, rappresentato dall'Esecutivo degli USA, non ha più una forza "morale" o una forza "propulsiva" che possa portare alla reale unificazione del mondo: la logica non è stata la sua caratteristica dominante, mentre l'istinto non è stato altro che quello di conservazione.

L'invasione dell'Afganista e dell'Irak, l'incertezza delle situazioni mostra come non basta la supertecnologia, la super intelligence, i super sistemi informativi, per plasmare il mondo a propria immagine.

I sondaggi hanno rilevato che il 70% della popolazione americana è stata duramente colpita (leggi rincoglionita) dal grande bombardamento mediatico. Ma il 30% si è salvato ed ha mangiato rabbia. E' indicativo quanto scritto su di uno striscione durante una manifestazione a S.Francisco: "Anche noi sosteniamo le nostre truppe. Quando sparano ai propri ufficiali".

E' certo che l'Esecutivo americano non teme 4 o 4.000 gatti che esprimono una protesta disfattista, come è altrettanto certo che, in ogni caso, conosce benissimo che esiste una sola potenza più potente degli Stati Uniti: il fronte interno americano.

23. - L'intelligenza della guerra verso il proprio scopo

L'analisi della guerra deve portare alla conoscenza delle sue precise dinamiche che non sono certo date dalla montagna di parole di chi la propugna.

La guerra, nonostante le molte sue determinazioni di carattere oggettivo e soggettivo in ogni caso procede verso uno scopo e nel suo procedere non solo autoapprende, correggendo la rotta a dispetto dei timonieri, ma si sceglie gli stessi timonieri (Si ricordi la proposizione: la guerra non è un fenomeno che si lasci adoperare).

Abbiamo più volte sottolineato come la guerra e la politica siano solo due aspetti di un'unica medaglia. Se la guerra fosse un fenomeno del tutto indipendente dalla politica - in un alternarsi di pace e di guerra in quanto fenomeni separati -, una volta scoppiata, manifesterebbe la propria indipendenza con il sostituirsi completamente alla politica. Ciò nella storia è avvenuto solo sporadicamente e mai nei tempi moderni. La stessa borghesia ha avuto sentore che il nuovo militarismo fosse la vera politica d'oggi.

Ciò implica che il soldato moderno debba essere un soldato politico: necessario strumento della guerra militante e non solo militare.

La guerra non si lascia adoperare e gli Stati Uniti lo dimostrano chiaramente sia in Afganistan che in Irak. L'illusione dell'esecutivo americano attuale di pilotare gli avvenimenti a proprio piacimento non è stato che un momento di ubriachezza, ma la sobrietà ritrovata dovrà tener conto che nemmeno gli Stati Uniti possono far quello che vogliono, anzi, lo possono fare meno degli altri, perché più degli altri dal mondo dipendono.

Qualunque sia il segno della guerra, qualunque sia lo scopo politico dei contendenti, questi dovranno essere ben consapevoli che, come scrive Clausewitz, la politica si estrinseca attraverso tutto l'atto della guerra, esercitando su questa un influsso continuo.

Napoleone condusse campagne grandiose attraverso tutta l'Europa, formando un'armata di 700.000 uomini. Che alla fine sia stato sconfitto a Waterloo, non getta la minima ombra sulla grandezza del lavoro svolto. Solo il sistema civile napoleonico sopravvisse allo sfacelo delle armate francesi, ma si impose a tutta l'Europa. Questa è la dimostrazione che nell'intero ciclo di guerra concluso a Waterloo, gli scopi particolari furono ininfluenti sulla storia, mentre la guerra non aveva perso la sua intelligenza politica, marciando verso lo scopo per cui era scoppiata. La rivoluzione, il capitalismo, ne aveva assoluto bisogno.

Attenzione: è vero che, per vincere la guerra è necessaria un'assoluta chiarezza del suo scopo politico; ciò non significa però che il fine politico, di per sé, permetta di vincere la guerra.

Gli Stati uniti, hanno certamente a modo loro, una visione generale ed hanno ancora di più metodi e mezzi per sbaragliare chiunque negli scontri parziali. Ma non riusciranno a raggiungere il loro scopo, perciò perderanno la guerra. Per la semplice ragione che il loro scopo specifico è vecchio, nazionale, borghese, addirittura paranazionale e non è assolutamente in linea con lo sviluppo dell'attuale forma economico-sociale, che già Lenin definiva "capitalismo di transizione", globale, internazionalista, in cerca di un piano organizzativo centralizzato, basato sull'interesse del capitale e non di una nazione particolare che, schiacciando le altre, ne frena la misera capacità residua di sviluppo.

24. - La guerra: continuazione della politica con altri mezzi

Von Clausewitz osservò che i risultati della rivoluzione francese in campo militare erano dovuti non tanto a condizioni tecniche, quanto al mutamento completo avvenuto nell'arte della politica ed amministrazione statale, al carattere del governo, alle condizioni della nazione. I nemici di Napoleone ragionavano sulla base di una scissione fra l'essenza della guerra e gli altri interessi individuali e sociali, mentre contro di loro si scagliava una potenza unitaria. Questa unità si riassume nel concetto che la guerra non è che una parte del lavoro politico e non è affatto una cosa a sé stante.

Di fronte al problema della guerra preventiva americana, la situazione odierna ricorda molto quella di allora. Le forze che vorrebbero opporsi alla potenza USA, non hanno la possibilità di coalizzarsi. In una situazione che non prevede la stabilizzazione del Capitale ma la sua soppressione - per il motivo che la rivoluzione marcia comunque -, la politica di tutte le parti interessate non riesce a risolvere il doppio problema di sapere esattamente che cosa sia la "guerra infinita di Bush", ed a quale politica risponda. La domanda allora è: di quale politica la guerra attuale (fase USA-IV) è strumento? E questa guerra, intesa nella sua accezione più alta, in quale politica si tradurrà in futuro? Dietro le dichiarazioni crociatiste di Bush e dell'intellighentia neocons non c'è un vero programma politico, un piano d'azione. E' del tutto evidente che la borghesia americana percepisce il dato di fatto reale di essere giunta al limite, ed è consapevole che sarebbe necessario assimilare questo dato di fatto a livello politico-militare e superarlo. Oppure soccombere con l'intero sistema. Gli Stati Uniti non sono più il giovane paese che muove alla conquista con enorme spinta propulsiva; hanno esaurito il carburante. Possono provocare sconquassi a scala mai vista, ma non hanno quella politica che possa trasformarsi in guerra nel senso clauwitziano e viceversa.

25. - Natura della guerra e principio logico

La natura della guerra infinita dei teorici americani mostra sempre più il suo carattere puramente "militare-conservatore". Il contenuto di queste teorizzazioni si riduce in fin dei conti a frasi fatte sulla democrazia, sulla libertà, ecc., senza alcun riferimento alla dinamica storica per la quale gli Stati Uniti hanno una necessità assoluta di agire come agiscono: riferimento che darebbe una dignità teorica e storiografica all'istinto di conservazione del Capitale.

Ma le frasi fatte sono come le bolle di sapone. Scrive il von Clausewitz che quando il piano non mira a grandi scopi, anche la tensione delle masse è così debole da richiedere l'infusione di un maggior impulso, anzichè imporre loro un freno.

Con parole diverse, possiamo dire che le droghe mediatiche sono un utile strumento per rinsaldare una qualche unità con il governo; possono essere sventolati l'eroe e l'"eroina" di turno, ma quando le dosi diventano eccessive, all'euforia momentanea subentra il collasso successivo del fronte interno.

26. - La politica: intelligenza personificata dello Stato

La politiguerra è la lunga mano dello Stato. Data la situazione attuale, il capitale mondiale avrebbe bisogno di uno Stato mondiale e la strategia degli Stati Uniti dunque, per essere coerente, dovrebbe essere impostata verso questo obiettivo. Ma, dato che ciò è impossibile da realizzare, essi sono costretti a muoversi sul piano del vecchio imperialismo nazionale. Ma allora essi vengono a trovarsi su una contraddizione insuperabile, legata al fatto che non si può impiantare una strategia politica di un periodo storico passato all'interno della dinamica storica presente.

Il documento Rebuilding America's Defenses pecca sicuramente di ottimismo quando pone come obiettivo quello di "preservare e migliorare" la pax americana, come se il mondo non aspettasse altro: come se lo scopo della politiguerra della Russia, Cina, India, mondo islamico, ecc., fosse il raggiungimento di tale vassallaggio.

Gli Stati Uniti hanno indubbiamente una schiacciante superiorità militare, ma uno dei punti cardine di ogni teoria militare è che (vedi già Sun Zu) chi ha truppe di scarsa entità è obbligato a prepararsi contro il nemico e chi ha un grosso esercito, costringe il nemico a prepararsi contro di lui.

Nonostante tutto l'autoconvincimento sfoderato, la congrega neocons è espressione del timore borghese di non farcela contro un mondo ostile. La "Bush & company" è una delle tante mafie interne all'apparato capitalistico: la sua notorietà ha ragioni del tutto contingenti e tutte le sue chiacchiere servono solo a nascondere la mancanza di nuova elaborazione politica. Basti confrontare il Defense Planning Guidance del 1992 con il National Security Strategy of the United States del 2002, per rendersi conto del vuoto di "intelligenza dello Stato".

Gli Stati Uniti, in ogni caso, nella loro tentata marcia verso il dominio unico mondiale, - in assenza di un proletariato in grado di rappresentare col suo partito la rottura storica fra la società attuale e la società futura - sono costretti, loro malgrado, a lavorare "per noi", a lavorare per il comunismo.

Si presenta così uno dei tanti paradossi della fase attuale: vedremo gli Stati Uniti uccidere se stessi?

27. - Sul continuum politica-guerra e le basi per una teoria completa della guerra

Il principio di polarità vale per tutti gli aspetti della vita sociale e quindi anche per le sue due classi fondamentali: borghesia e proletariato. Esse si rapportano nel gioco a somma zero: di fronte alla questione del potere, nella situazione del dualismo di potere, l'una vince tutto e l'altra perde tutto. Ma tale situazione di dualismo è paragonabile ad un breve momento rispetto al tutto il corso secolare della rivoluzione, mentre la lotta di classe non cessa mai. La formula del saggio del plusvalore indica che la lotta fra queste due fondamentali classi non cessa mai, anche quando la situazione sociale è calma come una palude. Quando il proletariato non è all'attacco, passa la politiguerra della classe borghese: il vuoto di classe, così come quello storico non esiste.

Qualsiasi rapporto fra elementi della società può essere compreso solo se se ne comprende la dinamica generale nella quale essi si trovano inseriti. Indicazioni come "guerra per il petrolio", oppure "Bagdad come Stalingrado" diventano pure stupidaggini se non si riesce a cogliere l'insieme della dinamica del capitalismo imperialistico odierno.

E’ la dinamica è un "andare verso ...", e la società umana va con sicurezza verso il comunismo, verso una società che è la negazione di tutto ciò che caratterizza la presente. Tutto, niente si salva.

Come collocare dunque in questo "tutto", dove niente si salva, la guerra degli Stati Uniti? Qual è il percorso individuabile? Quali sono gli effetti di una guerra che non si manifesta fra classi nell'epoca in cui è maturo il passaggio sociale?

L'America non può null'altro che "andare verso ..." il comunismo.

Gli Stati Uniti vivono una contraddizione insolubile: o si rinchiudono in un antistorico isolazionismo o dichiarano apertamente il loro scopo politico verso l'unificazione del mondo intero ai comandi di un unico centro.

Se l'America vorrà trasformare il mondo, passando oltre le chiacchiere dell'ONU, dovrà ri-formare tutto il sistema di controllo dei capitali, spazzare ogni sovranità nazionale, impostare un piano globale di investimenti e di divisione internazionale del lavoro, ecc.. Altro che globalizzazione.

Un governo mondiale, basato su di un progetto centrale, capace di pianificare l'economia e il flusso di valore, perciò quella che è la contraddizione massima, è decisamente troppo anche per la nazione più potente della storia.

Cosa normale invece per la rivoluzione, anche se per presentarsi sul palcoscenico della storia deve ricevere il "biglietto d'ingresso" dal suo mortale nemico.

28. - Violenza e istinto, probabilità e caso, ragione e rovesciamento della prassi sono elementi inscindibili

Per chiudere il discorso, l'appropriazione di una teoria della guerra può essere possibile quando non si operino opposizioni formali o arbitrari derivanti da speculazioni idealistiche e non da rapporti della vita reale. E nell'analisi di questa vita reale, non bisogna limitarsi all'analisi dei dati (con adeguati schemini, supporti statistici, ecc.), quanto arrivare ad una fruttuosa sintesi che permetta di andare oltre le fatidiche quattro formulette imparate a memoria.

Necessità di una sintesi, dunque, che permetta di cogliere la dinamica complessiva rispetto ad un preciso punto di riferimento. Ed è grazie a questa sintesi che possiamo affermare con forza che ormai non c'è più nulla da riformare, costruire, migliorare; c'è solo da demolire e liberare la potenza oggi incatenata della società futura. Nessuna "resistenza", ma attacco finale!

Nella guerra attuale gli ingredienti ricordati nel titolo ci sono tutti: violenza e istinto, probabilità e caso, ragione e velleità di rovesciamento della prassi. Essi sono, appunto, inscindibili. L'esplosivo per far saltare barriere ci sarebbe, ma non sarà ancora utilizzato da nessuno degli schieramenti, per la semplice ragione che solo la classe rivoluzionaria potrebbe, con la sua attiva presenza, con i suoi "soldati politici", obbligare a tanto.

I progetti per il nuovo secolo americano, detto con von Clausewitz, "nella loro parte sintetica, nelle regole e prescrizioni, non valgono assolutamente nulla".

IV° - Le velleità egemoniche degli Stati Uniti

- Un imperialismo con grossi problemi

Gli Stati Uniti sono costretti, fin dai tempi di Wilson, a muoversi in nome del Capitale globale. Con l'imperialismo attuale ognuno può, più che ai tempi di Lenin e Kautsky, constatare come l'assunto del primo fosse esatto: l'imperialismo è la struttura del capitalismo di transizione e non la particolare politica di qualche Stato. Oggi gli Stati Uniti si dichiarano giustamente difensori di tale struttura e non vogliono affatto coalizioni, ritenute troppo vincolanti; le ritengono realizzate in via naturale quando sia verificata l'appartenenza alla struttura stessa. Chi ne è fuori o ne uscirà sarà automaticamente bersaglio della politiguerra.

In una società completamente globalizzata, gli Stati Uniti sanno di essere il soggetto per eccellenza di un mondo diventato unipolare, ma sanno anche di dipendere dal mondo, per il bisogno di plusvalore, più dei vecchi imperi che rastrellavano oro e grano dalle province. L'America non ha province e non ingloba territori altrui: pretende "solo" che la politica estera degli altri paesi sia un suo affare interno, e come tale vada trattata. Bisogna dunque assoggettare ai propri piani il mondo intero e non occorre farlo "occupandolo" militarmente. La Russia è crollata senza sparare un colpo, mentre l'Afganistan e l'Irak mostrano le possibili alternative.

Ma ogni vittoria dell'America mette via via in contraddizione l'intero sistema, perché, riducendo gran parte del mondo a zona di puro prelievo, arriva a restringere sempre più il mercato mondiale, quindi la produzione e circolazione delle merci, insomma, la sempre rinnovata produzione di valore: cioè plusvalore + salario, dato che non è possibile produrre il primo senza il secondo. Non è possibile la rivitalizzazione del sistema capitalistico spostando sempre più il capitale finanziario dalle attività produttive a quelle speculative (futures, ecc.).

Gli Stati Uniti non possono pensare di risolvere seriamente i propri problemi, senza pensare a ridisegnare sul serio l'economia mondiale. Ma il problema è soprattutto politico: la loro leadership, non è accettata così universalmente come vorrebbero. La guerra in corso, visualizzata solo parzialmente dall'attacco a Washington, a New York, a Kabul e a Bagdad, dimostra per esempio che l'egemonia "giusta e compassionevole" si può imporre solo con le armi. L'URSS è vinta, non convinta. Gli amici d'Europa e del Giappone sono in realtà nemici latenti (e neppure troppo), e alla lunga non sarà così facile controllare un mondo che, anche se sembra impossibile a qualche buon'anima, non ne vuole sapere della via americana alla felicità ed al benessere.

I neocons non agiscono certamente in base alle necessità di invertire la famosa parabola del plusvalore (non lo potrebbero!), però rimangono espressione di una dinamica storica che non può contemplare il persistere di una situazione che porterebbe gli Stati Uniti al collasso e il mondo al caos (o alla rivoluzione). I neocons hanno ragione quando affermano che non si può far accettare la propria leadership al mondo intero con una spesa militare pari al 3,5% del PIL quando si hanno un miliardo di alleati infidi e cinque miliardi di nemici.

- Cinico pragmatismo e mistica della salvezza

La politiguerra americana è pragmatica per eccellenza. L'ideologia continuamente sbandierata della libertà, della democrazia e del diritto non ha mai impedito agli USA di infrangere sistematicamente le regole di libertà, democrazia e diritto al fine di promuovere o salvaguardare i propri interessi. Stabilito il principio che l'ideologia trivial-borghese americana ha carattere universale, risulta parimenti stabilito, per sillogismo, che la potenza militare degli Stati Uniti non è al servizio di interessi unilaterali ma di interessi comuni a tutta l'umanità capitalistica.

Tanto per essere chiari, parlando di "Stati canaglia", gli Stati Uniti "incoraggeranno" la Russia e la Cina affinché facciano avanzare la democrazia e la libertà e lavoreranno attivamente per portare la speranza di democrazia, sviluppo, libero mercato, libero commercio in ogni angolo del mondo.

Questo è naturalmente un compito "globale" ed è chiamato fin dall'inizio "missione".

- Una teoria dell'offensiva come volontà assoluta

Quella degli Stati Uniti è solo un'utopia, anche se essi la definiscono una politica, alla stregua di un programma del tutto pratico. Ciò nonostante, noi diciamo che come tale avrà delle conseguenze tremende, ma non potrà realizzare gli scopi prefissi. Il ridisegno del mondo avrebbe bisogno di strumenti adeguati che non possono essere dati da una gerarchia piramidale, perché questo risulterebbe uno strumento sterile il cui vertice non è che un punto, cioè uno zero.

Né la società né l'intera natura funzionano secondo schemi piramidali.

Ogni sistema organico prende vita da forme di autoregolazione nelle quali l'autorità centrale si esprime non in modo lineare, con flussi di comando unidirezionali dal vertice alla base, ma attraverso reti di riscontro. Il cervello del sistema non è un ente, uomo o dio, ma un programma. Con linguaggio diverso, usando l’esempio della piramide, la nostra corrente affermò a suo tempo che una società è organica e riesce ad essere conseguente con i suoi compiti storici solo quando la piramide è rovesciata: non alla maniera dei democratici (facendo "contare la base"), ma facendo in modo che tutto il corpo sociale - dalla base al vertice e viceversa (la nostra doppia direzione) - concorra alla salvaguardia delle condizioni del proprio futuro.

L'umanità avrebbe già i mezzi per impostare un piano mondiale di centralismo autoregolato, ma non è materia che possa trattare la borghesia al tramonto. Essa è e sarà sempre più costretta a percorrere una via gravida di effetti catastrofici, nonostante le sue chiacchiere di puro contenuto ornamentale.

Quando la borghesia dichiara che questa è una guerra di tipo nuovo, esprime una falsità, mentre è verissimo che questa si manifesterà agli occhi del mondo meno di quanto sarà operante nel sottosuolo sociale. Interventi di carattere finanziario e di carattere propagandistico, non si manifestano mai per quello che veramente sono: momenti della guerra finanziaria ed ideologica.

Non dubitiamo certamente della capacità americana di mettere in atto tutto l'armamentario di cui abbiamo fatto solo un pallido riassunto; dubitiamo del risultato, del lieto fine. E' velleitario credere che l'attrezzatura interventista, attivista e missionaria, possa servire a evitare la crisi della società capitalistica e, più terra-terra, anche a combattere l'insieme un po' evanescente cui viene dato il nome di "terrorismo".

- Attivismo, da sempre espressione d'impotenza

Per sua natura, la società borghese tende a spazzare ogni residuo di vecchi modi di produzione, a meno che questi non si adeguino ai propri bisogni. Essa può sopportare pure forme arcaiche presenti in vaste aree geografiche, se queste vengono considerate dei puri serbatoi di materie prime, di neo-schiavi, ecc.. In ogni caso i comunisti hanno visto positivamente l'estendersi del moderno modo di produzione capitalistico, con il crescere conseguente del proletariato mondiale, vero becchino di tutti i modi di produzione di classe.

Non vi è un piano preciso da parte degli USA, una consapevolezza di dove stia andando il mondo. La guerra in Afganistan, per dare i suoi frutti, deve vedere il formarsi di una borghesia afgana che non può essere inventata. L'aveva tentato l'URSS con i risultati disastrosi che si conoscono. La situazione attuale, molto degenerata, mostra come sia impossibile apportare dei cambiamenti con una presenza esclusivamente militare.

Un piano, se c'è, è costretto a prevedere la non "territorializzazione" delle truppe, ma mentre gli americani tracciano i loro piani con i loro megacomputer, milioni di uomini lavorano e combattono, secondo determinazioni locali e generali, non solo in Afganistan e Iraq (dove non si riesce a stabilizzare la situazione), ma in Pakistan, Iran, ex URSS, Cina, ecc.. In aggiunta a questo, vi sarebbe la pretesa di trattare a tavolino il conflitto israelo-palestinese.

- La posta in gioco: Medio Oriente

L'Afganistan è sicuramente un punto strategico più per la sua posizione geografica, collocata nel cuore dell'Asia, che per la funzione che può svolgere nell'immediato.

L'invasione dell'Irak (decisa ben prima dell'11 settembre 2001) dev'essere valutata secondo parametri completamente diversi rispetto agli asfittici luoghi comuni: 1) la guerra non è per il petrolio; 2) razionalizzazione capitalistica ed iper-sfruttamento della forza-lavoro irachena; 3) "semplificazione" dello scontro fra borghesia e proletariato a livello locale e generale; 4) rottura dello status quo generale.

Qualunque timore che l'aggressività americana possa fare più danni di quanto non faccia la sua apparente pace è una pura acquiescenza alle tesi dei concorrenti degli Stati Uniti. Più osceno dell'arroganza americana, è stato il coro di consensi, anche da sinistra, all'azione dei patetici sub-imperialismi francese e tedesco, giustamente trattati a pesci in faccia dai veri imperialisti. Non meno patetico è stato l'imperialismo inglese, ridotto a zerbino del suo vincitore storico.

L'Irak è un paese moderno, un proletariato numeroso, una riforma agraria compiuta: è insomma un paese perfettamente idoneo ad una operazione in grande stile per scombussolare i rapporti esistenti in tutta l'area. E questo certamente non per portare la "democrazia" della quale sono per primi gli Stati Uniti a non sapere che farsene.

Le uniche ri-forme che gli Stati Uniti sono costretti a fare, per continuare il lavoro iniziato con l'Afganistan e continuato con l'Iraq, sono: 1) scatenare la loro potenza contro i residui delle vecchie società, dall'Arabia Saudita al Pakistan, invece di utilizzarli come hanno fatto finora; 2) avviare, invece della solita balcanizzazione, una unificazione in unità statali più grandi di quelle attuali, in cui eventuali nazionalità siano federate sulla base di precedenti geo-storici, come ad esempio Siria, Libano e Golan; Israele Palestina e Transgiordania; Iraq, Kurdistan e Quwait, Egitto e Sudan. Questo perché, per lo sviluppo del capitalismo e dell'accumulazione, è necessario un mercato interno unificato con un numero di consumatori inversamente proporzionale allo sviluppo dell'area in questione. Punto 3): per riuscire in questo gli Usa devono avviare dei giganteschi piani d’investimento utilizzando gran parte delle rendite petrolifere per avviare sul posto dei centri di accumulazione.

- Per esempio: Palestina

Quali possibilità di realizzare questi piani potrebbe avere l’America?

Nel caso del conflitto palestino-israeliano essa è in grado di proporre solo miseria e chiacchiere. Non si può parlare di Stato palestinese se questo viene costituito su un fazzoletto di terra trapuntato da insediamenti ebraici; allo stesso modo, non si può parlare di uno Stato che può mettersi in moto solo grazie a prestiti finanziari della Banca Mondiale, ma che non ha una propria struttura economica che possa riprodurre un equivalente del capitale anticipato. Di fronte alla prospettiva di uno Stato palestinese del genere, i palestinesi sarebbero costretti a fare gli schiavi-pendolari in un territorio nemico.

Eppure la soluzione sarebbe semplice e grande, se solo l’America avesse veramente la forza che tanto ostenta: spazzare il regno hascemita, farne un unico territorio con il territorio dei palestinesi e stringere in un’unica federazione la stessa Israele.

Ma gli Stati Uniti non possono tanto: la loro forza imperialistica di fronte al mondo odierno è inferiore a quella dell’imperialismo britannico in rapporto ai problemi del suo tempo. Oggi gli USA non riescono neppure a correggere i problemi provocati allora. E questa sarebbe l’iniziativa, il rovesciamento della prassi del massimo imperialismo della storia? Ma se è impotente a pilotare le sorti di un’area vasta quanto un ranch texano, figuriamoci che forza può avere per ridisegnare il mondo.

Il risultato immediato è che israeliani e palestinesi sono costretti gli uni a rimanere "ebrei" sul proprio pezzetto di terra ed a coltivarsi reazionarie nostalgie ortodosse, gli altri a rimanere "arabi" nel proprio campo di concentramento, profughi in casa, quando ormai sono proletari internazionalizzati, manodopera ben addestrata, combattenti degni di ben altre cause. Se queste sono le premesse per l’inizio del gran gioco mondiale, non c’è da stare allegri ... Soprattutto per la tracotanza americana, perché a orizzonte storico, l’aspetta una brutta fine.

- La posta in gioco: il mondo

Negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, la nostra corrente affrontò in più occasioni il problema dello sviluppo mondiale nelle condizioni imposte dagli Stati Uniti. Sottolineando la continuità fra la esuberanza di capitali che aveva provocato la grande crisi del 1929, lo sbocco della IIa guerra mondiale ed il Piano Marshall che trovava una collocazione a questi capitali, si arrivò a mostrare come non fosse l’America ad aiutare l’Europa ma il contrario, perché i capitali in esubero prodotti dal lavoro passato avrebbero perpetuato la grande depressione. L’America che trasferiva capitali e l’Europa che li assorbiva, aiutavano il capitalismo a sopravvivere.

Negli anni ’60 criticammo le velleità di pianificazione delle borghesie europee, pur riconoscendo loro una capitolazione ideologica di fronte al marxismo, quando registravano l’urgenza di un piano centrale, un grande progetto fascio-keynesiano. Abbiamo sempre negato comunque che avrebbero potuto eliminare l’anarchia della produzione e della circolazione insita nel capitalismo.

La nostra corrente ha sempre criticato i rapporti commissionati ai vari "Club di Roma", ecc.. Tali rapporti arrivavano a mostrare solamente l’incapacità borghese a progettare il proprio futuro.

Si può osservare dunque che il concetto di piano, progetto, programma - dal Piano Marshall ad oggi - ricorre per cinquant’anni di seguito, segno evidente che questa società ne ha bisogno. A questa sequenza si aggiunge, da parte dell’Esecutivo USA, il Progetto per il nuovo secolo americano, il Patriot Act del 1997, il raddoppio delle spese militari, due guerre, alcuni "quantanamo", ecc..

La guerra è guerra, si dirà. Giusto. Bisogna vedere però se quello americano è un progetto fattibile o puro velleitarismo.

- Troppo di tutto

Nei documenti americani si può leggere, con dovizia di particolari, quanto riguarda l’aspetto propriamente militare di questa "guerra infinita", mentre per l’aspetto strettamente politico ed economico (clauwitziano, insomma) vi possiamo trovare solo dei buoni propositi.

La storia dell’economia capitalistica mostra come fin dalle Repubbliche Marinare a Keynes, il ricorso al debito pubblico sia stato sempre un mezzo potente per sviluppare la produzione: attraverso l’anticipo di capitale si rendeva possibile un ritorno dello stesso, maggiorato. Ma per gli Stati Uniti ciò non è più possibile: il loro enorme debito interno ed estero non ha più nulla di "virtuoso". La sempre maggiore concentrazione della ricchezza ad un polo e della povertà all’altro fa crollare la cosiddetta propensione marginale al consumo, ovvero il fatto che milioni di piccoli consumatori, spendendo tutto quel che guadagnano, fanno girare le fabbriche meglio di pochi borghesi con le casseforti piene.

Nel National Security strategy si parla della necessità di attivare il piano d’azione del G-7 negoziato agli inizi dell’anno per prevenire la crisi finanziaria. Veramente una perla: il mondo sta soffocando, c’è pronto un piano anticrisi per dargli un po’ di respiro, basta solo ... ricordare in quale cassetto è stato riposto.

Staremo a vedere. Intanto l’ONU deve adeguarsi, la Nato assurgere a nuova importanza, l’Europa dimostrarsi affidabile, il M.O. essere rifondato, India e Cina ecc. devono stringersi di più all’Occidente. Dettando, dittando e minacciando, in un incredibile catalogo dove c’è troppo di tutto, uno pseudo-programma che neppure il tanto invocato Onnipotente si sentirebbe di sottoscrivere.

- Una verifica

Il comunismo è critica positiva della società borghese e ai comunisti non interessano le parole sulla riforma del mondo: a noi interessa che cosa sarà messo in moto dalla forza applicata, dalla deterrenza, dalle decisioni economiche obbligate, dal terrorismo degli Stati e da quello delle società che non vogliono morire.

Le dinamiche reali dimostrano che quelle americane sono pseudoteorie utili a nascondere il fatto che l’unica capacità messa in campo dagli Stati Uniti è la forza bruta militare che (v. Clausewitz) non porta da alcuna parte, perché troppo grande la forbice fra potenza militare ed impotenza economico-sociale.

Gli americani cianciano tanto sulla "libertà per gli iracheni", ma nulla sono riusciti a fare per il benessere della popolazione, mentre tantissimo si sono adoperati per il controllo dei pozzi petroliferi. Comunque, che si vada verso la privatizzazione o verso la nazionalizzazione del petrolio iracheno, le prospettive per l’Iraq sono quelle di una possibile "sindrome olandese" (dalla scoperta, negli anni ‘60, di giacimenti di gas nel sottosuolo dell’Olanda), se non si pianifica l’utilizzo dei petrodollari tenendo conto che il flusso di valore altrui, mediato dalla rendita, potrebbe addirittura provocare un disastro. Perché infatti sviluppare una qualsiasi struttura produttiva nazionale irachena se la rendita permette di comprare sul mercato mondiale quanto serve alla popolazione di questo paese?

La politica degli Stati Uniti è chiara: anziché far affluire capitali, si sta cercando il modo di ricavarne. In Iraq, invece di mettere in piedi un programma per una seria struttura produttiva, si riproducono condizioni di guerra, chiamando a raccolta gli avvoltoi degli appalti e le organizzazioni umanitarie, perpetuando sia il prelievo feroce del passato regime che la piaga dell’assistenza. Come sempre, chiacchiere e denaro percorrono sempre strade diverse: mentre gli accademici del diritto internazionale e il semplice buon senso borghese stabiliscono che le riserve petrolifere irachene sono di "irrinunciabile proprietà dello Stato", l’appropriazione a diverso titolo e l’indirizzo preferenziale (è chiuso l’oleodotto verso la Siria) sono già cominciati.

A commento di un articolo dell’Economist, il quale afferma che "la vera sfida ridistributiva in Iraq è di offrire a tutti una parte uguale della ricchezza petrolifera", si osserva che il territorio dell’Iraq è veramente ricco per il petrolio che gli sta sotto. Si fa un riferimento casuale ma rigorosamente esatto alla teoria marxista della rendita: solo attraverso quest’ultima, utilizzando il plusvalore prodotto in altri paesi, si potrebbe dare l’avvio al tassello iracheno della gran "costruzione" mondiale. Naturalmente utilizzandola in loco, non certo portandosela via. E’ ripetuta, inoltre, solo con altre parole la lapidaria proposizione marxista contro la proprietà della terra, anche da parte dei contadini: consegnare la terra [più in genere la rendita] a una qualsiasi classe significa consegnare l’intera società a quella classe.

Non importa che il petrolio sia estratto da più compagnie private o da un’unica compagnia nazionalizzata; l’importante è che il suo controllo non finisca nelle mani di una parte della società che ne indirizzi i frutti verso le banche anglo-americane. Ancora una volta, la realtà è regolata dalla legge marxista del valore: la rendita è plusvalore, chiunque la controlli è padrone dell’intero flusso che va dalla materia prima alla banca. E’ padrone quindi anche dell’intermediario, tribù, satrapica borghesia locale o Stato democratico che sia.

Al di là di tutti i piani "democratici" o "popolari", l’utilizzo diretto, da parte delle popolazioni delle aree petrolifere, della rendita, cioè del plusvalore proveniente dai maggiori paesi consumatori di petrolio, è una cosa da evitare come la peste, da parte degli USA & soci. Sono scherzi che la legge del valore fa anche agli economisti del vecchio imperialismo "ragionevole" alla Blair, che rischiano, dovessero mai fare questa proposta in ambito di organismi decisionali per la politiguerra americana, di vedersi inserire nella lista degli "Stati canaglia" e bombardare a tappeto la City.

V° - L’INVASIONE DEGLI ULTRACORPI

- Da Tampa a Kabul

Gli Stati Uniti, con la scusa dell’11 settembre, hanno "iniziato" la loro guerra infinita con i bombardamenti e successiva invasione dell’Afganistan. Questo paese era stato ridotto all’età della pietra già con l’invasione sovietica (fine anni ‘70), la quale aveva proceduto con il metodo della "terra bruciata". La ritirata delle truppe russe e l’avanzata delle forze anti-russe, che ha portato in seguito al potere i talibani, non aveva lasciato più nulla da distruggere.

In questa situazione, come alieni arrivati da chissà quale pianeta, sono giunte le forze armate americane con i suoi microchip, le sue forze speciali, i suoi Predator, i suoi B-52, le sue bombe intelligenti, ecc.. Con tali strumenti, l’incremento del tasso di primitismo è cresciuto a dismisura.

D’altra parte, alla forza d’invasione USA, non importa nulla dei problemi sociali. L’Afganistan , nei piani americani, doveva essere una rapida conquista, per passare subito all’Iraq.

Ed il grande progetto? Si sono comprati un po’ di capi tribù a suon di dollari, li si è un po’ lucidati, qualcuno sì è fatto tagliare la barba davanti alle telecamere per un po’ di dollari. I pochi soldati inglesi, russi, italiani, australiani, se ne stanno tappati nei loro fortini: del resto, sub-alieni come sono, al di là del filo spinato non saprebbero cosa fare.

Intanto a Bagram, qualche chilometro a Nord, è sorta una grande base militare americana: nel deserto, isolata, autosufficiente, aliena come non mai.

- Da Umm Qasr a Bagdad

La guerra in Iraq ha mostrato l’avanzata delle truppe americane fino a Bagdad, accompagnata da uno stillicidio di combattimenti che, se pur non potevano invertire l’inevitabile esito finale, disturbavano in ogni caso questa marcia. Sembrava che ad un certo punto le truppe americane avessero bisogno di altri centomila uomini per aver ragione dell’esercito iracheno. Non ce ne fu bisogno: gli americani arrivarono a Bagdad, mentre l’esercito iracheno si dissolse, evitando i disastrosi massacri del ‘91.

Al di là dei fantasiosi discorsi sul tradimento degli Stati maggiori iracheni e dell’ancora più fantasioso progetto di voler conservare le forze armate a livello clandestino, va ricordato che in ogni caso gli iracheni non avevano alcuna possibilità di battere gli americani sul terreno militare.

Vi è forse la possibilità ora di una qualche "resistenza" (sostenuta da quale imperialismo non-americano?) per cacciare gli americani dal territorio iracheno? Innanzitutto, un movimento armato popolare ha bisogno di un scopo, e quale sarebbe potuto essere? Difendere la patria? La guerriglia non si improvvisa, ha bisogno di ambiente, dev’essere il risultato di un processo. Da chi potrebbe essere dato il collante per una lotta coerente contro il capitalismo imperialista? Forse dall’Islam?

Che differenza fra Bagdad e Kabul? Molte e nessuna.

A parte i giornalisti inquadrati nelle truppe in movimento, fra le due situazioni vi sono degli invarianti importantissimi. Come in Afganistan, anche nel caso iracheno il paese è diviso fra etnie; il governo è in mano agli americani; la società è nel caos fra l’indifferenza degli invasori; anche qui sorgono le grandi basi nel deserto, isolate. Ne sono sorte quattro: una all’ex aeroporto di Bagdad, una a Taflil, vicino ad An Nassiriyah, una a Basur, vicino a Kirkuk, una nel deserto, in un non-posto che si chiama significativamente con la sigla asettica "H1", isolata, autosufficiente, come non mai.

- Da Bagdad a Washington

Per il momento, uno dei maggiori risultati dell’invasione USA è che in pochi giorni è saltato il legame nazionale cementato dal carattere laico dello Stato baasista. Al Nord, i curdi sono impegnati in una pulizia etnica antiaraba; al Sud è incoraggiata una riorganizzazione puramente sciita; al centro, di controllo esclusivamente americano, si sta riciclando il vecchio apparato amministrativo sunnita depurato dei vecchi esponenti di maggior spicco.

Se l’inizio dell’occupazione non ha dato i frutti sperati, il futuro prospetta situazioni peggiori e, nel gran caos imperante, le uniche cose che sembra comincino a funzionare sono 23 ministeri i cui titolari sono esclusivamente americani. Bisogna rimettere presto in piedi l’Iraq affinché il businness abbia luogo, ma per ora da questo paese non si possono ricavare dollari, al contrario, occorre portarne.

Si stampa moneta locale solo per pagare gli stipendi all’apparato burocratico e comincia a circolare il Dollaro per impedire l’introduzione dell’Euro, con cui il precedente regime aveva cominciato le transazioni sul petrolio. L’occupazione dunque fa intravvedere dei risultati sperati, cioè il controllo del flusso di petrodollari verso l’Iraq e di qui verso gli USA. Si prenderanno così due piccioni con una fava: 1) una quota sulla rendita e 2) il rinnovo della potenza del dollaro. Un flusso di soldati da Washington a Bagdad (e oltre) per produrre un flusso di dollari dal mondo al Medio Oriente e di qui a Washington! La lotta del bene contro il male si alimenta di denaro!

Si tratta di vedere come reagiranno tutti i paesi del mondo industrializzato di fronte a questo tentativo di manipolazione della legge del valore e della rendita (soprattutto se nell’operazione americana venissero coinvolti Siria ed Arabia Saudita), e soprattutto se saranno in grado di percepire la grande debolezza oggettiva che obbliga gli USA ad agire in modo così spudorato e di approfittarne per colpire duro, magari in modo sotterraneo.

La fase USA-IV è appena cominciata e già presenta incognite gravide di conseguenze esplosive. Intanto negli altri paesi del Golfo, nel raggio d’azione di un bombardiere, sono sorte nove grandi basi militari americane. Nel deserto, isolate, autosufficienti, aliene come non mai.

- Da Bagdad a Kabul via Teheran

Se quello che stano facendo i pianificatori del nuovo ordine per fissare i propri interessi imperialistici, ha un senso, anche solo militare, allora il prossimo passo sarà l’Iran. Kabul, Bagdad, Teheran. La sequenza è in crescendo: dall’età della pietra all’industria moderna e alla grande massa di popolazione attraverso il filo nero del petrolio.

Lo sbandierare la guerra all’Iraq come elemento di stabilizzazione del Medio Oriente è pura propaganda; essa deve proseguire. L’Iran ha le carte in regola per un’operazione di ridisegno ancora più dell’Iraq, a parte le riserve di petrolio che non sono paragonabili. E’ tre volte e mezza più esteso, ha il triplo di abitanti per lo più giovani ed è la vera porta dell’Asia. Nonostante l’immane carneficina della guerra 1980-’88 si è ripreso ed ha un’economia mista, una buona industria manifatturiera e un’agricoltura che permettono una certa "distribuzione del reddito".

La corsa verso l’Asia passa dunque attraverso l’Iran fra due "problemi" collaterali che sono Siria e Arabia Saudita.

Ma in questo progetto vi è alto rischio di una destabilizzazione troppo vasta: come dice Keynes, i piani a lunga scadenza sono magari perfetti, ma al loro coronamento saremo tutti quanti morti e sepolti.

Per questo si corre ai ripari: lungo tutta la fascia Sud dell’ex URSS, dal Caucaso alla Cina, gli Stati Uniti stanno preparando accordi con i vari paesi e soprattutto stanno costruendo basi militari nelle steppe centroasiatiche, quindi ancora in luoghi deserti, quindi isolate, autosufficienti, aliene come non mai.

- Effetti collaterali dell’invasione aliena

Apriamo una utile parentesi: vogliamo essere dei razionali osservatori della realtà, ma non dimentichiamo che l’oggetto della nostra attenzione è l’uomo in carne ossa.

Si può fare ben poco di fronte alla potenza americana se non si possiede una forza che le si possa contrapporre. Ma siccome la rabbia è tanta - anche in molti che a qualsiasi titolo parlano di comunismo - e riesce difficile reprimerla, ecco che qualsiasi cosa potrebbe andare bene purché avesse l’apparenza di una "opposizione" al rullo schiacciasassi americano. Parlare di lavoro in funzione del futuro è considerata cosa degna di disprezzo.

Non ci consideriamo certamente esterni al mondo reale. Rifiutiamo il solipsismo di chi crede di essere il germe della società futura. Non ci consideriamo l’embrione della rivoluzione futura, bensì una delle cellule della rivoluzione in corso.

Rifiutiamo con decisione, in ogni caso, il terrore della solitudine, perché questo ad un certo punto porta i disperati che vogliono "fare qualcosa a qualsiasi costo" sul terreno dell’avversario. La realtà capitalistica ingloba. E lo sa far bene.

Quale la strada per evitare l’isolamento? L’unica medicina per le crisi esistenziali di "aderenza alla realtà" è appartenere ad una realtà antitetica, proiettata nel futuro, e che di questo futuro ne sia già vivente anticipatrice. La soluzione è mettersi in sintonia con il divenire storico, che per noi è sinonimo di partito storico, inteso non come organismo formale di questa società, ma come anticipazione effettiva della società che diviene.

Altra soluzione non esiste. Non possiamo essere volontaristici "facitori" di partiti formali, ma sentirsi parte del partito storico è un risultato enorme che va sentito prima che cercato.

Non vogliamo dunque "fare nulla" contro la forza bestiale della borghesia?

Certo che vogliamo "fare" e per noi questo comincia con l’inquadrare la guerra nell’ottica che abbiamo tratteggiato: ogni guerra (dalla lotta sindacale alla guerra atomica, fino al ... gioco della dama) va affrontata sulla base di una assoluta coerenza fra azione, perdite e importanza dell’obiettivo da raggiungere.

Non ci si lancia contro un avversario (un qualsiasi avversario!) sulla base della disperazione dettata dall’impotenza. Contro la potenza di fuoco americana, poi! Non si mettono a repentaglio le proprie forze solo per veder morire 10, 100 o 1.000 americani.

Il nemico alieno, rappresentante di una società che muore, va affrontato in primo luogo dal sorgere di una polarità politica, da rappresentanti del futuro di specie che rifiutano ogni categoria dell’avversario. Il primo comandamento dell’arte della guerra è: non combattere sul terreno del nemico, non fare mai ciò che lui si aspetta che tu faccia. Perciò non farti invadere la testa dalla sua ideologia, che ti porterà inevitabilmente contro la rivoluzione. Se esalta la democrazia, rifiutala; se lancia crociate non arruolarti nella crociata opposta; se recluta partigiani, smascherali.

- L’estrema ratio dell’immolazione dei corpi

Nessuna "resistenza" partigianesca è mai stata rivoluzionaria, nessuna guerra "popolare" sarà più rivoluzionaria dopo la fine del ciclo rivoluzionario borghese ovunque, specie con la conclusione del ciclo coloniale.

E’ indubbio che tutti vorrebbero la sconfitta degli Stati Uniti, anzi la loro scomparsa: ne verrebbe accelerata enormemente la rivoluzione. Al di là comunque dei puri desideri, sarà la stessa continuazione dell’invasione aliena del mondo fino al limite della sopportabilità a far saltare il grande disegno, quando la sopportabilità del sistema avrà raggiunto la sua massa critica. Possono fare di più i proletari americani rompendo il fronte interno della collaborazione di classe: molto più dell’"immolazione dei corpi" che, per quante vittime fra i soldati possano causare, non andranno mai ad intaccare (ammesso che si riesca ad avvicinarsi anche solo "a vista") le isolate e munitissime basi USA.

- La vita umana come rottura di polarità

Lo scontro palestino-israeliano, ed oggi anche la guerra in Iraq, ci mostra come - per la caratteristica di un confronto fra avversari di potenza immediata non confrontabile - fosse inevitabile il fenomeno della "immolazione dei corpi", che un ridicolo riciclaggio di vecchi termini continua a chiamare kamikaze.

Per i borghesi questi sono atti di fanatismo insensato, che "non pagano"; non riescono a concepire che il sangue di un individuo possa essere il sangue di un’intera comunità colpita, così come lo è quello del combattente, il quale non tanto si "suicida" quanto offre al corpo sociale un’arma di tipo particolare (si legga in proposito un vecchio articolo del 1961: (A Jajnitzio la morte non fa paura).

Di fronte all’uso della vita come arma salta ogni possibilità di dialettica intorno al concetto di polarità. Gli avversari occidentali non hanno quell’arma. Essi non riescono ad immaginare che la guerra non è solo fra eserciti, anche se praticano il genocidio come norma: strillano quando donne e bambini muoiono senza il loro consenso, ma sono pronti ad ammazzarne a milioni. Parlano di viltà, ma non è il combattente suicida ad essere vile, bensì l’asettico militare che schiaccia un bottone, fa partire il missile e spegne vite altrui senza subire conseguenza alcuna.

La potenza di integrazione di fronte al "povero selvaggio" vacilla quando si pianificano guerre con l’unica opzione "zero morti" (propri) e dall’altra si fa della propria morte un’arma ad alto rendimento: un morto per n morti.

I combattenti che danno la vita contro gli occupanti non sono dei disperati che hanno da perdere "soltanto le loro catene": molti di loro sono professionisti, intellettuali, ufficiali degli eserciti arabi. Quello che i giornalisti ed i frequentatori del blablaggio televisivo non possono capire è che esistono ancora società in cui il corpo sociale prevede un uso collettivo del corpo individuale. O perlomeno ne esiste il ricordo che viene in superficie quando la tensione sociale è al culmine ed è richiesto al massimo grado lo sforzo collettivo di autodifesa.

Ma non può concepire un tale senso della vita una società che eleva a mito l’individuo - salvo massificarlo di fronte al dio denaro -, che mostra paura della morte e che manifesta la propria volgarità nell’utilizzo a scopo di lucro di ogni accanimento terapeutico su corpi ormai distrutti, sull’allungamento venale della pura esistenza, spesso sofferenza, a scapito della vita di specie.

- Terribili ibridazioni

Il fenomeno "terrorismo" non è liquidabile con battute sarcastiche che parlano di "pazzi", "fanatici religiosi", ecc.. I moderni Zeloti, suscitati per contraccolpo da una forza che non si può combattere ad armi pari, rappresentano un fenomeno generalizzato a cui partecipano e parteciperanno ancora di più migliaia di individui che si spargono per il mondo a praticare "terrorismo", indipendentemente da chi ne possa tirare in parte o in tutto le fila.

Fin qui un doveroso tentativo di comprensione.

Ma in quanto comunisti dobbiamo andare oltre a queste forme di martirio. In quanto comunisti rifiutiamo di immaginare utili alla nostra rivoluzione, le dottrine i metodi e le tecniche del passato: nessuna società vecchia può apportare armi utilizzabili contro quella presente per sgombrare il campo a quella nuova.

Per combattere questa società occorre mettere in campo il futuro, non il passato. Quindi c’è bisogno di metodi e strumenti che, presenti già oggi, sono anticipazioni del domani, programmi che sono forgiati dalla sua azione sulla società presente e su alcuni uomini che vi operano.

- Cinque miliardi di "Indiani"

La storia mostra che quando vi è "scontro di civiltà", la vittoria vede il sopravvento delle società fresche e moderne su quelle antiche e decadenti. La storia della conquista dell’Africa, dell’America del Sud e di quella del Nord da parte degli Europei mostra, ad es., come gli Indiani d’America impiegarono duecento anni per imparare che l’invasore li combatteva secondo regole industriali per le quali non esistevano azioni in armonia con la natura e che questa andava semplicemente dominata e sfruttata fino ad esaurimento.

Oggi ci sono cinque miliardi di "Indiani" nel mondo.

Oggi tutto il mondo è nelle condizioni di vestire i panni degli Indiani, cioè di essere messo nelle riserve a produrre plusvalore a vantaggio della superpotenza con l’alternativa di essere sterminati come insetti nocivi. E per chi si volesse ribellare ci sono già pronti i modelli "etnici" di combattimento, fatti di "terroristi", di "martiri", e di partigianerie più o meno tribali, di vecchi arnesi nazionalistici come la sovranità nazionale.

Detto questo, non vogliamo dire che il combattimento debba sempre essere evitato. Vogliamo però sottolineare che contro l’imperialismo - come hanno insegnato le guerre anticoloniali - non ha mai vinto un modello militare preso dal passato, ma uno preso a prestito dal moderno nemico.

Diversamente da questo, si cadrebbe sul terreno di scontro scelto dall’avversario. E qui non va dimenticato che ormai la compellence è estesa al mondo intero.

- La vita ai margini del capitale

Agli Stati Uniti non importa nulla se le loro "giustificazioni" della guerra sono considerate ridicole. Essi proseguono per la loro strada, sfruttando la reazione al loro stradominio per far scaturire dei nemici fatti su misura e procedere all’annientamento "chirurgico" oppure lasciarli sopravvivere alla macchia, senza correre il minimo pericolo.

Ci sono fin troppi aspiranti combattenti genuinamente infuriati contro lo stato di cose presente e pronti anche all’estremo sacrificio. Ma proprio per questo essi saranno utilizzati propagandisticamente e spinti al "martirio". Il corollario sarà una reazione brutale contro l’ambiente che li produce: ci sono candidati in abbondanza per i prossimi bombardamenti americani.

Non è agevole trarre conclusioni su quale sia il modo migliore per combattere l’imperialismo da parte di forze non-rivoluzionarie. Esse finiscono in ogni modo per fare l’interesse di qualche potenza o per essere macinate nella guerra globale. Mentre per noi, se vogliamo essere coerenti con le premesse programmatiche ed i fini rivoluzionari, non ci sono dubbi: il luogo di combattimento più efficace è nel ventre della balena (come avrebbe detto Orwell) adoperando tutti i mezzi che ci mette a disposizione la bestia, anzi escogitandone di ancor più avveniristici.

In ogni caso: strappando ovunque i cartelli "partigiani cercansi".

- La vita nel ventre della balena

La direzione del moto storico, l’"andare verso" è irreversibile. Ma tale moto non ha natura lineare: prosegue per biforcazioni, per rotture, e l’imperialismo americano va osservato anche dal punto di vista degli effetti che produce negli stessi Stati Uniti e non solo nel mondo degli altri. Nel mondo degli alieni si può essere alieni anche nei propri confronti.

Le rivoluzioni trasformano i paesi ma anche se stesse, ma l’America presenta un caso particolare. La "rivoluzione americana" non è stata una rivoluzione nel vero senso della parola, in quanto essa ha presentata una continuità (sostituendosi) con la politica coloniale inglese, rendendo così peculiare la popolazione americana, specie il proletariato, il quale non ha imparato a sviluppare una reale lotta di classe tale da arrivare alla costituzione di propri indipendenti partiti politici.

La politica coloniale che ha coinvolto e corrotto la popolazione americana, adesso le si ritorce contro, non continua solo verso l’esterno, ma si afferma anche all’interno. La conseguenza è tremenda: gli Stati Uniti sono una colonia di se stessi.

Milioni e milioni di americani si sentono prigionieri di uno Stato che non percepiscono come un loro organismo; lo percepiscono come un alieno, come un qualcosa che non fa parte del paese. Non importa se le forme del rifiuto prendono tinte che vanno dal nazismo all’anarchia: il dato di fatto è che buona parte dell’America si sente colonizzata dall’America.

Da ciò si deduce quanto sia ridicolo il solito antiamericanismo di maniera. L’imperialismo "americano" non è il prodotto degli americani quanto di una accumulazione capitalistica che in America ha visto la mancanza di un proletariato che riuscisse a porsi sul terreno storico della difesa dei propri specifici interessi di classe contro la continua precarietà di un mercato del lavoro da sempre selvaggio.

Il mito dell’accumulazione sfrenata del capitale, accompagnata dal mito della tecnologia, produce un brodo di coltura biotech dove crescono benissimo i nuovi soldati politici: dei ripugnanti e nello stesso affascinanti prodotti di una società di transizione. Non c’è alcuna macchiavellica congiura di imperi e imperatori: nella politiguerra della fase USA-IV tutto consegue da tutto, e nessuna forza sociale o militare corrente potrà far saltare le odiate basi nel deserto, sempre più isolate, autosufficienti, aliene, che stanno radicandosi anche nella loro patria d’origine contro il "popolo" che dovrebbero difendere. Questo è il definitivo segno di debolezza. Se c’è bisogno di estendere il controllo alieno anche sul proprio territorio, vuol dire che la situazione rischia davvero di andare fuori controllo.

Negli Stati Uniti una legge del 1878 proibisce l’uso di truppe federali se non in caso di guerra contro un nemico non-americano. Ma la distruzione della comunità davidiana di Waco, Texas, in cui furono uccisi 30 donne, 25 bambini e 22 uomini, mostrò come l’esercito fosse pronto ormai a massacrare, all’occorrenza, non solo indiani ma anche cittadini americani. Uscendo da basi militari dietro casa, con truppe che potevano e possono diventare pienamente operative in pochi minuti.

Nel documento sulla riforma delle forze armate USA, la banda bushita afferma che occorre adeguare i compiti della Guardia Nazionale e della Riserva delle forze armate alla realtà del dopo guerra fredda. Il documento sottolinea con enfasi l’importanza di questi cittadini-soldato che devono saper collegare la crescente forza armata professionale con la grande corrente della società americana. Essi non devono essere visti solo come truppe d’appoggio ai reparti principali.

Non forze di polizia, quindi, ma vere forze armate.

E’ curioso che si parli di constabulary duties, doveri propri di polizia, per quanto riguarda la missione internazionale delle forze armate federali e si rifiuti tale appellativo per le forze interne che finora è stato appropriato al ruolo effettivo. Curioso e strano a meno di non pensare in grande; come i neocons che, consapevoli del "rischio zero" nelle guerre contro gli "Stati canaglia", istintivamente concepiscono il pericolo più grande proprio in casa.

Rivista n. 11