L'estinzione della scuola e la formazione dell'uomo sociale
"Il bambino di Armonia a tre anni sarà più intelligente e adatto all'industria di quanto lo sono a dieci anni molti bambini di Civiltà che a quell'età hanno solo antipatia per l'industria e le arti. L'educazione di Civiltà non fa sbocciare nel bambino in culla null'altro che manìe antisociali; ognuno si esercita a deformargli i sensi, aspettando l'età in cui gli si deformerà la mente" (Charles Fourier, La teoria dei quattro movimenti, 1808).
"Divieto del lavoro per i bambini! La totale abolizione del lavoro per i bambini è incompatibile con l'esistenza della grande industria. La sua attuazione sarebbe reazionaria perché, se si prendessero misure precauzionali per la protezione dei fanciulli, l'unione tempestiva tra lavoro produttivo e insegnamento sarebbe uno dei più potenti mezzi di trasformazione dell'attuale società" (Karl Marx, Critica al programma di Gotha, 1875).
"L'insegnamento è inutile, eccetto nei casi in cui è superfluo" (Richard Feynman, La fisica di Feynman, 1963).
Indispensabile premessa
La maggior parte della produzione pseudo-marxista del '900 sull'educazione aggiunge poco alle ricerche compiute in campo schiettamente borghese, e per di più inquina i propri risultati con ideologismi che non hanno nulla a che fare con Marx. Uno degli ultimi esempi fu Suchodolski, morto nel 1992, autore di un saggio intitolato Fondamenti di pedagogia marxista ma anche co-autore dei programmi educativi reazionari dell'UNESCO.
La corrente materialista volgare staliniana e quella idealista-culturalista fondata su Gramsci hanno in comune una specie di filosofia piuttosto che un'indagine scientifica; quella sindacalista, che in Italia è rappresentata dalla CGIL-Scuola, non esce da un basso profilo riformista-rivendicativo "docentocentrico". In quanto vere figlie della filosofia, sono da trattare con sospetto anche le varie correnti pedagogiche "affermate", come il positivismo, lo strutturalismo, il pragmatismo, il funzionalismo, il costruttivismo, il comportamentismo, ecc. Tutte soffrono di quel vizio fondamentale della conoscenza borghese che è il riduzionismo unilaterale.
Facciamo un esempio: per noi è ovvio che strutture e bisogni determinano le forme dell'azione (Piaget); che la funzione determina la forma (Bruner); che vi sono predisposizioni al linguaggio e all'apprendimento (Montessori, Lorenz, Chomsky); che è fondamentale la prassi attiva (Dewey); che l'uomo vive una specie di istruzione permanente e che occorre pensare all'uomo del futuro (Suchodolski, UNESCO); e così via. Ma queste sono banalità, se prese una per una. O pedanterie, se ognuna di esse si trasforma in un cavallo di battaglia specialistico su cui scrivere decine di libri. Un discorso a parte meriterebbe la colossale produzione strutturalista, catalogatrice e apparentemente universalista di Piaget, dato che essa "sembra scienza, senza esserlo", come soleva dire Feynman quando si trovava di fronte a troppe parole, ma non è certo questa la sede per farlo.
Più interessanti sono gli antichi, gli utopisti, gli universalisti del Rinascimento, gli scienziati del '600-'700 e infine gli eclettici fuori-corrente degli ultimi due secoli, alcuni dei quali, bistrattati in vita, sono oggi considerati "classici" della pedagogia e dell'educazione. Fra di essi vi è chi ha avuto intuizioni oggi pienamente confermate dalla neurobiologia e dalle scienze dell'informazione. Per il nostro articolo ci siamo basati, oltre che naturalmente sugli autori sopra citati, soprattutto sugli elaborati degli eclettici anticipatori, da cui abbiamo estratto gli aspetti a nostro avviso più connessi con il nostro programma di lavoro.
Una precisazione va fatta a proposito dell'abituale suddivisione, in questa serie di articoli, fra "Oggi" e "Domani": qui si troverà nella prima parte un po' di storia della scuola durante la Rivoluzione d'Ottobre, che a rigor di logica farebbe parte di una sezione "Ieri", mentre si troveranno addirittura esempi delle società antichissime nella sezione "Domani". L'apparente incongruenza è presto spiegata con il grado di sviluppo della società, che nel medio periodo non corrisponde al calendario: riteniamo infatti che la scuola d'oggi sia arretrata rispetto a quella prefigurata nella Carta della Scuola fascista del '39, e che gli esperimenti di istruzione extra-scolastica del periodo rivoluzionario russo siano più avanti della Carta fascista, malgrado gli ottant'anni passati. Riteniamo altresì che le antiche società di un'altra transizione, quella fra il comunismo primitivo e l'urbanesimo classista, possano offrire un buon esempio per farsi un'idea di ciò che potrà essere il "domani" dell'educazione quando saranno sparite, come allora, classi e proprietà.
Oggi
Fabbrica di attrezzi ideologici per il dominio di classe
Proseguendo il nostro viaggio intorno al "programma immediato della rivoluzione proletaria" affrontiamo l'ultimo punto della traccia di mezzo secolo fa, da noi utilizzata come guida:
"Ovvie misure immediate, più vicine a quelle politiche, per sottoporre allo Stato comunista la scuola, la stampa, tutti i mezzi di diffusione, di informazione, e la rete dello spettacolo e del divertimento" (Riunione di Forlì" del PCInt., 1952).
In questo numero della rivista ci occuperemo della scuola, mentre l'attualissimo argomento dell'informazione e dello spettacolo sarà invece affrontato in un prossimo articolo. Diciamo subito che ci occuperemo della scuola in modo un po' particolare: per sbarazzarcene. Poiché nella società futura non ci sarà né divisione sociale del lavoro né Stato, non avrà ragione di sopravvivere un apparato statale chiamato "scuola" specializzato nell'educazione dei bambini e dei giovani. Prima di entrare nel vivo del tema, però, è indispensabile ricordare che ogni punto dell'elenco di Forlì, e in particolare quest'ultimo, reca un'impronta prettamente "bolscevica", nel significato che il termine aveva prima della bolscevizzazione forzata dell'Internazionale, cioè prima che a tutti i partiti aderenti venisse imposta la tattica – rovinosa per l'affermarsi del comunismo – che si faceva discendere dalla situazione russa di doppia rivoluzione, e che culminò nella definitiva russificazione stalinista. In ognuno di essi la funzione della dittatura del proletariato sembra circoscritta a una serie di particolari misure totalitarie per il controllo dei vari settori dell'attività umana. Siamo quindi ancora di fronte a una prassi molto diretta, al controllo sociale per decreto sostenuto dalla "guardia rossa", la cui necessità è indiscutibile quando la società non ha ancora sviluppato soluzioni mature.
Oggi la morente società capitalistica ci mostra (come al solito in negativo) molte potenzialità della società nuova per cui, come vedremo, le misure rivoluzionarie della dittatura proletaria saranno in minima parte puramente coercitive, mentre l'energia del proletariato verrà indirizzata alla liberazione della forza sociale, oggi totalmente frenata. Notiamo, en passant, che nel punto di Forlì, dove si dice che verranno prese "ovvie misure immediate, più vicino a quelle politiche per sottoporre allo Stato comunista la scuola, la stampa ecc.", l'attributo "comunista" è sfuggito evidentemente a causa del linguaggio di allora. Difatti lo Stato non ci sarà nella società comunista. Si può parlare di stato babilonese, romano, feudale o borghese; può essere uno strumento di una classe per la transizione al comunismo, per esempio "Stato proletario", in mano al partito comunista; ma non si può dire: "Stato comunista". È comprensibile che scrivendo i punti di Forlì i vecchi compagni siano scivolati su questa definizione: essi vissero la formazione dell'IC, la sua degenerazione, lo stalinismo e la riproposizione delle basi rivoluzionarie del comunismo; pur essendo molto sensibili al corretto uso dei termini, risentivano della loro stessa storia ed essa, volenti o nolenti, aveva una forte matrice russa.
Dunque, "Stato comunista" è un'espressione di impronta bolscevica, entrata nel linguaggio comune come tante altre che, sopravvissute fino a quest'epoca decadente, non hanno più il significato di un tempo. Siccome nel nostro programma di lavoro c'è anche l'impegno a dare una ripulita al lessico che utilizziamo, eliminando ovunque sia possibile i termini ambigui o logorati ormai dalla storia, nel corso della critica alla scuola attuale (e soprattutto nel corso della descrizione dei processi di formazione dell'uomo nella nuova società) eviteremo di contrapporre alla scuola borghese una "scuola comunista" o, peggio ancora, una "educazione comunista". Sono locuzioni che, al di là del problema scolastico, indicano concezioni stataliste e non organiche della società futura.
Se ci soffermiamo sulla realtà immediata della scuola italiana, della rete delle comunicazioni e dello spettacolo, dell'attuale cultura, del "diritto all’ozio", ecc., abbiamo sotto gli occhi uno scenario caratterizzato da polemiche da baraccone e lotte senza esclusione di colpi tra le diverse fazioni della borghesia, che si rinfacciano reciprocamente di puntare al controllo della scuola e dei media, instaurando così una dittatura di parte. E come potrebbe essere diversamente? Non possiamo pensare che una classe al potere – rappresentata dai destri o dai sinistri fa lo stesso – possa rinunciare ad armi del genere. La situazione non è certo peculiare dell'Italia, è la medesima in ogni paese, anche se in alcuni si manifesta in modo più eclatante. Ad esempio negli Stati Uniti, dove l'apparato scolastico e quello della comunicazione sono vere e proprie armi da guerra al servizio dello Stato (pur essendo a capitale privato nella maggior parte dei casi). Stiamo quindi parlando di un settore che è parte integrante del sistema comprendente esercito, magistratura, polizie, servizi segreti ecc., come si è ben visto nel dispiegamento dell'odierna strategia globale. Nella scala degli strumenti di dominio di classe, d'integrazione e di omologazione, la scuola viene prima di quelli per il mondo "adulto". È una fabbrica per produrli. È perciò un'emanazione direttissima del dominio di classe. In una società che non si basi su questo dominio, deve scomparire anche il suo maggiore strumento, già a cominciare dal periodo di transizione.
Cultura e dominio di classe
Lo Stato di oggi attua sulla scuola, sull'informazione e sullo spettacolo una dittatura talmente perfezionata che non basta più cambiarle segno, occorre un salto in un'altra dimensione della formazione umana. E non si pensi che si stia parlando solo di ideologia in senso politico o economico: l'epistemologia borghese al completo, anche nel mondo scientifico (e diremmo specialmente in esso), si fonda su presupposti ideologici. Ecco perché questo punto di Forlì, più di altri suona inesorabilmente superato dai fatti, esattamente come successe al programma immediato che Marx ed Engels inserirono nel Manifesto. La società borghese è la più dinamica della storia e macina qualsiasi programma immediato. Il contesto non è più quello della rivoluzione russa, che doveva effettivamente introdurre ex novo un fattore di controllo sociale diverso da quello quasi esclusivamente poliziesco della società autocratica sconfitta. Nell'occidente capitalistico sviluppato, dove sono già presenti sovrabbondanti elementi di controllo sociale, basterà impadronirsene, trasformando quel che serve in un mezzo utile alla transizione. Più che a formare nuovi apparati, la nuova società sarà occupata a eliminarne di vecchi mentre si distrugge lo Stato borghese. Anche in questo caso verifichiamo che le basi della società nuova non sono più da "costruire", come si disse ancora per la Russia, basta demolire gli ostacoli che impediscono l'esplosione della forza produttiva sociale.
La scuola non è solo apparato statale per l'educazione. Essa è soprattutto strumento di riproduzione dell'ideologia dominante attraverso un metodo preciso. Tale dato di fatto, la cui enunciazione troppo concisa potrebbe sembrare una delle solite frasi fatte del luogocomunismo, è il risultato della divisione sociale del lavoro e, nello stesso tempo, il mezzo più potente per conservarla e consolidarla. Tutta la sovrastruttura di dominio del Capitale si basa su questo meccanismo di conservazione, perciò l'intera potenza di fuoco della rivoluzione dovrà essere diretta contro questa mostruosità, che da sola impegna, fra insegnanti, impiegati e allievi, centinaia di milioni di persone in tutto il mondo, bruciando loro il cervello.
Al Congresso giovanile di Bologna nel 1912 i giovani del PSI si ribellarono all'impostazione "scolastica" che il partito voleva imporre alle sue sezioni giovanili giungendo a promuovere la trasformazione de L'Avanguardia, il combattivo giornale di lotta dei giovani, in attrezzo "culturale". Nella loro mozione la risposta fu nettissima:
"Considerando che in regime capitalista la scuola rappresenta un'arma potente di conservazione nelle mani della classe dominante; che nessuna fiducia sia da attribuirsi ad una riforma della scuola in senso laico e democratico; che scopo del movimento nostro è contrapporsi ai sistemi di educazione della borghesia; affermiamo che l'educazione dei giovani si fa più nell'azione che nello studio e in conseguenza esortiamo tutti gli aderenti al movimento giovanile socialista a riunirsi per discutere dei problemi dell'azione socialista comunicandosi i risultati delle osservazioni e delle letture personali e abituandosi sempre più alla solidarietà dell'ambiente socialista".
Proprio su L'Avanguardia comparvero attacchi rigorosi e coerenti alla concezione culturalista della lotta di classe. Nel 1913, per esempio, fu pubblicato uno degli articoli più calzanti e appassionati sulla funzione dell'ambiente socialista e proletario nella formazione antiscolastica del proletario (Un programma, l'ambiente). La propaganda, vi si scriveva, non ha mai fatto presa sul cervello ma sul sentimento, sulla disposizione alla battaglia, sull'odio classista verso una società infame. Solo un ambiente ferocemente anticapitalistico può essere la nostra "scuola" e solo in questo modo riusciremo ad affrancarci dalla schiavitù dovuta alle idee dell'avversario. In quei testi non si parla mai di una "scuola" alternativa a quella borghese e tantomeno di riformare quest'ultima. Anzi: in un altro articolo (La nostra missione), sempre del 1913, si fa notare ai "culturisti" del PSI che
"È un pregiudizio credere che la borghesia domini per mezzo dell'ignoranza: essa invece domina per mezzo della sua cultura".
Ne deriva che la cultura borghese, di cui la scuola è serbatoio e dispensatrice, è un obiettivo contro cui scagliare la forza della nuova società rappresentata dall'avanguardia rivoluzionaria marxista. Ben diversamente la pensava Gramsci che, pur avendo seguito (e subito tradito) la Sinistra Comunista nella formazione del Partito Comunista d'Italia, sosteneva addirittura la necessità di "creare" uno strato intellettuale di proletari specializzati entro una massa ritenuta fisiologicamente inadeguata:
"Se si vorrà creare un nuovo strato di intellettuali, fino alle più grandi specializzazioni, da un gruppo sociale che tradizionalmente non ha sviluppato le attitudini conformi, si avranno da superare difficoltà inaudite" (Per la ricerca del principio educativo).
La scuola dopo l'Ottobre
Come rilevava Trotsky nel corso del consolidamento della rivoluzione d'Ottobre nei primi anni '20, la rivoluzione stessa e la successiva guerra civile avevano assorbito ogni energia sociale e non c'era stato tempo per occuparsi in modo sistematico della scuola, dell'educazione, della famiglia, e della vita quotidiana in generale. Del resto, anche prima della presa del potere Lenin, come i giovani marxisti italiani, se la rideva di coloro che immaginavano la rivoluzione come un fatto culturale e invitava a concentrare tutte le energie sulla forza del proletariato organizzato e sulla guida rappresentata dal programma del suo partito.
L'atteggiamento anticulturalista è perfettamente coerente con i compiti rivoluzionari ed è un tema utile per tracciare una linea di demarcazione fra il determinismo materialistico e l'idealismo. Ogni questione riguardante la "scuola" dev'essere trattata considerando il fine e non lo strumento in sé. Quest'ultimo risulterà idoneo o meno soltanto in rapporto a ciò che si progetta di raggiungere. Lo strumento "scuola borghese" può essere soltanto serbatoio di "cultura" borghese, non sede di una conoscenza umana che superi le classi. D'altra parte non può esservi "scuola proletaria", perché il proletariato, sconfiggendo le altre classi, elimina anche sé stesso in quanto classe. Lenin, significativamente, non si occupò mai della scuola russa in modo diretto. Nei 45 volumi delle Opere Complete è raro trovarne degli accenni, e quando ci sono riguardano soprattutto i corsi extra-scolastici per operai e contadini rivoluzionari. Comunque, di fronte alla mancanza di insegnanti comunisti, anche in questo campo egli dovette lottare contro la forza delle vecchie ideologie:
"Intellettuali borghesi hanno considerato i nuovi istituti d'insegnamento per operai e contadini come terreno per le loro fantasticherie personali gabellando banali bizzarrie come novità e cultura proletaria",
disse all'inaugurazione del primo congresso per l'istruzione extrascolastica. Egli dedicò invece molto tempo al recupero dei libri sparsi per la Russia, di cui gran parte era stata rubata dalle raccolte private, specialmente quelle dei nobili e dei latifondisti, prese di mira e saccheggiate dai contadini. L'appello a raccoglierli fu accolto entusiasticamente. Non solo i libri, ma anche preziosi oggetti d'arte vennero miracolosamente consegnati. La preoccupazione di Lenin per la sorte dei libri era fondata: durante la guerra civile le poche tipografie erano requisite per la stampa di giornali e bollettini, unico strumento per collegare gli immensi territori, e di carta non se ne trovava. Lo Stato stava facendo affluire dall'estero nelle biblioteche libri in lingua straniera, ma pochissimi erano in grado di leggerli.
Il patrimonio di conoscenze non individuali racchiuso nei libri era l'unica base possibile per costituire il nucleo delle future biblioteche pubbliche, ed esse, per molti anni, furono una risorsa insostituibile per la formazione. L'auto-istruzione generalizzata divenne di gran lunga la forma "scolastica" predominante e, almeno all'inizio, non era già più scuola. L'ordine di aprire la biblioteca imperiale e di procedere immediatamente allo scambio di libri fra biblioteche, sia russe che straniere, fu emanato da Lenin un mese dopo la presa del potere. Sembrava un'altra follia del "pazzo d'aprile", ma funzionò. Più della rete distributiva inter-bibliotecaria sognata da Lenin, e con gran rabbia lasciata cadere per impossibilità materiale di comunicazione, divenne fondamentale la vecchia rete clandestina che operai e intellettuali avevano realizzato fin dal 1879 per far circolare in tutta la Russia i libri proibiti dallo zarismo. È del 1918 una energica comunicazione di Lenin al responsabile all'istruzione, Lunaciarskij, affinché la smetta di sottovalutare il problema della rete bibliotecaria e risolva definitivamente l'accesso ai libri secondo il consolidato "sistema svizzero-americano".
Il valore effettivo e simbolico che veniva attribuito ai libri è sottolineato da un episodio avvenuto a Pietrogrado durante la guerra civile: in una delle sue scorrerie la guardia bianca si era accanita contro alcune biblioteche realizzate dai bolscevichi bruciandone i libri. Era il periodo in cui, sulla spinta del movimento futurista, le rappresentazioni teatrali erano uscite dai teatri e si svolgevano nelle fabbriche e nelle piazze; fu quindi organizzata una recita cittadina di strada cui parteciparono migliaia di persone. I resti carbonizzati dei libri furono raccolti, esibiti per diversi giorni e posti al centro di una "rappresentazione proletaria", con tanto di onori militari della Guardia Rossa e funerale illuministico in spregio all'oscurantismo. Oggi un evento del genere appare incredibilmente ingenuo e di "cattivo gusto", ma la nuova istruzione si sarebbe basata sulla biblioteca più che sull'insegnante di mestiere, perciò il libro assunse un vero e proprio carattere di tesoro.
Lenin aveva già affrontato il problema delle biblioteche in un articolo del 1913, Che cosa si può fare per l'istruzione pubblica. Non aveva parlato affatto della scuola zarista, come farebbe pensare il titolo, bensì della biblioteca di New York e soprattutto della sala di lettura per bambini, frequentata laggiù da più di un milione di piccoli lettori ogni anno. L'auto-istruzione non era ad ogni modo per Lenin un processo individuale da lasciare alla buona volontà del singolo, ma una delle funzioni della società. Nel 1920, in un discorso alla gioventù, precisò che la carta stampata e l'intelligenza individuale non erano tutto; nessun libro avrebbe mai sostituito la storia che produce libri, nessun individuo avrebbe potuto abbracciare le infinite relazioni che legano i libri gli uni agli altri e nessun insegnante avrebbe potuto surrogare l'esperienza della vita materiale di chi legge i libri, il lavoro utile alla collettività e svolto al suo interno.
"Dichiariamo apertamente che la scuola estranea alla vita e alla politica è una menzogna e un'ipocrisia" aveva detto nel 1918, al primo congresso dell'istruzione e, nel 1920, si era infuriato con Lunaciarskij quando questi, contrariamente agli accordi presi, aveva sostenuto ad un congresso del Proletkult la tesi della cultura proletaria in senso ristretto e classista. Aveva quindi redatto un progetto di risoluzione per correggere l'errore: il marxismo, vi leggiamo, è diventato la dottrina rivoluzionaria mondiale non perché ha respinto la conoscenza dell'epoca borghese, ma perché al contrario l'ha inglobata, rielaborandola, insieme all'intero sviluppo millenario della conoscenza umana. Del resto era dal 1909 che Lenin insisteva affinché i futuri animatori del Proletkult (Bogdanov e compagni) la smettessero con le sciocchezze da intellettuali fatte passare per "cultura proletaria":
"Formulando nella sua piattaforma il compito di elaborare una cosiddetta filosofia proletaria, una cultura proletaria, ecc. il gruppo Vperiod prende di fatto le difese del gruppo di letterati che in questo campo propagandano idee antimarxiste".
In Pagine di diario, del 1923, Lenin ribadisce che occorre re-indirizzare i fondi sprecati per l'apparato statale scolastico, "che appartiene alla vecchia epoca storica", a favore della costituzione di gruppi operai da inviare nelle campagne per l'istruzione elementare dei contadini. Nel contesto ribadisce anche la necessità di "portare comunismo" nelle campagne, ma si affretta a precisare che con ciò intende non la propaganda ideologica ma "la base materiale per il comunismo", strutture di conoscenza per far superare ai contadini la loro millenaria condizione sub-umana.
Lenin ammetteva di non stimare l'arte figurativa e la musica moderne, amava la pittura tradizionale ed era un divoratore di classici della letteratura dei quali discuteva volentieri, ma non fece mai neppure il tentativo di frenare o, peggio, "statalizzare" le varie correnti artistiche d'avanguardia. Dichiaratamente però non sopportava gli intellettuali e gli artisti che tendevano a formare cricche salottiere, e sopportava ancora meno chi teorizzava la "creazione" di una cultura proletaria. Il problema non era l'avere un'istruzione proletaria ma un proletariato istruito. Quando nel 1918 risultò chiaro che le scuole superiori non ce la facevano a soddisfare l'entusiastica richiesta di ammissioni da parte degli operai, egli scrisse una bozza che potrebbe sembrare un controsenso se non fosse l'indice di come egli intendesse risolvere i problemi scolastici: se i posti non bastano,
"Siano prese misure urgentissime che garantiscano la possibilità di studiare a tutti coloro che lo desiderano. Non vi debbono essere privilegi in via di diritto e di fatto. Per i proletari e i contadini siano garantiti stipendi su vasta scala" (Sull'ammissione agli istituiti superiori, 1918).
Garantire la possibilità di frequentare scuole dai posti limitatissimi a tutti coloro che lo desideravano e anche pagarli potrebbe sembrare una presa in giro: significava invece spezzare la logica della scuola tradizionale e far pressione per dar vita a istituti nuovi, allargati, e infatti nacquero in quel periodo le "facoltà operaie", che poco per volta diventeranno specie di istituti tecnico-agrari molto efficienti. Lenin aveva particolarmente a cuore l'educazione politecnica, cioè una formazione che unisse l'abilità manuale e la conoscenza trasversale di ogni attività produttiva umana, con la possibilità reale per i ragazzi, in un ipotetico sistema formativo, di passare liberamente da un ramo all'altro dell'industria e della conoscenza.
Se le scuole superiori erano in pessime condizioni, quelle elementari e secondarie stavano ancora peggio, dato che prima dell'Ottobre i bambini erano trattati quasi come fonte di energia animale nelle campagne, e nella maggior parte della Russia le scuole non esistevano nemmeno. Il problema era evidentemente risolvibile solo in ambito extra-scolastico, e non solo perché la scuola doveva essere trascurata per motivi d'emergenza nel periodo del "comunismo di guerra": la nascita di gruppi dediti alla auto-istruzione e alla formazione di biblioteche locali ebbe attenzioni più dirette – se ne occupò personalmente Nadezda Krupskaja – perché in modo del tutto spontaneo rispondeva alle esigenze della rivoluzione. Non si trattava solo di insegnare a leggere e scrivere agli analfabeti, che erano la maggior parte della popolazione, si trattava di spezzare un'arma della borghesia.
Covi di conservazione e avamposti rivoluzionari
Se la scuola fa parte della sovrastruttura di ogni dominio classista e non può essere che deposito di conoscenza finalizzata alla conservazione, quando si distrugga l'apparato statale, occorre distruggere anche la sua scuola. L'esigenza basilare di un'istruzione extra-scolastica poteva rappresentare la base di una nuova prospettiva. Il problema dell'istruzione tradizionale fu quindi non tanto sottovalutato quanto volutamente ignorato quasi ovunque nelle accesissime e caotiche riunioni politiche dei primi anni dopo l'Ottobre. Non mancarono i propositi, più spesso gli spropositi, ma in pratica fu fatto ben poco, tant'è che nei lavori sulla rivoluzione russa non si parla praticamente mai della politica bolscevica per la scuola. Il Carr, per esempio, nella sua monumentale e minuziosa opera ne fa solo alcuni accenni e non cita neppure una volta i vasti esperimenti extra-scolastici.
Ovviamente ai vari livelli del partito e delle organizzazioni collaterali non mancarono le prese di posizione sull'argomento, e neppure mancarono, benché fossero molto poche, le scuole sperimentali con le loro roboanti enunciazioni sull'uomo nuovo sovietico. Ma è evidentissimo che ci si riferiva sempre ad una ri-forma dell'istruzione, mai ad una vera, fondata anti-forma sulla maturazione dell'uomo nella nuova società. Del resto anche i documenti di riforma rimasero tali e, per quanto possa sembrare incredibile, la vecchia struttura scolastica zarista non fu toccata né da Kerenskij né dai bolscevichi e rimase immutata per anni, con tutto il suo personale che, tra l'altro, non collaborò mai con il potere bolscevico. Quando lo Stato fu in grado di sostituire il corpo insegnante era ormai tardi: la scuola, completamente stalinizzata, procedette con l'insegnamento tradizionale. Rimase cioè nazionalista, patriottica, conservatrice in ogni branca della conoscenza e, nella sostanza, impregnata di ideologia borghese grande-russa.
Il Commissariato del Popolo per l'Istruzione, formato già nel novembre del '17 e presieduto da Lunaciarskij, ereditò l'apparato zarista ma non riuscì neppure a saperne la consistenza, dall'entità numerica degli allievi e degli insegnanti alla dislocazione delle scuole. Non essendo direttamente sulla linea del fuoco della rivoluzione, la burocrazia scolastica zarista riuscì ad autodifendersi meglio dei borghesi e dei latifondisti, facendo il vuoto intorno ai commissari rossi del tutto impreparati ad affrontare sul piano non militare il sabotaggio passivo. Le cifre dell'inefficienza parlano chiaro: nel 1897 gli analfabeti erano il 77% dei russi tra i 15 e i 50 anni; alla fine del 1918, dopo un anno dai primi decreti contro l'analfabetismo, erano scesi solo al 70%. Di qui l'appello di Lenin: ognuno che sappia qualcosa lo insegni a qualcun altro che voglia imparare, senza aspettare la scuola. Funzionò: alla fine del 1919 la sola istruzione extra-scolastica aveva diminuito di 6 milioni il numero degli analfabeti adulti e il 1° Maggio del 1922 l'Armata Rossa dichiarava di non averne neanche più uno fra i milioni di suoi soldati.
Negli anni del fermento rivoluzionario e della guerra civile le scuole elementari erano passate sotto la gestione del sindacato dei maestri, diretto dai menscevichi e dai social-rivoluzionari democratici, mentre le scuole medie e superiori erano rimaste sotto lo stretto controllo dell'Associazione dei Professori, controllata a sua volta dal partito dei cadetti (partito dei costituzionalisti democratici, prima dell'Ottobre favorevoli ad una monarchia costituzionale, l'unico partito importante della borghesia russa). Mentre i bolscevichi erano entrati in polemica fra di loro sul fronte della cosiddetta "educazione proletaria", si era instaurata una specie di coesistenza pacifica fra i loro esponenti e l'apparato scolastico.
La rivoluzione, ancora carica di energia nonostante la carestia e la guerra civile, non ebbe tempo di aspettare i professori: per facilitare le comunicazioni fra i gruppi di auto-istruzione che si andavano costituendo, in pochi anni furono requisiti migliaia di locali nelle stazioni ferroviarie e negli abitati intorno ad esse. Nel maggio del 1919, quando la scuola non aveva ancora neppure avvertito il cambiamento rivoluzionario, al primo congresso di questi gruppi Lenin affermava:
"Sono certo che è difficile trovare nel lavoro sovietico un altro campo nel quale in un anno e mezzo si siano conseguiti successi così immensi come in quello dell'istruzione extra-scolastica".
Entro il 1922 furono realizzati ben 10.000 "posti di liquidazione dell'analfabetismo", la maggior parte intercomunicanti, abbonati ad almeno un giornale, provvisti di piccole biblioteche, con insegnanti volontari che si muovevano dall'uno all'altro. Tuttavia la scuola non fu scalzata. Anche Nadezda Krupskaja, che fu forse la voce più coerente nel riportare sul campo dei rapporti reali l'insegnamento di Lenin a proposito dell'istruzione, finì per riconoscere, negli anni '30, un ruolo insostituibile all'istituzione della scuola in quanto tale. Perciò il fine dell'istruzione extra-scolastica divenne in pratica un ponte provvisorio per l'inserimento di operai e contadini nella scuola tradizionale tramite esami d'ammissione facilitati, borse di studio ecc., insomma, tutti gli strumenti di una volta.
Anche la formazione di soviet scolastici, più che introdurre sostanziali cambiamenti, rispettò tutto sommato i formalismi democratici, per esempio con l'elezione dei maestri (che in ogni caso erano quelli disponibili) e la partecipazione degli allievi alla stesura dei programmi. Non è vero, come a volte si legge, che la Krupskaja avesse una concezione rivoluzionaria dell'insegnamento. Ella si scontrava con Lunaciarskij per la semplice ragione che questi, nonostante la sua vasta cultura o forse proprio per questo, aveva una smaccata concezione umanistica borghese della scuola, come in genere di tutta la sovrastruttura scolastica e artistica; d'altra parte Nadezda si scontrava anche con la maggior parte dei bolscevichi per via delle loro concezioni centralizzatrici stataliste, in contrasto con la sua propensione ad evitare che la scuola si trasformasse in un organo del partito-Stato, come avvenne quando lo stalinismo prevalse su tutta la vita pubblica e privata.
Normalizzazione stalinista
La formazione di una Scuola unica del lavoro, mai ben delineata, rimase sulla carta e non fu possibile – se non in isolati esperimenti subito falliti – istituire centri in cui il lavoro non venisse più concepito
"come lavoro al servizio della conservazione materiale della scuola o soltanto come metodo d'insegnamento, ma come attività produttiva e socialmente necessaria" (cfr. Bettelheim, Lotte di classe in URSS p. 134).
Negli anni immediatamente successivi all'Ottobre, le questioni all'ordine del giorno sulla scuola vertevano su come progettare il sistema educativo "socialista" e come pianificare il passaggio dal sabotaggio smaccato da parte dell'inerte sistema scolastico alla scuola di tipo nuovo, fino a coinvolgere gli istituti superiori e le università nella realizzazione del piano. Vi era un evidente dualismo fra la tendenza ufficiale "costruttiva", rappresentata dal Commissariato del Popolo per l'Istruzione, e il movimento reale "distruttivo" che mobilitava milioni di uomini. I fatti dimostravano però che la scuola poteva essere eliminata e sostituita con un esempio pratico di formazione sociale dell'uomo incentrata più sull'apprendimento che sull'insegnamento. Si potrebbe obiettare che nel processo educativo i due termini sono perfettamente simmetrici, ma ciò non è esatto, come vedremo nella seconda parte dell'articolo, quando affronteremo i meccanismi formativi.
Il fulcro della cosiddetta Scuola unica del lavoro statale era il corpo docente ex zarista, coinvolto di forza nel piano di riforma della struttura esistente, una riforma che sulla carta era radicale e pur sempre degna di attenzione, date le difficoltà, ma affidata a un vero e proprio ceto sociale della vecchia società che poteva solo insegnare quel che sapeva. Invece il fulcro della formazione extra-scolastica non era un corpo docente comunista (che comunque sarebbe stato inadeguato per numero e per preparazione di fronte al compito rivoluzionario), non era un esercito di insegnanti, ma il corpo vivo delle classi contadina e operaia, della grande e malridotta Armata Rossa, le cui enormi dimensioni erano imposte dalla guerra civile. La trasmissione della conoscenza non avveniva più a senso unico dall'alto al basso ma in modo interattivo, orizzontale: il cosiddetto insegnante non lo faceva per mestiere; per comunicare conoscenza doveva acquisirla, diventare parte attiva della doppia direzione fra sé stesso e gli "studenti". Era già qualcos'altro, perché fungeva da mezzo attraverso cui si realizzava la trasmissione orizzontale fra gli studenti che a loro volta diventavano insegnanti. Dovendo operare connessioni di tutti i generi per un apprendimento necessariamente relazionale, alla fine l'insegnante era quello che apprendeva di più. E la domanda di conoscenza, che la rivoluzione aveva elevato a vera e propria frenesia sociale, era irrefrenabile. Soprattutto, la trasmissione e i meccanismi che la regolavano erano un tutt'uno organico, presente ora all'interno di una classe monolitica intesa non come aula ma come proletariato uscito vincitore dallo scontro sociale. La campagna per l'istruzione extra-scolastica, fortemente voluta da Lenin e seguita dalla Krupskaja, era già una struttura nuova della società futura.
La normalizzazione capitalistica e patriottica stalinista la spazzò via. La scuola russa divenne come tutte le altre, anzi, peggio, perché fu uno strumento fondamentale della controrivoluzione, covo di fanatici costruttori dell'uomo nuovo sovietico, stakanovista, scientificamente deviato proprio nelle materie più delicate come la pedagogia, omologabile a quello fascista e nazista per quanto riguarda la sua sensibilità estetica. L'insegnamento secondario e superiore non solo rimase intatto nella struttura almeno fino al 1928, ma continuò ad essere elitario, precludendo l'accesso a operai e contadini nonostante la martellante propaganda. La scuola fagocitava ogni esperimento rivoluzionario: quando nell'estate del 1918 il partito avviò le prime facoltà operaie, si proponeva con esse di ricavare in poco tempo un certo numero di proletari ben preparati in grado di dar vita a forme embrionali di controllo operaio. L'inizio fu entusiasmante, ma già alla fine dello stesso anno il Commissariato per l'Istruzione, obbedendo alle terribili esigenze dell'industria, incominciò a ridurre la durata dei corsi togliendo la parte di formazione generale. Poco per volta gli istituti furono trasformati in meri centri di formazione professionale per operai specializzati, simili in tutto e per tutto a quelli occidentali. I diplomati che allora ne uscivano potevano accedere all'università, ma le loro lacune erano tali che ben pochi, per i primi anni, riuscirono ad arrivare alla laurea. In poco tempo tutto l'apparato scolastico si ridusse a una catena di montaggio per la fabbricazione in serie di soggetti perfettamente omologati, adatti alla "costruzione del socialismo in un solo paese".
Guazzabuglio ideologico culturalista
Lo stalinismo "costruì" naturalmente capitalismo, e anche moderno, ma fu contemporaneamente una gigantesca, durevole restaurazione di rapporti "asiatici" che trassero in inganno i facilmente ingannabili socialdemocratici di tutte le risme. Si sa che al XX Congresso del PCUS, nel 1956, Kruscev rinnegò Stalin ma non lo stalinismo, che trionfò ancora per altri trent'anni e passa (anzi sopravvive, fortissimo, a tutt'oggi anche fra gli anti-stalinisti). Questa ardita acrobazia politico-sociale ebbe come fulcro la farsa dell'abiura nei confronti del totalitarismo, identificato con la mancanza di democrazia e di cultura, perciò di civiltà. Era la stessa giustificazione storica accampata dalla socialdemocrazia secondinternazionalista al tempo di Stalin: la dittatura proletaria non sarebbe uno strumento specifico della rivoluzione anticapitalistica, ovunque essa esploda, ma una caratteristica peculiare dell'incivile Russia. Kruscev, adottando la concezione socialdemocratica secondo cui dittatura proletaria significava stalinismo di marca specificamente russa, ne sottoscriveva necessariamente un'altra, acclamata al XX Congresso: in luogo di "dittatura proletaria" si sarebbe dovuto d'ora in poi scrivere: "Democrazia, cultura, civiltà, emulazione". Salvo poi ricorrere a dittatura, terrore e violenza ogni qual volta fosse messo in gioco il potere degli emulatori democratici, acculturati e destalinizzati. Come gli incivili stalinisti avevano represso nel sangue i civilissimi proletari tedeschi di Berlino nel '53, così i destalinizzati massacrarono a cannonate i non meno civili proletari ungheresi, appena sette mesi dopo i grandi proclami di democrazia e civiltà che avrebbero dovuto seppellire lo stalinismo insieme con la mummia del defunto dittatore.
Evidentemente il parametro della cultura e della civiltà non è quello più adatto per valutare scientificamente i fatti, dato che i fascismi furono i massimi prodotti di entrambe. Democrazia, cultura, civiltà, emulazione, scienza e in genere tutta l'ideologia dello stalinismo continuarono a passare nella società attraverso il gigantesco inquadramento di tipo scolastico, dai bambini arruolati nei "pionieri" ai vecchi e potenti professori, dalle accademie militari a quella vera e propria scuola-setta che fu la Ceka (poi Ghepeù). Tutto fu emanazione diretta del partito-Stato. La natura borghese (e non "proletaria degenerata" né semplicemente "burocratica") dello Stato russo è dimostrata non solo dalla sua persistenza ma dal modo di persistere: lo Stato borghese, per assolvere i suoi compiti in pieno, ha bisogno di essere ben saldo nel tempo, di coinvolgere molte generazioni, di separare adeguatamente bambini, giovani e adulti in compartimenti stagni, di obbligarli ad assorbire ciò che trasmette a senso unico un funzionario dello Stato sulla base di un programma statale pressoché immutabile.
Quello russo non poteva essere definito Stato proletario perché non era affatto strumento transitorio della dittatura di classe per l'eliminazione di tutte le classi; aveva invece ereditato il codice genetico per riprodursi. Il problema della formazione dell'uomo non potrà prendere la via statale anche per evitare che lo Stato si perpetui attraverso questo suo organo riproduttivo che è la scuola. L'educazione di Stato è adatta al riformismo socialdemocratico della Seconda Internazionale, madre dei rinnegati di tutti i tempi, compreso il periodo di restaurazione grande-russa staliniana. Lenin era stato accusato dai rinnegati (specie austro-marxisti) di "aver dimenticato" scuola e cultura quando andava affermando che la rivoluzione comunista in Russia significava "Soviet più elettrificazione" (cioè potere proletario più sviluppo delle basi materiali del socialismo). Stalin, secondo costoro, aveva corretto l'errore aggiungendo scuola e cultura in gran pompa patriottica, ma aveva sbagliato a sua volta mantenendo la dittatura.
Occorre mettere un po' d'ordine in questo guazzabuglio ideologico. I critici di Lenin diventano semi-critici nei confronti di Stalin, al quale addebitano la colpa non tanto di aver rinsaldato lo Stato fin dalle sue fondamenta – diciamo così – riproduttive (la Famiglia, la Scuola, l'Esercito Patriottico, ecc.), quanto di aver sterilizzato la democrazia dei Consigli popolari, cioè dei Soviet. Il pasticcio riguarda evidentemente un problema di coerenza logica: questi democratici sociali sono nemici dello Stato totalitario ma vogliono i mezzi che servono a perpetuarlo; piangono sulla sterilizzazione dei soviet ma non si accorgono che essi divengono sterili proprio perché ridotti a parlamentini assembleari, a "consigli", appunto, non più organi della dittatura di classe ma di una democrazia capillare.
Secondo una versione socialdemocratica, quella dei Bauer, Deutscher e altri, mancava poco a un abbraccio mondiale di tutti i socialismi, dato che Stalin avrebbe potuto ricevere il plauso dei riformisti se solo fosse stato democratico. Per noi, l'abbiamo visto, Stalin era davvero un democratico, ma i Bauer e i Deutscher evidentemente volevano anche le apparenze, cioè un parlamento tradizionale. Comunque riconoscevano che la Russia stalinista aveva superato quella leninista dato che, oltre ai Soviet e all'Elettrificazione, aveva realizzato anche la Scuola. Il popolo russo era stato istruito, educato, portato al livello tecno-ideologico occidentale. Siccome queste erano le premesse di ogni sistema democratico, Stalin aveva inconsciamente aperto la porta alla nuova Russia socialdemocratica, liberale, parlamentare, pluralista ed elezionista. Una variante in appoggio a Bauer-Deutscher era espressa dal segretario della Seconda Internazionale, Adler, il quale vedeva la Russia non tanto come potenziale democrazia acculturata ecc. quanto come unica forza militare sufficiente a salvare la democrazia contro i fascismi emergenti. Invece per Kautsky le cose stavano in altro modo: fino alla morte (1938) egli sostenne che la dittatura era il male assoluto e che lo sfregio russo alla democrazia avrebbe potuto essere sanato solo da un attacco armato da parte degli avversari democratici, così come lo sarebbe stato contro i fascismi. Come si vede i Bauer-Deutscher erano più lungimiranti dell'ipocondriaco Kautsky e da questi furono attaccati ("il sozio Bauer") per l'ottimismo dimostrato nei confronti dell'acculturata Russia.
Le arrampicate sugli specchi della politica opportunistica non valgono una digressione, ma esse ci riportano alla nostra solita ricerca degli invarianti, cioè alle caratteristiche comuni nonostante le differenze. Sia i possibilisti, che auspicavano un'evoluzione democratica dello stalinismo senza accorgersi che l'avevano sotto gli occhi, sia i pessimisti alla Kautsky, che avrebbero raso al suolo il Kremlino, erano uniti nella concezione gradualista dell'avvento del socialismo. Per entrambe le correnti, nei paesi capitalisticamente maturi il socialismo sarebbe arrivato per via pacifica, in forme che avrebbero escluso la dittatura del proletariato. Invece in Russia la situazione di inciviltà aveva determinato una fase di passaggio dittatoriale (recuperabile o meno), per cui ecco il realizzarsi di una transizione radicalmente diversa da quella ipotizzabile nei paesi civili, cioè scolarizzati e impregnati di cultura. Sembra uno scherzo: gente che stava vivendo il trionfo del totalitarismo fascista e keynesiano proprio nei paesi più "civili", attribuiva le determinazioni dello stalinismo totalitario all'arretratezza dello zarismo, all'ignoranza del popolo russo, al primitivismo dei contadini, un insieme di fattori che, con il loro peso decisivo, avevano permesso l'ascesa al potere del "despota asiatico" Lenin (tesi ormai universale dell'anticomunismo).
Lenin, al contrario di Stalin, non avrebbe dunque avuto a cuore la scuola, la cultura del popolo russo, la costruzione di civiltà. Noi, al contrario, collegandoci all'anticulturalismo della gioventù socialista del 1912-13, vediamo, nel rigoroso metodo che Lenin come individuo fu portato a rappresentare, la fusione fra l'istinto rivoluzionario del proletariato russo e la capacità del suo partito di rimanere aderente alla linea del futuro internazionale della rivoluzione. Quando Lenin, appena sceso dal treno alla stazione di Finlandia nell'aprile del 1917, voltò le spalle ai delegati del governo provvisorio e saltò sulla celebre autoblindo, non gridò agli operai di andare avanti con il programma socialdemocratico-borghese russo, ma che la loro rivolta era l'avanguardia della rivoluzione internazionale.
Il proletariato russo, organizzato in fabbriche modernissime (erano le ultime arrivate sulla scena) non ancora corrotto dalla pratica suicida del riformismo, in grado perciò di esprimere quella particolare "spontaneità" (determinata dalla sua condizione materiale) non più cieca contro gli effetti del disagio sociale ma attiva e razionale contro le sue cause, si era saldato al programma rivoluzionario e aveva saputo trascinare 120 milioni di contadini nella sua lotta. Mentre i rappresentanti della cultura russa, dai monarchici costituzionalisti ai socialisti rivoluzionari, razzolavano fra i rimasugli della cultura del passato, i proletari analfabeti spezzavano le barriere che li separavano dal futuro. E "fecero" un'anti-scuola.
L'istinto rivoluzionario è inversamente proporzionale alla cultura che ogni uomo possa assorbire nell'attuale società. Fu pazzesco immaginare che la staliniana ricostituzione della scuola, con ambienti, programmi e persino edifici più mostruosi di quelli borghesi del resto del mondo, portasse il "popolo" russo verso il socialismo:
"Vana quindi la storiella che Stalin si mise sulla via della culturetta scolastica e con questa portò il popolo russo all'altezza del socialismo. In tal modo il popolo russo non fu che portato all'altezza dell'imbecillità borghese, irta di tecnologie e di collegi accademici, di ipocrite preterie di àuguri moderni della cosiddetta scienza che avanza, in un mondo che vilmente rincula" (cfr. Bordiga, Il testo di Lenin sull'estremismo…).
La borghesia aveva realizzato una grandiosa rivoluzione. Aveva spezzato l'antica immobilità e introdotto una possente accelerazione sociale. L'aveva fatto a vantaggio di una classe, ma anche, oggettivamente, per il futuro dell'umanità intera. Raggiunto il risultato storico, il processo non fu reiterabile da parte della stessa classe. Perciò allo stalinismo non fu dato di ripetere la grandezza originaria, poté solo "costruire" scuole, non socialismo. Fisicamente, con i cantieri e i muratori, non con un programma rivoluzionario. Per edificare involucri nuovi adatti alla vecchia cultura.
Il destino della scuola
La critica democratica al concetto di "dittatura del proletariato" – socialistica, anarchica o gruppettara che sia – si basa sulla leggenda ideologica secondo la quale i comunisti, invece di lavorare per una società futura libera dai vincoli di classe, finalmente divenuta umana, entrerebbero in contraddizione col proprio programma e conserverebbero il potere per sé, come nuova espressione di classe. Il fatto è che l'ideologia avversaria non riesce ad uscire dal presente e a concepire un mondo privo di classi, nonostante l'umanità abbia vissuto per milioni di anni senza conoscerle affatto. Quando quest'ideologia la si fa propria senza che vi siano neppure interessi di classe a spiegare la capitolazione verso di essa, vuol dire che si è proprio mal messi. Non si è solo incatenati a doppia mandata alla vecchia società, si è addirittura più indietro della borghesia stessa poiché si rifiuta persino la sua scoperta più importante: le specie si evolvono attraverso drastiche metamorfosi. Mutazioni. Rivoluzioni, insomma.
Alla vigilia della sua rivoluzione, la borghesia rivendicava le libertà elementari di insegnamento e di apprendimento come programma in divenire della società capitalistica. Quel programma non era ancora compiuto nella prima metà dell'800 e perciò fu ripreso anche da Marx nel Manifesto. Oggi il divenire storico ha realizzato non solo queste istanze sulla scuola, che furono comuni a borghesia e proletariato, ma anche solide anticipazioni della società futura in tutti i campi, come l'immensa forza produttiva sociale che permetterebbe, se liberata, di dare addio al mondo della necessità, di far lavorare le macchine al posto degli uomini, di utilizzare l'energia del Sole, di armonizzare il rapporto fra uomo e natura, ecc. Di conseguenza i compiti della dittatura proletaria si fanno sempre più "tecnici" e sempre meno "politici" (le virgolette sono indispensabili: a rigor di logica per noi non c'è contrapposizione fra i due termini), come del resto previsto dallo stesso Lenin nel confronto fra Russia e Germania del suo tempo.
Non abbiamo ragioni di principio – non siamo utopisti anarchici – che ci inducano a rifiutare l'esercizio di un controllo da parte dello Stato proletario nella fase di transizione, anche con i mezzi coercitivi e totalitari del tipo di quelli utilizzati dalla borghesia, se si rendessero necessari per evitare tentativi controrivoluzionari da parte borghese. Ma, come s'è accennato all'inizio, il sistema capitalistico è a tal punto storicamente maturo che il problema del controllo della produzione e riproduzione sociale non si pone più come negazione, limitazione, coercizione, bensì come liberazione. Al punto da rendere evidente che la vecchia polemica libertaria contro i comunisti sullo Stato ha perduto di senso, così come ha perduto di senso la rozza concezione della nuova società che avanza per decreti e imposizioni.
Una volta vinta politicamente e militarmente (anche con la rivolta dei suoi stessi uomini e delle sue strutture armate, come in tutte le rivoluzioni), la borghesia non avrà grandi possibilità di far girare indietro la storia. Le reti della formazione oggi sono organi consolidati della società borghese e, con le reti dell'informazione, della comunicazione e dei trasporti, configurano il suo cervello collettivo, il suo sistema nervoso. Il movimento rivoluzionario erediterà l'industria e le infrastrutture, ma non gli apparati scolastici e nemmeno quelli dell'informazione. Maestri, professori, studenti, giornalisti, artisti e via dicendo si schiereranno con i vari poli in cui si dividerà la società e così facendo disintegreranno gli apparati di cui ora fanno parte, lasciando il posto a quelli nuovi che verranno.
Quando si affronta il problema dell’educazione e della formazione, occorre andare molto oltre il campo della scuola in senso stretto. In un certo senso si è obbligati. Non si può parlare dell’educazione riferendosi semplicemente all'insegnamento e alla necessità del controllo dell’educazione da parte del nuovo Stato proletario. La scuola è già da tempo una realtà utile al controllo statale tramite la perpetuazione, anzi, la fossilizzazione dell'ideologia dominante, e non può essere riciclata come nuova sovrastruttura. D'altra parte, si potrebbe obiettare, ci sarà pure una qualche specie di struttura adatta al conoscere della specie. Ci sarà di certo, come vedremo, ma non sarà né un apparato specifico né una formazione autogestita, come vorrebbero alcuni libertari. Non ci sarà una scuola virtuale, gravitante intorno a una raccolta delle immense conoscenze di domani come successe con l'Enciclopedia degli illuministi borghesi. Le nuove generazioni non dovranno attingere la conoscenza a una libera fonte, alla Rousseau, il quale voleva che l'individuo fosse posto di fronte ai propri sensi, istinti, coscienza, individualmente, in modo da formarsi senza pregiudizi e senza costrizioni, come l'uomo primordiale. Indietro non si ritorna affatto. La pedagogia di Rousseau era già stata sepolta dai suoi stessi compagni enciclopedisti (specie da Diderot) e oggi la conoscenza è più che mai un fatto sociale, di interdipendenza fra gli uomini; ha sue leggi, strutture, dinamiche, e produce enormi effetti sulla natura che ci circonda.
I reparti dell'Armata Rossa durante la guerra civile cantavano – significativamente e senza contraddizione – la Marsigliese, a ciò portati dal fatto che erano lo strumento di due rivoluzioni in una: la borghese e la proletaria; i reparti della nuova rivoluzione, se mai avranno bisogno di cantare, non andranno certo a ripescare canzoni dalla rivoluzione del nemico.
Rozze, ma pur sempre anticipazioni
In una prima fase la borghesia agisce in seno alla società feudale introducendovi cambiamenti reali, e con le sue manifatture, gli operai e i mercati ne spezza effettivamente la chiusura. È nello stesso tempo prodotto e fattore di cambiamento. Successivamente, diventata ormai classe vincitrice, attraversa uno stadio riformista-democratico e realizza il suo programma di classe. Nella sua storia essa agisce quindi in modo assai particolare: prima realizza la libera produzione e il mercato; in seguito, quando questi risultati cozzano contro i limiti della società feudale chiusa, rivendica libertà democratiche e istituzionali contro il potere costituito; infine dalla rivendicazione passa nuovamente alla realizzazione, consolidandosi, internazionalizzandosi col mercato mondiale. Ogni sua realizzazione diventa immediatamente base per una nuova rivendicazione della parte più avanzata della stessa borghesia, perché questa classe, nella sua fase ascendente,
"non può esistere senza rivoluzionare continuamente gli strumenti di produzione, dunque i rapporti di produzione, dunque la totalità dei rapporti sociali" (Marx, Manifesto).
Quando è ancora accesa la lotta contro i residui della vecchia società feudale e si forma lo Stato borghese moderno, le rivendicazioni della borghesia e del proletariato hanno molti punti in comune. Nel periodo di consolidamento del potere borghese si apre una breve stagione in cui le frazioni della borghesia si polarizzano attorno a due atteggiamenti fondamentali: da una parte la conservazione pura e semplice del potere, dall'altra la continuazione della marcia attraverso il miglioramento del sistema. In questo stadio, che corrisponde alle origini del movimento proletario classista, le rivendicazioni di quest'ultimo hanno dei punti in comune solo con la parte avanzata della borghesia, come nel caso del Manifesto:
"Educazione pubblica e gratuita di tutti i ragazzi. Abolizione del lavoro in fabbrica dei ragazzi nella sua forma attuale. Unificazione dell'educazione con la produzione materiale […]. Atteggiamento dei comunisti di fronte ai diversi partiti di opposizione: […] i comunisti lavorano ovunque al collegamento e all'intesa fra i partiti democratici di tutti i paesi".
Ma di lì a poco quasi ovunque il movimento proletario inizia la sua storica battaglia contro i riformisti. Le istanze proletarie di riforma, prima giustificate dall'immaturità del movimento, diventano ben presto "riformismo" e chi le sostiene non fa più parte della "destra" operaia ma della "sinistra" borghese infiltrata nelle file del proletariato. La rivendicazione di riforma sociale – che spesso è imposizione con dure battaglie – con lo sviluppo della lotta di classe perde man mano d'importanza. Presto fagocitata dall'avanzare del suffragio universale e del parlamentarismo, smarrisce ogni rapporto con le reali esigenze dei proletari in genere e tanto più con quelle dei socialisti prima, e infine dei comunisti. Da allora in poi è un seguace della borghesia riformatrice chiunque pretenda di sostituire lo stadio dittatoriale dopo la conquista del potere con una semplice politica di ri-formazione della società. Ciò vale anche per la scuola, sia pure nel periodo di rodaggio della società nuova, durante l'applicazione del programma immediato.
Il massimo dell'attivismo riformista borghese si è manifestato al culmine della potenza sociale del capitalismo. In questa ultima fase, in cui la società borghese ha assunto tutti gli aspetti del fascismo, il Capitale esprime forme di controllo centrale sull'economia in cui produzione e distribuzione vengono pianificate in parte dallo Stato, e l'istruzione esce dalle scuole per entrare nella formazione generale dell'uomo capitalistico. Non solo marce e adunate, indice di socialità primitiva, ma anche concili, congressi, convegni, corsi di ogni tipo, insomma nascita di "scuole" esterne a quella propriamente detta, aggregazioni di individui che producono informazione e formazione, soprattutto attraverso i canali ormai tradizionali della comunicazione. Siamo al programma di "istruzione permanente" dell'UNESCO, che si può sintetizzare così: a) asili nido e scuole materne per i rudimenti pratici e le prime forme di socializzazione al di fuori della famiglia; b) educazione dei genitori ad educare per mezzo di canali istituzionali appositi e programmi dei mass media; c) scuola riformata secondo le moderne teorie pedagogiche e didattiche con l'introduzione di tecnologie computerizzate; d) aggiornamento scolastico degli adulti; e) miglioramento della didattica indiretta tramite i mezzi di comunicazione di massa; f) utilizzo massiccio della psicologia e delle tecniche di istruzione programmata.
Non abbiamo nessuna remora nel dichiarare che consideriamo il programma dell'UNESCO una proposta di riforma sub-fascista, e che chi si avvicina di più a un simile piano è il sinistrismo riformista e pasticcione, con i Berlinguer e i De Mauro nostrani (quelli della tremendissima riforma ante-Moratti). Abbiamo sempre detto che il fascismo rispetto alla democrazia non è un ritorno al passato, al contrario, esso esprime nello stesso tempo un balzo in avanti e una continuità, realizzando dialetticamente le vecchie istanze riformiste e, si scandalizzi chi vuole, democratico-popolari. Questa verità tante volte ribadita – e dimostrata – dalla nostra corrente, è riconosciuta dagli stessi borghesi che, aderendo al fascismo, dimostrarono quanto il movimento non fosse semplicemente un'accozzaglia di impresentabili figuri ma un moderno movimento sociale mondiale di autodifesa del capitalismo. Un gerarca profondamente fascista come Bottai, che si occupò della scuola, dei cosiddetti beni culturali e delle manifestazioni dell'arte, ci teneva molto a ricordare agli idolatri del cretinismo parlamentare e ai suoi stessi camerati, che il fascismo, lungi dall'essere un regime del passato, era invece andato oltre la società borghese attuando la "vera" democrazia. Non aveva forse realizzato l'eliminazione dei conflitti di classe portando tutti gli uomini allo stesso livello giuridico? Mettendo padroni e operai non più l'uno contro l'altro ma unendoli verso lo stesso scopo nello Stato corporativo? Varando quel sistema di assicurazioni sociali che era nel programma socialista e che i partiti operai non erano mai riusciti a realizzare?
Tutte queste, naturalmente, sono sciocchezze borghesi al pari di tutte le altre sparate in regime democratico parlamentare, ma vengono storicamente dopo la democrazia. Tant'è vero che la tensione all'interno del Partito Fascista verteva anche sulle forme della sovrastruttura, dato che Bottai si prodigava sia sul fronte della stampa "culturale", cercando di evitare l'omologazione allo "stile" fascista, che su quello propriamente educativo. Alla base del nuovo programma di formazione, che doveva partire dal basso e coinvolgere per ultime le università, vi doveva essere
"la volontà di sostituire ad una scuola borghese, per principio e per politica, una scuola popolare, che sia veramente di tutti e che risponda veramente alla necessità di tutti. La scuola dev'essere sommamente educativa: di qui l'innesto totale del lavoro nello studio e dello studio nel lavoro" (Carta della scuola).
Non si parla di riforma bensì di sostituzione, e inoltre l'ultima frase rispecchia tanto paradossalmente quanto esattamente il programma di Marx. Il programma idealistico e crociano della riforma Gentile, non ancora fascista, veniva gettato alle ortiche a favore di quello "attivista" di Dewey. L'uomo non doveva essere asservito dalla macchina ma servito da essa ed era lo Stato a fornire i mezzi educativi "per condurre il pensiero dell'operaio al di là del suo strumento di lavoro". La guerra bloccò la realizzazione del programma fascista per la scuola, anzi, dopo il 1945 vi fu una regressione a Gentile (e a Croce, a Gramsci… e al '68, che scoprì con trent'anni di ritardo quel nozionismo che Bottai voleva eliminare con la Carta della Scuola). Mentre la scuola si rafforzava come apparato, insensibile a qualsiasi vero cambiamento, sbocciarono per reazione nel '900, con Dewey come capostipite, nuove teorie che univano in modo indissolubile conoscenza e lavoro pratico, descolarizzazione e autoformazione, in tentativi ufficiali o eretici di individui che si battevano per spezzare l'immobilità della scuola del loro tempo, come Decroly, Cleparède, Steiner, Makarenko, Montessori, Piaget, Suchodolski, Illich, Ausubel, Bruner, e tanti altri.
Licenziare lo Stato e quindi la scuola
Certo, per trovare una concezione davvero non "scolastica" (nel senso attuale del termine) della formazione dell'uomo occorre risalire al comunismo primitivo, alle utopie o alle isole comunitarie realizzate dalla Chiesa durante la sua storia millenaria, prima che lo stesso organismo sociale inventasse la scuola moderna. Ma leggendo che il fascista Bottai, nell'ambito di una riforma dello stato borghese, progetta di realizzare un innesto concreto fra il metodo evolutivo basato su relazioni dinamiche organismo-ambiente di un Dewey e l'eliminazione della dicotomia fra studio e lavoro di Marx (non sappiamo quanto conoscesse quest'ultimo, ma si consultò di sicuro col deweiano Volpicelli), non possiamo assolutamente fare a meno di fare il confronto con i manicomiali progetti aziendal-burocratici e meritocratici dei Berlinguer-De Mauro, assistiti dal codazzo parassitocratico della CGIL Scuola, al cui confronto la capacità di devastazione della povera Moratti è roba da lattanti.
Abbiamo ricordato che l'anarchismo rifiuta la dittatura del proletariato attraverso Stato e partito, con la motivazione che, invece di estinguersi, Stato e partito perpetueranno sé stessi e quindi la propria dittatura; il pensare che possa succedere diversamente sarebbe un'utopia. Siamo abituati ai paradossi e quindi non troviamo strano che gli utopisti ci chiamino utopisti, ma un minimo di conoscenza dei processi storici dovrebbe portare chiunque ad afferrare perlomeno il fenomeno della transitorietà delle forme sociali. È infatti evidente anche al comune senso pratico che esse non sono eterne. Se, come abbiamo visto, la realizzazione di certi elementi di transizione è già operante nelle società più sviluppate, allora la funzione dello Stato si avvicinerà sempre di più a quella di curatore fallimentare della vecchia società, per liquidarla.
Affinché lo Stato, per il periodo in cui sarà necessario, non abbia compiti "costruttivi", ma solo di governo del passaggio alla società nuova sviluppata, occorrerà che, già nella fase di transizione, gli enti di pianificazione industriale e sociale a tutti i livelli siano costituiti entro la struttura organica della società e non in un ente separato. La dittatura del proletariato utilizzerà dunque forza militare e terrore ovunque le condizioni materiali di difesa del potere politico rendessero necessaria una potente coercizione, ma, terminata l'opera, lo Stato sarà licenziato e non tornerà mai più. Lo stesso vale anche per il partito, a meno di non immaginare la sua futura funzione non quale organo di lotta contro altri partiti, ma come una delle forme in cui si potrà manifestare il nuovo cervello sociale (Tesi di Napoli del PCInt., 1965). A maggior ragione, tutto ciò vale per la scuola.
Nella misura in cui nella società borghese c’è sempre più bisogno di Stato (alla faccia dello strombazzato liberismo), proprio questa sua accresciuta presenza nelle attività della vita sociale porterà ad una situazione in cui, avendo già svolto il suo ruolo centralista, pianificatore, regolatore dell'economia, ecc., esso tenderà a scomparire in quanto tale lasciando le funzioni organizzative a nuove strutture sociali. L'esempio che, sul n. 5 della rivista, abbiamo fatto per quanto riguarda l'agricoltura, ormai diventata un servizio nazionale per l'alimentazione (come i Pompieri, la Forestale o l'Istat lo sono per i rispettivi campi), vale anche per l’istruzione, per lo spettacolo e per la cultura. In quanto espressione dell'ideologia della classe dominante, essi sono servizi omologati allo Stato. Nella misura in cui lo Stato se ne impadronisce, la dittatura proletaria avrà un compito distruttivo in meno e una base già pronta in più da cui partire per sviluppare la nuova società.
Impossibile riforma
Che cos'è esattamente la "scuola", questo particolare istituto che oggi tutti vorrebbero riformare (e non ci riescono) e che la rivoluzione russa non riuscì a eliminare? Questo mostro che assorbe una quantità immane di energia sociale immobilizzando per anni e anni miliardi di individui in particolari ghetti senza farli partecipare alla produzione e riproduzione sociale? Questa fabbrica di omologazione che oltretutto produce in esclusiva sia l'esaltazione che la finta critica di sé stessa? Niente al mondo ha prodotto tanto materiale autoreferente, metascolastico, quanto la scuola, da Sant'Agostino ad oggi.
La scuola generalizzata è un'istituzione esclusivamente borghese e per di più abbastanza recente, dato che, come la conosciamo adesso, non ha ancora duecento anni. In Italia la prima legge costitutiva della scuola statale primaria gratuita fu promulgata da Murat a Napoli nel 1810, ma non ebbe il tempo di essere applicata per via della restaurazione. La scuola pubblica propriamente detta fu introdotta dal Piemonte nel 1859: estesa a tutte le annessioni successive, resistette fino alla riforma Gentile del 1923. Negli altri paesi la sua storia non è troppo diversa.
Il capitalismo stesso ha dunque introdotto la scuola popolare e gratuita. In seguito l'ha resa obbligatoria al pari del servizio militare. Più o meno con le stesse motivazioni utilizzate per l'esercito di volontari d'oggi, la sta rendendo sostanzialmente volontaria e "professionale". Come il soldato non sta più in caserma, avendo invaso la società militarizzata, dove guerra e pace sono la stessa cosa, così la scuola è uscita dalle aule e si è diffusa sul "territorio" permeando di sé l'industria, i servizi, il sindacato: questa è la società dei "corsi di formazione". C'è da chiedersi come mai un giovane, dopo vent'anni di scuola, non sia ancora formato. Non seguiremo le varie teorie scolastiche sulla scuola, né quelle ortodosse né quelle eretiche. Ci basta una fenomenologia terra-terra, ricavata da quanto osserva l'industria, che avrebbe bisogno di gente in grado di produrre, e da quanto rilevano pochi coraggiosi scienziati, non necessariamente dediti alle questioni sociali, che hanno dovuto battersi contro la scuola.
La prima considerazione è sull'obbligatorietà. Negli anni '60 era abbastanza seguita una corrente – l'esponente più conosciuto era Ivan Illich – che proponeva una "descolarizzazione della società". Proponeva cioè di eliminare l'ipocrisia della scuola per tutti, di renderla completamente privata e farle pagare le tasse sui profitti, di lasciarle in mano i rampolli dei borghesi e pensare a strutture alternative per una diffusa auto-formazione degli altri membri della società, da registrare su una carta di credito educativo. Questa corrente, che sembrava ormai dimenticata, sta tornando a galla sulla scia dell'attività formativa al di fuori della scuola, la quale appare (ma appare solamente) come una realizzazione tardiva dei suoi presupposti teorici. Siamo sempre nell'ambito della riforma: accanto alla scuola normale per borghesi, dovrebbero sorgere isole popolari di auto-formazione. L'ipotesi potrebbe essere scambiata con quella dei nuclei di istruzione extrascolastica russi, ma è tutt'altro. Non si può ordinare a una società di essere ciò che non è: se non sviluppa una rivoluzione, la società è costretta a riprodurre sé stessa in qualunque forma. Questa velleità riformista si smaschera facilmente ricorrendo al paradosso logico individuato da Bateson, Watzlawick e altri come generatore di schizofrenia: ordinare a un bambino "sii spontaneo!", "vai a giocare!", "devi volermi bene!", può alla lunga comportare seri problemi alla psiche. È come ordinare al mercato: "sii libero!" e varare una legge totalitaria contro la tendenza naturale del capitalismo al monopolio. In fondo anche il sistema staliniano era basato su un paradosso logico di enorme potenza devastante, dato che l'uomo sovietico, dalla culla alla tomba, era sottoposto all'ordine: "sii comunista!", mentre la sua vita quotidiana era un continuo trangugiare paccottiglia anticomunista come l'emulazione stakanovista, la santa famiglia, il santo lavoro, il patriottismo, la chiesa-partito con la sua liturgia, i campi di concentramento, ecc. fino ai processi e alla fucilazione della vecchia guardia bolscevica. Sono tutti esempi di quelle situazioni sociali in cui l'obbligo contrasta con la natura dell'azione. La rivoluzione russa aveva portato una sincera ondata di entusiasmo per il problema dell'istruzione come base per la formazione dell'uomo nuovo. L'operaio e il mugik che imparavano a leggere e scrivere entravano davvero in un mondo di relazioni nuove e si buttavano sulle povere biblioteche di Lenin avidi di materiale per allargare questo mondo. Ma c'era stata una rottura rivoluzionaria con il passato. Senza di essa il meccanismo non funziona. Oggi ci sono biblioteche dappertutto con milioni di volumi da prendere in prestito quando si vuole, ma nessuna diventa un centro di auto-formazione, né lo diverrebbe se anche vi fosse un decreto governativo in più.
Conoscenza-merce e investimento scolastico
La seconda considerazione è sulla capacità di auto-generazione della scuola. Essa dev'essere ben potente se le baionette dell'Armata Rossa rivoluzionaria, le stesse che inchiodarono cinque eserciti di guardie bianche russe e quattro di nazioni straniere (due dell'Intesa, uno tedesco e uno polacco), non furono in grado di produrre un antidoto proletario dittatoriale. Non fu distrazione, fu impossibilità reale contro una forza che si dimostrava oggettivamente superiore anche se si presentava come problema secondario. Lunaciarskij dovette sorbirsi i rimbrotti di Lenin, ma questi non diede mai l'ordine di farla finita con la scuola e con la sua riforma.
La scuola assomiglia molto alla Chiesa, o al partito stalinista. Anche se è un'emanazione dello Stato, rappresenta una comunità autonoma, anzi, autoreferente. Pretende di essere universale, perché il sapere è di tutti, al di sopra delle generazioni, ma è strumento di classe in questa società. Sarebbe preposta all'insegnamento finalizzato al lavoro, ma, come abbiamo già detto, in effetti impiega vent'anni per produrre mediocri soggetti di cui il mondo della produzione non sa che farsene e deve re-istruire (le eccezioni sono quasi sempre prodotte dall'interazione dello "studente" con il mondo extrascolastico in grado di determinare auto-istruzione). Ha i suoi miti, le sue liturgie, i suoi padri fondatori e i suoi referenti esterni. È divisa in correnti, ognuna con le sue belle ipotesi sulla sua funzione e struttura, comprese quelle eretiche. Non è semplicemente uno strumento atto a impartire un'istruzione ai giovani, è un serbatoio di ideologia.
Oltre tutto serve anche a riprodurre l'imbroglio della democrazia e dell'eguaglianza. Il grande fisico Feynman, in un suo diario, racconta di un convegno universitario su "L'etica dell'eguaglianza nell'educazione", dove un tal gesuita continuava a ripetere in maniera ossessiva che il problema centrale a questo riguardo era la "frammentazione del sapere". E lo prende in giro, perché l'educazione deve produrre nello stesso tempo separazione, ineguaglianza e universalità. Come le cellule staminali (universali) dell'embrione producono cellule differenziate di organi dalla diversa funzione, così la frammentazione del sapere è inevitabile in una società organica, dato che nessuno potrebbe pensare di assimilare da solo tutto lo scibile umano. La soluzione, al solito, non sta tanto nell'individuo, quanto in organismi sociali che sappiano o possano rappresentare la sintesi delle indispensabili frammentazioni e ineguaglianze.
Ad ogni ragionevole osservatore dovrebbe apparire evidente che nella scuola non si produce nulla di ciò che si dice di produrre, dal sapere alla capacità di affrontare la vita sociale. Come tutte le chiese o i partiti borghesi, la scuola, oltre a generare i suoi miti, se ne serve in circuito chiuso: per far parte della struttura occorre assorbirli e poi farli assorbire ad altri, per cui l'individuo preso nel circolo vizioso diventa del tutto incapace di mettersi in relazione con la realtà esterna (e mai aggettivo fu più ricco di significato). Come la società di cui è espressione, essa non produce elementi organici a un tutto, perciò il tutto non potrà mai rendere organico ciò che non lo è, inglobandolo, trasformandolo, utilizzandolo. Come ogni circuito chiuso della società, essa si dota, al suo interno, di procedure per invalidare le reazioni e i comportamenti individuali atti a smascherare la truffa della democrazia e dell'eguaglianza. Se non tutto fila liscio, l'intero sistema scolastico, dall'individuo, ai gruppi e alle correnti, teorizzerà di non aver fatto abbastanza per raggiungere il risultato e contribuirà a rafforzare la liturgia, l'ideologia, sé stesso nel suo insieme. Vorrà assomigliare di più alla società "produttiva". Vorrà per esempio trasformare le scuole in aziende e coloro che vi insegnano in ottusi cultori del mercato. Vorrà la meritocrazia fra gli insegnanti e fra i ragazzi, attribuendo debiti o crediti al nozionismo quantificato. E allora è ovvio che la scuola-azienda non avrà altro, nelle sue strutture, che presidi manager, insegnanti-funzionari-del-Capitale e una massa di milioni di studenti-consumatori col loro bravo borsellino dei titoli-denaro.
Il servizio vendibile è l'insegnamento: questa è la merce che esce dalla scuola; l'apprendimento non c'è più, è un problema individuale che si risolve dopo aver comprato. Tanto vale prenderne atto, non ci vuole la scuola per fare in modo che ognuno si arrangi per apprendere. Nessuna riforma dunque, solo eliminazione. Nel programma immediato della rivoluzione non può esservi altro. Un apparato che si basa sulla mummificazione della conoscenza in una finzione d'insegnamento e di apprendimento (messi l'uno di fronte all'altro come mondi separati, impersonati da insegnanti ed allievi che s'immedesimano nel ruolo perdendo ogni relazione col mondo della vita e della produzione), non è salvabile. Siamo alla scuola-televisione, dove il trasmittente decide che cosa trasmettere e lo spettatore assorbe con la sola possibilità di fare un po' di zapping fra programmi tutti uguali.
Uno studio del sociologo Ivar Berg (The Great Training Robbery) sull'efficienza sociale della scuola negli Stati Uniti ha dimostrato che non vi è relazione alcuna fra le materie sulle quali uno studente si è preparato e i risultati che ottiene quando trova un lavoro inerente a quelle stesse materie. L'unica relazione osservabile e quantificabile è quella fra la somma di denaro che viene spesa per "istruire" una persona e il reddito che questa avrà nella vita post-scolastica. La scuola è dunque un servizio che la società intera paga affinché una parte dei suoi membri si serva di una speciale forma di investimento di capitale nella quale il profitto è proporzionale al capitale investito indipendentemente dalla competenza acquisita. Questo sistema produce studenti ai quali viene instillato nel cervello il principio del rendimento economico. Tale effetto è raggiunto in pieno con la proliferazione di corsi aziendali, regionali, provinciali, comunali, privati, spesso a pagamento, spesso pure e semplici truffe. Qui il rapporto investimento-profitto è immediatamente visibile, mentre si vede assai meno l'estendersi della piovra scolastica al di fuori degli edifici appositi. Al di là degli anni stabiliti per legge, l'obbligo formale è scomparso per gli anni che mancano ai 32, età fino a cui il giovane può essere assunto con contratti di formazione, ma rimane l'obbligo sostanziale, dato che prima il giovane non trova occupazione retribuita e deve continuare a vivere in famiglia.
Domani
Formazione e fisiologia dell'apprendimento
Il programma comunista non ammette la sopravvivenza della divisione del lavoro e neppure la continua migrazione di uomini verso i mezzi di produzione. Sono questi ultimi che devono essere adeguati all'uomo, non viceversa. Allora anche il sistema dell'apprendimento, anzi il sistema integrato della conoscenza dovrà domani seguire questo generale rovesciamento della prassi e adeguarsi all'uomo, in senso sia biologico che sociale. Oggi il massimo del riformismo scolastico consiste nell'adattare alla scuola esistente nuove metodologie di insegnamento e apprendimento.
Abbiamo visto che la scuola, pubblica o no, è Stato. La scuola privata vive in gran parte vendendo la propria merce in modo autonomo, ma quanto a indipendenza ideologica è zero, dato che i programmi scolastici, anche quando non sono redatti negli uffici dello Stato, sono comunque il prodotto della società che lo esprime. La scuola popolare moderna è comunque nata statale. In Italia, come abbiamo già ricordato, la legge istitutiva della scuola pubblica elementare gratuita e obbligatoria è del 1859, anche se fino all'avvento del fascismo (la riforma Gentile è del 1923) l'obbligo era largamente ignorato. Marx in uno degli Indirizzi della Prima Internazionale faceva notare che la scuola elementare pubblica gratuita degli Stati Uniti era una realtà da prendere come esempio da parte del proletariato tedesco per il suo programma. Oggi in tutto il mondo lo Stato è il gestore primario della scuola e non c'è più nessun esempio che si possa copiare. È lo Stato che prepara i programmi scolastici, che stabilisce che cosa si debba insegnare a un paio di miliardi di bambini, ragazzi e giovani, che codifica programmi omologati all'ideologia dominante. Compresi quelli che sembrano meno sospetti, come quelli "scientifici".
Dato che il tipo di conoscenza trasmessa dalla scuola è una delle forme della sovrastruttura generale di ogni modo di produzione, è chiaro che le trasformazioni nella struttura della conoscenza hanno sempre richiesto del tempo, mai meno di una generazione. Ma gli strumenti per imporre il cambiamento si potranno attivare subito: ciò che si sa oggi sull'apprendimento e sulle relazioni fra il cervello e il mondo esterno al corpo attraverso i sensi è certo sufficiente per un cambiamento radicale di rotta nel campo della formazione dell'uomo; perciò i comunisti, una volta raggiunto il potere e dovendo affrontare il programma immediato della rivoluzione, non avranno più bisogno di "scoprire", sulla base della nuova situazione, ciò che sarà utile per prendere le misure rivoluzionarie. Le conoscenze attuali indicano già la strada, perché con esse è possibile tracciare uno schema d'insegnamento-apprendimento basato sulle stesse determinazioni materiali che ci hanno formato così come siamo.
Per la specie umana della società liberata dal Capitale una fisiologia dell'apprendimento (studio della struttura degli organi sociali in funzione della conoscenza di specie) non potrà essere troppo diversa dalla fisiologia biologico-sociale che ha accompagnato la cosiddetta ominazione, dal primo australopiteco fabbricatore occasionale di sassi scheggiati, all'uomo in grado di progettare la propria esistenza. Lo stesso processo che ha dato luogo alla specie homo in milioni di anni sarà compresso in un tempo infinitamente minore e formerà il bambino, il ragazzo, l'uomo, l'anziano in una "scuola" che, come il lavoro, coinciderà con la vita.
Cartesio espresse uno dei più celebri aforismi della storia della conoscenza: penso, dunque sono. Separando il corpo dalla mente. Se lo prendiamo alla lettera, come ancora oggi è solito farsi, vi è rappresentato il rovescio esatto della realtà, sia per quanto riguarda l'ominazione e lo sviluppo sociale, sia per quanto riguarda la struttura del cervello umano e quindi dell'apprendimento: l'uomo è, dunque pensa. Capire come "funziona" il cervello aiuta a capire in che cosa consista veramente il problema di una teoria della conoscenza e della formazione dell'uomo. L'organo cervello può essere studiato secondo il riduzionismo cartesiano per quanto riguarda le sue parti costitutive e le loro funzioni, ma mai, in ogni caso, separatamente dal corpo e dalla società di cui fa parte. Questo è un dato di fatto acquisito.
Studiando la struttura del cervello umano, la prima cosa che salta agli occhi è la dialettica della quantità che si trasforma in qualità: la sola corteccia cerebrale è formata da cento miliardi di cellule e 14 miliardi di neuroni, capaci di attivare un milione di miliardi di connessioni attraverso una rete neuronale con 900.000 chilometri di percorsi. Ogni sensazione fisica o emozionale attiva una parte di questa massa di materia connessa ed entra in relazione con una realtà "interna" fatta di eredità genetica e di informazione memorizzata. Tutto ciò che affluisce al cervello è confrontato con la rete neurale che già vi "risiede", e l'insieme forma un nuovo contesto in grado di produrre ulteriore informazione. Tutto il corpo partecipa a tale contesto, tanto da predisporsi automaticamente a determinati scenari anche di fronte a pochi segnali dall'esterno, scenari che possono essere previsti e quindi permettere in anticipo elaborazioni su comportamenti futuri, anche di tipo non immediato (vasti progetti e non solo reazioni istintive a fatti contingenti). La nostra intelligenza è fatta di relazioni.
Dal punto di vista fisiologico, l'apprendimento esteso, ovvero ciò che ci rende umani, non è nient'altro che interazione fra miliardi di cellule, fra queste e l'informazione proveniente dall'esterno e soprattutto fra l'informazione del bagaglio genetico e quella acquisita. Il cervello è capace di produrre cellule staminali neurali, cioè cellule non ancora specializzate ma in grado di diventarlo in seguito all'informazione ricevuta o "esperienza". In poche parole, il cervello è in grado di automodificarsi con la prassi e anche di autoripararsi – entro certi limiti – in caso di incidente traumatico o clinico. La struttura del cervello riproduce così la realtà "esterna" da cui è determinato: esso è suddiviso in parti specializzate ma, nello stesso tempo, raggiunge i suoi scopi funzionando come un tutto. Nei lobi frontali viene elaborato l'insieme delle funzioni "sociali", cioè il nesso fra sensazioni ed emozioni, il vaglio degli errori e dei risultati, le attività cognitive in rapporto all'azione (volontà), la coscienza spazio-temporale del proprio corpo nell'immediato e nella storia individuale.
Nei primi anni di vita del bambino entrano in azione neuroni specializzati in grado di innescare emulazione ed imitazione; per cui spegnere, con la violenza della scuola a senso unico, la necessità fisiologica dell'interattività sociale è come manipolare negativamente la grande capacità di apprendimento dell'età formativa. La dopamina, la serotonina e altre molecole dai nomi impronunciabili, non sono delle specie di "essenze" dell'attività e del benessere, come si legge nei rapporti giornalistici, ma fondamentali elementi che fanno parte della complessità biologica dei fattori d'apprendimento e di rinnovo continuo dell'informazione acquisita.
Si moltiplicano i lavori di scienziati borghesi che studiano la società umana come un super-organismo biologico, e spesso vi abbiamo fatto riferimento. Fra sprazzi di futuro e autentiche sciocchezze new age, si intravede lo sforzo dell'umanità per capire la propria natura di specie. La scuola non corrisponde a nessuno dei moduli organici rilevabili in quegli studi. Non possiamo qui neppure affrontare le enormi ambiguità e contraddizioni in cui sono caduti molti fra coloro che hanno trattato il problema della scuola, o meglio, della pedagogia, dell'apprendimento e della formazione sociale dell'uomo a cominciare dal bambino. Problema che a noi del resto interessa soltanto nella misura in cui qualche studioso non troppo invischiato nell'ideologia dominante ha prodotto anticipazioni rispetto al futuro della società. La domanda essenziale quindi non è: come trasformare la scuola nella prossima fase rivoluzionaria di transizione? Ma è: quale prassi adotterà la società nuova al posto di quella rappresentata dalla vecchia scuola borghese che si dovrà distruggere?
Come al solito la domanda, se è posta correttamente, conduce da sé alla risposta: nessun programma, nessun decreto della rivoluzione proletaria, la quale rappresenta l'ingresso nell'epoca del rovesciamento della prassi e dei rapporti organici di specie, può essere in contraddizione con i meccanismi fisiologici, genetici e psicologici dell'apprendimento sia rispetto alle relazioni fra uomini che all’ambiente. Come vedremo, sarà l'apprendimento, non l'insegnamento, il fulcro della formazione dell'uomo. Perché sposteremo l'attenzione dalla metafisica di Rousseau e del suo studente ideale (libero di essere bambino e di scontrarsi con la realtà senza l'inquinamento di insegnanti, in modo che possa auto-formarsi il carattere) alla fisica delle interazioni reali entro la materia di cui siamo fatti ed entro la società, costituita da innumerevoli individui ed elementi ambientali.
Lavoro, linguaggio, apprendimento
Ribadiamo: il programma immediato della rivoluzione proletaria definito dal partito comunista in quanto rappresentante della specie, non può che essere armonico rispetto alla formazione dell’uomo prodotta da milioni di anni di evoluzione. Ora, nel processo di apprendimento della specie, ben individuato da Engels e confermato dagli studi moderni, l’uomo primordiale ha sviluppato la sua intelligenza, la sua capacità di esprimersi e di comunicare, attraverso il lavoro. È il lavoro che ha prodotto l’uomo e non viceversa (cfr. Dialettica della natura). Le conoscenze attuali sulla funzione delle aree del cervello, sulle predisposizioni genetiche tipiche della nostra specie, e sull'azione del lavoro nella formazione dell'uomo e del linguaggio sia in senso evolutivo che educativo, non solo convalidano le intuizioni di Engels ma sviluppano ulteriormente l’argomento. La stessa borghesia ha capitolato dinnanzi al dato incontrovertibile che l’uomo è diventato quello che è attraversando diversi stadi in cui ha sviluppato il linguaggio come strumento di lavoro e di produzione mentre sviluppava il lavoro stesso.
La sequenza storica va dall’azione pratica al linguaggio alla capacità di memorizzazione razionale e di astrazione che chiamiamo normalmente "pensiero". L’uomo primitivo iniziò molto presto a produrre strumenti di lavoro in pietra, circa due milioni di anni fa (quelli di legno probabilmente prima, ma ovviamente non si sono conservati). Tali strumenti ebbero una loro evoluzione a seconda delle aree, ma ogni cultura giunse invariabilmente alla produzione di una selce "bifacciale", scheggiata a forma di mandorla (amigdala), chiamata impropriamente anche "ascia a mano". Impropriamente, perché nessuno finora sa a che cosa potesse servire tale oggetto, così diverso da altri attrezzi contemporanei di uso accertato, come bulini, raschiatoi e coltelli in selce od ossidiana.
Tutte le funzioni che si possono attribuire all'amigdala possono essere svolte da oggetti più semplici e, nella maggior parte dei casi, più pratici. Inoltre, i segni di micro-usura riscontrati sulle sue superfici indicano che esso non veniva praticamente adoperato come utensile. E tuttavia era il risultato di un lavoro che richiedeva una serie operazioni articolate su di un materiale che bisognava conoscere, anzi, "capire". La scheggiatura della pietra, non è come la scultura, con la quale si toglie gradualmente materiale fino al raggiungimento della forma voluta, più o meno perfetta: la scheggia è prodotta dall'onda d'urto provocata all'interno del materiale da un solo colpo del percussore; ad ogni colpo corrisponde una sola scheggia e l'estrazione di più schegge lascia un nucleo più o meno massiccio. Schegge e nuclei vengono poi rifiniti togliendo schegge più piccole e da essi si ricavano, rispettivamente, utensili vari e amigdale.
Il bilancio energetico per la costruzione di quest'ultimo oggetto – l'unico parametro scientificamente sensato di cui disponiamo – è del tutto sfavorevole, dato che esso esige, anche negli esemplari più rozzi, molta più energia di quanta se ne risparmia con il suo utilizzo. La conclusione cui sono giunti molti paleoantropologi è che l'amigdala non fosse un utensile. Collegando la forma, il lavoro in essa contenuto e l'improbabile utilizzo come ascia o altro, pensano che fosse un mezzo di produzione simbolico, più attinente al formazione del linguaggio che alla caccia o altro.
L'applicazione di tecniche complesse, tramandate fra gli uomini per un tempo così lungo, comportava l'affinamento della sensibilità della mano, la trasmissione di stimoli attraverso il sistema nervoso e lo sviluppo di specifiche aree del cervello. A partire da due milioni di anni fa, l'homo erectus fu dunque la prima specie a utilizzare utensili fabbricati con le proprie mani in modo sistematico e continuativo, differenziandosi dagli altri primati fino a sviluppare grazie al lavoro e alla comunicazione, una caratteristica peculiare del cervello trovata impressa nei crani fossili: le aree di Broca e Wernicke, studiate nell'uomo attuale e preposte al linguaggio articolato.
Abbiamo così non solo la dimostrazione scientifica dell’ipotesi di Engels, ma anche e soprattutto del fatto che l'apprendimento è reso possibile dall'unione inscindibile di caratteristiche determinate "a priori" rispetto all'individuo cosciente: 1) il retaggio genetico della specie; 2) l'accumulo di conoscenza pregressa rispetto alla nascita dell'individuo e "depositata" nella società; 3) l'esistenza di un linguaggio in grado di trasmettere informazione, compresa quella che viene dal passato e quella che va verso il futuro; 4) la capacità specificamente umana di astrazione e di progetto.
L'individuo, venendo al mondo, non può fare altro che entrare a far parte della realtà che gli pre-esiste e, tramite il linguaggio (comunicazione), interagire con essa. L'apprendere è perciò un qualcosa di diverso dal semplice "andare a scuola". All’interno della società capitalistica gli stessi borghesi sanno che i bambini non allenati al lavoro e all'attività fisica imparano molto più lentamente e con maggior difficoltà. Privilegiando l'insegnamento di materie compartimentate secondo una spudorata divisione sociale del lavoro, separando l'individuo dalla prassi produttiva e quindi dall'interazione con altri individui nel processo più socializzato che esista, limitando l’uso finalizzato della mano, dei sensi e delle comunicazioni nervose che portano l'esterno a contatto col cervello, e viceversa, formando l'individuo di massa come semplice ricettore passivo, non c'è dubbio che la borghesia produca uomini con qualche deficit nello sviluppo cognitivo. Negli Stati Uniti, il paese all'avanguardia in tutto, la scuola lo è soprattutto in questo deficit, tanto da spaventare gli stessi responsabili dell'educazione.
Educazione, linguaggio, politica
La questione della formazione dell'uomo, per una società umana, dev'essere al centro del suo programma di armonizzazione della specie con la natura. In fondo per noi "politica" è questo. E "far politica" significa occuparsi della caratteristica specifica dell'uomo, cioè della comunicazione inerente alla capacità di progetto e alle relazioni – cioè ancora comunicazione in doppia direzione – tra specie e resto della biosfera. È il rovesciamento della prassi, il modo veramente umano di rapportarsi alla natura, modo estraneo agli animali e quasi sconosciuto persino all'uomo stesso fino al capitalismo compreso (solo una piccola parte delle attività umane è frutto di un progetto cosciente).
Che razza di scuola è mai quella odierna che non permette ai bambini di organizzare ma solo di subire? Chi non sa organizzare e vive passivamente la propria vita non è un uomo, è una bestia. L'uomo è geneticamente attrezzato per l'utilizzo di ogni forma di comunicazione, dato che quelle moderne, tecnologiche, non sono che l'espansione di quelle biologiche. Ma l'insieme della comunicazione o, universalmente, linguaggio, se è un mezzo di produzione, non lo è al modo di un telefono, un software o una macchina utensile, è molto di più di questi arnesi: la trasmissione di informazione fra i componenti della società è anche formazione nel momento stesso in cui essi mettono in pratica la conoscenza prima genetica e poi acquisita. Non vi è mai separazione fra il soggetto e l'oggetto della sua conoscenza: fra gli atomi sociali ogni osservatore è attore in qualunque processo; vi partecipa da bambino, quando passa dai primi atti istintivi al riconoscimento e all'interazione col mondo "esterno", e da adulto, quando interagirà con questo mondo in modo complesso e sociale, col lavoro ecc.
Dunque la formazione dell'uomo è manifestazione e sviluppo del suo linguaggio: quello che ha in sé, impresso nel suo codice genetico e quello che sviluppa ricevendo e trasmettendo informazione-produzione. Fare dell'uomo un mero recettore è come segarlo a metà, cioè ucciderlo. La capacità di linguaggio è comune a tutta la specie umana, nel senso che è pressoché uguale per tutti i suoi membri, ma essa viene attivata per ognuno in modo diverso, a seconda delle condizioni che l'individuo trova nell'ambiente in cui cresce, cioè nel sistema complesso di cui viene a far parte e che, essendo un mondo di relazioni, a sua volta viene a far parte dell'individuo stesso. Per questo diciamo che l'individuo, come lo immaginano gli idealisti, non esiste. La sua storia non è fatta di una serie di fatti che accadono al suo esterno, come in un film: essa consiste nell'introduzione continua di strumenti preparati da chi lo ha preceduto, che interagiscono con quelli genetici, che sono in parte comuni a chi si trova nell'ambiente circostante e in parte differenti, acquisiti in una storia diversa ma sempre in grado di farlo comunicare tramite un linguaggio condiviso.
La concezione marxista dell'individuo e della specie non ha nulla a che vedere con particolari ideali collettivistici. La concezione organica del divenire, dei rapporti sociali e dell'organizzazione è il frutto di una realtà biologica, e Marx non ha mai detto di aver inventato delle teorie, ma di aver scoperto delle leggi e delle relazioni. L'essere sottoposti alle leggi di natura e a relazioni è condizione comune a tutti i nascituri quando sono concepiti e continua ad esserlo dopo la nascita, quando si mettono in rapporto con la rete sociale esistente, con la sua storia e il suo divenire. È l'uomo capitalista che si ritrova completamente collettivizzato, omologato, proprio perché si è separato dall'organicità della natura e s'è fatto consumatore passivo di merci, di televisione e di scuola. L'uomo comunista, invece, godrà della sua diversità e ne farà godere gli altri, dato che potrà vantare una "individualità" solo in rapporto al suo lavoro collegato ad altri; sarebbe assurda una società fatta di lavori "uguali".
Non si può conciliare questo aspetto della natura dell'uomo con la "scuola", un'istituzione che le è profondamente antitetica. L'individuo non può modificare né il proprio bagaglio genetico che gli dà l'informazione necessaria, l'istinto, l'intuizione per affrontare il mondo, né tantomeno il resto dell'informazione accumulata nella storia, quella che alla sua nascita trova già tramandata da altri. Ma nello stesso tempo, a parte il bagaglio "innato", egli nasce come parte di una specie che evolve, quindi ha il compito, con gli altri uomini, di adoperare la conoscenza esistente per incrementarla, affinarla e soprattutto, quando si presentino le congiunture storiche favorevoli, rivoluzionarla. Perché ciò sia possibile è necessario proprio l'opposto di un enorme apparato di omologazione e di conservazione. L'ordine stabilito, l'Accademia, la fossilizzazione dell'insegnamento sono il contrario di ciò che occorre alla dinamica della formazione dell'uomo.
La formazione dell'uomo come ontogenesi completa
Ontogenesi, ovvero processo di sviluppo degli organismi viventi. Questo processo, dal punto di vista dell'invarianza o se vogliamo del principio di non contraddizione fra uomo biologico e uomo sociale (l'uomo sociale non è che l'evoluzione "esterna" all'uomo biologico, dice Leroi-Gourhan), comprende la capacità di apprendimento, innata o acquisita. L'una deve essere complemento dell'altra e, come dimostra il bambino, non c'è "verità" precostituita che tenga, l'apprendimento è unione indissolubile di teoria e prassi. E allora, perché la scuola dovrebbe separarle? Perché mai dovrebbe esistere un istituto speciale, depositario della verità e incaricato di diffonderla allo scopo di formare l'individuo, la sua personalità, la sua disciplina all'ordine costituito (sociale ed epistemologico)?
Già Galileo ci insegnò che la conoscenza è da trattare come limite. Noi possiamo conoscere, ma poco per volta, per approssimazioni successive, inglobando man mano i risultati passati in quelli nuovi. È assurdo elevare strutture immani come la scuola e immaginarle dispensatrici di conoscenza "finita" da inscrivere in programmi scolastici e trasmettere agli studenti attraverso un complicato sistema di ordinamenti e direttive. Nessun apprendimento, nel senso ampio del termine, può scaturire da una struttura che rende passivo chi ne fa parte e chi ne usufruisce. L'apprendimento è prassi squisitamente attiva come dimostra sempre il bambino, prassi che diventa interattiva quando si inquadra l'azione in un contesto che non solo contenga l'informazione richiesta o necessaria, ma anche i mezzi per ottenerla. Il contesto è la biblioteca di Lenin con la rivoluzione intorno, è la biblioteca di Borges elevata a immane ipertesto come sta diventando Internet con i suoi miliardi di pagine e di neuroni elettronici, ma in mano a un'altra società.
La scuola non può essere "formazione" perché illude l'individuo di poter "scegliere" la sua strada fra molte, mentre tutte sono invece prefissate, sono vicoli ciechi. Lo studente di fronte alla scuola è come il consumatore davanti al distributore automatico di bibite: inserisce la moneta e può ottenere in cambio soltanto ciò che c'è nel contenitore, prendere o lasciare; egli non può permettersi di smontare i pulsanti, cambiare i cablaggi, immettere panini invece di bevande, ecc. Molti parlano di scuola "costruttiva". Ma non è questo il problema: l'uomo si "costruisce" da sé, a partire dalle prime cellule embrionali e poi non fa che continuare. Il rovesciamento della prassi, l'atteggiamento attivo e non passivo di fronte al processo di formazione dell'uomo, consiste prima di tutto nel capire che l'informazione accumulata e quella in atto (linguaggio, comunicazione) sono un tutt'uno con lo sviluppo dell'embrione, sono il suo ambiente, liquido amniotico, placenta, cordone ombelicale e così via. L'uomo si forma – volendo, si "costruisce" – nell'ambito dello sviluppo delle caratteristiche di specie, mentre si realizza la vera "natura antropologica dell'uomo che è l'industria" (Marx) e che qualcuno chiama ancora "cultura".
Egli non solo tende a conoscere la realtà, ma vuole conoscerla per modificarla, e massicciamente, almeno da quando si è autoproclamato (con scarsa modestia) sapiens sapiens, dopo essere passato dalle fasi di homo habilis e homo semplicemente sapiens. Il maneggio del mondo circostante da parte sua ormai non avviene più tramite il preponderante intervento dell'istinto, cioè di strutture conoscitive geneticamente fissate, ma tramite una vasta attrezzatura, dal linguaggio alla tecnologia. Ovviamente ogni organismo che si sviluppa si "autocostruisce" sulla base di strutture biologiche, ma, per quanto riguarda l'uomo, l'ontogenesi continua oltre il processo puramente biologico e istintuale. La nostra specie ebbe bisogno – e si diede – strutture linguistiche (gestuali, procedurali, figurative) in grado di mettere in moto nuove reti di cellule fino a "costruire" letteralmente "con le mani", nel senso che abbiamo visto, nuove aree neurali dedicate a compiti specifici.
La scuola è stata senz'altro un mezzo potente, nella storia umana, per la realizzazione di specifiche aree neurali del cervello sociale, dalle antiche trasmissioni orali alla biblioteca di Alessandria (che era un luogo di apprendimento e non semplicemente un deposito di libri o un'officina per fabbricare duplicati su ordinazione), dall'Encyclopédie (che fu un'arma e non un libro) a Internet. Non si vede come possa rimanere congelata nella sua funzione attuale, e neppure si vede come la si possa riformare, mentre esplode quel particolare tipo di autocostruzione, quel "movimento reale verso…" che chiamiamo comunismo. Non a caso Lenin dava un'importanza enorme alla formazione elementare, non solo per l'assillo pesantissimo dell'analfabetismo ma per il compito di formazione del cucciolo d'uomo:
"Da noi il maestro elementare dev'essere posto ad un'altezza tale alla quale non si è mai trovato – e non si trova, e non può trovarsi – nella società borghese. Questa è una verità che non richiede prove" (Pagine di diario, 1923).
Superato il concetto di "insegnamento scolastico", stabilito che la formazione dell'uomo è apprendimento in relazione con altri uomini e con un programma accumulato nell'intera storia dell'umanità, precisiamo che per "apprendimento" intendiamo il processo che, fin dai primi stadi, porta l'individuo ad essere parte del tutto sociale. Un processo che non può essere demandato all'individuo stesso ma nemmeno al "maestro" come emissario della società "esterna", dato che essa società, con le sue comunicazioni per vie nervose – sia materiali come i treni, che elettroniche come Internet – non è affatto "esterna", bensì è continuità logica dell'evoluzione animale dell'uomo. Gli strumenti e le persone che sostituiranno scuola e "insegnanti", a partire dai primissimi anni del bambino, avranno la funzione di auto-catalizzatori del processo, nel senso che usa per esempio Kauffman nel libro sull'origine della vita recensito in altra parte della rivista. Vi sono processi di transizione fra la materia inerte e la vita biologica in cui agiscono contemporaneamente la ricerca attiva di nuova conoscenza e l'indirizzo selezionatore interattivo fra percorsi utili e superflui o dannosi.
Dice Kauffman:
"Noi biologi dobbiamo ancora capire come ragionare sui sistemi governati simultaneamente da due sorgenti di ordine, l'auto-organizzazione e la selezione" (A casa nell'universo).
Un nuovo ambiente formativo potrebbe rappresentare questa unione. Gli strumenti che la nuova società adotterà a tal fine (una volta liberate le forze sociali dal capitalismo) avranno dunque la proprietà di riprodurre la formazione dell'uomo secondo natura e anche di accelerare, ampliare e persino rivoluzionare la sua capacità naturale di apprendimento. Questa capacità – enorme nel bambino – è oggi annichilita nell'adolescente e peggio che mai nell'adulto. In un società diversa permarrà per tutta la vita dell'individuo, mettendolo in armonia con l'ambiente in cui vive.
Parafrasando un conosciutissimo passo di Proprietà e Capitale (PCInt.) diciamo che il problema della prassi comunista non è di sapere il futuro, che sarebbe poco; né di volere il futuro, che sarebbe troppo; il problema vero è nel sapersi fondere con la dinamica reale del futuro di specie, fondere l'evoluzione biologica che ha impiegato milioni di anni per "formare" l'homo attuale con la continuità naturale di questa evoluzione, ormai uscita dal corpo e dal cervello dell'individuo in carne ed ossa. È nell'ambito di questa dinamica che l'attività comunista evita di scadere in volgare attivismo. Anche per quanto riguarda la scuola.
Un futuro antico
Da che cosa sarà sostituita la scuola nella società futura? Al solito, per non cadere negli schemi utopistici, partiamo dal passato per indagare sul futuro, andiamo cioè a vedere come avevano risolto il problema della trasmissione di conoscenza e quindi di "autoformazione" le società urbane che conservavano caratteri del comunismo primitivo e che ci hanno tramandato tracce leggibili. Non si tratta di copiare dagli antichi – la storia non va mai all'indietro – ma è utile sapere che per decine di migliaia di anni l'umanità non ha avuto bisogno della scuola nel senso di istituzione scolastica.
È del tutto intuibile che la trasmissione di conoscenza non fosse, in una società senza ancora la famiglia nucleare, la proprietà privata e lo Stato, un'istituzione a sé, separata dalla società stessa. Ed è notevole la conferma del processo di formazione dell'individuo come parte integrante del processo metabolico sociale. Negli scavi riguardanti i siti delle più antiche forme sociali gli archeologi non hanno individuato testimonianze di "scuola", intesa come luogo dove un insegnante impartisce istruzione collettiva ad allievi; hanno invece rinvenuto in grande abbondanza esercizi di "allievi" e depositi di vocabolari, trattati, cataloghi, e scritti che registravano materie di insegnamento. Quando esercizi e "libri" sono stati trovati in gran numero nello stesso luogo gli archeologi hanno azzardato la denominazione "scuola", ma in tutta la storia dell'archeologia vi è un solo esempio di locale forse adibito a insegnamento collettivo (nello strato babilonese antico di Mari). Anche in questo caso, però, le strutture in mattoni che fanno pensare a "banchi" sono difficilmente usufruibili in quanto troppo strette persino per dei bambini.
I testi sapienziali più antichi sono elenchi di prescrizioni che trasmettevano più un metodo di vita che nozioni. Il loro contenuto fu tramandato oralmente fino a quando non comparve e si diffuse la scrittura, e dimostra che si badava più a familiarizzare il singolo col metodo di apprendimento che non a insegnargli delle "materie". L'individuo era certo in contatto con un "trasmettitore" di conoscenza, ma nessuno sa attraverso quale ambiente si sviluppava la relazione. Dagli scritti pervenuti fino a noi emerge prima il padre-maestro, poi lo scriba e lo scriba-sacerdote. Ma le traduzioni sono talmente controverse che nei vari autori compaiono notevoli differenze.
Una estesa forma di educazione doveva esistere, perché vi è unità stilistica, nel testo e nella forma dei caratteri, in opere ritrovate a molta distanza le une dalle altre. Liste lessicali e grammaticali di evidente origine educativa sono state recuperate in strati mesopotamici del 2.600 a.C. A Ebla fu scoperto uno dei più grandi archivi dell'antichità, con testi chiaramente prodotti per la trasmissione delle conoscenze, in più copie, con la registrazione di simposi internazionali e scambi di "insegnanti" fra Stati. Ciò fa supporre che non solo a Ebla, ma in tutta la Siria, la Mesopotamia e l'Egitto, nel III millennio a.C., fiorisse un'attività sociale per la formazione, con relativa raccolta, trascrizione, elaborazione e traduzione in diverse lingue dei saperi per la loro diffusione. Alcuni centri, posti ai nodi della rete carovaniera (come Ebla), divennero poli attrattori di conoscenza che, elaborata e ordinata, veniva poi riverberata attraverso la rete su altri nodi, come, molto più tardi, Edfu, File (dove sono stati ritrovati elenchi di altre biblioteche) e, naturalmente, Alessandria. In testi mesopotamici ed egizi del II millennio a.C. compare una forma di istituzione collettiva per l'educazione, ma anche in questo caso non si sa nulla della "scuola" in quanto tale, dato che gli autori parlano solo di sé e del maestro.
Non vi è bambino che da solo possa conoscere
Delle "scuole" egizie ci sono giunte le esercitazioni degli scolari (frammenti di calcare, papiri, tavolette d'argilla, ecc.), spesso di notevole pregio stilistico ma quasi sempre trovati in abitazioni, mai in contesti "scolastici" come li intendiamo oggi: l'apprendimento avveniva quasi sicuramente all'aperto e i ragazzi portavano il materiale a casa. Comunque per la maggior parte i reperti disponibili sono stati separati per sempre dal loro contesto dai tombaroli e dai mercanti ottocenteschi, per cui si ha notizia solo di ciò che dicono per sé stessi.
Del "maestro" sappiamo, dalle "miscellanee scolastiche" mesopotamiche ed egizie più remote, che aveva la facoltà di imporre la disciplina con il bastone. La mancanza di un'istituzione scolastica in grado di inculcare, con la sua stessa esistenza come sistema, un'autorità dispotica, e la libertà di cui godevano gli allievi, facevano sì che la disciplina fosse impersonata dal maestro. Essa, nonostante fosse dura, non impediva agli allievi di cantare lodi sul dispensatore di conoscenza, su come fosse in grado di spaziare su tutto lo scibile dell'epoca, sul suo stile di vita e sulle sue caratteristiche umane, non prettamente "scolastiche". Siccome nonostante il bastone la disciplina lasciava a desiderare, come dimostrano le tavolette sulla dissolutezza "studentesca", è plausibile che il maestro non fosse, appunto, l'insegnante di una struttura scolastica ma un "forgiatore di uomini" e che gli "allievi" non subissero l'insegnamento coatto ma fossero liberi "apprenditori". I testi mostrano come ci fosse continuità di indirizzo e disciplina fra il padre e il maestro.
Poco o nulla si sa delle prime dinastie, mentre per il periodo compreso tra la IV e la X risulta che esistesse una "casa dei figli del re"; l'espressione non significava però che fosse frequentata solo dai figli dei faraoni, dato che con la stessa espressione erano designate anche persone vicine alla famiglia reale. Notizie su una scuola propriamente detta compaiono mille anni dopo, dal Medio Regno in poi. Ma anche in questo caso la chiave per la comprensione dell'insegnamento egizio consiste nell'evitare l'interpretazione borghese del termine "scuola". Troviamo per esempio questo "insegnamento" antico: "Non vi è bambino che da solo raggiunga la conoscenza" (Ptahhotep, V dinastia); e ci verrebbe da pensare che è giusto, che occorre una conoscenza strutturata e basata sui classici, che solo la scuola può dare, con gli insegnanti e via dicendo.
Ma siffatta scuola non c'era; soprattutto nel caso della trasmissione da padre a figlio, specie nell'antico regno, lo scopo era la conoscenza armonica e non l'accumulo di nozioni. I testi sapienziali trasmettono un metodo; stanno ai libri di scuola come l'insegnare a pescare sta al regalare un pesce: l'affamato risolve il problema per sempre invece che volta per volta. Il faraone Merikare fa scrivere di aver raggiunto la grandezza grazie agli insegnamenti del padre, che così gli parlava:
"Imita i tuoi padri che sono stati stimati prima di te. Guarda, le loro parole sono conservate nei libri. Apri e leggi e imita colui che sa. Così colui che è pronto a imparare si istruisce" (La religione dell'antico Egitto).
L'antico egizio sapeva benissimo ciò che adesso si incomincia appena a studiare: non è tanto l'insegnante che insegna, quanto il bambino che impara. La differenza è enorme. La formazione, anche con la verga, non era che il contesto atto a fare in modo che l'apprendimento avvenisse organicamente. La conoscenza era assecondata, mentre il suo contenitore corporeo era sottoposto a iniziazione. Il bambino apprendeva, ma il tutore non insegnava delle materie, insegnava ad imparare con lezioni di vita:
"Nel tempio (cioè il luogo dove s'imparava, n.d.r.) l'uomo dominato dalle passioni è come l'albero selvatico che cresce all'aperto: finisce nei cantieri navali o a far fuoco; l'uomo autodisciplinato è come l'albero che cresce in giardino: fiorisce, matura dolci frutti, piacevole è la sua ombra" (ibid.).
Per l'egizio antico l'orgoglio individuale nel raggiungere lo scopo non era un peccato contro la divinità, era peggio: una perdita del senso della misura, una rottura dell'ordine armonico delle cose, dal quale soltanto si apprende come arrivare alla meta. La potenza del metodo per il successo, cioè per raggiungere lo scopo, non consiste nella via selvaggia (nell'arrivismo, diremmo oggi):
"Se hai a che fare con gente dalla mente e dalle azioni disordinate, lasciala in balìa dei suoi capricci, il netjer saprà come risponderle" (ibid.).
Il netjer, spesso tradotto con "dio", è più precisamente l'entità divina che in un momento e in un luogo specifici sovrintende alla sintonia fra un uomo particolare e l'ordine delle cose quando egli intraprende un'azione per raggiungere un risultato. Non sappiamo se un egittologo sarebbe d'accordo con noi nel considerarlo un programma, ma non ci sembra niente male come concetto di antico rovesciamento della prassi.
Nell'Egitto post-neolitico (cioè dopo la X dinastia, dal 2.130 a.C. secondo alcuni studiosi) l'apprendimento organizzato si generalizza, anche se è negato ai contadini, non tanto per una questione di classe, quanto perché a loro non era necessario dato che godevano di una buona organizzazione della terra coltivabile, avevano approfondite conoscenze sulla misura del tempo, sui metodi per sfruttare al meglio il suolo coperto annualmente dal limo e sul ciclo di vita di animali e vegetali. I "dipendenti" (che molti chiamano schiavi, anche se questi non esistevano ancora) potevano invece partecipare all'educazione, e questo spiegherebbe le tavolette e i papiri "scolastici" trovati nelle abitazioni, che non erano "compiti a casa" ma venivano prodotti nel corso dell'interazione fra educatore e allievo.
La società egizia dei secoli successivi, dal Medio Regno in poi, è più conosciuta. Essa ha una scuola per gli scribi (casa della scrittura), dove s'imparano le arti pratiche (scrittura, matematica, geometria), e una scuola più esclusiva, la cosiddetta "casa della vita", collegata strettamente al tempio per una conoscenza più vasta, probabilmente esoterica (essa era anche "officina libraria", cosa che suscita una domanda: i libri non erano dunque prodotti dagli scribi?). È difficile oggi capire l'effettivo significato sia di "casa della scrittura" che di "casa della vita"; e soprattutto di "tempio" che, vecchia questione, non era certo una chiesa.
È importante descrivere la trasmissione della conoscenza nell'antichità pre-classica – anche se fondata su criteri oggi difficilmente decifrabili – perché ci è indispensabile per capire ciò che succederà nella società futura. L'uomo antico non assimilava attraverso la comunicazione di elementi discreti, "materie scolastiche". O meglio, razionalizzava in tal modo solo le basi per una conoscenza più vasta. Tutti i popoli che ci hanno lasciato grandi opere avevano una tale conoscenza empirica sulla trasformazione della materia, rispetto ai mezzi di allora, da apparire oggi stupefacente; tuttavia il fatto è più che normale se il presupposto è una società che non conosce il valore del tempo, della forza-lavoro e della materia stessa. Questa padronanza del mondo fisico era acquisita nell'ambito dell'azione e tramite modelli ereditati nei millenni. Non aveva nulla di individuale, era come se facesse parte del programma genetico sociale.
Perciò la scrittura e l'insegnamento si rivolgevano all'individuo solo come tramite sociale, e in effetti niente gli veniva trasmesso in modo separato dalla vita e niente egli poteva trasmettere in modo diverso. Tutta l'esistenza di un antico egizio era dominata dai simboli e non c'era bisogno di saper leggere per capire le strutture degli edifici, il significato delle statue, dei bassorilievi, dei netjer e delle loro dimore (i templi).
Il maestro, padre o scriba o sacerdote, era solo un tramite di conoscenza, la quale non era un qualcosa che venisse insegnato dall'esterno, da una qualche istituzione in cui si entrava ignoranti e si usciva sapienti. Oggi prevale la sciocca abitudine di separare arte e scienza, ma nell'antichità (e a dire il vero anche nel Medioevo e nel Rinascimento) quella che chiamiamo arte era la normale produzione, coincideva con la vita produttiva e riproduttiva della società. La scuola era tutt'intorno all'uomo, e ogni particolare, da quello della natura a quello fatto ad arte, contribuiva ad "insegnare" qualcosa. L'ambiente pedagogico dell'uomo antico era paragonabile al geroglifico: esso è raffigurazione di una realtà qualitativa e, nello stesso tempo, segno di informazione quantitativa, come un carattere. Il geroglifico funzionava allo stesso modo di un rebus odierno, dove l'immagine contribuisce a costruire la frase alfabetica; tutte le civiltà che sono giunte alla scrittura alfabetica sono passate attraverso tale processo unificatore.
Questa osservazione sull'unità di informazione qualitativo-quantitativa va collegata a quanto detto precedentemente sull'ontogenesi umana e sociale. Soprattutto ci servirà più avanti, quando affronteremo il processo di apprendimento permanente nella società nuova, che riferiremo allo stesso principio. Come non ci può essere contraddizione fra l'uomo bambino e la società bambina, così non ci può essere neppure fra l'uomo adulto e la società sviluppata futura.
Dalla comunità formante alla scuola istituzionale
Anche in contesto ebraico la scuola era intesa più in modo figurato che come istituzione. Una prova al computer sul testo della Bibbia (versione detta "di Gerusalemme") ci rivela che il termine "scuola" è assai raro, come "imparare" e simili, che compaiono solo nei libri "didattici" e "profetici" oltre che, naturalmente, nel tardo contesto greco-romano dei Vangeli, degli Atti e delle Epistole paoline. Il termine "insegnare" coi suoi derivati è molto più frequente, ma quasi unicamente riferito alla parola di Dio. Il minuzioso indice analitico della versione dei Testimoni di Geova, non riporta che due volte il termine "scuola", entrambe nel contesto recente dei Vangeli e degli Atti, niente nell'Antico Testamento.
La scuola ebraica, sviluppatasi a lato delle strutture del Tempio, risentirà dell'esperienza delle sette comunistiche fino alla distruzione di Gerusalemme, e alcuni tratti delle medesime passeranno al cristianesimo primitivo. La transizione, cioè l'impatto dell'antica società tribale con la società schiavistica romana, fu di una violenza eccezionale. Quando Roma rase al suolo Gerusalemme sterminandone gli abitanti, alcune comunità ebraiche conservavano ancora caratteri antichi, il ricordo di comunità numerose, le cui strutture sociali erano adatte alla vita comune: il loro essere "scuola" comprendeva l'insieme delle opere murarie collettive con i loro occupanti, abitazioni, cucine, bagni rituali, laboratori e biblioteca-scrittorio, com'è per esempio evidenziato dal sito archeologico della comunità di Qumran (II sec. a.C.). Gli Esseni vivevano in comunità dello stesso tipo e gli Zeloti ci hanno lasciato la testimonianza archeologica di Masada, dove le costruzioni, ottenute riattando un palazzo erodiano, riprendono i moduli comunitari di Qumran (e dove l'intera comunità di 960 uomini, donne e bambini, decise di auto-sterminarsi piuttosto di cadere nelle mani dei soldati romani). Lo stesso Cristo, erede mistico di Esseni e Zeloti, baserà la sua comunicazione-linguaggio sui tre livelli dell'apprendimento originario comune a tutte le società pre-classiste: l'invito persuasivo o propedeutico, la diffusione pubblica o essoterica e l'approfondimento esoterico riservato alla comunità formata. Detto in termini di progressione dell'apprendimento nel bambino: l'introduzione al mondo circostante, la verifica delle relazioni con esso, l'approfondimento sulla realtà per cambiarla. Su questo metodo Paolo fonderà la sua azione volta all'internazionalizzazione del movimento cristiano, da piccola setta locale a partito internazionale che sanciva la fine della transizione (Giuseppe Flavio, il narratore ebreo della fine di Gerusalemme, si fece significativamente romano prendendo il patronimico dei Flavii).
Molto prima che l'espansione dell'Impero facesse terra bruciata di ogni società "primitiva" sul suo territorio, il termine "scuola" significava sia in greco (scholé) che in latino (schola) "non attività", equivalente: otium, come contrapposto a negotium, l'attività pratica che negava il tempo libero, il tempo che si poteva perciò dedicare allo studio. In contesto greco classico si formarono, fin dal VI-V secolo a.C. con i sofisti, scuole propriamente dette, rette da maestri privati che chiedevano un compenso agli allievi. Sparta sarebbe da studiare in modo particolare rispetto al resto della Grecia, dato che l'intera società resistette per secoli come scuola di tipo prettamente comunistico-militare. A Roma vi furono scuole private come in Grecia, alle quali, da Vespasiano in poi, se ne affiancarono alcune finanziate direttamente dallo Stato. Esse divennero poco per volta istituzioni pubbliche in tutto il mondo greco-romano. Sembra fossero di dubbia efficacia, stando a cronache contemporanee, che già lamentavano una "crisi della scuola", staccata dalla società e tendente a una vita propria. L'istruzione ufficiale rimaneva comunque prerogativa di una cerchia ristretta di cittadini romani, mentre l'antico auto-apprendimento nella crescita e nel lavoro era la norma, per i più ricchi accompagnata da un tutore, spesso schiavo e greco.
Abbiamo dunque, nelle più antiche società, un sistema di apprendimento sociale organizzato che dura per millenni come struttura non piramidale e non classista. Questa situazione si protrae persino nel mondo classico e poi cristiano, nel quale religione e formazione si riuniranno, come nella società pre-classica, ma assimilando la lezione scaturita nel frattempo dalla secolarizzazione greco-romana. La nuova religione, a 400 anni dalla sua comparsa, adotterà la forma scolastica dell'insegnamento collettivo da maestro ad allievi, anche se all'inizio molti, come Agostino, si occuperanno del magister ancora all'antica, privilegiando il concetto di "maestro interiore". Con Eusebio, Ambrogio e Agostino saranno fondate le prime comunità di religiosi dedite allo studio e alla lotta, mentre Benedetto introdurrà per la prima volta, accanto allo studio, il lavoro manuale come viatico per l'anima dei monaci. La Chiesa, che con la sua affermazione ebbe bisogno di scuola, è un buon esempio di ontogenesi completa di un organismo: sulla base delle credenze precedenti procede ad un'auto-formazione del proprio corpo e della propria conoscenza; con i preti delle prime forme di monachesimo procede all'ordinamento e alla memoria del proprio programma; con le abbazie produttive procede a unire il lavoro alla conoscenza, scoprendo che dal lavoro salariato si genera plusvalore. Dal paganesimo al misticismo, dal combattimento armato al populismo, attraverso forme reiterate di eresia comunistica, tutto viene sperimentato da questa società nella società, ormai da secoli strumento di pura conservazione. La scuola si affianca alla Chiesa come strumento laico, ma nell'auto-conservazione come nella conservazione dell'esistente le è parente assai stretta.
Un esempio comunistico di formazione dell'uomo
Vi furono società, non tanto antiche in termini di tempo quanto in termini di sviluppo, che conservarono spiccati caratteri comunistici, molto più visibili che non nelle società che abbiamo velocemente preso in considerazione. In Messico, per esempio, i bambini aztechi incominciavano ad affiancare gli adulti in lavori leggeri molto presto, in genere presso la famiglia allargata. I primi semplici precetti venivano dai genitori, i quali applicavano regole minuziose di vita sociale, come il razionamento del cibo, non per necessità ma per auto-disciplina. Successivamente l'educazione, obbligatoria per tutti, passava dalla famiglia alla società. Due erano le strutture per la formazione del giovane azteco che usciva di casa: il calmecac, organismo collegato al tempio in cui i ragazzi erano affidati a sacerdoti, e il telpochcalli, "casa dei giovani", diretto da maestri scelti tra guerrieri esperti.
Il fatto che vi fossero due istituzioni, previste per funzioni sociali diverse (il calmecac preparava i giovani da avviare al sacerdozio o alle alte funzioni dello Stato, mentre nel telpochcalli confluivano tutti gli altri), ci indica che siamo di fronte a un tipico caso di transizione, come nell'Egitto dell'antico regno; la differenza è che sugli Aztechi sappiamo molto di più grazie alle cronache dirette dell'epoca. Una delle preoccupazioni maggiori della società azteca era la formazione dei giovani e, in luogo dei primitivi riti di iniziazione uguali per tutti, avevano già preso piede forme collettive di istruzione diversificata (le ragazze erano però invariabilmente educate nel tempio). Non scuole, bensì comunità apposite che non preparavano specialisti in qualche "materia", ma uomini completi in grado di svolgere i compiti specifici assegnati, oltre a quelli comuni a tutti. Siccome la guerra presso gli Aztechi era uno degli aspetti più importanti della vita sociale (la "guerra" aveva però aspetti cerimoniali così netti che il termine è improprio), i giovani di questi "collegi" erano portati a condurre una vita collettiva di tipo "militare" dove la proprietà era ancora meno sentita che all'esterno. Ogni anno le comunità dei calmecac e dei telpochcalli si scagliavano l'una contro l'altra in una guerra simulata e, anche se la società imponeva la tolleranza reciproca al suo interno, l'antagonismo simbolico fra nemici veniva coltivato.
Ad ogni modo nonostante alla base di questa divisione apparentemente rigida fra i due sistemi formativi vi fosse l'esigenza di preparare i giovani per strati sociali diversi, non aveva importanza la loro provenienza. Tutti i cittadini, indistintamente, potevano giungere ai più elevati incarichi esistenti. L’educazione che si riceveva nei calmecac era severa e rigorosa: l'autodisciplina, il sacrificio e l’abnegazione erano al centro dell'insegnamento. Meno austera era la vita nella "casa dei giovani": chi entrava al telpochcalli era anch'egli sottoposto a dura disciplina e in più doveva svolgere tutti i lavori della comunità, come il tagliar legna, ramazzare i locali della comunità, riparare fossi e canali, coltivare le terre comuni; ma al tramonto tutti i giovani si recavano a cantare e a danzare in un luogo chiamato "la casa del canto" fino a tarda notte, e quelli che avevano amanti giacevano con loro (le giovani donne partecipavano al sistema educativo ed erano ammesse ufficialmente nella comunità in cui circolavano liberamente).
L’educazione delle nuove generazioni era dunque completamente socializzata. Risulta evidente il contrasto con l’anarchia che in questo campo vi fu nel mondo europeo per tutta l’antichità e per tutto il medioevo, fino al rafforzamento dell’apparato statale operato dalla rivoluzione borghese. E in ogni caso appare chiara la differenza enorme fra la scuola di ogni epoca e la struttura formativa sociale dell'uomo azteco. Gli Aztechi formavano la loro personalità in un ambiente prettamente comunistico in grado di plasmarli per tutto il resto della vita. E la vita stessa di ognuno, nelle guerre come nelle opere quotidiane, era considerata parte della collettività e ad essa era offerta senza problemi. Il concetto di morte individuale non apparteneva al mondo precolombiano. Il comunismo non solo si trovava inscritto nel codice genetico sociale del singolo, ma gli veniva anche "insegnato" con la partecipazione sociale.
Naturalmente l'ambiente strettamente formativo per i giovani non era l’unico nel quale l’umanità ancora comunistica aveva modo di temprarsi. In tutte le prime forme urbane, e questo è indubbiamente un invariante, esistevano moltissime occasioni di vita sociale. Lavori utili alla collettività, decisioni "politiche", convivii e più in generale momenti di "svago" comuni, erano spesso posti sotto il segno di ciò che oggi chiamiamo "religione", allora nient'altro che un legame della specie con la natura. Per rimanere presso gli Aztechi, sappiamo che i cittadini vivevano nei calpulli, termine che gli spagnoli tradussero con barrio, quartiere, ma che in realtà era il territorio di una comunità urbana ristretta (o di famiglia allargata); un certo numero di nuclei famigliari se lo suddividevano secondo criteri stabiliti e lo amministravano autonomamente, sotto la direzione di un capo eletto e la protezione di un proprio tempio. In ogni "quartiere" cittadino vi erano più telpochcalli, amministrati dai "maestri dei giovani", funzionari laici indipendenti. Invece i calmecac erano distribuiti in tutto il Messico sotto controllo azteco, ma solo dove vi fosse un grande tempio, ed erano amministrati da sacerdoti che dipendevano dal governo centrale.
Non sono particolarità del Nuovo Mondo ma determinazioni comuni a molti sviluppi di civiltà urbane. Presso i Latini vi era qualcosa di molto simile, cioè la curia. Ad essa corrispondeva in Grecia la phratria, una istituzione analoga che è stata accertata a partire dal IX secolo a.C. Dal termine phratria emerge con evidenza il substrato parentelare, più di quanto non accada con il termine curia, la cui etimologia più accreditata, co-viria, sembra alludere al "consiglio" di una parte del popolo in armi. La curia dei Latini sembrerebbe pertanto richiamare da vicino l’andreìa dei Cretesi e degli Spartani (cioè l'insieme di coloro che partecipavano ai pasti comunitari) e la vereias degli Oschi. Questo era il contesto nel quale si formava l’uomo delle prime società urbane. Non è neppure immaginabile che vi esistesse una "scuola" come istituzione separata dalle strutture interne così fortemente impregnate di comunismo.
Il bambino non è un recipiente vuoto
Tolstoi, in cerca di esempi per la "sua" scuola di Jasnaja Poljana, inorridì quando vide i metodi pedagogici tedeschi dell'epoca, empiricamente basati sul concetto che "il bambino è un sacco vuoto da riempire", a dispetto di teorie tedesche un po' più elevate (ad es. quella di Herbart, teoricamente ispiratore della pedagogia nelle scuole di allora), e li giudicò senz'altro peggiori di quelli russi. Anche Wilhelm Reich si scagliò violentemente contro la concezione autoritaristica della scuola derivante dall'educazione coattiva della famiglia tedesca.
Quella del bambino come recipiente vuoto da riempire è concezione meccanicistica recente. Persino la società medioevale ha scavato a fondo nel problema della conoscenza offrendoci spunti pratici utili per il futuro, solo la società capitalistica sembra essersi auto-esentata da questo compito, tenendo la prassi scolastica ben lontana dalle proposte degli stessi studiosi borghesi, a parte esperimenti di gruppi isolati. Dopo aver realizzato le basi materiali per il salto definitivo dalla preistoria alla storia essa non ha più dato importanza alla necessità di fissare nell'ideologia una teoria della conoscenza. Le bastava indagare intorno alla struttura esistente, sull'insieme formato da cervello, psiche, ambiente, comportamento, e ovviamente criticare, dall'alto del suo pseudo-materialismo, la sottile capacità di auto-organizzazione della materia, così come l'intravide Engels e com'è abbondantemente provato oggi dalla paleoantropologia, dall'etologia e dalla scienza del linguaggio. Oggi l'accademia borghese taccia di neo-kantismo e di innatismo la teoria della formazione e della fissazione genetica dei caratteri plasmati dal lavoro, proprio mentre una sua corrente eclettica rivela profonde connessioni fra la materia auto-organizzata, cioè vivente, il suo passato biologico-sociale e il suo divenire. A dispetto dell'ideologia, la scienza verifica che l'auto-apprendimento relazionale si trova a tutti i livelli biologici, fin dal genoma che ci programma, dato che in ognuno di essi troviamo regolazioni in atto, cioè stimoli e retroazioni che "costruiscono" il corpo e la sua intelligenza.
Che cos'è la mente? si chiesero i grandi materialisti del XVIII secolo; e la risposta, non ancora smentita è: la capacità della materia di conoscere sé stessa (Diderot). Allora nel sacco-bambino non c'è il "vuoto", né di materia né di conoscenza. Se non fosse così ci vorrebbe davvero una divinità creatrice per giungere a ciò che vediamo tutti i giorni. L'incapacità di essere materialisti fino in fondo impedisce alla maggior parte degli studiosi dell'apprendimento di ammettere l'auto-organizzazione della materia perché hanno appunto in mente qualche sostituto della divinità: il Big Bang per i fisici, il caso per i biologi molecolari, il maestro per i pedagoghi, la scuola per i sociologi. Ci dev'essere sempre qualcosa o qualcuno a rappresentare il motore, la volontà. È la stessa corrente attivistica che vorrebbe "fare" partiti e rivoluzioni. Che resta sbalordita di fronte al normalissimo fenomeno del dissolvimento della Russia e di tutto il suo "comunismo". Sessant'anni di pervasiva scuola comunista, di soffocante propaganda comunista, di emulativo lavoro comunista, di famiglia comunista, di Stato comunista, ecc. ecc. ecc. non hanno lasciato la minima traccia di comunismo nella società russa. C'erano centinaia di milioni di "sacchi vuoti" da riempire e s'è raccolto il niente assoluto. Se fondassimo una teoria della conoscenza sulla capacità dei maestri e della loro scuola di infonderla negli allievi staremmo freschi. Per questo Lenin non poteva soffrire le baggianate del bogdanoviano Proletkult e non permise che diventasse scuola.
La Chiesa non poteva concepire la teoria del bambino come sacco vuoto. Fin dal Medioevo aveva avvertito la contraddizione fra l'anima innata e la conoscenza razionale che andava a completarla, ma aveva cercato di non farsi bastare né l'anima né il suo ispiratore divino come ideologia. L'anima era affiancata dalla ragione e dal libero arbitrio, il bambino non nasceva animale per diventare uomo. Comunque, per aiutare l'anima e la ragione, prima salvò più libri di quanti ne bruciasse e ristabilì la memoria riesumando la Biblioteca, poi si fece società intorno ai nuclei di conoscenza salvata. Il tipo di sapere della società medioevale riprendeva, su di un piano diverso, tutti gli insegnamenti dell'antichità classica. La struttura portante della Chiesa era il mezzo condiviso, la teologia il suo linguaggio. Non era possibile farsi capire da uno scienziato senza assumere come proprio il linguaggio teologico: Abelardo era formalmente un teologo, ma ciò non gli impedì di essere il padre razionalista della logica occidentale. Bernardo, suo avversario, utilizzava lo stesso linguaggio per inneggiare alla impalpabile comunità con Dio senza intermediazioni materiali, alla semplicità delle origini monacali; ma nello stesso tempo fu capo ultra-energico di un movimento rivoluzionario che rasentò l'eresia, introdusse il lavoro salariato generalizzato, bonificando mezza Europa da paludi e deserti, costruendo 750 abbazie e fornendo infine la sua regola agli ordini monastici combattenti Templari e Teutonici, i quali non si limitarono certo a pregare.
Unità, separatezza, unità
Relazioni concatenate, ricordi di comunismo e società-scuola non cessarono affatto per tutto il Medioevo, c'era fermento, altro che secoli oscuri e sacchi vuoti. L’apprendimento all’interno della società medioevale avveniva attraverso le strutture della Chiesa: seminari, ma specialmente abbazie e conventi, sempre comunità, grandi o piccole, che univano vita, studio e lavoro. Oppure nelle corporazioni, ancora comunità di apprendimento e lavoro. È nella società borghese che si incomincia a separare teoria e prassi, vita e lavoro, studio e vacanza. È importante sottolineare il carattere non-scolastico dell'istruzione per secoli e secoli. La scuola vera e propria era riservata ai preti, e neppure a tutti, dato che quasi sempre l'accettazione avveniva in seguito all'acquisizione di benefici o titoli da parte di potenti. Tutto il resto dell'istruzione avveniva in una società dove è vero che ognuno dipendeva da qualcun altro, ma non attraverso un legame passivo da parte del subordinato, bensì con forme di iniziazione attiva e duratura, non scuola ma semplicemente modo di vivere, dove lo "studio" non era altro che la prassi quotidiana del garzone, del musico, dello scienziato, ecc. e dove il subordinato era spesso l'insegnante del "padrone".
Rispetto all'educazione, dal XIII secolo in poi la teologia si basò soprattutto su Tommaso d'Acquino: si può apprendere passivamente dal maestro attraverso le parole (segni) che egli diffonde, oppure si può apprendere attivamente, mettendo in azione le proprie risorse per imparare senza insegnamento. In questo caso si riconosce l'azione del maestro interiore agostiniano, ma con una differenza sostanziale: mentre Agostino non ammette che i segni possano insegnare veramente qualcosa (ogni segno non può essere spiegato che con un altro segno, come dimostra ogni vocabolario), Tommaso afferma che si può imparare da un maestro, anche attraverso i segni, perché la ragione dell'individuo è in grado di interagire con essi, metterli in relazione e ricavarne conoscenza. Si ha sempre istruzione quando si adoperi correttamente la ragione. Nessun altro può adoperare la nostra ragione, per cui in ultima analisi il fattore determinante dell'educazione è sempre il maestro interiore.
Nella teologia medioevale il bambino è perciò inteso come essere dalle proprietà innate, anche se in modo ben diverso da come intendiamo noi il bagaglio genetico che chiamiamo istinto. Quel che qui però ci interessa è che questa concezione, fino al Rinascimento, rappresenta la base per la formazione dell'uomo medioevale, che è ancora un uomo antico nonostante lo sviluppo delle forze produttive: nessun maestro sarà in grado di darti ciò che non hai o non ti sai costruire col materiale che ti circonda; più delle parole contano la vita e le opere (e naturalmente Dio, ecc. ecc.).
La scuola vera e propria era nata nel frattempo con le università, nei secoli XI e XII, a Salerno, Bologna, Parigi. Corporazioni di insegnanti e studenti privati, legati da contratto con impegno di pagamento, ottennero ufficialità e riconoscimenti. Nacquero il professore togato e la goliardia, segni della separatezza di un mondo che aborre il lavoro e l'uso delle mani. Il medico non toccherà più il malato per non sporcarsele e lascerà i compiti di tagliare, cavar denti ecc. al barbiere o al maniscalco. Con l'affermazione della classe borghese si farà strada il materialismo volgare e la scuola diventerà il luogo dove si recheranno studenti in quanto recipienti vuoti da riempire. Il cervello diventerà un vaso portato a spasso da un corpo che gli fa da mezzo di trasporto. L'università perciò non anticipa solo la scuola che si imporrà negli anni successivi, ma soprattutto la sua pedanteria, la sua immobilità, il suo accademismo, il suo isolamento dalla società.
Mai un antico avrebbe dimenticato che la mente sta bene quando è tutt'uno con il corpo. E una immensa parte della conoscenza umana sopravvissuta dal passato, quella orientale, assediata brutalmente sia dal materialismo consumistico che dalla fagocitazione new age, ci ricorda che mente e corpo sono interdipendenti e che quando la volontà è applicata al corpo, il resto viene come risultato. La formazione dell’uomo futuro non potrà prescindere da questo fatto, cioè in ultima analisi dal lavoro: il programma comunista sull'educazione parte dal ruolo svolto dal lavoro nella formazione dell’uomo e ne fa parte integrante del mondo dell’apprendimento. La scuola attuale non prepara affatto al lavoro e sarebbe sbagliato invertire semplicemente il percorso, cioè fare del lavoro l'ambiente per la scuola, come nelle strutture dei Salesiani, dei fratelli di La Salle o nella testa di educatori che hanno letto male Marx. La società futura non considererà i bambini come scatole da riempire ma come cellule vitali del proprio corpo sociale, cervello compreso. Come la società antica, non potrà prescindere dai meccanismi dell'apprendimento per generare strutture adatte alla formazione. Occorrerà quindi ripercorrere all’interno della società la strada dell’apprendimento fisiologico ontogenetico e filogenetico, riguardante cioè l'evoluzione della specie e del suo cervello collettivo.
Liberazione dell'energia sociale
Dicevamo più sopra che non sarà concepibile separare l'uomo in formazione dall'esperienza disponibile fornita dalle forme impregnate di comunismo che egli si è già dato nella storia. Ma non è possibile separarlo neppure dal futuro della specie, già anticipato per una breve stagione durante la poi fallita rivoluzione d'Ottobre. Conoscenza, scuola, comunicazione, spettacolo, arte, sono tutti aspetti dell'attività umana che l'impeto rivoluzionario aveva sconvolto dalle radici in una breve stagione di entusiasmo. E così sarà ancora, con risultati superiori, dato che l'Ottobre unì genuine esplosioni rivoluzionarie, anticipatrici, a goffi tentativi, a ingenuità pazzesche e anche a errori madornali, come quello di voler riformare la scuola zarista invece di spazzarla via al pari dello Stato autocratico. Perciò la strada è tracciata, se si è in grado di individuare il percorso fra tutti gli ostacoli. L'ostacolo maggiore che abbiamo oggi di fronte, prima che la rivoluzione si incarichi di rendere evidenti le cose anche ai ciechi e ai sordi, è la comprensione della dialettica rivoluzionaria.
Ogni rivoluzione ha i suoi militi, il suo programma e la sua estetica. Ma da dove scaturiscono, se il sistema che la rivoluzione ha il compito di demolire impone la propria ideologia, la propria cultura, la propria scienza, ecc.? Vecchia questione: nessuna svolta rivoluzionaria è possibile senza il partito della rivoluzione, ma il suo programma, quello che i suoi militi devono assimilare è frutto della rivoluzione. Dov'è la soluzione del paradosso? Dopo l'Ottobre Trotsky dovette rispondere più volte a quesiti sulla cultura proletaria, l'arte proletaria, la scienza proletaria, la dottrina militare proletaria. Il proletariato non "possedeva" tutto questo, non lo poteva costruire con le macerie della vecchia società e non c'erano ancora i mattoni e le impalcature per quella nuova. I bolscevichi, Trotsky compreso, tendevano a rispondere che il compito era quello di edificare con i pochi materiali nuovi sulle macerie della vecchia società, salendo su di esse, si era più in alto e si vedeva un orizzonte più lontano. Il tempo per lo sviluppo della "scienza proletaria" sarebbe venuto dopo. Questo valeva anche per la scuola. La Sinistra Comunista "italiana" ci ha insegnato che la risposta completa è: la dialettica insita nella dinamica verso la società nuova fa sì che emergano dalla vecchia società anticipazioni di quella futura, quindi che emerga il partito storico che le collega fra loro e forma gli strumenti adatti per la rottura catastrofica del vecchio sistema mentre il nuovo si impone. La scuola, come tutto il resto, ne è coinvolta e le contraddizioni entro il vecchio sistema non sono altro che sintomi della sua malattia mortale.
La borghesia esalta l'individualità del genio, dello scienziato, dell'artista che esce dalle sue accademie (se è bravo mercante di sé stesso, specie se fa soldi, anche l'autodidatta va bene); la rivoluzione, senza bisogno di geni e condottieri, portò e porterà nelle case la scienza e nelle fabbriche la cosiddetta arte, facendo sberleffi all'autorità dei critici del momento.
La borghesia esalta la propria arte arrivando ad esporre "merda d'artista in scatola" e varie prese per i fondelli, ma vede in Russia solo realismo socialista e palazzi fascio-stalinisti, passando tranquillamente sopra all'esplosione dell'arte non appesa al muro ma incorporata negli oggetti d'uso comune (prima di Stalin). L'ideologia censura a scopo di propaganda, ma il portafoglio borghese si apre e fruscia la mazzetta quando si tratta di mettere in collezione (o in cassetta di sicurezza) un volantino futurista, una scodella suprematista, una sedia costruttivista!
La borghesia esalta la produzione in massa, la democrazia omologante, la scuola per il popolo, l'accesso libero alla Cultura – ovviamente con la maiuscola – per le moltitudini; teorizza persino la società descolarizzata a favore di reti di auto-apprendimento; ma intanto alleva i suoi rampolli nelle scuole esclusive e realizza mostri scolastici vasti come città.
La borghesia, assetata di tecnologia e produttività, esalta la scienza e la ricerca di nuova conoscenza, innalza cattedrali del sapere universalizzato e assoluto, ma poi vuole profitto, applicazioni, realizzazioni, ritorno economico. E non paga se non è sicura di ottenerli. Così il fisico finisce, all'età di trent'anni e passa, a calcolare gli effetti della frenata su una stupida automobile affinché un suo coetaneo dai sensi ottenebrati dalla discoteca abbassi la probabilità individuale di ammazzarsi ed eviti all'assicurazione di sborsare troppi quattrini.
Mentre il sistema borghese si avvia verso il disordine totale, verso l'incontrollabilità dei sistemi e sottosistemi, insomma verso il suo massimo d'entropia, verso la morte termica, la rivoluzione lavora a togliergli ulteriore terreno da sotto i piedi: svuota la scuola di ogni contenuto e prepara il terreno alla sua demolizione definitiva. Non si può impunemente congelare un giovane fra scuola e disoccupazione per trent'anni. Non si può distruggere impunemente il rapporto circolare millenario che deve legare il bambino al giovane, all'adulto, all'anziano, di nuovo al bambino e così via, senza pagarne le conseguenze con una fossilizzazione della società, che è dinamica dal punto di vista produttivo ma non lo è affatto dal punto di vista umano. Essa infatti traduce il rapporto circolare di produzione e riproduzione in un rapporto lineare che va dal bambino che induce profitto coi pannolini che consuma, al consumatore giovane e adulto che ne induce e produce ancor di più, all'anziano che è benedizione per l'industria farmacologica, ospedaliera e delle case di riposo dove viene parcheggiato.
Se il capitalismo rende il percorso lineare, alla sua fine non può esservi che la morte. A noi va benissimo. La società nuova reintrodurrà il movimento circolare infinito, il nuovo cervello sociale scaturito dalle ceneri del vecchio si ricollegherà agli antichi modi della conoscenza attraverso la mediazione scientifica e tecnologica, depurata dalle scorie dell'ideologia attuale. Oggi l'infanzia è protratta nel tempo, ufficialmente sino a trentadue anni; consuma giocattoli innominabili, ideati da pazzi cui non importa nulla di un bambino (e infatti i bambini, pur sommersi, spesso non li guardano nemmeno, i più grandicelli non vi giocano ma li esibiscono orgogliosi come status symbol), e più tardi playstation, computer, telefonini…
La formazione dell'uomo capitalista non ha nulla di naturale e tantomeno ricalca l'auto-costruirsi dell'uomo biologico e sociale, di cui abbiamo detto. La società futura non si impadronirà della scuola ma della rete di comunicazioni, della conoscenza accumulata e del primitivo cervello sociale per spezzare con essi prima di tutto l'inumana incomunicabilità. Sbandierate conquiste come interattività, interdisciplina, conoscenza della complessità e delle reti, teorie del tutto non sono che sprazzi: hanno appena avuto il tempo di manifestarsi e subito sono state fagocitate dal tran tran del profitto e dal buco nero scolastico da cui non esce neppure la luce. Eppure sono potenzialità che vanno liberate. Invece del senso unico – per cui il bambino cresce, l'adulto produce e l'anziano attende la morte, e tutti quanti non comunicano che entro le reciproche fasce di appartenenza, ricevendone solo quel che propina l'ideologia dominante – sarà realizzato un sistema formativo che coinvolgerà tutti, ed ognuno esisterà in funzione dell'altro.
"Lector in fabula"
Il bambino ha un'enorme capacità di ricezione e di interazione con l'ambiente e invece è costretto ad assorbire quel che gli trasmettono gli adulti, a senso unico. Con quali conoscenze interagisce? Con quale materiale "genetico" può svilupparsi? La struttura unidirezionale della comunicazione si manifesta a tutti i livelli, ma in particolar modo nella scuola elementare, proprio dove sarebbe più necessario l'affermarsi del principio bio-pedagogico spiegato precedentemente. Mentre questo fenomeno contraddittorio è assolutamente insuperabile per la borghesia, la nuova società lo affronterà con eleganza scientifica: semplificando. Eliminando la scuola come struttura fissa, come campo a sé, come ghetto da condizionamento, si otterrà già di per sé liberazione di esuberanti forze interagenti. Abbreviando enormemente il tempo perso in quello che oggi si definisce senza ironia "studio", sostituito dal complesso di attività formative non separate dalla vita, si amplierà, altrettanto enormemente, la possibilità di realizzare, lungo tutta l'esistenza dell'individuo, il primo requisito dell'uomo "umano", il rovesciamento della prassi, l'azione cosciente finalizzata.
L'impossibilità di accesso alla scuola ufficiale in Russia ne provocò il congelamento per anni, mentre esplodevano e proliferavano le comuni di istruzione extra-scolastica, le loro povere biblioteche, i loro laboratori, le loro comuni agricole e persino le loro fabbriche: immaginiamo cosa non potrà succedere nell'epoca dell'alta tecnologia, delle biblioteche sterminate, dei computer, di Internet, delle immense possibilità di memorizzazione. Con migliaia di giovani, non più malati di analfabetismo da civiltà ma avanguardie delle moltitudini che spezzeranno i legami con le vecchie istituzioni, quindi ansiosi di trasmettere le proprie conoscenze, di migliorarle nel farlo, per trasmetterne di ulteriori.
L'interattività attuale dell'insegnante con l'allievo e viceversa, nonostante le belle chiacchiere, ha la stessa potenza di feedback di un comune termostato: non sai, ti do cinque; sai, ti do sette, bocciato, promosso, via un altro. Una scimmia in cerca di banane rappresenta un "sistema" più intelligente. Il nuovo ambiente formativo prevederà un'integrazione insegnante-allievo (ma la terminologia non è adatta) come un tutto unico dinamico nell'atto di auto-apprendere, cioè di auto-costruirsi. L’organismo umano nella sua complessità ha capacità interattive col suo simile immensamente superiori a quelle del termostato e della scimmia. Il compito della società futura, già a partire dal bambino, sarà di utilizzare al meglio questa interattività.
Nel suo Opera aperta Umberto Eco analizza linguaggio, potenzialità di trasmissione e di ricezione in base all'interattività che si stabilisce per esempio fra scrittore e lettore (l'opera d'arte aperta, cioè come sorgente di informazione supplementare ottenuta per mezzo del patrimonio di conoscenza del fruitore). Sviscerando infatti il problema anche dal punto di vista della teoria (matematica) dell'informazione, Eco giunge alla conclusione che è il lettore a "fare" in gran parte il testo che legge. Infatti egli non lo può leggere che con l'informazione posseduta, non può che elaborare scenari in base a ciò che sa e può mettere in relazione rispetto allo scritto. Il lettore-allievo è quindi attivo almeno quanto lo scrittore-maestro, se non di più.
Il concetto è ripreso dall'autore in un testo di vent'anni dopo, Lector in fabula, dove trasmissione e ricezione in funzione l'una dell'altra sono al centro del rapporto co-operativo scrittore-lettore, della rete di relazioni praticamente illimitata che il lettore può costruire con altri libri, con la sua vita, con la conoscenza accumulata. Ora, lo scrittore non è diverso da un'emittente televisiva: scrive un libro come l'antenna manda in onda un programma, senza sapere a priori chi lo leggerà. Non può immedesimarsi con il lettore, può solo averne una vaga opinione, se vuole scrivere per lui e non per sé stesso. Il lettore si trova in una situazione completamente diversa. Ha scelto il libro, anche se poi potrebbe non trovarlo aderente alle aspettative. Lo legge avendolo per le mani, materialmente. Così conosce l'autore attraverso ciò che egli scrive. Non interagisce con la persona, ma con la parte di essa che finisce nero su bianco, e può adoperarla per tutte le connessioni che vuole come in un grande ipertesto mentale. È già meglio di un rapporto con l'insegnante, se questi insegna semplicemente una materia e non impara un modo per insegnarla e per farla apprendere.
Ma un marxista si chiede: quale biblioteca, quale enciclopedia, quale ipertesto ha in mente il lettore? La risposta è che adesso ha quelli che offre il convento, cioè quelli dell'ideologia dominante, perché tutti usciamo dalla scuola e siamo martellati da un mondo anch'esso uscito dalla scuola, da una scienza, una musica, un'estetica codificate.
Immaginiamo di spezzare un domani questo stato di cose. Immaginiamo di eliminare, con lo Stato, anche la scuola. Sarà il caos, come in Russia, perché la scuola codifica, ordina, normalizza. Ma sarà proprio la fine dell'ordine statale e scolastico costituito a rappresentare la fine della conservazione e della reazione. L'ordine è per sua natura contro ogni evoluzione, più che mai contro ogni rivoluzione. Se la vita biologica fosse regolata da un immutabile DNA saremmo ancora dei batteri unicellulari. Solo dal caos può nascere nuovo ordine, nel senso che il caos è sempre solo apparente, nasconde processi deterministici e quindi un ordine nascosto. Il comunismo è l'ordine emergente dal caos, non è un modello, è una dinamica. Un'opera aperta, se si vuole usare il termine del non a noi simpatico Eco. Un'opera in grado di mettere in fabula, in un processo unitario, non solo il lector, non solo il mero discens, ma l'homo discens, l'uomo che apprende non per apprendere ma per essere utile alla propria specie.
Invece dello Stato e della scuola
In due articoli, del 1895 e 1898, sulle scuole-azienda proposte dai populisti, Lenin tratta con ironia un certo Iugiakov che, in un minuzioso programma simil-realistico che nasconde il solito utopismo fuori tempo, proponeva l'attuazione di centri studenteschi dove studio e lavoro fossero unificati e il prodotto del lavoro, una volta venduto, fosse utile per l'auto-sostentamento delle comunità. Lo prende in giro citando "l'eccellente libro di Antonio Labriola", cioè La concezione materialistica della storia (1896), in cui il socialista italiano scriveva:
"Alle forme di utopia russa contro la quale i maestri combattevano cinquant'anni or sono, se ne è aggiunta un'altra, l'utopia burocratica e fiscale, ossia l'utopia dei cretini".
Nel 1920, Anton Makarenko , sull'onda della formazione delle comunità per l'istruzione extra-scolastica, fonda una comune produttiva per giovani criminali, esperienza che ha poi un seguito in altre successive. Nei volumi delle opere complete di Lenin, Makarenko non è mai nominato, ma il percorso che conduce alla comune sperimentale è lo stesso che porta alla formazione dei già citati centri affidati a Nadezda Krupskaja. Quindi Lenin sicuramente appoggiava o avrebbe appoggiato l'opera di Makarenko, che descrisse così l'atmosfera rivoluzionaria:
"Dopo l'Ottobre si aprirono a noi pedagoghi meravigliose prospettive ed eravamo talmente inebriati da essere quasi fuori di noi".
Perché i centri scolastici proposti da Iugiakov erano classificati fra le utopie dei cretini mentre quelli fondati da Makarenko – e da tanti formatori rivoluzionari – andavano appoggiati e aiutati, se in fondo tutti si fondavano sull'unione di studio e lavoro? Anton Makarenko era un marxista non iscritto al partito; formatosi sulle rivoluzioni del 1905 e '17, aveva applicato alla comune produttiva di formazione l'esperienza maturata durante la costruzione delle ferrovie in epoca zarista, nei cui cantieri insegnava ai figli degli operai. La particolare situazione gli aveva permesso di adottare un programma non ufficiale, nel quale i genitori erano considerati un tutt'uno con gli studenti e la scuola, tolta al controllo dello Stato zarista:
"La nostra comunità di lavoratori, schiettamente proletaria, teneva saldamente la scuola nelle sue mani".
Cioè la scuola era stata trasformata in una non-scuola. I centri di Makarenko, e altri costituiti sulle stesse basi, erano ben diversi da quelli proposti dal populista Iugiakov: i primi erano comuni scaturite dalla rivoluzione, i secondi aziende scaturite dalla fantasia di un individuo; le comuni non erano "scuole", mentre le aziende lo erano a tutti gli effetti. Gli esperimenti di Makarenko ebbero successo in una prima fase, furono osteggiati in una seconda dalla scuola pedagogica ufficiale dell'URSS (la "pedologia sovietica") e infine, quando questa cadde in disgrazia nel '36, rientrarono nella generale normalizzazione staliniana come elementi della "costruzione dell'uomo sovietico", emulazione, stakanovismo, collettivismo statalista compresi. Alcune sue opere ebbero un successo enorme anche fuori dalla Russia.
Ma quel che ora più ci interessa è la forma a-scolastica assunta dal problema dell'apprendimento nel corso della rivoluzione e immediatamente dopo. Non siamo d'accordo in tutto con i metodi alla Makarenko, dato che risentono ancora troppo della società arretrata russa, ma essi prendono corpo con una rivoluzione e non possono che presentare aspetti in linea con quanto andiamo dicendo: prima viene formata la comunità educativa, poi viene lo studio dell'educatore mentre avanza l'esperienza, infine viene sistemata la teoria, da cui ripartire per comprendere la realtà. Il processo dialettico seguito da Makarenko è lo stesso dell'apprendimento del bambino (e quello adottato da Marx, descritto nel Metodo dell'Economia politica, 1857). È per questo che naturalmente, deterministicamente, non ci fu un solo Makarenko vittorioso ma ce ne furono schiere, mentre la pedagogia ufficiale e libresca non faceva che accumulare insuccessi.
L'utopia dei cretini stroncata da Lenin a fine '800 si realizzerà e ufficializzerà dal 1928 in poi con la scuola di stato dello stalinismo, ma nel periodo rivoluzionario erano nate numerose le comuni più o meno spontanee, dove studio e lavoro convivevano e il prodotto del lavoro entrava nel circuito del cosiddetto comunismo di guerra, perciò nella diretta sfera del bisogno senza passare attraverso il mercato. Il tutto in modo molto primitivo, ma quegli esperimenti rappresentavano un evidente superamento sia dell'educazione "naturale" dell'individuo alla Rousseau, sia dell'inquadramento culturale addomesticato tipico della scuola borghese, sia pure sotto la forma apparentemente moderna dell'interdisciplina, del lavoro manuale formativo, dell'istruzione permanente targata UNESCO, della descolarizzazione sociale e di tutte le svariate formule escogitate dalla pedagogia del '900. Qui non siamo in una fabbrica che produce pezzi, qui produciamo uomini – esclamava Makarenko con slancio illuministico – e lo scarto anche di un solo individuo non è ammissibile: se la comunità ha come scopo la vita in quanto studio-lavoro, allora il successo dev'essere del 100%.
Con la fase dittatoriale della transizione, scomparso lo Stato borghese e la sua appendice scolastica, rimarrà certamente la produzione, che si adatterà il più velocemente possibile alla nuova società, ma il problema dell'educazione si porrà in modo completamente diverso. Essa infatti non potrà "adattarsi" gradualmente, dato che, come lo Stato borghese, la scuola sarà distrutta. Mentre lo Stato proletario sarà una macchina non dissimile da quella precedente, ma rovesciata (Marx: sarà sottomesso alla società invece di sottometterla), la scuola sarà sostituita dall'intera società come contesto in cui avverrà una "istruzione permanente" dell'uomo.
L'espressione che abbiamo messo tra virgolette è la stessa fatta propria dall'UNESCO e l'abbiamo già incontrata, sintetizzando il significato datole dall'organismo culturale delle Nazioni Unite. Ora, se non adottiamo tale significato da Grande Fratello Orwelliano, rimane quello del buon senso: per "istruzione permanente" non si può che intendere la necessità di approfondire di continuo le nostre conoscenze sulla natura e le sue leggi; la crescita dell'uomo sociale nel senso che abbiamo più sopra esposto; il perfezionamento delle tecniche e dei metodi; l'affinamento dei programmi che gli permettono di rovesciare la prassi, di progettare la propria esistenza col dominio delle passioni, o con il loro indirizzo razionale, accanto alla creatività dell'istinto e dell'intuizione. Siamo a proposizioni antiche come il mondo, registrate nei testi sapienziali egizi come nella Bibbia, nella conoscenza greco-romana come nelle proposte del vescovo Comenio.
Dispiace di non poterci soffermare, qui, sull'opera di quest'ultimo (specie sulla Grande didattica del 1632). Il suo progetto di dare un'istruzione universale a tutti non è, a rigor di logica, classificabile come pedagogia ma come transizione fra l'utopia rinascimentale e la realtà del mondo moderno: la conoscenza dev'essere la sintesi di ogni ramo specifico e va resa universale, perché ogni individuo deve sentirsi partecipe della totalità del mondo. L'educazione dev'essere sempre onnicomprensiva: il processo educativo non sarà lineare ma ciclico, per classi d'età e la trasmissione della conoscenza globale sarà resa compatibile con il grado di potenziale assimilazione del bambino. Comenio aveva un'erudizione sterminata per la sua epoca e iniziò a descrivere le relazioni fra le sfere distinte della conoscenza, corrispondenze, rimandi incrociati, analogie e sovrapposizioni, senza riuscire a terminare il suo progetto, che si può definire anticipazione non solo dell'enciclopedia illuminista ma anche di quell'immenso ipertesto che è Internet. Per lui l'insegnamento di "tutto e completamente" non significava la saturazione del cervello con nozioni separate, cioè sterili, anche se avessero potuto contenere tutto il sapere del mondo; ogni individuo doveva essere fornito di principii e di metodo in modo da poter entrare da sé in questo sapere; ogni disciplina doveva essere organicamente connessa alle altre, di modo che la conoscenza risultasse sempre unitaria. Evidentemente l'umanità ritorna sui suoi problemi fondamentali: anche Marx sostenne che essa sarebbe giunta ad un'unica scienza.
A questo punto siamo a una biforcazione fra il luogocomunismo (istruzione permanente, descolarizzazione sociale, cultura proletaria, iconizzazione dei classici del marxismo, ecc.) e il vero percorso rivoluzionario agli albori della società futura. Proviamo ad evitare il luogo comune e a seguire il filo del tracciato percorso fin qui, unire la pedagogia degli albori con gli sprazzi intravisti dai moderni attraverso le tappe intermedie, Agostino, Comenio, le realizzazioni dell'Ottobre. Ne otteniamo non una scuola, ma una società che auto-apprende e si dà i mezzi per farlo. Le squadre russe per l'istruzione extra-scolastica ostacolate dalla guerra civile, dall'estrema miseria, dalla mancanza di trasporti e dalla fame, requisirono conventi, ville, tenute, fabbriche, stazioni, stalle. Le comunità sorte a vario titolo crebbero con entusiasmo, costruendo i propri mezzi "didattici", locali, mobilia, strade, fabbriche. La terza comune costituita da Makarenko inventò il trapano elettrico portatile e costruì macchine fotografiche tipo Leica, il massimo della tecnologia dell'epoca.
Di fronte a questa esperienza la società futura avrà compiti più facili: se durante la rivoluzione russa furono ottenuti risultati eclatanti senza avere alle spalle una potenza produttiva sociale paragonabile a quella attuale, oggi esistono mezzi materiali sufficienti, anzi, sovrabbondanti, per sconvolgere il mondo intero. La nuova società, fin dagli esordi, si troverà a disposizione non solo milioni di locali lasciati liberi dalle attività tipiche della dissipazione capitalistica come quelli delle banche e degli uffici contabili, commerciali, di rappresentanza, legali, professionali e così via, ma anche interi stabilimenti che ora producono merci inutili o sono sotto-utilizzati, con tutti i loro uffici, magazzini e attrezzature. Tutto ciò sarà trasformato, quando non semplicemente demolito, nella nuova rete di – come chiamarle? – unità di formazione continua produttiva (o di produzione continua formatrice), diffuse in tutta la società e non arroccate come un corpo separato di dominio classista. Rete integrata con quella delle comunicazioni, dei trasporti e dei depositi di conoscenza. Bambini, giovani, adulti e vecchi non saranno schiaffati in compartimenti stagni sociali ma faranno parte, tutti, del processo unitario e organico di educazione-produzione, senza fratture fra studio, lavoro e vita. Tutto è già pronto, basta prenderlo.
Il partito della società organica
Secondo alcuni lettori noi faremmo troppo affidamento sulle moderne tecnologie come rimedio ai mali dell’umanità. Ed esalteremmo anche presunti automatismi nella fase di passaggio, che sarebbero resi possibili dalla presenza, nella società attuale, di anticipazioni della società futura che invece in realtà sarebbero molto deboli e pressoché ininfluenti. Noi sminuiremmo dunque la funzione del partito e della dittatura del proletariato. Rispondiamo semplicemente che la questione è mal posta. Non si tratta di aver fiducia o meno nella tecnologia. Il punto è che il modo di funzionare degli organismi biologici, dell'intera biosfera e degli uomini in particolare, quindi del partito della loro rivoluzione, è di tipo organico o, detto con altro termine, "cibernetico", che poi in antico voleva dire semplicemente "scienza della guida" o del governo; come il nocchiere guida una nave interagendo con i venti e con le condizioni del mare, o come il solito termostato regola l'ambiente interagendo con le condizioni che vi si trovano (e non siamo neppure troppo moderni, visto che il termine, come la nozione che esplica, è di Ampère, prima metà dell'800). Se il termostato avesse qualche funzione in più, invece di mantenere una temperatura produrrebbe un clima a seconda delle esigenze di chi sta nell'ambiente, come nell'Atlantide di Francesco Bacone. Il partito è un organo bio-cibernetico, prodotto e fattore nello stesso tempo di informazione-azione.
Ogni sistema biologico o sociale è ovviamente molto più complesso di un termostato, tanto complesso da diventare a volte "intelligente", in grado cioè di discernere fra molte opzioni e decidere. Il partito rappresenta l'elemento catalizzatore che fornisce intelligenza al sistema, cioè un programma. Noi non abbiamo nessuna fiducia nella scienza borghese, anzi. Ma i fatti materiali ci mostrano come la società abbia raggiunto un elevato livello di capacità auto-organizzativa, completamente sprecato dallo stupido sistema capitalistico che sopravvive a sé stesso. Tolto di mezzo il capitalismo, non è la nostra "fiducia" che conta, è la struttura materiale liberata che finalmente funzionerà, ovviamente per fini diversi da quelli attuali. La dittatura del proletariato non ne esce affatto sminuita ma rafforzata, e così il partito: rappresentando il rovesciamento della prassi, essi avranno materiale enorme su cui fare affidamento e applicare "volontà", (in Russia le condizioni erano ben diverse, per cui gli aspetti della transizione, fallito sia l'assalto rivoluzionario in Occidente che le prospettive interne, finirono in una pura e semplice conservazione).
Capire questo dato di fatto è anche capire la necessità della morte della scuola, perché essa non è affatto un'istituzione "cibernetica" a retroazione positiva (regolazione o governo verso l'acquisizione e accumulo di nuove possibilità), ma a retroazione negativa, conservatrice (regolazione o governo verso condizioni di stasi). Dire "scuola rivoluzionaria" alla Bogdanov o alla Lunaciarskij è dunque sbagliato, perché ogni rivoluzione spezza l'immobilità e attiva una dinamica di accelerazione violenta dei fatti sociali.
La nostra corrente, con un linguaggio diverso, ha applicato questi concetti al partito rivoluzionario definendolo organico. La sua natura e funzione derivano dalla natura e funzione della società futura ed è quindi un acceleratore "cibernetico" a retroazione positiva (sono invece a retroazione negativa tutti gli apparati di controllo, cioè di equilibrio). Se sarà il partito rivoluzionario, come certamente sarà, a dirigere gli avvenimenti nel momento della rottura rivoluzionaria, allora non si può avere una concezione del partito basata su criteri che lo sminuiscono di fronte ai compiti da svolgere. In quest'ottica, se è sbagliato parlare di scuola rivoluzionaria, è ancor più sbagliato parlare di indipendenza della scuola di fronte al partito: l'educazione-lavoro-vita implicherà il partito così inteso, e viceversa. Questa, tra l'altro, era la concezione di Marx e di Lenin. Il primo l'espresse come indicazione della Prima Internazionale (il primo partito internazionalista) per la scuola, nel 1866; il secondo con il volgere le spalle, durante la rivoluzione, alla scuola di Stato e al Proletkult a favore della auto-costruentesi rete di istruzione permanente insieme alla rete di partito. Il fallimento dovuto alla controrivoluzione non inficia la correttezza dell'assunto rivoluzionario.
Auto-apprendimento del cervello sociale
Le ricordate considerazioni dei santi Agostino e Tommaso sui segni, la loro lettura e la funzione del maestro reale e interiore (o l'energia latente della Montessori, che si può indirizzare, mai creare), li avevano portati a indagare intorno a un problema che oggi è risolto scientificamente: l'animale comunica solo in modo "analogico", cioè continuo, qualitativo, mentre l'uomo lo fa anche in modo "numerico", cioè discreto, quantitativo. Lo sviluppo del cervello sociale e della conoscenza accumulata e integrata, porta all'unità fra comunicazione analogica e numerica; di qui anche l'unità nel processo di ricambio della specie, il ciclo nascita-bambino, anziano-morte dell'individuo. Un esempio servirà a chiarire i concetti. Chiunque abbia osservato un gattino, avrà notato che impara benissimo ad essere gatto senza "andare a scuola" di comportamento. Sulla base del suo istinto genetico, imiterà il comportamento dell'adulto fino alle interazioni con altri adulti nella società dei gatti, segnerà il territorio, condurrà battaglie sessuali e andrà a caccia o a servirsi sul nostro tavolo di cucina. Quando lo si vede raschiare inutilmente il pavimento nel gesto di scavare la buca in terra per le necessità del suo intestino e poi fare il gesto di coprire il risultato della fatica, non è mosso dall'intenzione di scavare una buca ma da un automatismo genetico. Quando gli mettiamo a disposizione la cassetta con la sabbia, non facciamo che assecondare questo suo automatismo e solo molto impropriamente diciamo che ha "imparato" a servirsi della cassetta.
Tutte le informazioni che il gattino riceve sono di tipo analogico, la sua gattità non comprende assolutamente il linguaggio numerico, dato che nessun gatto "parla". Quando fa le fusa non dice: "sono contento", ma qualcosa di molto più complesso, che ha a che fare con situazioni e relazioni, una condizione "in funzione di…". Anche il bambino in un primo tempo ha un rapporto analogico con la realtà che lo circonda, ma ben presto la sua umanità comprenderà il linguaggio numerico. Egli non lo possiede, lo apprende. Ma non lo può apprendere tramite insegnamento verbale, numerico, lo può solo tramite il linguaggio analogico, l'unico di cui, se fosse scatola vuota, sarebbe dotato. Quindi parrebbe corretto concludere che l'umanità dell'uomo si realizza a due livelli separati: uno connaturato e uno esterno. Ma questa, per noi che siamo sostenitori del continuo, cioè per una "teoria sociale dei campi" d'influenza, è evidentemente una fesseria: l'umanità dell'uomo è l'essere parte di una specie che per particolari condizioni ha iniziato a comunicare con un linguaggio numerico e ha memorizzato questa facoltà a livello biologico (area di Broca del cervello) e sociale (comunità di azione e comunicazione con altri uomini).
La connessione fra il linguaggio analogico e quello numerico è, appunto, la società. Non la scuola, che impone l'istruzione numerica a sfavore di quella analogica, come il domatore impone determinati gesti all'animale. Se noi mettiamo un bambino davanti a una radio accesa, in un ambiente isolato, nella speranza che impari a parlare (cioè ad esprimersi mediante linguaggio numerico) non otterremo nulla e parimenti non succederà nulla se ne mettiamo venti. Ma il bambino imparerà benissimo se sarà immerso in un ambiente dove altri piccoli, adulti e vecchi interagiscono e mescolano il linguaggio analogico della vita normale (gesti, atteggiamenti, toni, espressioni) a quello numerico (vocabolario e sintassi) della radio. Come erano mescolati nei geroglifici, che furono lo specchio analogico (immagini) e numerico (lingua alfabetica) della nostra infanzia sociale. Una conferma recente (dicembre 2003) dell'ipotesi "auto-generativa" del linguaggio e del suo apprendimento, come aveva previsto Chomsky, viene da esperimenti congiunti dell'università milanese San Raffaele e di quella di Amburgo.
L'unione fra processi analogici e numerici per quanto riguarda linguaggio e apprendimento è il paradigma su cui la società futura fonderà il sistema dell'apprendimento. Oggi non avrebbe nessun senso vagheggiare l'ennesima Utopia, Città del Sole, Atlantide, Biblioteca di Alessandria, fabbrica di "uomini sovietici" o altro: bastano il paradigma e l'esperienza empirica millenaria che va contro la scuola borghese moderna. Quando Tommaso dà ragione ad Agostino sul fatto che i soli segni non possono spiegare altri segni (come nell'esempio del bimbo davanti alla radio) e che quindi non se ne ricava nulla se non attraverso il maestro interiore, aggiunge che però la ragione può dare ordine ai segni e il maestro interiore aiuta a disporli in un sistema di relazioni. È agevole allora vedere nella disquisizione teologica il dettato della conoscenza sociale che prende le vie consone all'epoca. Ma Tommaso dice le stesse cose "cibernetiche" di Bateson o Watzlavick sulla teoria e prassi della comunicazione umana e dell'apprendimento.
Occorsero diversi secoli affinché Lamarck e Darwin capovolgessero i temi medioevali, appena scalfiti da alcuni lampi illuministici: prima delle teorie evoluzionistiche il pensiero stava alla base di ogni spiegazione del mondo biologico; dopo, il mondo biologico divenne la spiegazione del pensiero, il quale viene per ultimo. E perché mai la scuola dovrebbe continuare a metterlo per primo? Senza l'apprendimento analogico il pensiero sarebbe solo il deposito di una massa di nozioni numeriche senza relazioni e quindi senza senso. Ed è il lavoro ad essere sia la base biologica del pensiero che l'ambito umano (non animale) delle relazioni analogiche. Per dimostrare come tutto si colleghi, ricorreremo a un altro esempio. Darwin aveva già enunciato la sua teoria dell'evoluzione quando il naturalista Wallace, prima che fosse pubblicata, gli inviò dall'Indonesia un saggio che ne confermava per altre vie la validità. Egli sosteneva, fra altre cose non condivise da Darwin, che il principio di selezione naturale corrispondeva a quello della valvola di Watt, la quale, aggiungiamo noi, funziona sullo stesso principio omeostatico del solito termostato. Ci vuole poco a capire che Wallace aveva per la prima volta enunciato il principio di generalizzazione della cibernetica estendendolo alla biosfera e quindi alla società.
L'intero sistema borghese è basato sulla sopravvivenza del più adatto, cioè sull'anarchia autoregolata dalla violenza che lo rende simile alla giungla dove l'evoluzione è regolazione selvaggia dei predatori e delle prede, della massa biologica e dell'ambiente che la nutre, e quindi ha bisogno di darsi una regolata per non esplodere. La scuola è la sua valvola di Watt, il suo termostato, il freno che lo rende omeostatico, cioè immobile, controrivoluzionario. È implicito che ogni tanto, localmente, venga a mancare un qualche tipo di equilibrio e si inneschino retroazioni positive (esplosione dei fenomeni) o negative (riduzione fino all'estinzione). Questo è il modo in cui la natura conosce sé stessa. Ma l'uomo, in quanto prodotto della natura, si introduce nei processi di auto-conoscenza della materia come portatore di un formidabile strumento per rovesciare la prassi: la comunicazione articolata per concetti e quantità. L'uomo può decidere se innescare un processo di retroazione positiva o negativa o controllarle entrambe o progettare di introdurle ove non esistano. Riuscendo a far ciò, facciamo rientrare nell'ambito delle teorie materialistiche anche un aspetto che è sempre stato prerogativa dell'idealismo, cioè il finalismo (ogni progetto è attività tesa a un fine). Il rovesciamento evoluzionista ha consegnato al determinismo il processo di formazione della "mente" e questa, una volta formata, soprattutto sul piano del cervello sociale, consegna al rovesciamento della prassi, al progetto, il piano di specie della società futura.
Ciò corrisponde al partito storico, e infatti è per questo che vediamo connessi partito organico e sistema di educazione, nello stesso momento in cui avanziamo una critica spietata al partito democratico e alla scuola. Ma ciò corrisponde anche alla definizione materialistica, storica e dialettica del finalismo, che non è più teleologia (finalità per lo più metafisica insita in tutte le cose), teleonomia (finalità insita negli organismi viventi in evoluzione), ma che può essere descritto solo con un neologismo, per esempio teleodinamica, finalità prevista e raggiungibile per mezzo di un progetto cosciente che descrive anche i mezzi per giungervi. La scuola al massimo prepara individui a un mestiere (e abbiamo visto che fallisce anche questo compito), non all'essere comune (gemeinwesen) che potrà armonicamente affrontare il mondo in cui vive.
Nell’Ideologia tedesca Marx attacca la scuola di Stirner che avanzava pretese di emancipazione locale e dell’individuo attraverso le banali attività della vita quotidiana. Il grande obiettivo dell’umanità, lo sbocco per la specie umana non è questo. Non si tratta di riportare il bambino al lavoro dell’artigiano, ma di inserirlo in un contesto nel quale possa contribuire in modo specifico alla produzione globale in relazione con gli altri individui. Frammentando la continuità insita nella natura – e quindi nella conoscenza – in elementi parziali, come fa la scuola, non si supererà mai la concezione individualista dell’insegnamento e dell'apprendimento.
Crescita e forma
Nel 1917 veniva dato alle stampe uno studio che al momento passò quasi inosservato e che in seguito influenzò indirettamente più d'una disciplina scientifica. Si tratta di Crescita e forma di D'Arcy Thompson. Per ammissione dello stesso autore, si trattava di un saggio che, anche se supportato da un vasto lavoro sperimentale, voleva basare la divulgazione dei risultati solo su elementi teorici. Nonostante non fossero ancora disponibili allo scopo le successive ricerche in campo biologico, chimico, fisico e matematico, che sarebbero state molto utili, il lavoro di Thompson, in generale, si collega in modo mirabile alle recenti scoperte in questi campi.
Molte parti sono del tutto superate, ma l'assunto centrale è più che valido: le forme del vivente e la loro evoluzione dipendono da leggi di natura, determinazioni materiali, esprimibili attraverso la matematica o comunque attraverso procedimenti scientifici. Ogni forma in evoluzione è trasformazione che, anche a limiti estremi, conserva gli invarianti della forma precedente (o quest'ultima li trasmette a quella trasformata). Leroi-Gourhan estenderà questo concetto di "crescita e forma" all'uomo sociale, alla sua evoluzione esterna, città, reti di produzione e comunicazione.
Oggi la generalizzazione si è spinta oltre, accostando alle forme complesse del vivente anche le società o i sistemi cui il mondo biologico dà luogo. Questo è un discorso che ci deve interessare moltissimo. Lo stesso Marx paragona le scoperte sull'evoluzione biologica al lavoro sul succedersi delle forme economiche e sociali che lui ed Engels avevano intrapreso. Sentiamo direttamente da Marx come il paradigma "educativo" scaturisca deterministicamente dalla forma sociale moderna. Nel Capitale, Libro I, nel bellissimo e mai letto abbastanza cap. XIII sulle macchine, egli scrive:
"Dal sistema di fabbrica come lo si può osservare nei particolari in Robert Owen, è sbocciato il germe dell'istruzione del futuro, che combinerà per tutti i fanciulli al di sopra di una certa età il lavoro produttivo con l'insegnamento e la ginnastica, non soltanto come metodo per aumentare la produzione sociale, ma come l'unico metodo per produrre uomini armonicamente sviluppati in tutti i sensi".
Osserviamo: nella fase di transizione – in attesa di eliminare la distinzione fra lavoro e vita – quando l'orario di lavoro sarà ridotto a meno della metà di quello attuale ecc., sarà facile far partecipare i ragazzi alla produzione sociale e risolvere il problema della formazione del corpo e delle conoscenze. Nel passo riportato, che apparentemente riguarda solo l'istruzione, c'è anche la risposta ad un quesito generale: dal sistema di fabbrica sboccia non solo l'istruzione del futuro ma anche la forma sociale che la rende possibile. Prima di proseguire è necessario ribadire, a rafforzare le nostre ulteriori osservazioni, un fatto più che acquisito nel lavoro della nostra corrente: in questa società così com'è vi sono anticipazioni (che questa società rende negative, certo) del futuro assetto sociale. Ecco come Marx pone la dinamica del divenire anche nel capitalismo:
"Se la legge sulle fabbriche, come prima concessione strappata di violenza al Capitale, combina la sola istruzione elementare col lavoro di fabbrica, non v'ha dubbio che l'inevitabile conquista del potere politico da parte della classe lavoratrice assegnerà un posto nelle scuole operaie anche all'istruzione tecnica sul piano teorico e pratico, così come non v'ha dubbio che la forma di produzione capitalistica, e la situazione economica dell'operaio che ad essa corrisponde, stanno agli antipodi con quei fermenti rivoluzionari e con la direzione nella quale essi vanno: la soppressione della vecchia divisione del lavoro. Ma lo sviluppo degli antagonismi di una forma storica di produzione è l'unica via storica possibile al suo dissolvimento e alla sua metamorfosi. Ne sutor ultra crepidam! [Il calzolaio non vada oltre la scarpa], questo nec plus ultra della saggezza artigianale è divenuto follia e maledizione dal giorno in cui l'orologiaio Watt ha inventato la macchina a vapore, il barbiere Arkwright il telaio continuo, il garzone orefice Fulton il battello a vapore" (ibid.).
La società capitalistica ha esasperato la divisione del lavoro, e la scuola è la fabbrica primaria di tale divisione. Ma l'ha anche resa obsoleta nei fatti, perché non è che nella scuola entrino studenti ed escano uomini più completi, essa sforna sempre studenti. Oggi potremmo continuare la lista degli "inventori" che escono dalla tradizionale divisione del lavoro moltiplicando per mille gli esempi di Marx, specialmente se cerchiamo negli Stati Uniti dove l'accademia è meno radicata che in Europa. La conoscenza necessaria per forgiare gli "inventori" post-capitalistici è quella diffusa, e questo vale anche per gli operai. Gli individui superano la specializzazione artigiana e manifatturiera diventando cellule di un cervello sociale. Proprio come accade all'operaio parziale, sempre meno un "inventore" inventa da solo, sempre più egli fa parte di una rete addirittura mondiale di istruzione permanente extra-scolastica.
Se qualcosa è tolto all'individuo borghese ed è trasferito al cervello sociale, non possiamo che esserne soddisfatti, perché questa sarà materia sfruttabile dalla nuova società per la formazione degli uomini o meglio per la propria auto-formazione. Oggi l'individuo partecipa già alla conoscenza sociale molto più che in passato. Ciò che lo rende un ilota moderno non è la mancanza di conoscenza, è il fatto che non sa che farsene. L'operaio parziale diventa operaio globale (Marx usa i termini collettivo, combinato, composto) sia nel processo di produzione immediato partecipando al ciclo globale (VI Capitolo inedito), sia nel corso della sua vita assommando tante volte il suo essere operaio parziale in operazioni diverse. Anche in questo caso avrà più conoscenze, sarà più strettamente collegato alla rete sociale di quanto non lo fosse il meraviglioso artigiano in grado di fare una carrozza perfetta tutto da solo:
"L'operaio collettivo possiede ora tutte le qualità produttive in pari grado di virtuosismo e, nello stesso tempo, le esercita nella maniera più economica adoperando tutti i suoi organi, individualizzati in particolari operai o gruppi di operai, esclusivamente per le loro funzioni specifiche. L'unilateralità e perfino l'incompletezza dell'operaio parziale diventano perfezione in lui come membro dell'operaio collettivo. L'abitudine di una funzione unilaterale lo trasforma in organo, agente in modo naturalmente sicuro, di tale funzione, mentre il nesso organico del meccanismo d'insieme lo costringe a lavorare con la regolarità di una parte di macchina" (ibid., sottolineatura nostra).
Leonardo, l'operaio globale e l'uomo umano
Leonardo da Vinci era solito dire che era un misero uomo colui che sapeva senza essere passato attraverso l'esperienza. Ma, aggiungeva, era un ben misero pittore colui che dipingeva senza saper di teoria dei corpi, del paesaggio e della prospettiva. Il cervello sociale del Rinascimento aveva bisogno di fissare la conoscenza in alcuni elementi d'eccezione che insieme definivano l'epoca; oggi la conoscenza che ha il cervello sociale è infinitamente più grande, il "genio" si è diffuso su un maggior numero di cellule. Un bambino odierno di dieci anni possiede mediamente una quantità di nozioni che un adulto di un secolo fa non poteva neppure immaginare. Un operaio che abbia passato un po' di anni in fabbrica "sa" mediamente una gran quantità di operazioni in più e conosce il processo produttivo meglio dell'operaio con cui aveva a che fare Taylor. Il fatto è che sia il bambino che l'operaio non hanno la possibilità di adoperare le conoscenze acquisite se non nelle singole fasi dello studio e del ciclo produttivo; di tutto il resto non sanno che farsene e lo dimenticano. In questo senso sono iloti moderni. Ma "moderni" vuol dire trasformati. La trasformazione dell'ambiente produttivo non può non essere anche trasformazione di chi ci vive:
"La grande industria, assegnando una parte decisiva alle donne, agli adolescenti e ai fanciulli, al di là della sfera delle attività domestiche, nei processi di produzione socialmente organizzati, crea la base economica nuova di una forma superiore di famiglia e di rapporto fra i sessi… La composizione del personale operaio combinato mediante individui di ambo i sessi e delle età più diverse, se nella sua forma capitalistica è una sorgente pestifera di corruzione e di schiavismo, dovrà, in condizioni adeguate, convertirsi invece in sorgente di sviluppo dell'uomo" (ibid.).
E in un inciso, dopo questo passo, Marx annota: "Nella storia come nella natura, la putredine è il laboratorio della vita". Sembra una frase ad effetto, che evoca un po' Darwin e un po' Fabrizio de André, ma è la chiave per capire la dialettica dei processi capitalistici che stanno alla base della trans-formazione o meta-morfosi (andare oltre la forma, in latino e in greco) sociale. Marx, nella Miseria della filosofia, individua nell'operaio moderno due anime dialetticamente contrapposte, e ciò in prima approssimazione rappresenta a nostro avviso una bella risposta alla domanda che ci viene spesso rivolta sulla dialettica delle anticipazioni e della transizione alla società futura:
"Nella società moderna, ciò che caratterizza la divisione del lavoro è la generazione delle specializzazioni, dei tipi, e, con essi, dell'idiotismo di mestiere... [a questo punto cita Lemontey sulla conoscenza universale degli uomini antichi e rinascimentali: 'oggi ognuno pianta il proprio albero e si rinchiude nel proprio giardino. Non so se con questo spezzettamento il campo si ingrandisce, ma so di certo che l'uomo si rimpicciolisce']... Ciò che caratterizza la divisione del lavoro nella fabbrica automatizzata è il fatto che il lavoro vi ha perduto ogni carattere di specializzazione. Ma dal momento che ogni sviluppo speciale viene a mancare, il bisogno dell'universalità, la tendenza verso uno sviluppo integrale dell'individuo comincia a farsi sentire. La fabbrica automatizzata cancella le specializzazioni e l'idiotismo di mestiere" (Miseria della filosofia, Cap. II.2).
Può la scuola produrre qualcosa di altrettanto importante rispetto alle basi per la società futura? Certamente no. La scuola non insegna, lo studente non impara, se non quel che serve alla frequentazione della scuola stessa. Il bello è che non c'è bisogno di essere marxisti per registrarlo: nella prefazione alle sue lezioni di fisica Richard Feynman cita questa sentenza di Edward Gibbon (1737-1794): "Il potere dell’istruzione è raramente di grande efficacia, a parte quelle felici situazioni in cui esso è quasi superfluo". Feynman in realtà è meno possibilista e afferma categorico, come abbiamo riportato in apertura del nostro articolo: "L'insegnamento è inutile, eccetto nei casi in cui è superfluo" (citato da Piergiorgio Odifreddi su Repubblica del 5 dic. 2003). In che senso l'insegnamento sia inutile, pensiamo di averlo dimostrato. Quali sono le situazioni in cui può essere superfluo?
La conoscenza sociale permette ormai di estendere le "felici situazioni" di conoscenza sociale extra-scolastica alla Gibbons-Feynman a un punto tale che l'apprendimento diventa un tutt'uno con la società, e non materia da rinchiudere in ghetti appositi, facenti il paio con le prigioni, i manicomi, le caserme, i conventi e... le aziende, quando queste siano intese non come semplici luoghi della produzione ma espressioni del dispotismo di fabbrica. Negli Stati Uniti la scuola superiore è ormai una mera appendice dell'industria ed è finanziata per i suoi fini di profitto. In questa società c'è tanta di quella sovrastruttura superata (non solo la scuola), da rendere sempre più vera l'affermazione di Lenin: l'involucro capitalistico non corrisponde più al suo contenuto.
Un futuro comunista anti-utopico
I grandi utopisti, Moro, Campanella, Bacone, Fourier, Saint-Simon, Owen hanno, dal XVI al XIX secolo, descritto l'ideale di educazione sociale in modo molto diverso l'uno dall'altro, ma tutti con un tratto in comune, come se tutti sentissero l'esigenza di ribadire lo stesso concetto: la formazione dell'uomo nuovo è sempre collegata al lavoro e la conoscenza è sempre unità di teoria e prassi, di memoria accumulata e di nuova elaborazione. Spesso nei lavori di questi utopisti sono descritti sommariamente gli edifici comuni adatti alla formazione dei cittadini, la proprietà è altrettanto comune e la famiglia non esiste, o comunque i bambini e i giovani non ne sono influenzati perché di loro si fa carico la società.
Owen, oltre che a scriverne, realizzò estese comunità produttive. Oggi siamo in grado di essere più pratici e concreti dello stesso Owen, che già non scherzava. La prima comune giovanile di Makarenko aveva lasciato l'insediamento originario ed era andata a occupare una tenuta agricola abbandonata da latifondisti che avevano raggiunto le armate bianche. La struttura centrale, le stalle, gli edifici di servizio erano di ottima fattura, ma il tutto era stato saccheggiato dai contadini. Macchine, animali, mobili, suppellettili, porte, finestre, tegole, persino il frutteto erano stati rubati. Il primo commento degli occupanti fu contro la barbarie di chi aveva preferito questa selvaggia distruzione per portare nelle sue misere capanne qualche frammento piuttosto che occupare la tenuta, preservarla, ampliarla e utilizzarla. Tutto ciò fecero invece gli "studenti" prendendosi gli edifici e la terra. S'ingrandirono, fondarono un'altra "colonia" e poi una terza. Essi erano già una comunità organica che agiva come un insieme complesso con un progetto finalizzato. Non avevano proprietà, erano ex criminali sradicati dalla società e dalla famiglia, non avevano nessuna possibilità di "andare a scuola", erano dimenticati dal mondo circostante che stava combattendo una guerra civile, lottavano contro una fame nera e avevano un "maestro" che non aveva nessuna intenzione di "insegnare" ma voleva vivere con loro un poema pedagogico. Ottennero risultati straordinari.
Lenin si recò una volta o due ai convegni di altri gruppi e ne fu colpito. Ai ragazzi non parlò quasi mai di scuola, di insegnamento e di cultura, ma di guerra civile, di elettrificazione, di fabbriche, di macchine, di futuro, di comunismo. Ritemprato da questi risultati della rivoluzione, telegrafava a Lunaciarskij rimproverandolo di aver trasgredito agli ordini, e ordinava di darsi da fare per seppellire la scuola della società morta e cancellare quell'obbrobrio del Proletkult di Bogdanov e compagnia.
"Dal basso – diceva – cioè dalla massa dei lavoratori che il capitalismo teneva lontano dall'istruzione con la violenza o con l'ipocrisia e l'inganno, sale uno slancio possente verso il sapere e la conoscenza. Abbiamo il diritto di esserne fieri, di saperlo assecondare e di essere al suo servizio. Ma sarebbe veramente un delitto chiudere gli occhi sul fatto che non abbiamo ancora imparato a organizzare correttamente l'apparato statale dell'istruzione" (L'attività del commissariato del popolo per l'istruzione pubblica, 1921).
Per "organizzare correttamente", l'abbiamo visto, Lenin non intendeva riformare la scuola ma sostituirla con altro. Non fu possibile, ma sappiamo che si può proiettare nel futuro la dinamica della trasformazione iniziata con l'Ottobre, esattamente come Thompson e Leroi-Gourhan proiettarono le forme biologiche e sociali nel condurre l'analisi del processo evolutivo. Nel capitolo "la dimora dell'uomo" della serie sul programma immediato della società di domani, abbiamo descritto il determinismo dell'architettura funzionale e di alcune forme urbane che escono dall'utilitaristico parallelepipedo "insardinatore di uomini" alla Le Corbusier, disegnato dal profitto. Le nuove strutture sono a scheletro in cemento armato riempito di vani in materiali di tramezzo facilmente eliminabili. Nelle più moderne gli spazi si compenetrano fino a rendere labile il concetto di "interno" ed "esterno" rispetto all'ambiente. Notavamo che in molti casi le infrastrutture sarebbero pienamente utilizzabili a scopi collettivi, così come lo sono, per esempio i grandi alberghi e residence con cucine, sale per riunioni, cine-auditorium multimediali, biblioteche, computer, Internet, lavanderie, piscine, impianti sportivi, ecc. Comunque, anche un banale gruppo di condominii costruiti senza troppa speculazione sarebbe pienamente trasformabile in una unità del genere con poco sforzo, mentre oggi la nuova urbanistica avanza col caterpillar distruggendo anche le costruzioni recuperabili (e intanto magari costruisce altrove schifezze ultra-speculative).
Dobbiamo, per concludere, delineare uno scenario di massima, assolutamente realistico, per dimostrare che oggi l'utopia è superata e si può passare ai fatti. Abbiamo dunque la teoria adatta e i locali adattabili. Come i ragazzi di Makarenko occupiamo questi ultimi e iniziamo la trasformazione. Diciamo che abiteremo nei piani superiori e riserveremo quelli più accessibili alle attività sociali. Se siamo vicini a una fabbrica stabiliamo un collegamento con la stessa per partecipare alla produzione. Oppure avviamo una linea di produzione in loco negli spazi disponibili, sempre che non si tratti di un'acciaieria o comunque di produzioni ingombranti. Come dice Fourier, i bambini si divertiranno un sacco e i ragazzi impareranno a organizzarli. Siccome ci teniamo, secondo programma, a eliminare la contraddizione città-campagna, ci colleghiamo con altri centri simili in ambiente agrario se siamo in città, o urbano se siamo in campagna. Magari con un interscambio di "studenti", così ci dedichiamo al ciclo completo agro-industriale e impariamo, oltre che a organizzare la nostra vita-lavoro, anche a farlo in relazione ad altri gruppi. Infine, non essendo anarchici, ci colleghiamo a tutta le rete di tali gruppi tramite strutture di coordinamento centralizzato, anche per tenere sott'occhio numero e dislocazione degli educatori-catalizzatori, dato che adesso non vi sono più "maestri" o "professori", ma chiunque sappia qualcosa lo trasmette ad altri.
In uno degli edifici requisiti abbiamo costituito una biblioteca che fa parte di una rete nazionale in confronto alla quale i più temerari sogni di Lenin impallidiscono, e che a sua volta è collegata alla rete bibliotecaria internazionale (ammesso che nella transizione ci siano ancora nazioni). Quel che più conta è che l'eliminazione della proprietà ha permesso di implementare su ogni genere di supporto mnemonico (e connettere tramite Internet) tutto lo scibile umano di ogni tempo in ogni lingua. Se è utile, possiamo persino raggiungere con un click – poniamo – un fragile incunabolo medioevale, un papiro antico, un intero archivio di tavolette d'argilla in riproduzione perfetta, con allegata tutta la documentazione originale dell'archeologo, del glottologo o dello storico. Dal centro multimediale si può attingere dalla biblioteca tutto il materiale didattico interattivo che si vuole, e naturalmente letteratura, musica, cinema, ecc. ecc.
Tutti partecipiamo alla produzione e quindi a tutti i livelli abbiamo qualcosa da trasmettere, organizzare, memorizzare, localmente o nei confronti del mondo intero. Non c'è distinzione fra bambini, vecchi, adulti, donne, uomini, se non quella derivante delle forze, dei bisogni o della fisiologia (quindi è superato anche il concetto di scuola come "casa del bambino" di montessoriana memoria, e comunque di scuola come luogo dedicato esclusivamente all'insegnamento). L'informazione è accessibile e non è accumulata in una sede specifica, chiunque se ne può "appropriare" per ampliare, elaborare e ri-trasmettere. Nella divisione tecnica del lavoro fra cellule dello stesso organismo, si formano gli organi specifici, così come dalle cellule staminali indifferenziate si formano quelle particolari. Il sistema supera la democrazia e integra le differenze, utilizzando al meglio il materiale che esso stesso produce in continuazione, nel senso di elaborati, ecc. o di esseri umani adatti alle consegne, "docenti" o "discenti" che siano.
Si potrebbe continuare ma ci fermiamo. Una descrizione ulteriore diventerebbe semplicemente narrazione e aggiungerebbe poco o nulla a quanto già detto. Una volta assimilato il metodo, raccolti i materiali e verificate le condizioni sociali, il resto viene da sé: siamo in grado di continuare la sistemazione dei tasselli del grande mosaico educativo, di definire meglio "la dimora dell'uomo". Perché di questo si tratta, non di un nuovo tipo di ghetto per professori e studenti, ma di un qualcosa che il quadro fin qui abbozzato esclude si possa definire "scuola".
Letture consigliate
- Bateson Gregory, Verso un'ecologia della mente, Adelphi, 1993.
- Bertoni Jovine Dina, Storia dell'educazione popolare in Italia, Laterza 1965.
- Bettelheim Charles, Le lotte di classe in URSS 1917-1923, Etas Libri, 1975.
- Bogdanov Aleksandr, La scienza, l'arte e la classe operaia, Mazzotta, 1978.
- Bordiga Amadeo, Preparazione culturale o preparazione rivoluzionaria 1912; La nostra missione 1913; Un programma, l'ambiente 1913; Il testo di Lenin "L'estremismo malattia infantile del comunismo" condanna dei futuri rinnegati, 1960; tutti prelevabili sul nostro sito Internet www.ica-net.it/quinterna/archives.htm
- Bottai Giuseppe, La Carta della scuola, Mondadori, 1939.
- Brizzi Vittorio, Paleoworking (tecniche di lavorazione della selce, utilizzo di strumenti scheggiati e formazione del linguaggio), http://www.paleoworking.org/
- Damasio Antonio, L'errore di Cartesio, emozione, ragione e cervello, Adelphi 1995.
- Dewey John, Democracy and education, disponibile in versione integrale in inglese all'indirizzo: http://www.wordtheque.com/
- Eco Umberto, Opera aperta, Bompiani, 1985 – Lector in fabula, Bompiani, 1983.
- Engels Friedrich, Dialettica della natura, cap. "Il ruolo svolto dal lavoro nel processo di umanizzazione della scimmia", Opere Complete Editori Riuniti, Vol. 25.
- Faure Edgar ed altri, Rapporto sulle strategie dell’educazione, Armando, Roma 1973 (per le informazioni sul concetto di "istruzione permanente" dell'UNESCO).
- Fourier Charles, La teoria dei quattro movimenti, Einaudi, 1971.
- Frankfort Henri, La religione dell'antico Egitto, Bollati Boringhieri, 1991.
- Fronzaroli Pelio, "La trasmissione della cultura", in L'alba della civiltà, a cura di Sabatino Moscati, vol. III, cap. I, UTET, 1976.
- Fülöp-Miller René, Il volto del bolscevismo, Bompiani, 1930.
- Gramsci Antonio, Per la ricerca del principio educativo, in Quaderni dal carcere. Gli intellettuali e l'organizzazione della cultura, Editori Riuniti, 1971.
- Guerri Giordano Bruno, Giuseppe Bottai, fascista, Mondadori 1996.
- Illich Ivan, Descolarizzare la società, Mondadori 1983 – Cayley David, Conversazioni con Ivan Illich, un architetto della modernità, Elèuthera, 2003.
- Kauffman Stuart, A casa nell'universo, caos e complessità, Editori Riuniti, 2001.
- Krupskaja Nadezda, La scuola del proletariato, Emme Edizioni, 1976.
- Labriola Antonio, Saggi sul materialismo storico, Editori Riuniti, 1964.
- Lenin, Opere Complete, Editori Riuniti, 1955-70: Aziende ginnasiali e ginnasi correzionali, vol. 2, pag. 63 – Perle della progettomania populista, vol. 2, pag. 453 – Il gruppo Vperiod, vol. 16, pag. 133 – Sui compiti della biblioteca pubblica di Pietrogrado, vol. 26, pag. 316 – Discorso al Congresso degli insegnanti internazionalisti, vol. 27, pag. 412 – Sull'ammissione agli istituti superiori d'istruzione, vol. 28 pag. 45 – Discorso al Primo Congresso dell'istruzione, vol. 28 pag. 87 – Discorso al Secondo Congresso degli insegnanti internazionalisti, vol. 28, pag. 413 – Discorso alla II Conferenza delle sottosezioni extra-scolastiche, vol. 28, pag. 442 – Progetto di programma del PCR(B), punto relativo all'istruzione pubblica, vol. 29, pag. 116 – Discorso al I Congresso degli studenti comunisti, vol. 29, pag. 294 – Primo Congresso per l'istruzione extra-scolastica, vol. 29 pag. 303 – Discorso pronunziato al I Congresso dei lavoratori dell'istruzione, vol. 29, pag. 488 – Discorso alla III Conferenza delle sottosezioni extra-scolastiche, vol. 30, pag. 337 – I compiti delle associazioni giovanili, vol. 31, pag. 269 – Sulla cultura proletaria, vol. 31 pag. 300 – Direttive del CC ai comunisti del Commissariato del Popolo per l'istruzione pubblica, vol. 32, pag. 106 – L'attività del Commissariato del Popolo per l'istruzione pubblica, vol. 32, pag. 108 – Pagine di diario, vol. 33, pag. 323.
- Leroi-Gourhan André, Il gesto e la parola, Einaudi 1977.
- Lunaciarskij Anatolij, La cultura proletaria e il Commissariato dell'Istruzione Pubblica, Rassegna Comunista n. 4 del 31 maggio 1921 – La rivoluzione proletaria e la cultura borghese, Mazzotta, 1972.
- Makarenko Anton, Poema pedagogico, Edizioni Rinascita, 1952.
- Marx Karl, Engels Friedrich, Scritti sull'educazione, Il Formichiere, 1976.
- Marx Karl, Istruzioni per i delegati del Consiglio Centrale provvisorio, 3-8 sett. 1866, Opere Complete, Editori Riuniti, vol. XX pag. 189 – Critica al programma di Gotha, Editori Riuniti, 1990.
- Milani Lorenzo - Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, Libreria Editrice Fiorentina, 1967.
- Montessori Maria, La formazione dell'uomo, Garzanti, 1993.
- Partito Comunista d'Italia, Tesi sul problema della scuola proposte dal gruppo comunista del Sindacato Insegnanti, Rassegna Comunista n. 3 del 15 maggio 1921.
- Piaget Jean, L'epistemologia genetica, Laterza 1973 – Biologia e conoscenza, saggio sui rapporti fra regolazioni organiche e processi cognitivi, Einaudi 1983.
- Principia Cybernetica (sul cervello sociale), http://pespmc1.vub.ac.be/DEFAULT.html.
- Serge Victor, L'anno primo della rivoluzione russa, Einaudi, 1967.
- Soustelle Jacques, Vita quotidiana degli Aztechi, Il Saggiatore, 1997.
- Suchodolski Bogdan, Trattato di pedagogia generale, educazione per il tempo futuro, ediz. Armando, Roma 1964.
- Thompson D'Arcy Wentworth, Crescita e forma, Bollati Boringhieri, 1992.
- Watzlawick Paul e altri, Pragmatica della comunicazione umana, Astrolabio, 1971.