Apologia della potenza del Capitale
Vi è un aspetto nell'impostazione generale della rivista che mi spinge a richiedere dei chiarimenti. Voi svolgete una critica del movimento nell'epoca imperialistica usando spesso degli esempi e delle metafore scientifiche. Mi pare (e qui spero che riusciate a darmi qualche elemento per capire) che voi siate un po' troppo affascinati dalla potenza tecnica del capitale, tanto che la vostra insistenza sulla scientificità del nostro metodo sembra andare a scapito del patrimonio storico politico della tradizione comunista. A tratti a me pare addirittura che crediate imparziale la scienza, nonostante tutto ciò che la nostra corrente ha detto in proposito. Certo sono consapevole del livello raggiunto dalla socializzazione del lavoro e perciò dal dominio del capitale; del grado di maturazione entro questa società di forze emergenti verso una forma superiore; so che poche centinaia di milioni di proletari mantengono miliardi di umani; è tutto vero. Ma nessuna forma sociale muore da sola senza l'azione dei suoi storici becchini rivoluzionari.
Mi sembra che parliate troppo poco delle forze sociali – intendo gli uomini e le classi – che si pongono come antagoniste a questa società. Lo so che esse possono essere rappresentate solo dal proletariato che si erge contro tutti come classe per sé per mezzo del suo partito. Purtroppo la mancanza del partito è appunto, e non da oggi ma da 80 anni, il più grosso buco nero per noi, e un vero rigeneratore per il capitalismo che sembra aver trovato la sua Shangri La. Han ben da spingere le determinazioni materiali, la maturità "tecnica" della situazione generale, l'avanzata del "movimento materiale che abolisce lo stato di cose presente", ma come potrà mai una classe oppressa appropriarsi di un programma, che è collettivamente ignoto, se non attraverso una forza agente, quella che voi stessi ammettete indispensabile e che è il partito? [Questa lettera è stata inviata, dopo la partecipazione ad alcune nostre riunioni, da un compagno che non vedevamo da quasi trent'anni. Di essa e della risposta presentiamo solo una sintesi, omettendo i riferimenti a fatti e persone, non rilevanti ai fini di questa rubrica].
Comprendiamo la tua preoccupazione, ma non ci sono scorciatoie. Come affermano, per esempio, le Tesi di Roma del PCd'I (1922), al punto sulla formazione e sviluppo del partito rivoluzionario. Tu dici: "Come può una classe oppressa appropriarsi di un programma che è collettivamente ignoto?". Rispondiamo con un'altra domanda: cosa significa che è collettivamente ignoto? Il programma non sono le tesi dell'Internazionale o qualche altra scartoffia, sia pure della corrente a cui ci riferiamo; e le rivoluzioni non si fanno, si dirigono, e non sono una questione di forma bensì di forza. Per questo insistiamo assai nel sottolineare le capitolazioni ideologiche borghesi di fronte al marxismo: esse sono prodotte da condizioni materiali che lavorano per noi. Il programma futuro è patrimonio collettivo anche se per ora non è riconosciuto dal proletariato. Che del resto non può riconoscerlo, perché la soluzione è nel partito, non nella classe. Il singolo non può accedere al programma, e non può neppure la collettività; allora, dice la nostra corrente, siamo "costretti all'impotenza eterna non solo di volere il futuro ma di prevederlo?". No, perché la rivoluzione intesa come momento di rottura non è neppure un fatto di coscienza individuale o collettiva, è la unione fra il partito storico e il partito formale. Il partito storico non muore mai, afferma la Sinistra; e noi ci domandiamo: dove sta il partito storico? Si vede? Si percepisce? La risposta è evidentemente: sì, basta saper vedere dove; la rivoluzione non ha nulla da costruire, ha da abbattere barriere; e noi ne vediamo abbattere, eccome.
Dici: "Nessuna forma sociale muore da sola senza l'azione dei suoi storici becchini rivoluzionari". E' vero, ma solo se si aggiunge che nessuna forma sociale muore perché lo vuole qualcuno. I becchini rivoluzionari sono il prodotto della crisi del modo di produzione, altrimenti ritorniamo alla vecchia e ricorrente questione: "La fase della ricostruzione teorica è conclusa, adesso diamoci da fare per costruire il partito compatto e potente del domani". Aggiungi che parliamo poco delle "forze sociali antagoniste a questa società. Esse possono essere rappresentate solo dal proletariato che si erge contro tutti come classe per sé". In realtà ne parliamo abbondantemente, ma con linguaggio diverso rispetto alle formule rituali del luogocomunismo. Ripetiamo spesso, ad esempio, che il proletariato è l'unica fonte del valore che circola per il mondo, e che perciò da una parte ha in mano la soluzione materiale del problema sociale, dall'altra sarà costretto a ribellarsi per via della dominazione oppressiva di un Capitale sempre più spersonalizzato. Le determinazioni materiali fanno riconoscere il comunismo e il suo programma, ma nessuna volontà può far sorgere determinazioni materiali.
Tutto questo non porta certo a considerare l'imperialismo come imbattibile ed eterno. Possono crearsi condizioni di collasso, prima di tutto a partire dal fronte interno americano e dalla debolezza intrinseca degli USA, che già sono obbligati a rivedere completamente la loro politica estera per i prossimi anni, non tanto a causa della presunta vulnerabilità militare dopo l'11 settembre ma a causa dei troppi concorrenti che li assediano. Come vedi non siamo per nulla alla "fine della storia", tutt'altro: siamo all'inizio di un periodo di potenziale (speriamo che sia presto attuale) accelerazione dei processi storici.
Sull'ipotizzato e nello stesso tempo assai reale nostro "affascinamento" verso la scientificità degli assunti e delle dimostrazioni ci sarebbero da scrivere pagine. Non spaventarti, non lo faremo, ti rimandiamo al nostro testo Scienza e rivoluzione. Comunque non si tratta di "metafore scientifiche" ma di scienza tout court. Sull'argomento, è vero, ci sono compagni che ritengono esagerato il nostro riferimento a certi temi e l'utilizzo pesante di tesi scientifiche. I compagni che lavorano intorno alla rivista hanno invece adottato con entusiasmo un modo di procedere che ormai ci contraddistingue. La storia di questo nostro risultato non è neppure tanto misteriosa, e il merito va naturalmente ai compagni che ci hanno preceduto. Può essere interessante raccontarla in breve, proviamo.
Più di dieci anni fa, intorno al 1993-4, incominciammo una ricerca meticolosa sulla capacità di elaborazione della Sinistra Comunista in rapporto alla sclerosi di quello che chiamiamo, generalizzando, marxismo-leninismo (o, un po' scherzosamente, "luogocomunismo"). Proprio allora una rivista tedesca ci chiese di scrivere una biografia di Bordiga. Rifiutammo ovviamente di fare la solita biografia personale, ma ci venne in mente di scavare ancora più a fondo fra le radici della conoscenza dimostrata da questo ingegnere che trattava i problemi in modo un po' particolare già nei primissimi anni di attività politica. Siccome nella ricerca e catalogazione dei testi balzava all'occhio lo stile e il contenuto inconfondibile di Bordiga rispetto a tutti gli altri, provammo a trarne delle conclusioni. Che poi si dimostrarono fondate su premesse del tutto ovvie: Bordiga, come Marx ed Engels, invece di adagiarsi sulla "politica" del suo tempo e sul suo linguaggio, aveva seguito il processo di maturazione della forza produttiva sociale, compresa la conoscenza (e la teoria della conoscenza), e ne aveva attinto a piene mani dimostrando nei fatti che il capitalismo era già arrivato alla sintesi tra scienza del sociale, scienza della natura (fisica) e filosofia.
Bordiga fu, all'inizio del secolo scorso, uno dei prodotti dell'evoluzione scientifica che in Italia ebbe scuole sopraffine, in antitesi con la filosofia che allora era dominata da Benedetto Croce, il nemico della scienza, ispiratore non troppo segreto di Gramsci, bestia nera dei giovani socialisti di allora per ragioni materiali e storiche. Presso il gruppo sempre in fermento dei giovani socialisti il positivismo, ad esempio, era superato da tempo e, nonostante il clima non favorevole, la dialettica si era fatta strada insinuandosi anche nelle correnti scientifiche borghesi. Di qui a trovare le scuole effettive da cui aveva attinto Bordiga non fu difficile e non stiamo qui a descrivertele, le trovi accennate su La Passione e l'Algebra, di cui dovremo pubblicare una nuova edizione con ulteriori materiali.
Bordiga, lungo tutta la sua lunga vita di rivoluzionario, ha scritto moltissimo e non sempre ci ha fatto il piacere di rivelare le sue fonti, ma ha disseminato nei suoi testi una massa notevole di indizi. Sta di fatto che ad un certo punto ci rendemmo conto appieno di quanto la "politica" (la bolscevizzazione forzata dell'IC) avesse ammazzato il programma di lavoro comunista. L'assioma su cui si fonda il marxismo: ci sarà infine una sola scienza di specie, era stato del tutto dimenticato. Se aggiungi che forse avevamo una predisposizione dovuta alle frustrazioni generate dalla difficoltà oggettiva di condividere la ripresa di un lavoro su simili temi, ecco che il quadro si completa. Risultato finale: non scindiamo nulla, trattiamo i fatti e la storia dal punto di vista unitario della scienza di specie. Facciamo nostra l'affermazione: dopo Hegel, la filosofia in pensione.
Da tali premesse, i collegamenti, le relazioni, la concatenazione di argomenti, gli incastri di tasselli prima scombinati, le intuizioni su fatti precedentemente oscuri, le possibilità di riprendere schemi e proposizioni di Marx attraverso le nuove conoscenze, ecc. ecc., tutto è stato pane quotidiano per il nostro lavoro. E anche sofferenza, ovviamente, perché non esiste oggi una struttura, per quanto embrionale, che possa supportare come si deve questo tipo di attività e soprattutto proiettarlo sistematicamente verso le nuove generazioni. Una struttura organizzata (evitiamo per il presente il termine "partito") non esiste ancora perché il demone comunista non ha ancora conquistato i militanti ad una visione "universale" (disse Bordiga contro Gramsci) del comunismo; essi sono ancora schiacciati ad una visione "russa" tipica della degenerazione dell'Internazionale, come dimostrano sia gli atteggiamenti rispetto alle varie "questioni" (sindacale, nazionale, femminile, ecc.) sia la diatriba fra i gruppuscoli luogocomunisti che ricorda molto i galli di Renzo.
Siamo particolarmente contenti che tu ci abbia dato l'occasione di introdurre il nostro discorso. Rivederti dopo tanti anni di assenza ci ha permesso di notare che hai evitato l'avvelenamento dovuto a troppi anni di "crisi", insomma, ti sei risparmiato un bel po' di ricorrenti e sterili diatribe sul nulla. E ti sarà più facile cogliere le implicazioni del dopo, cioè di ciò che siamo portati a fare come lavoro. Ci sarà di certo qualche "-ista" che, avendo messo i libri sotto al cuscino e avendoci dormito sopra per una vita, ti dirà che noi abbiamo abbandonato il marxismo. A questa brava gente noi rispondiamo come Galileo aveva risposto ai preti: non è vero che voi siete difensori di Aristotele e ne riprendete gli assunti; se egli fosse qui sarebbe d'accordo con me e non con voi.
Lo schema di Bordiga sul rovesciamento della prassi è uno schema di catastrofe (René Thom), e le sue cuspidi del trapasso sociale sono gli schemi moderni di biforcazione (Whitney e Arnold). Se egli fosse qui con noi sarebbe contentissimo di vedere gli sviluppi di tanti suoi schemini appena abbozzati sulle conoscenze di allora. Non odiava la scienza, anzi, ne era affascinato, come dimostrano i suoi articoli; odiava lo scientismo volgare della borghesia e la sua pretesa di superare i propri limiti, di eternizzare il proprio sistema di dominio attraverso l'infatuazione tecnologica progressista. Ma la scienza come l'intende un comunista non solo l'amava: l'adoperava. La critica che i marxisti duri e puri fanno a noi è del tipo di quella che abbiamo pubblicato in appendice a Scienza e rivoluzione, molto istruttiva nella sua rozzezza e volgarità. Un vero manifesto d'insipienza.