Prospettive della normalizzazione in Iraq

Il "popolo sovrano" d'Iraq è andato finalmente a votare. Se poi ha votato il 68% o il 30%, come dicono gli opposti osservatori, non importa: per noi le elezioni sono solo un indice statistico dell'aderenza "popolare" al sistema esistente, figuriamoci quando sono volute dall'invasore in un paese in guerra. Sta di fatto che il principio democratico è passato in Iraq, ma si è anche consolidato presso i sinistri nostrani, improvvisatisi notai della legalità schedaiola. Che i risultati siano stati confezionati negli uffici dell'occupante ci sembra ovvio, essendo tagliati su misura per un futuro governo di coalizione. E d'altronde per vincere in guerra tutte le armi sono buone, dalle elezioni truccate alle sparatorie sui giornalisti e persino sugli alleati: una guerra senza inganni e senza morti non s'è mai vista, piaccia o non piaccia. Perciò lasciamo l'indignazione ai moralisti e cerchiamo di vedere i fatti in prospettiva.

Su questa rivista abbiamo dato grande spazio alla guerra irachena analizzandola come uno degli episodi della guerra generale fra le potenze imperialistiche. Abbiamo sostenuto che perciò è impossibile trattarla separatamente rispetto all'attacco agli Stati Uniti dell'11 settembre 2001, alla successiva guerra all'Afghanistan e soprattutto rispetto a singoli episodi del periodo precedente, meno visibili sui media ma altrettanto importanti nel loro insieme. È infatti negli ultimi trent'anni che si è andato precisando il definitivo declino economico degli Stati Uniti rispetto alla sua strapotenza economica e finanziaria di un tempo. Gli stessi trent'anni che hanno visto il rafforzamento relativo dei concorrenti, dall'Europa alla Cina, al mondo "islamico", entro il quale si stava formando un polo di attrazione per i capitali internazionali specie derivanti alle immense rendite petrolifere, ovvero dal plusvalore rastrellato presso i paesi industriali.

Oggi siamo arrivati al livello di rottura di un sistema che era sì fondato su flussi di valore verso gli Stati Uniti, ma era anche sopportato di buon grado dagli altri paesi industriali per gli evidenti vantaggi che questi ne ricavavano, essendo esportatori netti verso l'America e pure suoi finanziatori, cioè acquirenti di titoli di stato americani, parassitari tagliatori di cedole al pari del potente alleato. Chi ne pagava lo scotto erano i proletari dei paesi industriali, sempre più sfruttati, intensivamente ed estensivamente, e le popolazioni dei paesi non industriali che dovevano contrarre debiti e pagarli salati con materie prime e lavoro a livello schiavistico.

La nostra antica tesi che ogni paese imperialistico è costretto a finanziare i suoi futuri concorrenti a causa della necessità vitale di esportare la pletora interna di merci e capitali (cfr. gli articoli di Marx sul commercio britannico) ha avuto puntuale verifica sperimentale proprio nei trent'anni suddetti. E il corollario interessante è che i maggiori paesi imperialistici, ovviamente Stati Uniti in testa, non solo hanno finanziato i rispettivi concorrenti, ma anche un braccio armato mercenario (non c'è solo al Qaeda nel mondo) che ha finito per mettersi in proprio o al servizio di migliori clienti. Il maggiore artefice del "contraccolpo" scatenato dagli Stati Uniti non è stata quindi la politica di dominio e oppressione, come registra la documentatissima pubblicistica americana, bensì il decadimento dei rapporti di scambio, dovuto ad una "locomotiva" che, invece di trainare, è trainata verso il deposito dei ferri vecchi. Queste sono le premesse dell'attacco al Pentagono e alle Torri gemelle, della guerra afghana, di quella irachena e di quella "infinita" che non potrà essere combattuta solo sul piano militare; così come già è successo in passato. Non per nulla la guerra per il controllo diretto del Medio Oriente fu caldeggiata dall'apparato industrial-militare già molti anni addietro, con due opzioni: l'Arabia Saudita (Edward Luttwak, Rand Corporation) e l'Iraq (Donald Rumsfeld, Paul Wolfowitz, Richard Perle, oggi tutti al governo).

Erano certo più razionali gli scenari di Luttwak e della Rand, perché avrebbero eliminato un focolaio di reazione, mantenendo come alleato un paese laico e capillarmente industrializzato come l'Iraq. Tra l'altro, come sottolineò Luttwak, l'operazione Arabia Saudita, paese praticamente senza esercito, sarebbe stata a bassissimo rischio per le truppe americane. Ha vinto l'opzione Iraq, l'invasione è compiuta e l'occupazione si è stabilizzata senza che si sia verificato il rischio temuto, cioè senza che gli invasori abbiano sofferto perdite paragonabili a quelle di una guerra vera. Ora quindi il loro principale problema è normalizzare la situazione irachena nell'ambito di un qualcosa che somigli a una strategia. Vale a dire, classicamente, continuare la guerra con altri mezzi, così come la guerra è stata la continuazione della politica dopo i suddetti trent'anni.

Finora, e lo abbiamo ribadito più volte, la "politiguerra" americana è stata piuttosto rozza, in quanto carente nella parte politica. Se questa è una caratteristica costante dovuta alla mancanza di storia e alla strapotenza che fa porre in secondo piano le sottigliezze diplomatiche, è però anche una debolezza quando venga meno la possibilità materiale di ciò che gli americani stessi chiamano leadership o soft power e che qui, gramscianamente, si chiama egemonia. Senza questa condizione non si vede come possa cessare lo stato di guerra e possa succedergli la prospettata, vera fase di nation building, quella degli affari, delle costruzioni, del mercato aperto e quindi della penetrazione del capitale egemonico americano. Ciò significa che gli Stati Uniti, per rendere l'Iraq un paese con una parvenza di normalità interna, devono sconfiggere la guerriglia o comunque trattare con essa. La quale, però, passata la fase di caotico assestamento con perdite altissime, si sta riorganizzando, e nei sui ranghi incominciano a prevalere le forze del vecchio regime passate alla clandestinità mentre avanzava l'occupazione americana.

Questa guerriglia, che non è da confondere con quella degli sgozzatori fondamentalisti, utilizzati abbondantemente sul piano mediatico, è una forza militare di tutto rispetto. Ha una storia che s'identifica con il partito nazionale borghese, cioè con un retroterra politico e militare in grado di prendere le redini di una nazione, al contrario dei fantocci attuali o di quelli che potranno scaturire alla fine del ciclo costituzionale dettato dall'invasore. Se ne parla poco, ovviamente, dato che i giornalisti, costretti per lo più all'ozio nei bar degli alberghi della "zona verde", dispongono solo dell'informazione che passa l'occupante. Ma leggendo con attenzione le fonti militari ufficiali si capisce bene che essa controlla buona parte del territorio iracheno e che le azioni militari non sono diminuite, anzi, migliorano di qualità ed efficienza, rendendo assai sospetti gli insensati massacri di civili.

Per quanto incidentalmente ottusi, gli americani non potranno, in prospettiva, pragmaticamente, fare affidamento solo sui kurdi, gli sciiti e le armi, a meno che non decidano di spezzare l'Iraq in tre parti. Eventualità possibile e forse accarezzata da qualche stratega, ma non conveniente: il proseguimento della "guerra infinita" verso l'Iran, l'Arabia e la Siria ha bisogno di una grande base, industriale, popolata, americanizzata, da cui far partire le bordate del capitale-artiglieria chiamato soft power. Un'altra guerra guerreggiata a breve non se la possono permettere, se non altro per banale mancanza di soldi. Meglio d'ora in poi la strategia "ucraina" che stanno provando in Libano con l'occhio a Damasco.

Rivista n. 17