Chi siamo e che cosa vogliamo
2000-2005: la rivista compie cinque anni
Noi non ci presentiamo al mondo come dottrinari con un nuovo principio: ecco la verità, in ginocchio di fronte ad essa! Noi mostriamo al mondo dei principii che il mondo stesso ha sviluppato entro di sé. Noi non gli gridiamo: lascia le tue lotte, sono delle sciocchezze, le vere parole d'ordine sono quelle che ti diciamo noi. Noi mostriamo semplicemente ed esattamente al mondo il perché della sua lotta, e la sua coscienza sarà un risultato che dovrà acquisire, che lo voglia o no.
Marx a Ruge, settembre 1843.
Dinamico approccio con l'ambiente
Questa rivista compie cinque anni. Naturalmente il lavoro di cui essa fa parte ha origini ben più remote. Quanto si possa risalire nel tempo dipende dall'individuazione di una continuità con esperienze precedenti. Noi abbiamo la convinzione – poco originale, certamente – di affondare le radici nel comunismo di Marx, ma forse ci distinguiamo meglio annotando che vogliamo risalire a molto più lontano, al comunismo originario della preistoria e della protostoria, che colleghiamo a quello futuro attraverso il ponte intermedio rappresentato dalle società di classe. Questo c'è scritto in tesi che fanno parte della gran quantità di materiale prodotto dall'umanità (non solo da qualche individuo speciale) e che noi poniamo a fondamento del "lavoro politico" insieme e non disgiunto da quello di Marx, Engels, Lenin, e tanti altri rivoluzionari. Il nostro archivio storico e quello redazionale sono per noi la dimostrazione di una staffetta storica nella quale il testimone è passato di mano in mano attraverso complesse vicende.
Come si vede, il compleanno di n+1 si complica assai. La rivista è certamente la continuazione delle Lettere ai compagni, che ebbero già qualche centinaio di abbonati e che uscirono dal 1981 al 1999. Ma le Lettere erano a loro volta la conseguenza di eventi che risalgono alla metà degli anni '70, che a loro volta erano il prodotto di altri eventi riferibili a una catena che possiamo esprimere con alcune date: 1952, 1921, 1917, 1871, 1848, 1789 e così via. Volendo, possiamo risalire fino alle forme sociali di transizione fra il comunismo originario e la civiltà. Non si tratta di un giochetto per scrivere sul nostro blasone il nome di antenati illustri, ma di un semplice ricorso alle leggi della filogenesi. Ogni specie vivente, nel grande scenario della vita, nasce, muore, si evolve o si estingue, così come gli individui che le compongono. E gli organismi sociali umani, grandi e piccoli, importanti o insignificanti, si comportano secondo le stesse leggi. Il nostro filo rosso, accanto ad alcune date celebri ne comporta altre non meno fondamentali, anche se per qualcuno possono essere assolutamente prive di significato: ad esempio quelle specifiche riguardanti la nostra corrente o quelle di importanti manifestazioni storiche del bisogno di comunismo (eresie comunistiche, rivolte contadine e proletarie, passaggi di epoca, ecc.).
Le date sono un utile riferimento per collocare i fatti, ma spesso esprimono una periodizzazione troppo legata all'arbitrio di chi le adopera: è quindi indispensabile utilizzarle secondo i criteri di una continuità, entro la quale noi operiamo delle distinzioni, mentre la natura segue il suo corso. Del resto anche i nostri compleanni personali sono degli artifici che non corrispondono alla continuità della nostra vita, regolata da ben altri cicli.
Il criterio della continuità è l'unico ad essere coerente con il principio che da quattrocento anni è a fondamento dello sviluppo scientifico: ogni salto della scienza, da un raggiunto livello ad uno superiore, avviene con una rottura drastica, ma, nello stesso tempo, inglobando il livello precedente. Solo così Galileo poté affermare: se Aristotele fosse qui si schiererebbe con le nuove scoperte, non con voi preti che l'avete mummificato in un sistema immobile e lo usate contro di me.
Anche l'apporto dei singoli individui al lavoro comune dev'essere considerato allo stesso modo del tempo, che è continuo ma da noi scandito in unità di misura. Ogni individuo partecipa o no a tale lavoro secondo cicli finiti, ma l'avvicendarsi degli uomini è continuo, così come è continuo il sorgere e morire di organismi politici che si riferiscono al comunismo. Oggi con "n + 1" sono rimasti pochi elementi tra quelli che si proponevano gli stessi obiettivi poniamo trent'anni fa, ma nuove forze si sono aggiunte, gli obiettivi sono rimasti e il lavoro anche. Sarebbe potuta intervenire nel frattempo un'estinzione, ma siamo convinti che sarebbe sorta comunque l'esigenza di riprendere da qualche altra parte lo stesso percorso. D'altro canto esistono degli organismi che pur rivendicando la stessa filogenesi si dedicano ad attività diverse dalla nostra, e più di un lettore ci ha scritto chiedendo un confronto tra "posizioni" e persino un dibattito comune. Noi pensiamo che non sia utile questo tipo di approccio. Ovviamente le differenze esistono e sono talvolta enormi, ma la critica non potrebbe che essere simmetrica, reciproca, senza possibilità alcuna di verifica o falsificazione dei risultati di una parte e dell'altra, per la semplice ragione che nel campo sociale non si possono fare esperimenti di laboratorio, e l'unica realtà decisiva è quella rivoluzionaria che spazza via gli organismi inadatti ad affrontare i nuovi livelli cui tende la vita organizzata degli uomini.
Non serve a nessuno istituire parlamentini extraparlamentari. Il nostro lavoro s'è svolto (e si svolge) in una dinamica incessante con tutto ciò che ci stava (e ci sta) intorno, e nessuno può dire di aver trovato porte chiuse ad una discussione che potesse far procedere il lavoro stesso.
Feconde premesse qualitative
La pletorica esistenza di gruppi e partiti è un fenomeno fisiologico inerente alla natura della società umana in determinati periodi. Si verificò alla vigilia della rivoluzione che produsse il cristianesimo a partire da mille sette giudaiche; si verificò durante la rivoluzione europea intorno all'esplosione dell'Ottobre. Se perciò ci si chiede quale sia il fenomeno che caratterizza l'attività politica odierna non rispondiamo con il lamento sulla mancanza di unità o sulle "Bisanzio comuniste", analisi che comporterebbe un'azione conseguente per evitare questi inconvenienti, in pratica il frontismo; rispondiamo che quel che ci colpisce più di tutto è l’estrema ristrettezza degli orizzonti. Ci sono eccezioni, spesso riguardanti solo degli individui; ma in generale è come se l'esasperata divisione sociale del lavoro, tipica del capitalismo maturo, fosse profondamente penetrata fra coloro che si riferiscono al comunismo. Come se questi stessi si ponessero un’assurda limitazione di interessi e di attività. Come se i comunisti, al pari degli idraulici o degli elettricisti, fossero lavoratori specializzati in una disciplina particolare invece di tendere ad occuparsi dell'universo intero. Una vera, assurda mancanza di qualità, sconosciuta alla classe nemica fin dalle sue origini. Non è ovviamente una questione di "cultura", ma di adeguatezza nei confronti della realtà (la conoscenza è del cervello sociale ― partito ― non dell'individuo, e la rivoluzione non è questione di cultura ma di forza, come da nostra vecchia polemica con i riformisti fin dal 1912).
Marx, Engels, Lenin e tutti i rivoluzionari di ogni epoca erano attentissimi a non limitare la propria sfera di interessi e di azione, mentre i temi rimasticati all'infinito nell'ambiente sinistrorso si contano sulla punta delle dita di una mano: natura e struttura del partito rivoluzionario; rapporti con i sindacati; rapporti fra proletariato e altre classi in situazioni mature o arretrate; diatribe fra correnti, fatte sempre risalire ad un determinato personaggio, con il cui nome, trasformato in attributo, vengono designate. Altri argomenti come l’antifascismo, la questione nazionale, il parlamentarismo o la tattica, non sono che sotto-insiemi riconducibili ai pochi raggruppamenti generali che formano l’ossatura "programmatica" di tutto, il variegato mondo degli organismi che si dicono alternativi rispetto alla politica borghese. Non che si tratti di argomenti senza importanza, tutt'altro, ma non serve a nulla coltivare per decenni sempre le stesse diatribe sugli stessi punti che hanno già provocato separazioni a iosa.
Perciò ai nostri occhi il variegato mondo del luogo comune potrebbe evitare l'assurda atomizzazione in cui si trova e raccogliersi ragionevolmente in grandi insiemi per "categorie" omogenee (parlamentaristi, antiparlamentaristi, pacifisti, ecologisti, primitivisti, ecc.), le cui peculiarità troviamo invece distribuite a caso entro gli insiemi con effetti disastrosi. Pensiamo ad esempio quali contorcimenti deve affrontare chi si dichiara comunista e nello stesso tempo pacifista e parlamentarista.
Eppure ogni lavoro che si riferisca al comunismo dovrebbe partire dalle feconde premesse qualitative proprie dell'immenso patrimonio teoretico che ereditiamo. Com'è potuto verificarsi un tale impoverimento generale? Com'è stato possibile il sorgere di questa babele politica? Il bello è che ognuno sa benissimo di vivere una situazione paradossale. In ogni discussione, corrispondenza, riunione con elementi che provengono dall'ambiente descritto, la lingua batte volentieri dove il dente duole e perciò si scivola sempre, inevitabilmente, sulla natura di gruppi e partitini, sulle loro "posizioni", sulla loro autoreferenzialità, sull'impossibilità di comunicazione fra di essi e sull'assenza totale di collegamento non diciamo con le cosiddette masse proletarie ma anche con la realtà fatta di persone a cui non arriva alcun messaggio interessante sul comunismo, nessun esempio, nessuno stimolo che aiuti ad avvicinarsi ad esso.
Mentre il comunismo ― che per noi è all'opera quotidianamente nel preparare le condizioni del futuro ― è un dato reale, sembra non sia sentita l'esigenza di farsi portatori di questa realtà. Noi ci siamo messi in testa di improntare il nostro lavoro a questa esigenza. Aderendo a una tradizione a cui non corrispondono più gli stiracchiamenti cui è stata sottoposta, noi vogliamo aderire al comunismo in quanto movimento reale che cambia lo stato di cose presente (come da Abc originario).
Oggi il termine è schiacciato dalla storia, insieme con quelli di rivoluzione e partito: tutti ne fanno uso ed abuso per le più strampalate motivazioni. Perciò lavoriamo anche al recupero del suo linguaggio originario, marchiato dalla degenerazione della Terza Internazionale ma riconducibile alla potenza scientifica di Marx. Sappiamo che il nostro atteggiamento non è affatto condiviso. Ma facciamo notare che è davvero straordinario come la semplice esperienza empirica non insegni assolutamente nulla, non abbia alcun effetto pratico: alla fin fine, dopo decenni, nessun raggruppamento "comunista", ha raggiunto, in termini pratici significativi, risultati maggiori di qualche altro in relazione al cambiamento sociale o anche solo ad una non effimera crescita numerica.
Dégringolade storica e organicità dimenticata
Non insisteremo sul presupposto ormai acquisito che al momento il lavoro in armonia col vero significato di comunismo non può avere numeroso seguito. Non ci fa piacere, ma non possiamo farci niente. Chi prova a "fare qualcosa" non ha risultati diversi da chi invece non si lascia trascinare attivisticamente a "muovere il culo", come diceva un nostro vecchio compagno. Del resto egli, avendo vissuto la battaglia degli anni '20 contro l'avanzare del luogocomunismo nazional-bolscevico, ricordava la drammatica dégringolade storica, ruzzolone, tracollo, parola che aveva tradotto per via onomatopeica anche come "sgranamento". Uno "squagliarsi" persino di rocciosi compagni di fronte al nemico avanzante. Una rivoluzione che perdeva "quanti di energia", granelli individuali che fecero infine massa.
Cercheremo invece di focalizzare quelli che secondo noi, e secondo una "tradizione" che ci teniamo a tramandare, sono le basi di un buon lavoro e perciò di un buon risultato futuro. Ci baseremo su di un presupposto – semplice e vitale – peculiare della nostra corrente: la concezione del lavoro di partito come riproduzione del ciclo biologico della natura, con le complesse relazioni fra i suoi elementi (feedback), che fa del vivente un insieme dinamico ultra-complesso dal quale non si possono mai isolare arbitrariamente delle parti da trattare a sé.
Questa peculiare concezione bio-cibernetica è del tutto sconosciuta anche a coloro che dicono di continuare il lavoro della nostra corrente storica. Eppure essa è presente nei testi canonici con una chiarezza cristallina fin dal 1921, ed emerge ogni qualvolta si tratti del concetto organico di partito. Lo sviluppo della società umana ha dato luogo a fenomeni paragonabili al funzionamento biologico del cervello (reti, flussi, informazione), come previsto da Marx nei Grundrisse, e ciò è registrato finalmente anche dagli scienziati borghesi. La rivoluzione comunista non potrà avere alla sua testa un partito con caratteristiche al di sotto di quelle del general intellect marxiano. D'altra parte esse non possono essere "create" in laboratorio da qualche decina di volonterosi che decidano di costituire un partito. Deve emergere dal sottosuolo della società attuale il radicato bisogno di una nuova comunità umana; ed è intorno a questa certezza, propria di tutte le rivoluzioni, che si articola il nostro lavoro, a partire dalla ricerca sulle modificazioni profonde di alcuni aspetti sociali. Tra questi, ad esempio, la diffusione enorme e sempre più evidente di forme comunitarie, più o meno alternative, più o meno virtuali (hackers, musicisti e scrittori collettivi, ecc.), che nei paesi industrializzati coinvolgono ormai decine di milioni di persone.
Il lavoro di partito è cosa talmente seria che non bisogna mai smettere di avere i piedi per terra. Frasi roboanti sul "partito siamo noi" ormai fanno ridere i polli, specie quando si scimmiottano organismi del passato con i loro miti, statuti, parlamenti, votazioni, gerarchie, concorrenza interna ed esterna, liturgie d'ingresso e di uscita, persino magistratura e polizia (collegi di probiviri e servizi d'ordine), ecc. ecc. Vale oggi come non mai il drastico proclama di Marx del 1848: affinché possa vincere il partito dell'insurrezione, è bene che sia sconfitto quello della democrazia con i suoi orpelli interclassisti. Oggi, affinché si affermi il partito organico in grado di guidare la rivoluzione comunista verso il suo sbocco definitivo, deve essere sconfitto il grande e diffuso partito che si fa portatore di istanze democratiche, borghesi o comunque aderenti a questa società, palesi od occulte.
Si faccia dunque strada il lavoro in coerenza col partito organico, lavoro antico e per niente "creativo", come c'insegnano tutte le rivoluzioni, esprimendo il loro partito come comunità anti-forma. La dégringolade non è stata uno scherzo, e molto c'è ancora da recuperare del patrimonio storico, di ciò che è già stato detto, fatto e dimenticato, mentre si va avanti.
Militi del cervello sociale
Su questa rivista riusciamo a riverberare solo una minima parte del lavoro svolto, ma esso si fonda sempre sulle classiche e frequenti riunioni fra i militanti e con chiunque voglia avvicinarsi, sulla cura del patrimonio storico e sulla pubblicazione e diffusione dei risultati. Ovviamente l'avvento di Internet ha comportato un salto qualitativo nella formazione di una comunità di elementi collegati in rete i quali, grazie al nuovo mezzo, possono svolgere una vera attività collettiva indipendentemente dallo spazio e dal tempo. Chi ancora oggi snobba questo aspetto del cervello sociale, dimostra semplicemente di fermarsi alla superficie dei fenomeni, di non conoscere neppure cos'abbia detto Marx a proposito del cervello sociale e della rete di comunicazioni del suo tempo, di essere un politicante rétro candidato al disprezzo, superato persino dai talebani. Il lavoro collettivo in rete, che ormai è uscito dall'industria e sta compiendo le sue sperimentazioni ad ogni livello, dà una sferzata qualitativa alla forza produttiva sociale, che per Marx è il maggior indicatore dell'evolversi delle basi materiali per lo scatto in un'altra società. Per noi è una prova del paradigma biologico sul funzionamento della società umana, dove finalmente l'individuo è posto nella sua giusta funzione di neurone del cervello globale. I borghesi su questo lavorano e i grandi rivoluzionari non sanno neppure che esiste il fenomeno.
Sappiamo che non è semplice marciare isolati andando in senso opposto alle potenti forze della conservazione sociale, ma non è una novità: in Lezioni delle controrivoluzioni è detto con molta efficacia: "Il marxismo non è la dottrina delle rivoluzioni, ma quella delle controrivoluzioni: tutti sanno dirigersi quando si afferma la vittoria, ma pochi sanno farlo quando giunge, si complica e persiste la disfatta".
Andare contro l'esistente è faticoso e disagevole. In epoche di incertezza come quella presente predominano le pulsioni, i caratteri, le psicologie individuali, e il caotico disporsi delle forze è simile a quello delle molecole di un gas surriscaldato che schizzano in tutte le direzioni. Non c'è traccia del "caos ordinato", o polarizzato, quindi anti-individualista, simile alla corrente di un fiume impetuoso, tipico del procedere rivoluzionario di uomini spinti alla lotta estrema. D'altra parte i modi della "partecipazione" si fanno sfumati, per cui sarebbe assurdo classificare i militi della rivoluzione sotterranea d'oggi (la talpa che scava) secondo gli stessi criteri che furono utilizzati nelle passate rivoluzioni o che verranno utilizzati al momento della biforcazione rivoluzionaria futura.
Su questa rivista s'è detto con larghezza di esempi come al lavoro oggettivamente comunista possono affiancarsi gli ignari scienziati che hanno affrontato e approfondito gli stessi temi che stanno alla base della teoria rivoluzionaria, e cioè l’evoluzione, la formazione di tensioni che procedono verso catastrofi improvvise, il nuovo ordine emergente dal caos in cui è piombato quello vecchio. Come la rivoluzione non recluta in recinti chiusi, così si libera anche di ex consapevoli militanti ormai dediti ad alimentare personalissimi grilli che passano loro per la testa, e li sostituisce, metti caso, con giovani stufi del luogocomunismo imperante, ecc.
Tutto ciò rappresenta un normale e positivo avvicendamento nell'ambito della generale coscrizione obbligatoria (determinata) realizzata dall'esercito della rivoluzione in giro per il mondo. Siamo (noi, lo scienziato americano o cinese, il militante che va e viene) i prodotti dell'ambiente circostante e non viceversa. Lo ribadiamo nel modo più deciso: è sbagliato pensare che sia un gruppetto qualsiasi a determinare la spinta che avvicina un individuo alla militanza rivoluzionaria. Molte sono le determinazioni, anche contraddittorie, che contribuiscono a formare l'ambiente del quale facciamo parte; solo chi è portato ad essere in sintonia con il grande "arco storico", il "filo continuo", ecc., e riesce a resistere, potrà acquisire come risultato una reale capacità collettiva di modifica dell'ambiente stesso.
Chi siamo e che cosa vogliamo
Con l'avvento di Internet, dove ci si parla a distanza senza conoscersi, su tutti i siti c'è il fatidico Chi siamo e che cosa vogliamo, l'equivalente elettronico degli opuscoli che organismi politici più o meno sconosciuti facevano circolare sperando che il loro oblìo fosse un po' mitigato da un supplemento di informazione. È certo appena normale che in mezzo al caos della Grande Rete venga in mente di presentarsi, lo fanno tutti, noi compresi. Ma in un'epoca in cui l'informazione brucia il cervello per overdose a chiunque vi si dedichi senza cautele, l'effetto pratico è più volatile di quello degli antichi opuscoli. Per le caratteristiche della rete, con i suoi 500 miliardi di pagine, l'appello rimarrà fatalmente inascoltato. Esso potrà essere recepito soltanto da coloro che lo andranno a cercare sapendo già ciò che cercano. La "spiegazione", scritta o gridata, dell'agitarsi di alcune molecole nell'universo in fermento può muovere solo chi si sia già mosso sullo stesso terreno; per noi questa constatazione è fondamentale, è una potente condanna teoretica dell'attivismo gruppettaro. Il cosiddetto proselitismo è irrinunciabile, ma rimane una speranza delusa quando non si tenga conto che nessuno può sfuggire alle determinazioni suddette e che l'esempio della rete Internet vale ovviamente per la società da essa fedelmente riverberata.
Anche qui siamo di fronte al funzionamento bio-cibernetico della società: si lanciano segnali senza sapere se saranno ricevuti e si ricevono solo se il proprio ricettore è sintonizzato allo scopo. Infatti nessuno rinuncia ad inviare segnali anche quando sono palesemente inutili, anzi, ognuno lavora come un negro, costruisce siti, stampa opuscoli, organizza riunioni, dialoga, dibatte e si confronta con altri, litigando, unendosi, separandosi, insomma, facendo parte, volente o no, di una gran confusione, dissipando un sacco di energia come in una giungla primordiale. La volontà di ogni piccola molecola che forma questo mare d'informazione e di attività è evidentemente senza influenza, tuttavia è solo da questo brodo di coltura che può scaturire qualcosa d'interessante per una mutazione del DNA della specie politica "comunista" in sofferta evoluzione darwiniana.
Mettersi a cercare quali siano le determinazioni che faranno scaturire dal magma appena descritto un mutante adatto alla rivoluzione sarebbe compito impossibile, ma certamente qualche indizio di idoneità si può rilevare. Nelle situazioni al confine del cambiamento, sarà sensibile alla metamorfosi solo chi abbia tramandato sul filo del suo codice genetico gli elementi adatti alla nuova situazione, chi abbia dimostrato di essere capace di conservare un programma che contenga in sé la chiave per svolgere compiti futuri in relazione all'ambiente mutevole. Anche in questo caso siamo di fronte a una dinamica derivabile dalla sfera biologica e applicabile a quella sociale. In ogni essere vivente non è l'organizzazione in sé, la disposizione degli organi e delle cellule che lo compongono, a rappresentare l'evoluzione, bensì il modo di reagire dell'insieme di fronte al cambiamento. Il che, tradotto nel campo sociale, significa che occorre sapere la linea del futuro, cioè a che cosa il proprio lavoro e l'organismo in cui si svolge debbano servire.
Per spiegare allora chi siamo e che cosa vogliamo, non basta esporre le credenziali degli antenati e il loro programma. Di per sé il codice genetico è un programma conservativo per mantenere invarianti i caratteri di un dato organismo. È anche il mezzo senza il quale ogni trasformazione sarebbe impossibile, e questo paradosso si può rompere solo con una dinamica orientata verso un risultato. Non c'è niente di idealisticamente finalistico in tutto ciò: si sa che la materia ha capacità di auto-organizzazione e la specie umana ancora di più. Parafrasando un vecchio testo, noi diciamo che il lavoro dei comunisti consiste nel conservare il programma invariante adatto al cambiamento. Come? Con una attività pratica (nell'accezione di realistica) su tutti i fronti permessi dai reali rapporti di forza, con metodo e spirito di partito anche quando sia evidente, come oggi, che vi sono situazioni in cui l'organo-comunità-partito non può assumere forma tangibile.
La società umana non si limita a riprodurre l'organizzazione del vivente: aggiunge la capacità di progettare il proprio futuro. L'industria, che è l'unica struttura razionalmente organizzata della società borghese, c'insegna che quando ci si organizza lo si deve fare nel modo più coerente possibile con il fine. Anche gli antichi sapevano bene che è il fine a determinare i mezzi per conseguirlo. Coerentemente, la nostra corrente, nel 1921, disse che il partito rivoluzionario non può essere disegnato che dai suoi compiti futuri. La struttura delle rivoluzioni consiste in un inscindibile insieme di processi "naturali" e di rovesciamento "artificiale" della prassi, e il partito-organo della classe rivoluzionaria è il mezzo per tale rovesciamento.
Il vasto ambiente che si riferisce in un modo o nell'altro al comunismo è dunque il prodotto di un movimento reale il quale, come un organismo biologico, mostra un DNA che è allo stesso tempo conservatore e mutante rivoluzionario. Un movimento che rende esplicita la sua natura affinché nelle catene molecolari sociali si formino gli agganci necessari al formarsi di nuove molecole pronte a passare dalla ripetizione conservativa della forma alla morfogenesi, cioè al processo che porta ad una forma nuova. Questa è la concezione del partito individuata dalla nostra corrente fin dagli scritti degli anni '20 in polemica con la Terza Internazionale. E non è per niente una concezione evoluzionista-gradualista, bensì catastrofista, perché l'accumulo continuo di contraddizioni sociali esplode in un evento discontinuo che coincide col cambiamento sociale. Il passaggio dalla conservazione dei caratteri sociali alla loro sovversione a favore di una nuova forma è quella che i matematici chiamano singolarità e che noi chiamiamo insurrezione. La Terza Internazionale si apprestava a diventare solo conservazione e infine, appunto, conservò invece di distruggere. Ecco perché doveva suscitare una critica a sé stessa, critica che potesse sopravvivere lungo l'asse filogenetico della rivoluzione.
Non siamo un "gruppo", siamo un lavoro
Da più di vent'anni andiamo dicendo ai nostri interlocutori che non abbiamo affatto fondato un gruppetto gauchiste né un partitino "rivoluzionario" ma ci siamo dedicati ad un lavoro di salvaguardia e di diffusione del patrimonio teorico di una corrente che ebbe la possibilità, il coraggio e l'occasione di prevedere il disastro dell'Internazionale e di analizzarne le cause oggettive e soggettive. Ovviamente ciò significa che aderiamo a un partito materialmente operante, il partito storico della rivoluzione, e che tale adesione comporta una presenza attiva, come del resto è sempre stato, contrariamente alla diffusione di leggende staliniste sul presunto attendismo della Sinistra Comunista "italiana".
Sappiamo bene che la continuità fisica è interrotta, che i compagni sono morti o hanno mollato, che la Sinistra Comunista "italiana" si è estinta, come si sono estinte le tre Internazionali. È convinzione condivisa che del partito rivoluzionario non si possa fare a meno, e la questione ha una portata storica, ma le risposte a tale esigenza sono dissonanti. Comunque dovrebbe essere chiaro che la rivoluzione ha dato il massimo per quelle epoche e che occorre un salto qualitativo rispetto ad esse. Ma l'artefice del salto non potrà che essere una forza sociale sovrapersonale, non qualche "comunista" di buona volontà. L'umanità, in una sua parte più o meno vasta con il proletariato alla testa, si ribellerà allo stato di cose presente e sarà costretta a farlo saltare. Il partito storico è la storia reale di questa esplosione annunciata, fatta di scontri, vittorie, confusioni, sconfitte e bilanci.
La continuità fisica con i gruppi umani che tentarono il salto negli anni successivi alla Prima Guerra Mondiale s'è interrotta e ogni tentativo di ricreare surrogati di quegli organismi è destinato a fallire. Per questo rifiutammo etichette artificiose e ancor più fasulli modelli organizzativi. Dicemmo ben presto, a scanso di equivoci: "non siamo un gruppo ma un lavoro". In fondo era un modo sintetico per dire "chi siamo e che cosa vogliamo", quando, al tempo dei tentativi falliti di riprendere il lavoro interrotto dall'ennesima estinzione di forme organizzate precedenti, cercavamo di far capire che, pur non essendo un partito, si poteva, come s'è detto, lavorare con spirito e metodo di partito. Non fummo capiti. Si voleva "ricostruire" l'organizzazione che sostituisse quella dissolta: eravamo in tanti, eravamo determinati, avevamo l'esperienza e la preparazione collettiva, che ci voleva? Ma la realtà era ben diversa; e fu allora che ci venne spontaneo formulare quell'aforisma, che ci sembrò tranciante come un haiku zen.
È ovvio che, volendo, siamo anche un "gruppo" e, se scrivessimo sulla rivista: Organo del Partito Tal dei Tali, saremmo anche un partito, come ce ne sono tanti. Ma non abbiamo nessuna intenzione di conformarci all'esistente. Vogliamo piuttosto assecondare il movimento reale che lo abolisce. La nostra grande corrente storica (non solo la Sinistra, come è giustamente precisato in alcuni passi delle sue Tesi) ci ha lasciato una descrizione lapidaria del processo rivoluzionario: non siamo noi che scegliamo la rivoluzione, è la rivoluzione che sceglie noi. Siamo suoi strumenti, utensili, manodopera. Ci accusa qualcuno: voi trasformate la rivoluzione in una specie di divinità agente a suo arbitrio. Su Internet abbiamo persino trovato un'ironica analogia fra il "nostro" centralismo organico e le concezioni di San Paolo. Accettiamo la provocazione: Paolo ricavò dal programma di una delle tante sette ebraiche ultralocalistiche, riservata ai circoncisi e destinata a sparire, il principio ordinatore per una comunità internazionale aperta anche ai non ebrei. Quindi essa in origine parlava molte lingue, aveva costumi diversi, propendeva per le beghe locali pur essendo immersa nel mondo globalizzato dell'Impero romano. Perciò aveva bisogno, per affermarsi, di un programma universale e di un fine senza compromessi: la totalitaria conquista della società di allora. Nella Prima Lettera ai Corinzi (12.12) Paolo afferma che la comunità cristiana è come un corpo con molti organi e ogni parte partecipa al tutto parlando la stessa lingua anche se c'è bisogno di interprete. Nessuno può dire di essere solo sé stesso così come non può dire di essere altro che sé stesso. Nessuno dica "Io sono di Paolo", il paolismo non era ammesso. Solo un "ismo" era possibile: quello del movimento generale che prendeva nome dal christos, che non era quello di un individuo ma un attributo: "unto da Dio". Letto con occhio borghese, Paolo è un reazionario, ma egli non apparteneva ad una borghesia, apparteneva a una rivoluzione precedente. Quando si legga il motto evangelico "date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio", attraverso la precisazione paolina "noi siamo nel mondo ma non del mondo" (ripresa in questa forma 300 anni dopo) ecco che scompare l'apparente opportunismo e si rivela l'emergere di una società nuova in grado di generare in quella vecchia la propria comunità-partito come avanguardia. Passati duemila anni, possiamo riconoscere tranquillamente non solo l'analogia, ma anche la funzione del determinismo che opera e che dispone il materiale utilizzabile secondo un ordine nuovo, compresi gli strumenti umani; strumenti che vengono forgiati da una forza più grande della loro singola volontà, più grande persino di quella dei profeti e dei santi, suoi semplici tramiti per profezie e miracoli. Il perché tale forza abbia preso anche la forma di un dio antropomorfo è e sarà oggetto di riflessioni, ma l'immagine di un Fato che plasma l'ambiente e l'uomo che lo abita negando la libertà dell'individuo è comune a molte mitologie antiche. Solo nel Medio Evo comparvero l'individuo e il libero arbitrio come ulteriore passo verso la formazione dell'uomo-industria marxiano.
Come scrive Engels a proposito del divenire umano dell'antropoide primigenio, il lavoro, la mano, il cervello e il linguaggio si formano in concorso unico, anche se naturalmente prima viene il lavoro e in ultimo il linguaggio (come la paleoantropologia moderna ha confermato). Noi non possiamo rovesciare questa logica. Il corpo-partito si forma insieme con i suoi organi e membra, ma prima viene il lavoro e poi la capacità di rovesciare la prassi secondo un programma, anche solo per disciplinare l'azione e ottimizzare l'ordine interno, per avere una struttura di lotta, per attuare un progetto, ecc. Insomma, il programma non si compra al supermercato come un qualsiasi attrezzo da bricolage.
Detto ciò, dovrebbe essere chiaro che la rivoluzione "fa" tutto in una volta, fa nascere e morire gruppetti-partitini, obbliga a lavori o a interruzione degli stessi, conquista militanti e li rigetta in continuazione (come nel processo chiamato apoptosi, la morte auto-programmata delle cellule di un organismo affinché sia possibile la vita). In conclusione: la rivoluzione lavora essa stessa, da sempre. E i comunisti hanno poco da inventare, devono prendersi carico di un lavoro che altri già facevano, poi si vedrà se saranno bravi a portarlo a termine. Ricordando ancora le Tesi, i comunisti si aspettano risultati quantitativi da quelli qualitativi che sapranno raggiungere, dal lavoro ben fatto. Il contrario sarebbe assurdo, sarebbe come mettere il carro davanti ai buoi. Assurdo, ma ci fu proposto. Per esempio da coloro che una ventina di anni fa abbandonarono il lavoro comune perché pretendevano che prima si "omogeneizzassero" le varie "posizioni". Rispondemmo che non stavamo lavorando alla Plasmon e che per noi una sana selezione sarebbe avvenuta (stava avvenendo) proprio facendo il lavoro. Sempre all'Abc: non è il buon partito che fa la buona tattica, bensì la buona tattica che fa il buon partito. Siamo di nuovo al rapporto lavoro/mano di Engels.
E, siccome vogliamo scandalizzare questi fricchettoni politici che fingono di essere alternativi ma sono omologati peggio di Emilio Fede, diremo una cosa che non va scambiata con i pastrocchi new age: l'Oriente sa da millenni che è il corretto lavoro (la corretta Via) a regalarci il risultato, non il fatto di volerlo a priori senza sapere dove si debba passare per giungervi.
Volgarità pseudo-partitiste di Gramsci
Siamo dunque per il partito, ma vogliamo fermamente evitare di cadere negli errori del passato. Il fatto è che la nostra critica dei tragici errori che costellarono il fallimento della rivoluzione in Europa negli anni '20 è la stessa che possiamo rivolgere alla stragrande maggioranza degli organizzati nei gruppi e partitini d'oggi, dai quali note determinazioni ci hanno separati. Citeremo Gramsci, perché ci sembra riassumere bene la volgarità partitista di alcuni odierni suoi seguaci, consapevoli o meno. Posto sul piedistallo da qualcuno, criticato ma imitato da altri, Gramsci fu esponente dell'ideologia borghese antiscientifica crociana che s'era infiltrata nel Partito Comunista d'Italia seguendo l'onda dell'entusiasmo rivoluzionario che portò alla sua formazione. Era nato nel '21 un partito organico, che non aveva bisogno di "funzionari" e segreterie, di caporali e gerarchie, dato che ognuno sapeva, organicamente appunto, quale fosse il proprio compito. Dalle redazioni degli innumerevoli periodici al piccolo centro esecutivo (formato da soli 5 militanti) tutti "facevano un lavoro" senza il bisogno di "dirigere" quasi nulla. Ciò nondimeno era un partito ferreamente centralizzato e disciplinato, che seppe armarsi contro le bande fasciste e darsi una organizzazione militare in grado di affrontare le esigenze della clandestinità. In contrasto con l'organicità della Sinistra, la sparuta minoranza ordinovista si allineò all'Internazionale degenerata e, con l'imposizione di questa, prese la direzione del partito. Gramsci, che era alla guida dei centristi, scrisse nel 1925:
"La commissione che avrebbe dovuto discutere specialmente col compagno Bordiga, ha in sua assenza fissato la linea che il partito deve seguire per risolvere la quistione delle tendenze e delle possibili frazioni che da esse possono nascere, cioè per far trionfare nel nostro partito la concezione bolscevica. Se esaminiamo la situazione generale del nostro partito, alla stregua delle cinque qualità fondamentali che il compagno Lenin poneva come condizioni necessarie per la efficienza del partito rivoluzionario del proletariato nel periodo della preparazione rivoluzionaria e cioè:
1) ogni comunista deve essere marxista; 2) ogni comunista deve essere in prima linea nelle lotte proletarie; 3) ogni comunista deve aborrire dalle pose rivoluzionarie e dalle frasi superficialmente scarlatte, cioè deve essere non solo un rivoluzionario, ma anche un politico realista; 4) ogni comunista deve sentire sempre di essere subordinato alla volontà del suo partito e deve giudicare tutto dal punto di vista del suo partito, cioè deve essere settario nel senso migliore che questa parola può avere; 5) ogni comunista deve essere internazionalista.
Se esaminiamo la situazione generale del nostro partito alla stregua di questi cinque punti osserviamo che, se si può affermare per il nostro partito che la seconda qualità forma uno dei suoi tratti caratteristici, non altrettanto si può affermare per le altre quattro. Manca nel nostro partito una profonda conoscenza della dottrina del marxismo e quindi anche del leninismo".
Difficile concentrare in così poche righe un tal cumulo di bestialità. Non siamo andati a controllare se Lenin abbia detto o scritto davvero fesserie del genere o se non si tratti piuttosto di una libera interpretazione. A parte il fatto che occorrerebbe marxisticamente spiegare che cosa significhi il verbo "dovere" in contesto di materialismo dialettico, 1) dire che un comunista dev'essere marxista è una ridicola tautologia; 2) le lotte proletarie devono esserci, per potersi mettere alla loro testa; 3) sappiamo che "realismo" per gli opportunisti alla Gramsci significa compromesso col nemico, come all'Aventino; 4) questa è un'esaltazione del partito-chiesa e non del partito organico; 5) altra sciocca tautologia, peraltro non rispettata dai Gramsci, Stalin e tutti i "bolscevizzatori" omogeneizzatori di partiti nazionalcomunisti. Corollario: dopo anni di appassionata lotta anticulturalista della corrente comunista animatrice del nuovo partito, Gramsci aveva capito che il buon partito sarebbe quello i cui membri fossero ben acculturati sul marxismo, in questo caso nell'accezione volgar-bolscevico-stalinista!
Cos'è cambiato nelle concezioni di partito che vanno per la maggiore oggi e che molti oppongono a quella organica? Niente. Le tribolate vicende che coinvolgono i gruppi e i partitini in continua formazione e dissoluzione hanno sempre le stesse motivazioni di fondo. E, lavorando per non fare quella fine, siamo in ogni caso assolutamente consapevoli di non essere spettatori di un processo ma di farne parte, così come ne fa parte quel pezzetto di umanità, fatto comunque di migliaia di uomini, che con il proprio lavoro di ricerca e di divulgazione scientifica non sta affatto pensando al "marxismo" ma avverte un cambiamento in corso, ne individua le tendenze, scopre le leggi delle rivoluzioni in natura, traccia dei percorsi, magari agisce come sa e può, senza sospettare neppure lontanamente che si sta spostando sul terreno del comunismo, capitolando clamorosamente di fronte alla sua teoria sociale.
Ricollegare la parte al tutto
Chi ci legge intende bene che non è possibile oggi agire estesamente per un fine immediato che sia all'altezza del grandioso dispiegarsi finale della rivoluzione comunista. Ma ciò non significa che ci si possa sentire estranei al processo che porterà alla società futura. Non è poi difficile porsi compiti immediati che siano allo stesso tempo coerenti con il fine e con i reali rapporti di forza esistenti fra le classi. Noi siamo il prodotto di un ambiente "comunista" che ci ha mostrato l'abbandono sempre più marcato delle premesse rivoluzionarie. Molti pretesi seguaci dei nostri predecessori hanno finito per rubarne il nome senza più alcun rapporto con le origini. In qualche caso scendendo sul terreno della collaborazione pura e semplice al mantenimento di questa società. E non stiamo parlando della schiera che, finalmente, ha abbandonato anche i nomi, la terminologia e gli ultimi fronzoli che la collegavano al proletariato e al suo partito storico.
Date le premesse, per parte nostra abbiamo sentito come naturale, anzi inevitabile, tentare di recuperare teoria e metodo di lavoro. Parliamo di una continuità di lavoro, quindi della comprensione di ciò che la Sinistra Comunista ha rappresentato nella storia e del lascito per le nuove generazioni. Nelle sue Tesi di Napoli questa corrente scrisse che, organizzandosi nel dopoguerra in nuovo movimento, non avrebbe dovuto riferirsi solo all'esperienza italiana dalla quale era nata. Il proposito potrebbe risultare incomprensibile, dato che alla fine degli anni '20 essa rifiutò un fronte comune con i tardivi critici dello stalinismo. A chi altri poteva riferirsi dunque se a quell'epoca la controrivoluzione aveva colpito a fondo ogni altro movimento, mettendo in risalto, con l'antifascismo e l'antistalinismo, i lati peggiori della conservazione democratica? A noi sembra chiaro che con quell'affermazione, ribadita in più d'un testo, si sia voluto semplicemente dire che la Sinistra Comunista detta italiana non era altro che una delle espressioni del partito storico, del quale avevano fatto parte anche organismi e individui che in alcuni frangenti avevano percorso tratti in comune. In tal modo essa rifiutava, con estrema coerenza, di essere separata dal tutto, e negava che si potesse smembrare il corpo della rivoluzione e definire la parte amputata e imbastardita con una parola dalla radice derivata da un cognome e la desinenza in un ennesimo "ismo".
Questo è stato il fondamento su cui è cresciuto il nostro lavoro; e infatti non ci consideriamo continuazione fisica di quella corrente ma ci identifichiamo con il tutto che essa rivendicava. È vero che ci siamo strutturati intorno alla necessità di continuare il suo lavoro e quello dei nostri compagni ormai scomparsi: non per scimmiottarlo, bensì per cercare di portarlo a maggior completezza nell'ambito del generale corso storico. Anche se l'impresa fa ovviamente tremare i polsi, crediamo che niente si possa fare di diverso (si potrebbe far meglio, questo sì), e che ogni altro percorso sia destinato ad essere meramente conservatore.
Quale conseguenza scaturisce da tale contesto, a sua volta inserito in un ambiente in cui si muovono zombie stalinisti, residui trotskisti, ectoplasmi bordighisti ecc. ecc., in tal numero da perderne il conto? Qual è il supporto materiale, il collante adatto per saldare gli "utensili vivi" del partito storico in "nodi" e "reti" che possano spezzare l'isolamento sociale?
Riconquista dell'uomo alla comunità umana
Durante i nostri ultimi incontri, in margine a commenti su lavori in corso e semilavorati, sono scaturite osservazioni utili alla comprensione del problema immane che dovrà affrontare chiunque si ponga di fronte al futuro della rivoluzione in atto (dal feudalesimo al comunismo attraverso il capitalismo, nella serie degli enne-più-uno relativi): il problema del futuro partito, non più organizzazione fra le altre di questa società ma comunità nuova, anticipatrice della società futura.
Il Capitale, anonimo, impersonale, globale, sta spazzando via le vecchie categorie di nazione e persino di borghesia nazionale. Se il motore della politiguerra americana non sta più a Washington ma nel disperato bisogno del Capitale di usare ogni mezzo per salvarsi, va da sé che l'operaio diventa operaio globale che produce una sola merce come sommatoria di tutte le merci (vedere il VI Capitolo inedito di Marx). E il Capitale stesso ci obbligherà sempre più a considerare ogni problema non tanto dal punto di vista dell'economia e della politica, per quanto "rivoluzionaria", ma immediatamente dal punto di vista della comunità umana futura.
In fondo è quanto affermato, in altri termini, nel Tracciato d'impostazione (Sinistra Comunista, 1946), dove non si lascia più spazio a ri-formismo e con-formismo ma solo ad anti-formismo. È quanto affermato in Origine e funzione della forma partito, dove all'organizzazione si sovrappone la comunità umana come prefigurazione del futuro. È quanto affermato in mille passi dove si ricorda il carattere organico della nostra concezione organizzativa. Ma facciamolo dire direttamente a Marx:
"Non scoppiano forse tutte le rivolte, senza eccezione, nel disperato isolamento dell'uomo dalla comunità? Ogni rivolta non presuppone forse necessariamente questo isolamento? Avrebbe avuto luogo la rivoluzione del 1789 senza il disperato isolamento dei cittadini francesi dalla comunità? Essa era appunto destinata a sopprimere tale isolamento. Ma la comunità dalla quale l'operaio è isolato è una comunità di ben altra realtà e di ben altra estensione che non la comunità politica. Questa comunità, dalla quale il suo lavoro lo separa, è la vita stessa, la vita fisica e spirituale, la moralità umana, l'attività umana, l'umano piacere, la natura umana. La natura umana è la vera comunità umana. Come il disperato isolamento da essa è incomparabilmente più universale, insopportabile, pauroso, contraddittorio dell'isolamento dalla comunità politica, così anche la soppressione di tale isolamento – e anche una reazione parziale, una rivolta contro di esso – è tanto più infinita quanto più infinito è l'uomo rispetto al cittadino e la vita umana rispetto alla vita politica. La rivolta industriale, perciò può essere parziale fin che si vuole, essa racchiude in sé un'anima universale; la rivolta politica può essere universale fin che si vuole, essa cela sotto le forme più colossali uno spirito angusto" (Marx, Glosse di critica a 'un prussiano').
È un brano che, da solo, fa strage di ogni concezione politicantesca dell'organizzazione, così come fa strage di ogni teoria trascendente del proletariato (vedi concezioni dell'operaio come deus ex machina della rivoluzione, visioni della classe universale, elucubrazioni sulla "moltitudine" come sostituto della classe, ecc.). Essendo l'industria (in senso lato) la vera essenza dell'uomo, è nella realtà dei fatti e non nella politica che si realizza l'antagonismo ultimo. È la realtà dei fatti ad imporre che la sequenza delle organizzazioni umane abbia la sua conclusione coerente con le premesse: se ai primordi abbiamo la comunità umana senza proprietà e senza Stato, e siamo passati attraverso la strutturazione della tribù, l'individuazione di un popolo, la formazione dello Stato, la rappresentanza in un'assemblea elettiva e infine attraverso la nascita del partito politico quale lo conosciamo, il "partito" della rivoluzione in corso non potrà che essere direttamente comunità umana, anticipazione della sviluppata comunità senza classi, senza proprietà e senza Stato.
Per non rendere "filosofico" un problema di azione reale diciamo che noi non pretendiamo la realizzazione della comunità umana entro la società disumana, ma aderiamo a questa comunità così come si configura già oggi. Non vogliamo plasmare impossibili falansteri-partito, ma cerchiamo di adeguarci almeno a ciò che di più avveniristico la società capitalistica già esprime. Per esempio la "tuttologia" abbinata alla specializzazione, l'estrema divisione tecnica del lavoro abbinata alle integrazioni operate dal cervello sociale, l'astrazione e il progetto abbinati alla manualità del lavoro e alla fatica fisica. La vita attiva nella specifica comunità comunista, così come già dicevano i giovani socialisti rivoluzionari nel 1912, è indispensabile per non lasciarsi trascinare dalle categorie di valore (che non sono soltanto valore-denaro) e per realizzare un ambiente ferocemente anticapitalista in grado di rappresentare un reale e non metafisico attrattore di militanti.
Riprendendo la citazione di Marx, concludiamo, sulla falsariga del lavoro sul Capitale autonomizzato (cfr. il numero scorso), che, essendo il capitalismo odierno industria sublimata in finanza che lega a sé tutte le aziende come centro impersonale di comando, anche la "rivolta industriale" dovrà erigersi a un'altezza tale da abbracciare l'intera società e non la sola fabbrica. Questa è la condizione affinché sia liberata l'anima universale della lotta di classe e sia fatto scomparire il colossale imbroglio della rivolta politica da spirito angusto (quella dei partiti di questa società, dei gruppi filosofico-esistenzialisti, dei partitini pseudo-alternativi e del movimento dei movimenti, il più colossale e angusto di tutta la politica esistente). Alla rivolta industriale effettiva non può che corrispondere, dal punto di vista del "partito", la descritta comunità umana, nella quale il militante non veda uno degli innumerevoli "servizi" offerti all'interno del capitalismo ma un luogo davvero iperuranico, "altro", nel quale possa rifugiarsi con orgoglioso senso di appartenenza.
Letture consigliate
- Karl Marx, lettera a Ruge, settembre 1843, Corrispondences Marx-Engels, Èditions Sociales, vol. 1 pag. 299.
- Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Einaudi 1968.
- PCInt., Lezioni delle controrivoluzioni, Bollettino int., 1951, ora nei Quaderni di n+1.
- PCInt., "Tesi di Napoli", in Il programma comunista n. 14 del 1965, ora in In difesa della continuità del programma comunista, Quaderni di n+1.
- PCInt., "Tracciato d'impostazione", in Prometeo n. 1 del 1946, ora raccolto in volume nei Quaderni di n+1.
- PCInt., "Origine e funzione della forma partito", in Il Programma comunista n. 13 del 1961, ora con altri materiali nei Quaderni di n+1.
- Enne più uno, articolo di presentazione sul n. zero della rivista, maggio 2000.
- Antonio Gramsci, "La situazione interna del nostro partito e i compiti del prossimo congresso", Relazione al CC del PCI, in L'Unità del 3 luglio 1925.