Una vita senza senso

[Alcuni uomini], esaltandosi per i ritrovati della scienza e della tecnica, anziché elevare il pensiero a Dio hanno tutt'al più sentimenti vivi, ma terreni. Altri ricercano una vita interiore inconsistente, ridotta ad una solitudine sdegnosa e quasi disperata. Altri infine, indifferenti e insensibili a tutto, non apprezzano né la grandezza della fede né la dignità dell'uomo, ma vivono una vita senza senso". Questa è una formula che deve restare: una vita senza senso. Anche i milioni di operai, che seguono come gregge le manifestazioni opportuniste e ribalbettano slogan castrati che puzzano di tutte le ideologie di classi nemiche, vivono, i disgraziati, una vita senza senso, imbevendosi di rimasticate maniere borghesi davanti al televisore.

(Omelia di Natale di Pio XII e commento di Amadeo Bordiga, in Sorda ad alti messaggi la civiltà dei quiz, gennaio 1956)

Fatti e misfatti

Mentre scriviamo, abbiamo a portata di mano, sullo schermo del computer, una cartella che contiene numerosi articoli di cronaca sul malessere sociale, con relative statistiche e interpretazioni psico-sociologiche. E siccome l'argomento che stiamo trattando ha suscitato un appassionato interesse fin dal suo avvio, abbiamo anche cartelle con le diverse collaborazioni giunte via Internet dalla nostra "redazione diffusa". Tutto il materiale di cronaca è riconducibile alla patologia sociale che colpisce l'individuo contemporaneo, ma l'insieme sembra composto da elementi così casuali e slegati che sarebbe difficile coglierne il nesso preciso se non facessimo ricorso a ben precise leggi sociali, quelle stesse che poniamo alla base della nostra dottrina generale. La quale, in quanto concezione unitaria del mondo, non fa posto a una specialità scientifica dedicata ai mali dell'animo, e tantomeno a una terapeutica utile a rattoppare l'individuo affinché non si lagni troppo e vada a produrre.

Scorriamo le finestre dello schermo e chiediamoci che cosa può collegare fatti del genere, riportati a caso:

  • Cinquecento ragazzi provenienti da periferie degradate si organizzano e assaltano in massa migliaia di bagnanti su una spiaggia razziando tutti gli oggetti di valore.
  • Madri ammazzano i propri figli, annegandoli, prendendoli a calci, buttandoli dalla finestra o nei cassonetti.
  • Due milioni di giovani in estasi si riuniscono per pregare con il Papa in un immane incontro mediatico amplificato dalla televisione.
  • Tre giovani si uccidono insieme innescando una serie di suicidi fra altri giovani, con le stesse modalità.
  • In un grande stadio le opposte fazioni di ultrà, attaccate dalle "forze dell'ordine", si coalizzano e insieme ingaggiano battaglia.
  • Una massa enorme di persone dà luogo spontaneamente a una veglia funebre di più giorni in morte di una ex principessa divorziata.
  • Una ragazzina, con l'aiuto dell'amante coetaneo scanna "senza motivo", a coltellate, la madre e il fratellino.
  • Giovani appartenenti ad una setta satanica massacrano alcuni degli adepti loro coetanei.
  • Tre milioni di lavoratori partecipano ad una oceanica manifestazione sindacale in difesa di un insignificante articolo di legge con un entusiasmo sproporzionato rispetto all'obiettivo.
  • La popolazione di un quartiere ingaggia una battaglia di strada in difesa di un piccolo scippatore contro un esagerato schieramento di polizia;
  • Due o tre miliardi di umani festeggiano con angosciosa speranza l'avvento del nuovo millennio "sbagliando" di un anno, cioè anticipando stranamente e clamorosamente, la fatidica data.
  • Un miliardo di cattolici, coadiuvati da credenti in altri dei, inscenano una planetaria manifestazione mistica intorno alla morte del meno mistico papa della storia, distintosi per aver trasformato definitivamente il mistero della Chiesa in un prodotto perfettamente consono alla società dello spettacolo (con conseguente sovrapproduzione di santi).

E così via, in un inventario che può essere lungo quanto si vuole. Nel corso del nostro studio, non potendo ovviamente analizzare tutti gli episodi elencati, ne estrarremo alcuni significativi raggruppandoli in insiemi congruenti. Utilizzeremo per questo fonti super ufficiali come la Chiesa, l'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), l'Istituto Europeo per le ricerche Economiche e Sociali (EURES) e il Servizio Informazioni per la Sicurezza Democratica (SISDE); citeremo volutamente anche fonti non ufficiali, come la letteratura e il cinema, spesso molto più sensibili nel registrare fenomeni come quelli che stiamo indagando di quanto non lo siano gli istituti preposti dagli Stati con le loro fredde tabelle.

Ma veniamo alle leggi sociali che collegano i fenomeni suddetti. Già nei suoi studi giovanili (1843) Marx, indagando sulla struttura produttiva e riproduttiva sociale, era giunto alla conclusione che la vera patologia dell'uomo capitalistico è la separazione da sé stesso (separazione dell'individuo dalla specie) attraverso l'alienazione del prodotto del proprio lavoro, non più finalizzato al bisogno dell'altro, reciprocamente, ma alla valorizzazione del Capitale, unidirezionalmente. Si ha un bel dire che la malattia è della psiche e che è determinata nell'individuo fin dalla sua nascita, al massimo modificata con lo sviluppo nell'ambiente: se è vero che ogni epoca ha sofferto delle sue nevrosi specifiche, quest'epoca soffre di qualcosa in più della malattia psichica (ammesso che esista una psiche come quella presa in esame dagli psicologi). Nessuna "malattia" è diagnosticabile nel caso di un irrazionale dolore collettivo per la morte di una principessa britannica, nel paese che conobbe la sua rivoluzione borghese nel '600, il cui partito tagliò per primo la testa a un re. E nemmeno sono malati milioni di uomini che parteciparono a una grande marcia di lavoratori, mossi da manovre tra frazioni politiche e quindi presi per i fondelli nel paese dei furbi venuti su alla scuola della borghesia più vecchia del mondo e quindi più putrefatta delle sue più giovani consorelle.

Come ha mostrato Wilhelm Reich, non c'è differenza fra psicologia individuale e di massa, ma è certamente più facile diagnosticare qualche tipo di patologia nel caso degli assassinii in famiglia, dei suicidii, delle statistiche generali degli omicidii e persino degli incidenti stradali (sembra nientemeno che un batterio dei topi, trasmesso all'uomo dai gatti, alteri la percezione del pericolo innalzando la propensione al suicidio, specie in chi guida). Ma anche in questo caso è fin troppo evidente che c'è una relazione diretta fra la decrepitezza del capitalismo e le patologie di tipo sociale. Nei paesi più industrializzati la produzione di plusvalore relativo attraverso l'aumento costante della produttività va a scapito della salute fisica e soprattutto mentale di chi produce ed è costretto a vivere in una frenesia tale da diventare spesso distruttiva. Ma anche di chi non produce e vive nella spasmodica ricerca di un posto di lavoro. Dalle forme di violenza potenziale, che danno luogo soprattutto a fenomeni depressivi di massa, si passa sempre più sovente a varie forme di violenza in atto, altrettanto di massa, non più gravi ma solo più evidenti, con ossa rotte, sparatorie e spargimenti di sangue. Violenza potenziale e attuale sono comunque sintetizzabili da un unico comune denominatore: lo spreco immane e insensato di energia sociale, di un enorme potenziale umano ben altrimenti indirizzabile.

La violenza patogena, potenziale o in atto, sembra tuttavia non essere monopolio dei paesi più industrializzati. In contraddizione con il legame diretto tra patologia e ultrasviluppo, la violenza moderna cresce anche in molte aree del mondo che sono state bloccate nel loro sviluppo. La contraddizione è però solo apparente perché queste aree non solo sono state private del loro tradizionale bagaglio di relazioni umane e depauperate dalla rapina imperialistica, ma sono anche state catapultate a forza sulla scena del capitalismo più moderno, quello del mondo finanziario, speculativo e assistenziale. In Asia, Africa e America Latina crescenti masse urbanizzate, improduttive e affamate possono sopravvivere in immense pseudo-città solo grazie a piccoli traffici e agli aiuti internazionali, dato che le briciole lasciate dalle aziende multinazionali sono fagocitate dalle avide borghesie del luogo. Le quali, terminato ormai il ciclo delle lotte di liberazione nazionale, partecipano alla spartizione del plusvalore mondiale come mafie finanziarie moderne, affiancate dagli interessati tutori delle city imperialistiche.

La vita e il senso

Dice ancora papa Pio XII nell'omelia citata all'inizio:

"L'uomo moderno ha costruito un mondo in cui le meraviglie si confondono con le miserie, ricolmo di incoerenze, come una via senza sbocco, una casa che non ha tetto. In alcune nazioni infatti, nonostante l'enorme sviluppo del progresso esteriore e benché a tutte le classi del popolo sia assicurato il materiale mantenimento, serpeggia e si estende un senso di indefinibile malessere, una attesa ansiosa di qualcosa che debba accadere. L'ineluttabile epilogo è una via verso la rovina, perché il metodo puramente quantitativo confida tutto il destino dell'uomo all'immenso potere industriale della nostra epoca. Questa superstizione non è neppure atta ad erigere un baluardo contro il comunismo perché essa è condivisa dalla parte comunista" (Omelia di Natale cit.).

Prosegue il commento:

"Egli [Pio XII] colpisce, con il termine geniale di 'superstizione produttivistica', non gli individui, ma la vera stimmate dell'attuale modo di produzione. Il dio Capitale non cade quando cadono Creso, Rotschild, o Morgan: cade quando il prodotto dell'umano lavoro e l'oggetto del consumo non è più merce. Cade in un'economia a metodo non più quantitativo, quando non esiste più la sua misura universale, la moneta. Cade quando la legge del valore, sopravvivente anche in forma staliniana, passa tra le cose morte. Forse allora la specie umana ritornerà molto prossima a quello che le religioni antiche, balbettio dell'umanità, ma balbettio geniale e vitale, chiamarono mondo dello spirito" (Sorda ad alti messaggi la civiltà dei quiz cit., passim).

Spirito. Quello che il borghese, tronfio del suo volgare sapere, chiama superstizione antica. Quello che il filosofo riconduce alla fenomenologia di una vita irreale, fatta di idee e non di materiali rapporti. Quello che invece era l'antitesi della moderna superstizione quantitativistica, cioè genuina qualità dell'esistenza, impossibile da quantificare secondo segni di valore. Si scandalizzi chi vuole, ma è questa circolarità (questo "ritorno", impossibile senza lo sviluppo intermedio) l'unica a poter essere definita "movimento reale che abolisce lo stato di cose presente", cioè comunismo.

Abbiamo visto che per Marx la vita dell'uomo capitalistico ha perso la sua qualità, cioè la sua onnidirezionalità per diventare a senso unico. Dalle complesse relazioni sociali fra tutti gli uomini, si è passati alle relazioni unidirezionali al solo scopo della valorizzazione del Capitale, fenomeno che Marx ha chiamato "passaggio dalla sottomissione formale del lavoro al Capitale alla sottomissione reale". La complessità rimane un fattore intrinseco al sistema produttivo e distributivo, mentre le relazioni fra gli uomini sono semplificate all'estremo: compera, produci, vendi, consuma. Il "vivi" è un optional non previsto in catalogo e non è trattato alle riunioni dell'ufficio marketing. È in tale contesto che scattano tre comportamenti antitetici ma riconducibili alla stessa fenomenologia che tenteremo qui di analizzare da un punto di vista non sociologico, almeno nel senso corrente del termine: 1) l'autodistruzione; 2) la distruzione dell'altro, con cui non posso avere che relazioni dis-umane (nel nucleo base della società – la famiglia – si sfugge sempre più spesso alla realtà e all'alienazione con riti di omicidio-suicidio); 3) la ricerca spasmodica di surrogati di aggregazione, di comunità sostitutive (permanenti come una città costruita da una intentional community, transitorie come una manifestazione operaia, o virtuali come una comunità di hackers collegati in rete tramite Internet).

L'uomo, ridotto a mera appendice di un processo lavorativo che non gli appartiene più, ridotto quindi a sensore, valvola, termostato, apparecchio di controllo della macchina, del sistema di macchine collegato da mille canali di comunicazione e di traffico, scopre che vorrebbe vivere, ma che non gli è neppure permesso di esistere in quanto uomo. La sua classica condizione di uomo-merce non è più soltanto riferibile al possesso della forza-lavoro che vende per denaro, ma riguarda l'intero arco della sua esistenza. Eppure per gli antichi "esistenza" era l'ex-sistere, il tirarsi fuori dal semplice "stare" come elemento ininfluente entro una natura che andava per conto suo e se ne infischiava del senso del suo procedere, soprattutto non misurava i suoi risultati – successi o catastrofi che fossero – con il metro della vita (cioè nascita-morte) di un essere particolare fra gli altri.

Il mito di Prometeo registra il passaggio da questa età dell'uomo a quella dell'ordine costituito della civiltà. Il titano è punito non tanto perché abbia dato il fuoco agli uomini quanto per aver con questo cercato di mantenere l'unità Cielo-Terra e quindi tradito il nuovo ordine. Nella Guerra dei Titani si era schierato con Zeus, aiutandolo a vincerli e ad imprigionare il loro capo, Crono; era quindi un transfuga rispetto alle proprie origini, schierato per il nuovo assetto patriarcale. Ma Zeus tradisce la continuità antica, quella di Temi (Gaia), la madre dei Titani, anzi, la Madre per eccellenza. Quindi tradire un traditore non è atto malvagio. Incatenato alla roccia, sbranato dall'aquila, Prometeo ha l'appoggio delle Oceanine che giurano di non congiungersi mai con i nuovi dei. Rimaste fedeli all'ordine antico, lo giurano sulle Moire, forze delle origini, tessitrici dei destini umani. La battaglia è però perduta: tutti gli dei si schierano con Zeus e con l'ordine nuovo. Gli uomini, ormai separati dagli dei per sempre, assistono impotenti, anche quando un ibrido semidio (Eracle) libererà Prometeo.

Il mito registra il lungo periodo necessario al cambiamento e la confusione in cui è avvenuto. I protagonisti cambiano di posto a seconda delle versioni e le relazioni di parentela divina si confondono. Prometeo impersona la rivoluzione neolitica, che è ingresso in un'epoca dove l'antica simbiosi uomo-natura si perde in un lunghissimo processo. In molte opere greche è riportato il grido del Coro (l'elemento impersonale) contro lo snaturamento dell'uomo che produrrà tragedie a catena. Per millenni la vita era stata concepita come prodotto conseguente di una natura non ancora antropomorfizzata e tracce di tale concezione sopravvissero alla fusione fra la civiltà greca e quella romana. Poi, alla vittoria del patriarcato seguirono le vittorie della proprietà vera e propria, della forma statale e delle basi per un nuovo modo di produzione. Tuttavia, fino a tutto il periodo classico schiavista, l'esistenza rimase per gli uomini un flusso continuo che consumava vecchie forme e ne produceva di nuove senza apportare cambiamenti sostanziali, senza introdurre nel rinnovamento un "progresso", quindi una freccia del tempo, un senso (nella doppia accezione di direzione e significato) verso un futuro differente.

Un millennio e forse più separa l'originario mito di Prometeo da una nuova concezione del senso della vita, quella che si afferma a Roma, crogiuolo di popoli e religioni, concezione di cui il cristianesimo infine si appropria. E non a caso lo fa producendo ponti sincretisti fra paganesimo e sé stesso, come il falso carteggio fra Seneca e San Paolo, dove il legame fra il filosofo e il santo viene fondato sulla crisi "morale" del mondo pagano. L'esistenza allora si finalizza a una condizione futura di beatitudine o dannazione, si numerano gli anni, punteggiandoli di martiri e di eventi straordinari, fissando così il concetto di storia ancora oggi dominante. Con il giungere del capitalismo al suo ultimo stadio la vita ha di nuovo perso di "senso", sia nell'accezione corrente che in quella di marcia verso un fine. La vita degli uomini è totalmente subordinata alla monotona valorizzazione perpetua e circolare del Capitale: … D-M-D'-M'-D''-M''… denaro, merce, più denaro, altra merce. Uno spietato non-movimento in cui domina il quantitativo, e il qualitativo sparisce dalla vita, appiccicandosi soltanto alla merce affinché questa possa avere un valore d'uso che le permetta di far da tramite alla realizzazione del valore di scambio. Con buona pace della soddisfazione dei bisogni umani, quelli non indotti dall'insensato consumo.

L'esistenza è angoscia. E perché mai?

Nel capitalismo l'esistenza è lotta di classe. Nella società comunista sarà lotta per armonizzare ciò che è stato disarmonizzato fra uomo e natura. Sarà certamente anche lotta appassionata per conquistare nuovi e superiori livelli di esistenza. Potrebbe persino essere lotta contro la natura, se questa s'indirizzasse verso l'estinzione della nostra specie. Invece per l'umanità dei nostri tempi l'esistenza è una trottola impazzita che fabbrica angoscia, e nessuno oggi può sapere se il capitalismo non stia già assecondando l'estinzione del genere umano. Nel tentativo di rispondere al cieco girare dell'esistenza su sé stessa al solo scopo di valorizzare un Capitale estraneo all'uomo, nel secolo XIX si affacciò sulla scena una corrente filosofica, l'esistenzialismo, che escogitò un espediente ideologico-mentale per interpretare la condizione poco piacevole nella quale l'umanità era precipitata: ogni individuo non era posto in un mondo-sistema determinato da forze a lui estranee, come credevano gli idealisti e i positivisti, ma era posto di fronte a continue scelte, attraverso le quali "faceva sé stesso".

Nel suo manifesto contemporaneo, scritto da Sartre nel 1946 (L'esistenzialismo è un umanismo), questa corrente ribadisce che l'uomo non è soltanto quel che crede di essere, ma è anche quel che fa per essere tale: "L'uomo non è altro che ciò che si fa". Naturalmente per fare è necessario essere e scegliere che cosa fare, per cui ― non si capisce bene come e perché ― l'uomo esistenzialista sceglie, e sceglie sempre il bene, dato che "nulla può essere bene per noi senza esserlo per tutti". Così si crea un legame, precedentemente dimenticato, fra l'individuo e i suoi simili, sulla base di una scelta consapevole, immaginiamo basata sul libero arbitrio. L'uomo infatti è un essere autocreantesi, un essere molto speciale che "fa" per essere, "ha più dignità di una pietra o di un tavolo", perbacco.

Per gli esistenzialisti l'uomo è angoscia proprio perché, a differenza dei tavoli e degli animali, si autocostruisce attraverso continue scelte problematiche. La sua esistenza in quanto tale, quella che precede il fare, non sarebbe ancora umanismo. L'uomo sarebbe dunque l'individuo. Però, dato che l'angoscia deriva dall'impegno, egli si assumerebbe delle responsabilità in quanto persona che agisce a nome dell'intera umanità. L'angoscia è il modo di essere dell'uomo in quanto persona responsabile. Sapendo di esserlo, non può più appellarsi a un comodo Dio che "fa" per lui. Nessun pretesto può più essere accampato per il quietismo e l'inazione. Perciò l'esistenzialista deve essere impegnato. Il che significa alla fin fine essere un volgare immediatista attivista. E via di questo passo, tanto per confermare che l'ora per mandare la filosofia in pensione è scoccata da tempo. Chi volesse divertirsi con le amenità esistenzialiste può leggersi il libro, che contiene, ci mancherebbe, anche il parlamentino-dibattito finale.

Quel che qui ci basta sottolineare è il fatto materiale che nella testa degli uomini, quando stanno per soccombere a terribili determinazioni più grandi di loro (era appena finita la Seconda Guerra Mondiale, altro che scegliere razionalmente il "bene"), scatta un meccanismo di produzione di teorie per cavarsela. Ma, come dice Marx a proposito di Proudhon, la piccola borghesia, essendo una non-classe impotente schiacciata fra le grandi classi storiche, in questi frangenti produce a scala industriale brutte copie di teorie della borghesia o del proletariato, mistificandole. Ebbene, il piccolo borghese esistenzialista engagé copia roba vecchia spacciandola per nuova, credendo con ciò di dare un senso all'esistenza per poterla chiamare vita.

Il marxismo è una concezione realistica del mondo. Seguendo la sua bussola, possiamo constatare che le mezze classi hanno una vera e propria manìa di costruire castelli teorici in aria, e quindi ci diventa facile riconoscere a prima vista le concezioni irrealistiche, prolifiche come conigli, capaci di annebbiare ogni approccio razionale alla conoscenza dei fenomeni: quello della vita senza senso in particolare, compresa la concreta angoscia che ha risvolti così reali, drammatici e diffusi nella società odierna. Il nostro esistenzialista engagé si culla nell'illusione che l'individuo possa con la sua volontà far leva sulle vicende del mondo, purché sia impegnato in qualche conventicola di pensatori preposta ad illuminare gli altri. Non importa se essa è completamente slegata dal mondo reale, basta che le sue elucubrazioni siano pubblicate, sollevino dibattiti fra gli accademici e soprattutto, oggi, appaiano in televisione. E non è strano che questa follìa si manifesti proprio nell'epoca in cui l'individuo è fatto a pezzi, disintegrato da mille e mille determinazioni, ridotto a zerbino del Capitale. Più le determinazioni all'impotenza sono feroci, più la supposizione di potenza si fa strada, come dimostra la cricca esistenzialista dei neoconservatori al governo negli Stati Uniti, il cui "Progetto per il nuovo secolo americano" ― nientemeno ― è una filosofia già impantanata nella rete di venalissimi interessi che avvolge i piani di guerra. Se nella testa del singolo individuo scoppia prepotente l'angoscia in quanto tensione fra l'essere e il vivere (il "farsi"), alla testa delle grandi nazioni scoppia la contraddizione fra ciò che saremmo in grado di fare, come specie, e ciò che in effetti si fa. Non vedremo Bush e Cheney sul lettino dello psicanalista, ma sono finiti i tempi delle solide certezze rivoluzionarie della borghesia illuminista: oggi per un barile di petrolio o una cattedra universitaria si bacia la Bibbia, si gettano alle ortiche antiche scienze e si "creano" teorie nuove che durano un mese.

La borghesia illuminista aveva spezzato l'immobilismo delle classi feudali, con l'industria e con l'Encyclopédie prima che con la ghigliottina, e aveva osato affermare che la natura è conoscibile per mezzo di schemi formali astratti, che consentono di rivelare leggi e di avanzare ipotesi teoriche migliorabili per approssimazioni successive. Essa non provava nessuna angoscia esistenziale, anzi, era piena di fermento positivo; ma da molto tempo, almeno da quando il capitalismo dell'epoca imperialistica è una forma sociale di transizione, è una classe morta, del tutto anacronistica. Dal capitalismo in ascesa nacque la teoria rivoluzionaria comunista; dalla sua fase decadente scaturiscono potenti conferme di un programma atto a distruggere, proprio come quello borghese a suo tempo, le vecchie credenze. Un programma che nega l'eternità delle conquiste raggiunte e, nello stesso tempo, estende i metodi d'indagine scientifica dall'ambiente fisico ai fatti economici e sociali, secondo le stesse leggi.

Angosciata è quindi la borghesia e angosciati sono tutti i rappresentanti delle vecchie classi, mentre i comunisti si nutrono di certezze sottoposte a continua verifica sperimentale. Persino parte della stessa borghesia è costretta a capitolare clamorosamente di fronte alla nostra teoria, adottandone, magari inconsapevolmente, categorie e metodi. Critichiamo il volgarissimo scientismo borghese, ma non ci schiereremo mai con chi si accoda alla moda antiscientifica d'oggi, vero rigurgito di mistiche antistoriche.

D'altra parte, nel variegato mondo dell'insensato, vi è chi si riferisce alla "rivoluzione" senza tuttavia liberare un solo neurone del suo cervello dalle categorie presenti, e anzi contribuisce a perpetuarle; chi si dichiara seguace di Marx e abbraccia incongruamente l'eclettismo scettico e relativistico. Anche costoro conducono una vita senza senso, perché da veri esistenzialisti credono di "scegliere", credono che bastino un po’ di buona volontà e di spirito di sacrificio per mettersi alla testa del movimento sociale, mentre invece seguono la folla dei sintonizzati col sistema, si adeguano, adattano il loro comportamento ad un successo che è solo immaginato, e finiscono per emettere semplicemente frasi senza riferimento alla realtà. L'immediatismo attivistico è vera filosofia esistenziale della controrivoluzione.

L'esistenzialismo e l'esistenza

Fabbricare desinenze in "ismo" è la cosa più facile del mondo. Quando iniziammo a usare "luogocomunismo" ci sembrò così naturale che non ci accorgemmo nemmeno di aver coniato una parola nuova, come ci fece osservare un abbonato che di mestiere fa lo scrittore. Forse però il termine era già "nell'aria", per via del suo significato facile facile. Adesso è di uso comune. Tranquilli, non costruiremo una filosofia su una parola. Ci interessa piuttosto capire perché si fabbricano desinenze. E perché nascono "ismi" come l'esistenzialismo. Anche per Marx, come per gli esistenzialisti, "la radice dell'uomo è l'uomo stesso", e dunque l'uomo è un essere che si fa. Alcuni esistenzialisti atei hanno perciò provato ad accostare Marx alla loro filosofia. Non scherziamo: un conto è indagare sul millenario arco storico che conduce l'uomo a "farsi", anche biologicamente, attraverso il proprio lavoro e le relazioni con altri uomini in un processo reale, per niente lineare ma punteggiato da rivoluzioni, che porta al capitalismo e alla società futura; un altro conto è titillare il proprio cervello ed estrarne categorie filosofiche buone per una breve stagione di ordinaria angoscia (chi ha mai più sentito parlare dell'esistenzialismo francese engagé?).

Detto questo è bene scendere dall'empireo della filosofia al mondo reale, dove uomini e donne producono e si riproducono, dove l'esistenza perde il suo ridicolo "ismo" e al posto di elucubrazioni personali troviamo città, fabbriche, campi, scuole, strade, ferrovie, reti telematiche. Nell'inserto Donne del quotidiano La Repubblica, uno storico della filosofia ha una rubrica in cui risponde agli affanni esistenziali dei lettori, prendendo le distanze dall'omologazione mercificatrice. Una volta provò a dire qualcosa di anti-filosofico notando che la ricerca di un "senso" nella nostra vita con le sue tribolazioni non potrebbe portare che a depressioni e angosce:

"L'unica cosa da fare è vivere questa vita in pienezza, che già è un'impresa non da poco".

Naturalmente il filosofo metteva intorno a questa frase altre cose che la rendevano apparentemente ragionevole, ma una lettrice, sforbiciandola con facilità dall'inessenziale, pose la materialistica domanda:

"Non le viene il sospetto che ci sono categorie di persone che non possono permettersi una risposta simile? Che vivono nella più totale miseria materiale e spirituale, che conducono esistenze talmente disgraziate per cui, se si pongono la domanda 'che senso ha questa vita?', lei non può rispondere 'non porti la questione ma vivi e basta'. [Rsponderebbero]: 'Cosa, vivi? Non sarà mica vita, questa? Quali sarebbero le cose per cui dovrei vivere, le occasioni che posso cogliere?' ".

Ben detto. Passiamo dal rotocalco al quotidiano, dal filosofo a un professore, il cui articolo comparve in prima pagina su La Repubblica. Siamo in una scuola di Roma. Una quindicenne racconta in classe che la sua aspirazione è comprarsi un paio di mutande griffate e portarle a spasso sotto un paio di jeans a vita bassa, in modo che si veda il logo stampato sull'elastico. Il professore inorridisce e cerca di "far lezione". Cita Jung: "Una vita che non si individua è una vita sprecata", e tenta un sermone contro la cultura di massa. La ragazzina lo frega:

"Professore, ma non ha capito che oggi solo pochissimi possono permettersi di avere una personalità? Loro esistono veramente e fanno quello che vogliono, ma tutti gli altri non sono niente e non saranno mai niente. Io l'ho capito fin da quando ero piccola così. La nostra sarà una vita inutile. Mi fanno ridere le mie amiche quando discutono se nella loro comitiva è meglio quel ragazzo o quell'altro. Non cambia niente, sono due nullità identiche. Noi possiamo solo comprarci delle mutande uguali a quelle di tutti gli altri, non abbiamo nessuna speranza di distinguerci. Noi siamo la massa".

L'insegnante resta basito:

"Capivo che non riuscivo a convincere nemmeno me stesso. Capivo che quella ragazzina aveva espresso un pensiero brutale, orrendo, insopportabile, ma che fotografava in pieno ciò che sta accadendo".

Sveglia, professore!

È evidente che le due sconosciute e forse inconsapevoli materialiste mettono sul tappeto il problema della libertà, della possibilità reale di essere individui e nello stesso tempo parte di un tutto, cosa che oggi è negata. Si è individui liberi com'è libero il mercato, democratici com'è democratica l'uguaglianza dei valori scambiati, specie tramite il loro equivalente generale che è il denaro-capitale. Liberi di essere granuli indifferenziati di una massa produttrice-consumatrice di merce e di ideologia, magma sociale che esiste non per sé (insieme di specie) ma per il Capitale. Liberi sì, ma di essere uomini a una sola dimensione, come disse un altro filosofo un tempo ultrafamoso e ormai dimenticato. Non è una grande scoperta dopo il potente concetto di alienazione introdotto da Marx.

Comunque è sul tema della libertà, nozione evanescente al di fuori di un discorso di classe, che gioca gran parte del filosofare moderno. Quando la filosofia era al tempo stesso anche religione e scienza, le ricerche intorno all'organizzazione della conoscenza e della vita sociale avevano un significato; ma da quando è stata soppiantata dalla scienza incarnata nell'industria (diciamo dalla presa della Bastiglia e da Kant in poi), da quando cioè la libertà è passata dal mondo delle idee a quello della realtà borghese (liberté, egalité fraternité!), l'unico suo scopo è quello di dare un significato agli stipendi di professori altrimenti disoccupati, senza che l'umanità si accorga di qualche beneficio. Il caduco "ismo" che alcuni di loro hanno appiccicato all'esistenza umana è costruito su una foto della realtà, ma la dinamica complessiva è assente. Ne risulta un moncone di realtà su cui si può dire tutto quel che si vuole, senza essere troppo "responsabili", come invece vorrebbe il catechismo esistenzialista. La libertà può consistere nel decidere, ma bisogna sapere chi decide e che cosa. Per noi, adesso, l'unica libertà possibile è liberarci dell'ultima società classista della serie millenaria.

Soffermiamoci un poco su questo concetto della libertà/responsabilità: sembra che sia stato Karl Jaspers ad introdurlo per primo in contesto "esistenzialistico" moderno, quando affermò che la libertà è prerogativa specificamente umana. La definizione di "uomo" sarebbe dunque: essere che sempre si decide; quindi non solo libertà dall'essere determinato a…, ma libertà nel decidere di… Prendiamo per buona la definizione, che a dire il vero ci sembra un po' banale. Tutti sanno che l'uomo, a differenza degli animali, può entro certi limiti progettare la propria esistenza proprio mentre progetta macchine complesse, sistemi di produzione o agglomerati urbani. Ma se è vero che progetta, quali sono i limiti entro cui lo fa? La pura e semplice constatazione di questa sua capacità non è sufficiente. Per noi è molto meglio un'altra definizione, che il lettore riconoscerà di certo e che ci permette di spostare l'attenzione dal progetto-bricolage alla dinamica storica del rovesciamento generale della prassi: l'attività sociale dell'uomo consiste nel millenario procedere dal regno della necessità (animale) a quello della libertà (umana). La vera essenza dell'uomo corrisponde alla sua esistenza nella fattispecie di questa dinamica.

La libertà non può dunque essere prerogativa dell'individuo, che può al massimo progettare una macchina, una casa, una ferrovia, ma sempre nell'ambito della sua vita di consumi per il Capitale. La libertà è prerogativa della specie, che sarà in grado di progettare la propria esistenza globale in armonia con la natura. Solo il rovesciamento della prassi è libertà e volontà nella loro autentica accezione. L'uomo, arrivato al punto odierno (capitalismo maturo) non è né carne né pesce, è in mezzo a un guado. Non può tornare indietro e non sa ancora che cosa lo aspetti, anche se deve comunque proseguire. Di qui l'angoscia, non per la responsabilità, ma al contrario, per l'irresponsabilità, l'impotenza che lo attanaglia. La percezione deprimente, fatale per molti, di una vita senza senso.

Come tutto, anche la vita insensata ha un mercato. Più della metà degli americani ricorre a psicofarmaci, e i loro bambini "inquieti" sono tenuti a bada chimicamente. Un numero crescente di giovani occidentali non può fare a meno di assumere droghe di ogni tipo per tirare avanti. Persino i ragazzini si fottono il cervello aspirando vapori di benzina, colla, solvente, ecc. Il mondo intero va fuori di testa e l'unica cosa che riesce ad escogitare è qualche rattoppo. Medicina e farmacologia d'oggi non sono altro che mezzi per "guarire", cioè per rattoppare l'individuo, non si prefiggono di evitare la malattia nell'ambito della specie. Ma per il mercato va bene così (sempre che il peso economico per la società non diventi troppo alto), e quindi l'industria apposita intasca profitti immani, affiancata dagli strizzacervelli, che anch'essi non se la passano male. Ce ne sono persino di una corrente esistenzialista, tanto per essere in tema. Essi praticano la logoterapia, il cui motto è preso di sana pianta dalla filosofia in questione: "Essere liberi da… in modo da essere liberi per…", ed ha per manuali testi dal titolo significativo come La sofferenza di una vita senza senso, psicoterapia per l'uomo d'oggi (Frankl). Psicoterapia per fare che? Per accettare l'insensato senza soffrire ed essere pronti a produrre piuttosto che a vivere?

Tra l'altro l'aforisma esistenzialista non è gran che originale: è presente nei testi canonici, ma anche negli insegnamenti del Buddha, che mostrano la via per liberarsi del dolore per raggiungere la beatitudine della sua assenza. Marx aveva superato la mistica concretizzando la libertà perché essa è parte del processo storico reale, ossia parte di ciò che già gli uomini hanno realmente fatto e stanno facendo: essere liberi dal capitalismo per essere liberi di sprigionare la propria umanità in una società nuova. E qui torniamo alla lettrice e alla ragazzina di poco fa per addentrarci nell'inferno della vita quotidiana capitalistica: perché, al di là delle belle parole, questa è la vita reale d'oggi e non c'è esorcismo all'interno di essa che possa regalare qualche cosa all'uomo angosciato.

A meno che egli non veda una prospettiva altrettanto reale. Ora, l'unica dinamica interessante della "nostra" società è quella di produrre effetti di auto-negazione su sé stessa. Il capitalismo è diventato un sistema così libero da ogni controllo da parte dell'uomo, da procedere a briglia sciolta verso quel suicidio che impone così spesso agli individui che assoggetta. A dispetto dei suoi servizievoli addetti che fanno di tutto per preservarlo, questo sistema si sta distruggendo per la semplice ragione che anch'esso sta perpetuando un'esistenza senza senso. Una volta che ha dimostrato di riprodursi non più per soddisfare le esigenze dei capitalisti, che anzi vengono espropriati, ma solamente per valorizzare Capitale diventato anonimo e impersonale, ha per ciò stesso dimostrato la sua non-esistenza potenziale (Marx). Insomma, siamo alla classica affermazione: evocherà da sé, nel proletariato, il proprio esecutore e becchino.

Farmaci e macchine contro il male di vivere

Quando le molecole sociali si surriscaldano e si agitano impazzite producendo statistiche poco edificanti per la superba società del Capitale, si possono sempre raffreddare per farle stare quiete. A questo proposito esistono farmaci appositi, come abbiamo visto, e l'umanità sofferente ne fa uso smodato. Adesso leggiamo anche la notizia che è stato appena scoperto un farmaco, novità assoluta, che permette di essere arzilli anche in caso di mancanza di sonno (da discoteca, da doppio lavoro o da angoscia, non fa differenza). Ci aspettiamo un aumento in borsa delle azioni dell'azienda produttrice, oltre che l'aumento degli indici di produzione, non appena sia provato che un operaio riesce a fare due turni per volta.

Ma la pillola non è tutto. Leggiamo negli stessi giorni un'altra notizia: la macchina impiantata nell'uomo è la vera soluzione, è il suo interlocutore intelligente, la sua protesi, come in certi racconti di Philip Dick. La pillola si aggiunge a una serie ormai pletorica, ma vuoi mettere la macchina, con la sua linea di montaggio, il marketing, l'assistenza tecnica, l'obsolescenza da progresso, la batteria, l'operazione per l'impianto, l'ospedale, il personale medico. Nelle prime pagine del romanzo di Dick Gli androidi sognano pecore elettriche? il protagonista si sveglia tramite uno stimolatore del cervello che gli predispone un umore adeguato per la giornata. Egli dialoga con la moglie, che ha una macchina simile, perciò discute su come impostare i rispettivi programmi tenendo conto l'uno dell'altro. Il rischio è di cadere in quel circolo vizioso che certa psichiatria moderna definisce di "doppio vincolo", situazione tipica per l'insorgere della schizofrenia di famiglia.

Il romanzo fu scritto nel 1968. Oggi, 2005, la Food and Drug Administration, l'ente che negli Stati Uniti controlla il ciclo di produzione di cibi e medicinali, ha ammesso all'uso generalizzato un apparecchio elettronico che, stimolando il nervo vago, dovrebbe alleviare i problemi delle persone colpite da depressione grave. I risultati sembrano confermare gli esperimenti condotti su pazienti insensibili a ogni altra terapia. Un apparecchio simile era già utilizzato fin dal 1997 sugli epilettici e la scoperta che abbia effetti anche sui depressi all'ultimo stadio è stata del tutto casuale (per cui le modalità di "funzionamento" sono ancora sconosciute).

Gli addetti ai lavori sostengono che è meglio agire sul nervo vago che intervenire sul cervello con azioni estreme come l'elettroshock. Sarà certamente vero, e sarà forse anche meglio che ingurgitare farmaci per decenni, ma l'idea che un essere umano vada in depressione fino allo stadio del pericolo mortale e lo ringalluzziscano con una macchina che stimola artificialmente il cervello è tipica del capitalismo, spasmodico rattoppatore di falle che esso stesso genera. E ci fa venire in mente, in un mondo che vede aumentare a dismisura il settore che produce merci dedicate all'Ego e al culto dell'apparire, qualche più che probabile sviluppo.

Non si nasce depressi, lo si diventa. E la "malattia" è tipica della modernità, colpisce specialmente gli abitanti dei paesi del cosiddetto benessere, con il picco negli Stati Uniti, che hanno 566 consumatori di psicofarmaci ogni mille abitanti. Ora, prendiamo l'uomo caduto in depressione e sistemiamogli sotto pelle, alla base del collo, un apparecchio elettronico con le funzioni che abbiamo descritto, una specie di pacemaker. La casistica ci dice che nel paziente "migliorano l'umore, la memoria e la soglia di attenzione verso l'ambiente, mentre ritorna il senso perduto dell'ottimismo".

Al momento l'ente americano permette l'impianto della macchina antidepressiva solo sui pazienti gravi, che sono il 5% dei depressi (negli USA sarebbero comunque 7 milioni i candidati), "ma in futuro il suo utilizzo potrebbe estendersi", battono le agenzie di notizie. Infatti chi, in un mondo che precipita l'uomo nell'autodistruzione, potrà fare a meno di portare sotto pelle una macchina dell'ottimismo, un Viagra elettronico per inturgidire cervelli cadaverizzati? E se, venuti meno gli stimoli economici keynesiani alla produzione, si provasse a impiantare direttamente nel corpo degli operai una macchina per stimolare, insieme all'ottimismo capitalistico e quindi al consumo, anche la conseguente produttività?

Il capitalismo non è un malato da curare, deve sparire

Edgar Lee Masters scrisse questo epitaffio per uno degli ex viventi che popolano la sua celebre Antologia:

"Dare senso alla vita può condurre alla follìa, ma una vita senza senso è la tortura dell'inquietudine e del vano desiderare, è una barca che anela il mare eppure lo teme".

È vero: nel capitalismo un uomo che cerchi di dare un senso alla propria esistenza non può che realizzare la sua propria condizione di alienato in mezzo ai suoi simili e tentare di porvi rimedio. Sapendo però di non poter "fare" nulla per cambiare da solo l'intero pianeta, e sapendo di essere un granello fra altri, sembra non avere altra scelta che arrendersi (e dar fuori di testa contro di sé o i suoi simili come nel film The assassination di Niels Mueller). O assecondare il movimento reale, nel frattempo individuato come comunismo, ovvero come morfogenesi sociale, fermento distruttivo dell'attuale forma e costruttivo della nuova. In un certo senso il comunista è un pazzo deviante in mezzo a omologati sani. I quali, per il comunista, sono gli "altri", appartenenti al passato, prigionieri del vano desiderare e da ciò torturati a vita, schiavi dell'indeterminatezza e di voglie inculcate, come hanno detto anche due papi a mezzo secolo di distanza l'uno dall'altro.

Il capitalismo provoca malattia sociale trasformando i bisogni naturali dell'uomo esattamente in voglie sintetiche (che tra l'altro non riesce nemmeno a soddisfare). Non è affatto strano che la Chiesa, o perlomeno quel che è diventato quell'organismo dall'esperienza bi-millenaria, pur esaltando la mistica della persona abbia individuato nel personalismo voglioso e insoddisfatto un malefico influsso sociale, un filo conduttore che porta alle cause di ciò che chiama attacco alla spiritualità e relativismo dilagante. L'apoteosi dell'individualismo, l'incapacità di collegare la vita a basi teoriche, la coltivazione di teorie del dubbio, il navigare a vista senza bussola e senza mappe, è impossibilità di sopportare la contraddizione fra il vivere il proprio atomo di esistenza separata e il far parte, nello stesso tempo, della forma economico-sociale più socializzata della storia.

Noi riceviamo continuamente, via Internet, una valanga di materiale prodotto da gruppi, partitini e individui che cercano disperatamente di affrontare la malattia del capitalismo, accettando, il più delle volte senza accorgersene, l'immagine che il capitalismo stesso offre di sé, cioè quella di un sistema malato che ha bisogno di un medico. Ma persino i vecchi socialisti e anarchici sapevano che i rivoluzionari non possono essere il medico del sistema, sono la sua malattia mortale. Il trionfo esistenzialistico e solipsistico della bestia-soggetto, incapace di avere un approccio qualsiasi alla comunità di specie, nemmeno con l'immaginazione, porta al sacrificio quotidiano dell'esistenza cui si è appioppato quell'"ismo" assurdo, alla morte rateizzata invece che alla vita, la vita vera, quella che nella morte individuale trova il suo naturale compimento per alimentare la vita della specie. Questa società tratta l'uomo al pari di un mezzo di produzione da "ammortare", come dice il termine ragionieristico che noi certamente cambieremo in "ravvivare", come scritto in un nostro vecchio testo.

L'individuo capitalistico è ammortato fin dalla nascita in quanto macchina da consumo di pannolini e merci specifiche prodotte a miliardi. Continua ad esserlo fino alla vecchiaia, quando non è rottamato solo perché consuma altre merci specifiche come pannoloni, pillole a carrettate, creme per stirare la faccia, servizi di vampiresche case di riposo, ecc. Anima e corpo dell'uomo-massa sono quotati alle borse mondiali come parte integrante di tutte le altre merci, e a nulla vale che egli si cavi qualche spicciola soddisfazione (un po' di denaro, un po' di sesso, un po' di svago e via a ripetere il ciclo): sarà sempre trattato come una nullità il cui cervello è solo un accessorio, mero prolungamento del midollo spinale, da attivare solo quando dev'essere reattivo agli stimoli consumistici. Può suicidarsi, ammazzare gente per strada, sgozzare i parenti, o fare il terrorista, ma sarà sempre trattato alla stregua di materiale da marketing. Per questo la sua impossibile ribellione ogni tanto si fa materiale da prima pagina dei giornali, pirotecnica, esagerata, inspiegabile, e fa vendere un sacco, come ben sanno gli scrittori alla Truman Capote. Anche Hitchcock notava che i professionisti del crimine sono noiosissimi, mentre fra i fuori di testa "normali" proliferano i veri genii del delitto creativo.

Dicevamo che Marx giovane si accorse molto presto della perdita di umanità nell'uomo capitalistico. Egli osservò che quest'ultimo finisce per considerare "persona" solo sé stesso, mentre relega il proprio simile a "cosa", distruggendo irreparabilmente la possibilità di vedere nell'altro lo specchio di sé, l'essere umano con cui intessere un rapporto non alienato, attraverso il quale ognuno possa arricchire la propria umanità. L'importanza data alle cose o alla loro immagine riflessa nel cervello porta a reazioni esagerate, apparentemente incomprensibili: il numero dei ragazzini che si ammazzano per aver sfasciato l'automobile del babbo o perché "vanno male" a scuola vien subito dopo quello dei morti provocati dalle stragi in famiglia, in un crescendo che ispira qualche articolo o dibattito ma non scalfisce neppure di striscio la macchina produttiva di valore. In entrambi i casi è data una sproporzionata importanza a cose personificate o a persone immaginate come cose. Una brutta pagella non vale un'esistenza; d'altra parte è difficile immaginare di estinguere un'esistenza con centosettantatrè coltellate: se si ammettesse di avere a che fare con una vita invece che con una cosa ne basterebbero un paio.

Psicologia, sociologia e illusorie medicine

Indubbiamente qualcosa succede nella testa di chi si ammazza, ammazza altri o partecipa ad azioni collettive violente e spesso assassine. Oppure entra in depressione fino a morire da vivo. Le spiegazioni sociopsicologiche abbondano, e non mancano gli esperti che cercano le cause della suppurazione sociale nella disoccupazione, nell'insicurezza del vivere, nella miseria materiale, in quella morale e così via. Comunque sia, costoro danno sempre un'interpretazione che non esce dalle categorie di questa società, assolutizzando uno degli aspetti del problema senza vedere l’insieme. Di fatto troviamo una specie d'invarianza nel loro affrontare il problema di quell'angoscia di vivere che sempre più spesso prende il sopravvento sull'assuefazione inerte, passiva. Proviamo ad elencare:

  • Il presunto diverso viene quasi sempre definito tale dopo che ha manifestato il comportamento atipico; prima è in genere una "brava persona del tutto normale" e la ricerca sul perché della trasformazione si riduce a una constatazione postuma.
  • La definizione diventa essenziale come l'etichetta su un prodotto: aggettivi come depresso, suicida, assassino o vandalo diventano sostantivi; non è previsto il povero cristo fuori di testa perché separato irreparabilmente dalla propria umanità.
  • L'etichetta serve a incasellare il prodotto più di quanto non lo sia già negli scaffali del gran supermercato globale: perciò si fanno cliniche per i depressi, supercarceri per i violenti, manuali per i suicidi, consultori per i drogati, persino olimpiadi per i disabili.
  • Una volta incasellati i devianti, si procede a far opera di "integrazione sociale", in modo che sia ben chiaro il dualismo insopprimibile fra essi e i normali. A nessuno viene in mente che vi è un'unica umanità con le sue cellule differenziate. Si separa la specie che produce e si riproduce in diverse umanità, affinché si possa poi far opera di unione (e dar luogo al relativo mercato che solo approssimativamente si identifica col "terzo settore"). Un po' come fanno gli scienziati specialisti quando organizzano incontri interdisciplinari, che ovviamente ribadiscono l'esistenza di discipline separate.
  • Infine si passa alla descrizione fantastica di che cosa dovrebbe escogitare la società per evitare l'insorgenza delle devianze e dei danni che esse provocano (espressi sempre in denaro): cioè si fa appello ai governi affinché prendano provvedimenti onde evitare costi materiali e sociali troppo alti (come se i governi, in virtù del solo appello, potessero effettivamente fare qualcosa di diverso o in più di quanto non abbiano fatto prima).

Qualche psico-socio-economista giunge ad annotare una relazione fra la miseria materiale e quella morale, pur senza avvicinarsi neanche lontanamente alle riflessioni marxiane sulla struttura del bisogno mediata dal denaro, per cui in una classe l'oro trasforma bruttezza in bellezza o debolezza in forza, e nell'altra la patata si impone in quanto unico bisogno, come nel caso del proverbiale irlandese di Marx. In realtà non fa che blaterare di una soluzione alla Maria Antonietta: dato che per lui la separazione dell'individuo dalle sue condizioni di esistenza è separazione dell'individuo dalle cose, basterà dare l'oro invece della patata e l'angoscia esistenziale sparirà d'incanto. C'è persino un movimento internazionale che rivendica un "reddito di cittadinanza", cioè una quantità di denaro fissa per ogni individuo dalla nascita alla morte, indipendentemente dal lavoro che svolge e dal reddito che questo gli frutta. Un movimento informale, ma che sostiene la compatibilità di questa "rivendicazione" proprio con l'economia di mercato.

Il sistema che separa gli individui dal frutto del proprio lavoro, quindi dalla comunità, non è riformabile entro il sistema stesso per la semplice ragione che esso non può andare oltre il livello appena descritto, può tutt'al più far riferimento quantitativo con le cose. La mia vita (o quella di chi sarà vittima della mia angoscia) non conta nulla in confronto all'esasperata importanza assunta dalle cose: il denaro per sopravvivere bestialmente, i beni che, per essere considerato qualcuno, dovrò consumare, donne e uomini compresi, che non vedrò come un'immagine rispecchiata di me stesso, così come loro non vedranno sé stessi in me. Queste considerazioni, che si trovano negli appunti giovanili di Marx, distruggono completamente l'analisi (pretesa materialistica) secondo la quale il male del vivere ha ragioni legate al reddito. Non c'è bisogno di ricorrere al facile esempio della cosiddetta depressione, patologia interclassista che colpisce indipendentemente dalle condizioni economiche, è sufficiente constatare che la vita perde sempre più senso man mano che il reddito aumenta storicamente, e non solo quello "nazionale", ma anche quello medio dei proletari che hanno un lavoro.

Patologie autodistruttive o "criminali" esistevano anche in passato e la vita negli slum di Londra o di Manchester, descritti anche da Engels, era senza senso tanto quanto quella di oggi (ma almeno la miseria del minatore non era elevata dai filosofi ad angoscia esistenziale). Il capitalismo non è affatto un malato da guarire, è proprio fatto così, non fa che esasperare a un livello mai visto tutti i caratteri delle società di classe. E li esaspera al massimo perché, a differenza delle società precedenti, è totalizzante. Esso infatti giunge a separare il produttore dal suo prodotto, non semplicemente "di più" di quanto non lo separasse la società degli schiavi o quella dei servi della gleba, bensì completamente. Questo è il motivo della produzione a scala industriale di angoscia esistenziale, di non senso del vivere. Un motivo fisiologico, cioè inerente alla natura di questa società. Dunque è solo a partire dalla suddetta separazione totale che si può comprendere il concetto di alienazione: la chiave psicologica contingentista, così come quella pseudo-materialista, rimane l'interpretazione tipica del medico che vorrebbe la medicina per guarire il malato.

Prendiamo la mancanza di lavoro, con la quale si cerca di spiegare l'intreccio fra le mafie e la popolazione, specie giovanile, nel Sud d'Italia. L'incalcolabile dissipazione umana dovuta a una disoccupazione che giunge in certe aree a superare il 50% non ha nulla a che fare con lo slogan 'a fatica ce stà, ma nun ce 'a vonno dà" (uno dei più cretini che siano mai passati per la testa degli attivisti): la fisiologia del capitalismo ci dice che il lavoro proprio non c'è. Per la semplice ragione che il Capitale moderno, macchinista e razionalista, riduce sempre di più i lavoratori produttivi (anche se, paradossalmente, avrebbe bisogno di sempre più consumatori con reddito). Il disoccupato tende a perdere la sua condizione di lavoratore potenziale e diventare un esubero permanente. Anche in questo caso vediamo due aggettivi che, con l'uso, diventano sostantivi. Non c'è da stupirsi se in un simile serbatoio di disperazione pescano sia i voraci capitalisti del sommerso che i caporali dei circuiti capitalistici alternativi in cerca di manodopera per i loro eserciti (le varie mafie propriamente dette non sono più criminali di quelle del capitalismo ufficiale, come dimostrano fatti recenti e no).

L'umano e il bestiale

È celeberrimo l'aforisma di Marx sul lavoro alienato come paradigma della condizione bestiale degli uomini sotto il capitalismo: il lavoro organizzato è condizione coatta e, nonostante sia l'unico carattere che distingue l'uomo dalla bestia, è visto come una condanna. Nel migliore dei casi è un surrogato della vita, un tormento per "apparire" più che non "essere", un mezzo per poter consumare, spesso una fuga dall'inferno ancora peggiore della famiglia schizofrenica. Così l'uomo si sente uomo quando mangia e beve, si accoppia, dorme (tutte attività che condivide con le bestie), mentre si sente bestia quando lavora (attività che gli è peculiare). Questa inversione fra l'umano e il bestiale non può non avere conseguenze sul fragile organismo biologico strappato dall'unità con la specie, e c'è un bel cercare l'origine genetica del disadattato, del depresso, del teppista da stadio o dell'assassino: siamo tutti "brave persone" fin quando le stimmate di reattività e di violenza che ci sono in ognuno di noi non vengono attivate da una individuale soglia di insopportabilità della vita.

Il rovesciamento sarebbe semplice: ridate all'uomo la sua umanità perduta e lo vedrete rinascere come una specie nuova, più evoluta e intelligente. Ridate all'uomo il lavoro come tempo di vita globale e vedrete esplodere la sua capacità di spezzare la schiavitù nei confronti della forza alienante del Capitale, lo vedrete diventare finalmente libero. Ma non sarà l'umanità perduta di un'età dell'oro, perché la storia è irreversibile. L'uomo non si è "corrotto" rispetto a una leggendaria purezza primordiale; ha imparato invece a "rovesciare la prassi", cioè a progettare, cioè ad anticipare con la mente un risultato futuro, cosa che non ha mai fatto a livello così diffuso in nessuna forma sociale prima del capitalismo. Solo che nel capitalismo lo fa assai male e soprattutto finalizzando ogni progetto alla sola valorizzazione del Capitale. Anzi, con l'autonomizzazione di quest'ultimo dalla società umana, l'uomo si limita ad essere un'appendice della macchina produttiva globale, come l'uomo-batteria di Matrix, da cui le macchine traggono energia per dominare, buttandone i resti nelle fogne quando egli-esso si guasta (impariamo a leggere nella biblioteca dei miti antichi e moderni: oggi Hollywood riproduce la realtà del capitalismo come lo scudo di Achille descritto da Omero riproduceva la realtà micenea).

E allora, se è vero che solo attraverso il lavoro l’uomo si distingue dalle bestie, se solo attraverso la progettazione e modificazione dell’ambiente e della natura che lo circonda egli si mostra uomo, ma tutto ciò nel capitalismo è coatto, esterno, separato, come se ne esce? Non è che questa condizione impedisca all'uomo di averne consapevolezza e quindi gli impedisca di volere il cambiamento? Non si trova l'uomo in un circolo vizioso per cui egli è alienato, e proprio la sua alienazione gli impedisce di rendersene conto? Se il nostro cervello è portato alla lavanderia sociale e connesso con mille fili a un mostruoso sistema che induce una bolsa beatitudine consumistica nella quale l'unico disagio è il non-consumo di cose, un'angoscia guaribile con pillole e carceri, propaganda e "guerre al terrorismo", come farà mai l'uomo a riappropriarsi della propria umanità perduta?

L'uomo si trova nell’impossibilità umana di vivere atomisticamente e socialmente isolato dalla propria comunità, ma vi è costretto, per cui l'unico modello di vita diventa quello della bestia soggetto incapace di avere una relazione umana con il suo simile umano, sacrificati entrambi in cambio di oggetti di soddisfazione immediata, compreso il proprio partner, inteso come oggetto sessuale o strumento di realizzazione sociale.

Ma la "bestia umana", al di là di alcuni caratteri genetici ormai insignificanti, non è connaturata alla nostra specie come una sorta di peccato originale. Per milioni di anni abbiamo vissuto in piccole comunità organiche, raccogliendo ciò che offriva la natura, producendo poco a poco la nostra stessa struttura di specie e quindi procedendo e cambiando verso una situazione futura. La nostra evoluzione è stata non soltanto biologica ma, soprattutto nell'ultima forma sociale, certamente più tecnica e scientifica che biologica (cfr. n+1, Il cervello sociale). Adesso siamo in fase di transizione, non siamo né bestie né uomini, mezze scimmie ancora prigioniere di un passaggio dall'homo habilis all'autentico homo faber, cioè dal primate scheggiatore di sassi all'uomo artefice, all'uomo-industria capace di rovesciare la prassi bestiale e organizzare finalmente la propria esistenza nella e per la natura. Che sarebbe un po' come dire: passaggio all'homo homo (cfr. Desmond Morris e Leroi-Gourhan).

Come definire dunque l'ibrido umanoide di oggi, in moto verso la propria liberazione, nella sua "normalità" produttiva di valore? Come definire le sue azioni "devianti" nei confronti di sé stesso, dei suoi simili e della società intera? Davvero si tratta di schegge individuali impazzite anche se a volte si esprimono collettivamente? Dobbiamo trovare un'invarianza nei vari casi, per quanto diversi tra loro, per vedere se per ipotesi la cosiddetta devianza non sia invece un fenomeno connaturato al cambiamento reale, la forma fenomenica in cui esso si manifesta a questo particolare stadio del trapasso verso una società nuova.

Atti di morte come negata aspirazione alla vita

Il nuovo millennio tanto atteso e strombazzato era in corso da pochi mesi quando un immane spettacolo veniva trasmesso praticamente in diretta a miliardi di persone in tutto il mondo: un commando suicida, si disse, aveva attaccato i simboli del potere economico-militare americano, il World Trade Center e il Pentagono. Forse voleva attaccare anche il simbolo politico, la Casa Bianca ma sembra fosse stato intercettato. Si disse… forse… sembra… Sono in molti a non credere alle versioni ufficiali, e su questo evento alcuni hanno prodotto della controinformazione a livello non banale. Sta di fatto che da allora una macabra guerra a un nemico astratto (il terrorismo, non l'esercito dei terroristi) si trascina senza alcuna possibilità di vittoria militare. Da allora si sgrana un rosario di morti in una macelleria che ha ancora meno senso della normale vita senza senso in questa società capitalistica. Di tale guerra abbiamo già scritto; qui interessa sottolinearne la novità: una generalizzazione mai vista del soldato-suicida-omicida.

Dobbiamo precisare il discorso: il terrorismo (ovviamente nell'accezione corrente, noi ne diamo un'altra definizione) fa enormemente meno morti civili dei bombardamenti "regolari", e i combattenti terroristi muoiono in misura assai minore dei soldati in battaglia. I kamikaze furono ufficialmente 1.228 nel 1944-45 e, fino al 1983, con gli attacchi degli hetzbollah in Libano, non ebbero emulazioni, se non in eventi sporadici. C'è una differenza fra i soldati di un esercito regolare, sia pure immersi in un ambiente che giustifica ideologicamente il sacrificio, e i militanti guerriglieri che lo adottano come arma di lotta: a questi ultimi manca la costrizione, essi decidono individualmente di agire in tal modo. Dall'83 ad oggi il fenomeno si è allargato dal Medio Oriente a quasi tutto il mondo, e sono migliaia i combattenti che hanno cercato e cercano di infliggere danni con tale metodo a coloro che individuano come nemici.

Quel che ci interessa, qui, è l'indifferenza verso la propria vita, offerta in nome di una comunità, non importa di quale tipo. Come il mondo della produzione influenza i caratteri della guerra (decentramento, terziarizzazione, privatizzazione, informatizzazione, ecc.), così la società civile espande i suoi caratteri su di essa, impregnando gli eserciti irregolari di pulsioni autodistruttive. Non crediamo affatto alla leggenda messa in giro dalla disinformazione di stato secondo la quale il suicida-omicida sia semplicemente un fanatico sanguinario, nemico della democrazia. Non facciamo così banali i seguaci delle severe leggi del Profeta. Crediamo piuttosto che l'esercizio del sacrificio di sé e di altri, in questa pratica così apparentemente in contrasto con la guerra tecnologica odierna, sia da mettere in rapporto al generale decadimento dei rapporti sociali. Una reazione non dissimile dalle altre alla negata umanità, alla sottrazione dell'uomo dalla comunità. Le comunità che oggi reagiscono all'invadenza mortifera del Capitale, lo fanno esattamente allo stesso modo di quelle antiche, con sprezzo della propria vita, considerata parte della vita della comunità aggredita da forze esterne. Solo che oggi lo fanno con le stesse armi dell'avversario, si auto-negano diventando molto più simili a lui di quanto non lo fosse un nativo americano quando adottava mustang, Winchester e whisky.

E comunque la più stringente assimilazione-distruzione non è per niente una vittoria del capitalismo, come fu un tempo. Stiamo assistendo alla bancarotta planetaria del sistema. Sarebbe piaciuto ai fomentatori di guerre "atipiche" additare i devianti (in questo caso "islamici") come rappresentanti di una sub-umanità incivile. Invece scopriamo che si tratta dei figli delle borghesie e delle mezze classi emergenti di un mondo che si pone in concorrenza con quello occidentale sul suo stesso terreno. Di fronte alla distruzione dei resti di umanità presenti nelle vecchie società islamiche morenti, i loro rappresentanti già conquistati al capitalismo partecipano alla generale schizofrenia sociale. Devono odiare il denaro e l'usura, ma prosperano su denaro e usura, seppure purificati dall'elemosina. Odiano l'Occidentale materialista e blasfemo, ma ergono nuove città più somiglianti alla demoniaca Las Vegas che alle sante moschee. Diventano così nemici di sé stessi più che di un avversario esterno, esattamente come noi occidentali siamo diventati i principali nemici della nostra umanità.

La statistica ci offre scenari di matematica chiarezza: una madre che ammazza il proprio figlio, un suicida disperato o un cosiddetto kamikaze possono rappresentare una insignificante fluttuazione statistica in una determinata realtà sociale, ma la sestuplicazione dei delitti in famiglia in cinque anni, l'aumento degli omicidi e la comparsa di un fenomeno che porta migliaia di guerriglieri ad immolarsi in tutto il mondo, rappresentano un fenomeno che fa saltare i parametri della normalità. Il grande numero dei suicidi raggiunto (circa 70.000 suicidi all'anno in Europa) non indicano più un fenomeno di normale malessere. E i 250.000 della Cina (lo stesso indice in rapporto agli abitanti) ci mostrano quanto sia reale il legame con l'avanzare del capitalismo, di un comune livello di vita senza senso.

Viviamo in una lunga fase di transizione che prepara la definitiva rottura rivoluzionaria. Essa non può non essere anche una fase di fibrillazione sociale in cui l'individuo implode e la società esplode dando luogo a fenomeni sempre più marcati. Di fronte al futuro che si realizza già adesso in forme che non sono più capitalistiche senza essere ancora comunistiche (cfr. la nostra serie sul "Programma rivoluzionario immediato", comparsa su vari numeri della rivista), tutta la società non può fare a meno di entrare in contraddizione e applicare violenza a sé stessa con atti di morte come manifestazione della vita negata.

D'altra parte: come possono conciliarsi la famiglia mononucleare e radicata localmente con la società aperta e globalizzata; il lavoro salariato con l'espulsione dei salariati dalla produzione; la proprietà privata con la continua espropriazione coatta della proprietà; la potenza del lavoro associato con gli egoismi particolari; la borghesia, che può essere solo nazionale, con il mercato, che può ormai essere solo mondiale; la ricchezza sfrenata con la miseria crescente, la schiavitù della necessità con il già visibile regno della libertà; la comunità illusoria dello scambio secondo valore con la comunità umana reale? Viviamo in un mondo di dicotomie che diventano contraddizione generalizzata, con ripercussioni inevitabili sulle molecole individuali che compongono il tutto. Ed è sbagliato pensare che tutto ciò non abbia implicazioni politiche solo perché esula dal campo abituale della politica.

I sussulti di guerra indeterminata e quotidiana (che potrà benissimo diventare condizione permanente), la collera sociale e la crescita statistica dei fuori di testa che passano per malati da reparto psichiatrico, sono con tutta evidenza sintomi di degenerazione irreversibile dei rapporti sociali. Milioni e milioni di individui, che si vedono precluso ogni accesso alla vita umana, sono posti di fronte a un diktat spietato: dedicarsi anima e corpo a un qualcosa che non è loro, che appartiene ad altri, anzi, a un'astrazione come il Capitale resosi indipendente dagli uomini. Negarsi a questa mostruosità è possibile solo attraverso vie estreme, come sono estremi il suicidio o la ribellione cieca e distruttiva o anche, con un minimo di giustificazione ideologica, il terrorismo dostojevskiano occidentale.

E il negarsi a questa società, anche se in forme non certo consapevoli e quasi sempre trasverse, non è forse una manifestazione del gran corso rivoluzionario attuale? Manifestazione anomala, dati i tempi, forse inutile dal punto di vista del risultato immediato, ma sempre lotta spontanea contro lo stato di cose esistente, se non per la sua abolizione.

Vediamo già i puristi del luogocomunismo marxista-leninista storcere il naso e mettere le mani avanti: non ci verrete mica a dire che è lotta di classe! No, il suicidio non è lotta di classe; né lo sono il sabotaggio luddista o il cosiddetto terrorismo o l'ammazzamento in famiglia. Eppure Marx ed Engels si aspettavano l'accelerazione dello sfascio sociale proprio osservando le manifestazioni spurie che il processo comportava. Una rabbia senza "rivendicazioni", una forza distruttiva senza "proposte positive" che avessero la velleità di sanare una società destinata a crepare. Non è lotta di classe, certamente, ma il suo surrogato quando essa manca: la disintegrazione della società che avviene comunque, sia che imbocchi la via drastica dell'insurrezione, sia che prenda vie secondarie e impieghi tempi lunghi per prepararla meglio. È scomparsa un'URSS senza che fino al giorno prima qualcuno lo sospettasse, tutti concentrati sui grandi parametri economici e politici, completamente disattenti verso i fenomeni, pur visibilissimi, di decomposizione sociale, denunciati persino da un Gorbachev.

Percezione soggettiva e realtà oggettiva

L'individuo omologato nega ovviamente che la sua sia una vita senza senso. Non si pone la retorica domanda "avere o essere". Siccome crede di essere soltanto se ha, egli cerca di avere, con tutte le sue forze, e così uccide sé stesso con le proprie mani anche senza spargimento di sangue: restando semivivo. Milita perciò come uno zombie in un esercito i cui soldati interpretano ogni sussulto di ribellione come un attentato del nemico alla loro esistenza. In questo stato di angoscia è un buon target nella guerra sociale, la cui propaganda gli dice proprio ciò che vuol sentirsi dire.

Ma l'esercito dei morti viventi non può esimersi dal manifestare qualche anomalia nel suo stesso seno. Anzi, più avanza l'omologazione, più sembra prendersi la rivincita qualche forma di devianza che improvvisamente rapisce i normali e li getta nella mischia. Per forza: la vita è nella specie, non nell'individuo, e la specie si riproduce proprio perché gli individui muoiono, anche se è il loro modo di morire che mostra quanto sia in buona salute. Oggi chi muore suicida, ammazzato, o restando a metà strada come il morto-vivente, può solo avere un epitaffio del genere: "Morto perché c'è sempre qualcuno che non sopporta più la vostra civiltà". Come si vede, una bella invarianza che affascia un sacco di gente, la più disparata, comprese migliaia e migliaia di vittime in incidenti che, a detta degli esperti, non sono altro che suicidi od omicidi mascherati e che superano di gran lunga le cifre ufficiali fornite dalla criminologia. La "vostra" civiltà, perché chi mette in gioco la propria vita o sopprime quella altrui sfida l'omologazione, parla già dal di "fuori" della società, è un "terrorista".

I marxisti non hanno mai confuso le forme emotive e le pulsioni viscerali dell'attivista con la passione comunista, fatta anche di istinto e intuizione, ma sempre collegata a un programma. È vero che la spinta elementare, spontanea, accompagna inevitabilmente lo scontro fra capitalisti e proletari nella lotta per la ripartizione del valore, ma diciamo che i comunisti non hanno mai avuto troppa simpatia per i lumpenproletari, per i rappresentanti delle sottoclassi che vivacchiano ai margini della società produttiva, e in fondo neanche per i luddisti. I comunisti detestano più ancora le forme contestatarie sfocianti nel piagnisteo politico, le pulsioni immediatistiche riconducibili a un riformismo urlato (a volte armato), ormai diventate parte del panorama nel capitalismo decadente. Tuttavia – e sottolineano il "tuttavia" – il popolo dell'abisso dà ogni tanto segni di rivolta e il riformismo è costretto ad accodarsi a movimenti di classe. Perciò i comunisti non sono mai indifferenti di fronte ai fenomeni che stanno a monte di questi variegati "tipi" sociali, non raggruppabili in insiemi netti ma solo sfumati, dei quali la società ci presenta un esempio lampante persino nelle due grandi classi, ai cui confini abbondano le figure spurie, come diceva Marx.

Abbiamo visto che un conto è qualche suicida, omicida, terrorista o "deviante" di qualche genere; altro conto è un milione di suicidi, omicidi ecc. ecc. Una cosa è la percezione della vita dall'interno di insiemi sociali e la spiegazione che l'individuo che ne fa parte dà di essi e di sé stesso, altra cosa è osservare una realtà e capirne le determinazioni, la dinamica, soprattutto per quanto riguarda il futuro. Robert Heinlein, un autore di fantascienza, scrisse negli anni '50 un racconto intitolato L'anno del diagramma, nel quale un patito della statistica raccoglieva dati insoliti sulla natura e sul comportamento umano inserendoli in un modello formale. Questo modello portava inevitabilmente a una catastrofe, che infatti si presentava sotto forma di guerra atomica. Dal punto di vista del discorso che stiamo facendo ci pare interessante il tipo di spiegazione che l'autore forniva a proposito dei grandi avvenimenti attesi dal protagonista: egli non badava né all'economia né alla politica ma raccoglieva i dati comportamentali degli individui, di per sé ordinari, molto indicativi però non appena formavano degli aggregati trattabili in modo statistico. Pochi fenomeni presi uno a uno sembravano pura follìa, ma presi tutti insieme dimostravano la marcia collettiva verso la catastrofe. Nessuna volontà umana avrebbe potuto cambiare le determinazioni rivelate dal diagramma, anzi, sarebbe stata la volontà ad adeguarsi e gli uomini avrebbero comunque marciato verso uno sbocco previsto.

La teoria soggiacente alla storia narrata è matematicamente e materialisticamente ineccepibile. Se vediamo la massa degli individui in movimento caotico come le molecole di un gas riscaldato e prescindiamo, com'è doveroso in un modello del genere, da ciò che "pensa" ognuno di essi, è evidente che ci basta il risultato statistico del movimento, come in fisica. E il ragionamento si può impiegare in analogie più profonde che non il movimento dei gas, come fa per esempio John Barrow nel saggio Da zero a infinito parlando dei caratteri della meccanica quantistica:

"Quando affermiamo che una particella si comporta come un'onda, non dobbiamo immaginare un'onda sull'acqua o un'onda sonora. È più appropriato considerarla un'onda di informazione o di probabilità, analoga a un'ondata di criminalità o di isterismo. Infatti, se un'ondata di isterismo percorre una popolazione, lì sarà più probabile imbattersi in un comportamento isterico: similmente, se un'onda elettronica attraversa un laboratorio, ivi sarà maggiore la probabilità di rivelare un elettrone. Nella teoria quantistica vige un determinismo assoluto, ma non a livello di ciò che si osserva o di ciò che si misura", bensì a livello di ciò che avviene realmente.

Nella società succede lo stesso. L'esempio della meccanica subatomica è ancora più calzante di quello riferito alle molecole di un gas, perché nella società, come nella materia, abbiamo un apparente dualismo fra le sue proprietà granulari (ogni individuo è contiguo al suo simile) e quelle ondulatorie (vi è continuità di relazioni fra gli individui entro la specie). In questa società divisa, è ovvio che sorga un conflitto insanabile fra discreto e continuo, fra individuo e specie; ma in natura questo conflitto è assente, non è che una proiezione idealistica dell'osservatore impregnato dei pregiudizi tipici dell'epoca borghese.

È vero che le cose umane si concatenano dialetticamente, e che l'osservazione della realtà è nello stesso tempo azione su di essa. Ma non esiste un "principio d'indeterminazione" che neghi la possibilità d'indagine sulla dinamica sociale, come affermano alcuni. Il comportamento di un individuo ci può senz'altro sfuggire; non ci può però sfuggire la dinamica che ne coinvolge milioni. Può darsi che non si riesca a cogliere il senso di un'azione singola e di tutte le determinanti che influenzano gli eventi successivi, ma l'insieme delle azioni determinate ci permette di ricavare una conoscenza di tipo generale su insiemi di azioni "coerenti", cioè dello stesso tipo. La meccanica delle particelle, dice Barrow,

"nonostante la sua ambiguità, è incredibilmente precisa in ogni sua previsione sui processi che hanno luogo nel mondo atomico".

E subito a noi viene in mente il tormento di Einstein: non è possibile che il mondo atomico e quello visibile a noi siano governati da leggi diverse e incompatibili se in entrambi i casi è possibile un alto grado di predittività, confermato dalla sperimentazione. Insomma, se noi prendiamo a calci un individuo, possiamo avere un'incertezza sul suo comportamento (reagisce con un pugno, scappa, ci insulta, ci denuncia, si ammazza o ci ammazza), ma se ne prendiamo a calci un milione abbiamo con ciò stesso dato luogo a un'onda probabilistica (e ne siamo parte) sulla quale un osservatore esterno è in grado di fare delle considerazioni di tipo formale, mettendo insieme dati su chi e come dà il calcio, su chi e come lo riceve, in quale ambiente si svolge l'azione, e soprattutto quale sia la soglia che fa scattare la reazione rispetto all'adattamento, ecc.. Che cosa è un "osservatore esterno"? Risposta: chiunque abbia la possibilità di analizzare il sistema n ponendosi al livello di un sistema n+1 che lo contenga come premessa (come fece Einstein con Galileo e Newton).

Reazione del primo tipo: l'autodistruzione

"I rapporti fra gli interessi e gli animi, le vere relazioni tra gli individui, sono ancora da creare fra noi dalle fondamenta, e il suicidio è solo uno dei mille sintomi della generale lotta sociale permanentemente in atto, da cui tanti combattenti si ritirano perché sono stanchi di stare fra le vittime, o perché si ribellano all'idea di guadagnarsi un posto d'onore fra i carnefici" (Jacques Peuchet, glossato da Marx in Peuchet: del suicidio).

Le sottolineature sono di Marx. Il lettore tenga presente questo passo quando arriverà ai capitoletti successivi: il suicidio con altri tipi di violenza è solo uno dei mille sintomi della lotta sociale permanente.

Nel marzo del 1966, mentre in tutto il mondo stava montando l'ondata probabilistica di malessere sociale fra le molecole più giovani della nostra specie, gli studenti del liceo Parini di Milano diedero vita a un giornaletto di scuola che fu subito scandalo nazionale. Al di là delle motivazioni "sessuali" per l'immediata censura, il giornaletto fu lo specchio di quel malessere, tanto che una ragazzina intervistata, di fronte alla prospettiva di avere una vita tutta famiglia, casa e lavoro come i suoi genitori, disse categoricamente: "piuttosto mi ammazzo". Sappiamo che effettivamente da allora ad oggi i suicidi sono aumentati, specie fra i giovani (quadruplicati dall'84 a oggi), e che persino il ciclo giovanile "politico" finì in riti di autodistruzione assimilabile a una specie di suicidio collettivo.

Il 2 settembre 1990 fece scalpore un altro tipo di suicidio collettivo originato da quello di tre adolescenti che si uccisero, insieme, con i gas di scarico chiudendosi in un'automobile e lasciando un cartello: "Questa vita non ha prospettive". Nelle due settimane che seguirono, aumentarono i suicidi fra i giovani e ben 14 furono eseguiti con la stessa tecnica.

Un precedente famoso fu l'ondata di suicidi che seguì alla pubblicazione del racconto I dolori del giovane Werther di Goethe nel 1774, tanto che in alcuni paesi l'opera fu proibita. Lo stesso accadde con l'opera di Foscolo Le ultime lettere di Jacopo Ortis. Dopo il suicidio di Marilyn Monroe, la statistica registrò un'impennata autodistruttiva addirittura del 40% in California, la sede di Hollywood. Ora, ci dicono gli esperti, l'effetto di emulazione ha a che fare con la circolazione della notizia, specie oggi che la potenza mediatica non è paragonabile a quella di un romanzo settecentesco, ma ovviamente non è la notizia in sé a provocare i suicidi che fanno variare la statistica: la decisione di auto-sopprimersi è solo il culmine di un processo durante il quale sono vagliate molte prospettive oltre a quella estrema, ed essa scatta quando il ventaglio si riduce. Lo psichiatra Erwin Ringel chiama questo processo "chiusura esistenziale" e ritiene che sia la prima causa di suicidio. Dunque il motivo contingente, l'emulazione, non sarebbe altro che la concentrazione in un periodo breve di ciò che sarebbe successo in uno più lungo. Insomma, succede per l'individuo ciò che succede per molti fenomeni naturali, compresi quelli che interessano la specie umana: l'accumulo graduale, continuo, di condizioni che ad un dato punto esplode in un evento discontinuo. Vale per i palazzi che crollano, per le guerre che scoppiano e per le rivoluzioni che cambiano il mondo.

Chiamiamola singolarità, biforcazione, soglia, fa lo stesso: l'importante è tenere presente che siamo di fronte a una delle leggi di natura e che essa presenta notevoli caratteri di invarianza. Il punto di svolta scatenato dall'accumulo continuo di fatti e situazioni in una storia che lo precede, si manifesta anche con altre forme di autodistruzione: studi americani hanno per esempio dimostrato che vi è una relazione diretta fra l'aumento dei suicidi espliciti e quelli nascosti in incidenti di vario genere, specie quelli che coinvolgono giovani guidatori d'automobile (gli stessi studi prendono addirittura in esame anche gli incidenti aerei, la cui statistica presenta delle ondate e alcuni casi di suicidio esplicito di piloti).

La letteratura specializzata sulla prevenzione sociale del suicidio non è che il prodotto di una fra le tante attività assistenziali in grado di fornire pretesti per ricavarne un reddito o un salario qualsiasi. Ma se la profilassi è fatta di fantasie, la terapia è fatta di chiacchiere e farmaci; è quindi un rimedio che non evita affatto i suicidi ma gli corre dietro, perché essi aumentano in ragione diretta con il cosiddetto benessere che permette l'accesso alle "cure". La diagnosi comunque non può far altro che registrare un invariante: la vita senza senso. L'anamnesi del suicida-tipo, la sua storia clinica, presenta sempre un quadro in cui domina la disintegrazione: della situazione precedente, delle attese, dei rapporti con gli altri, del senso di appartenenza a qualcosa o anche a qualcuno.

L'intera società (compresa l'osannata e nello stesso tempo annientata famiglia) assomiglia sempre più a un magma sconnesso di individui, la cui sola caratteristica sociale è quella di essere gomito a gomito in quanto particelle contigue ma non continue. Sono eliminati i rapporti reciproci che non siano la produzione e il consumo alienati. Perciò nessuno potrà sentirsi parte utile di un tutto e cresceranno le probabilità di prendere atto della propria inutilità, la futilità totale, la solitudine. Non è un caso che il suicidio sia praticato più da giovani e anziani che da appartenenti alle fasce medie di età: il giovane non è ancora utile al Capitale e l'anziano non lo è più (o almeno, lo è solo come tramite di rastrellamento di valore da parte di medici, industrie farmaceutiche, ricoveri, ecc.). Al primo è negata sempre più spesso la sua unica possibilità odierna di vita, quella di produrre e consumare; al secondo è negata la sua funzione millenaria, che nelle società non capitalistiche era quella fondamentale di trasmettere conoscenza, esperienza e capacità di giudizio all'interno di un gruppo organico, umano.

Il novanta per cento dei suicidi soffre di patologie psichiche; il 60 per cento di depressione grave. Seguono la schizofrenia, la psicosi da tossicodipendenza, il disturbo della personalità, alcune forme degenerative neuronali e così via. Vi sono ricercatori, soprattutto americani, che hanno provato ad applicare metodologie apparentemente materialistiche e deterministiche al fenomeno del suicidio, cercando di scoprire se un ventaglio così vasto di patologie potesse essere ridotto a fatti fisiologici. In effetti, analizzando il cervello di soggetti suicidi, hanno osservato che in essi vi erano alterazioni notevoli a livello dei neurotrasmettitori cerebrali, specie la serotonina. Ad una determinata situazione biochimica del cervello sembra dunque corrispondere un determinato comportamento dell'individuo. Anche perché il sistema che produce e utilizza serotonina è legato a fattori genetici, è stabile nel tempo, mentre gli altri sistemi biochimici del cervello, come quello del ciclo noradrenalinico, risentono delle variazioni ambientali.

Tuttavia le sperimentazioni di laboratorio hanno dimostrato che in un cucciolo di primate, privato delle cure materne e sottoposto a stress, si può indurre artificialmente un basso livello di produzione serotoninica, per cui le funzioni noradrenaliniche non sono inibite e scattano l'aggressività e l'istinto di autodistruzione. Se ciò è esatto, sembrerebbe dimostrata sia l'origine genetica di tale istinto, sia la possibilità di interferenza sociale sul determinismo naturale. Perciò il dato sociale, che con la sola teoria genetica sarebbe scacciato dalla porta, rientra prepotentemente dalla finestra. Non è più un'idea ma un dato materiale a conferma dell'invarianza delle leggi di natura che ci permettono l'estensione degli esempi del comportamento individuale al corpo della società.

Secondo l'Organizzazione Mondiale della Sanità, i suicidi sono un milione all'anno in tutto il mondo. In Italia sono mediamente 4.000 e il suicida corrispondente al picco statistico "è maschio, ha oltre i 65 anni, è vedovo, solo e socialmente isolato". Noi siamo quindi convinti che l'esperimento con la scimmia non sia affatto di sostegno alla teoria genetica ma che riproduca esattamente la condizione indotta del suicida-tipo, cui viene tolto il legame con l'attività di specie. Può darsi che il fattore genetico rappresenti una condizione-base per eventi scatenati dall'ambiente, ma non può essere la causa determinante e preponderante del suicidio. Determinante è l'inutilità percepita dall'individuo, quello "solo e socialmente isolato", quello che più di tutti conduce una vita senza senso. Da tener presente che i tentati suicidi sono infinitamente di più ― circa 200.000 all'anno in Italia ― e che solo una parte dei loro autori ha intenzione di "mandare un segnale", molti sono soltanto maldestri e prima o poi ci riprovano.

Ammettiamo, come suggeriscono i ricercatori citati, che vi sia un'interazione fra cause genetiche e cause ambientali. Ribadiamo però che sono queste ultime a far scattare la soglia di attivazione del comportamento. Ci troviamo dunque di fronte a centinaia di milioni di potenziali suicidi in tutto il mondo "attivabili" da tali cause. Per noi, che ci occupiamo di fatti sociali più che di psicologia individuale, è inevitabile un collegamento con gli uomini-bomba che quotidianamente si fanno saltare in aria uccidendo con criteri a volte indecifrabili. Può essere una categoria speciale che non risponde ai soliti principii di invarianza? Se ci sono individui che, in odio a situazioni ambientali, si impiccano in solitudine in un solaio, si mettono a sparare per strada o vanno a schiantarsi con l'automobile senza neppure figurare nelle statistiche, a maggior ragione possono esservene altri che vengono spinti ad azioni di auto-distruzione per una causa sentita, formando un insieme sociale coerente che supera la fatidica soglia ed è in grado di muovere guerra al nemico in modo organizzato.

A questo punto i teorici della cosiddetta guerra al terrorismo ci appaiono in una luce un po' diversa dal solito: essi, come tutto il sistema che tentano di conservare, sono dei solerti "attivatori di soglia", in un certo senso dei terroristi fabbricatori di terrorismo. La guerra in Iraq è la dimostrazione lampante di questo assunto: il terrorismo suicida-omicida in quel paese non esisteva prima della guerra; adesso è endemico ed è parte integrante della guerriglia, anche se il significato di molte azioni ci sfugge, come gli attentati alle moschee con l'orribile massacro di civili inermi. Se gli americani hanno applicato davvero una "teoria della carta moschicida", se cioè hanno predisposto una regione del mondo in cui attirare i terroristi e annientarli – come vantavano di aver fatto immaginando di aver così terminato la guerra – ebbene, essi si sono sbagliati di grosso, come dimostrano proprio alcune loro ricerche militari sul "fenomeno" Iraq e sulle concatenazioni che provocano estesi scontri sociali. E non occorre chissà quale scienziato per capire che la materia prima per plasmare guerriglieri suicidi è inesauribile, lo sterminato numero di persone con problemi di alterazione serotoninica non c'entra: c'entra l'altrettanto o ancor più sterminato numero, statisticamente certo, di situazioni che fanno scattare la soglia distruttiva.

Reazione del secondo tipo: la distruzione dell'altro

Una ricerca all'americana farebbe forse dipendere anche l'esito di una rivoluzione dalle alterazioni a livello dei neurotrasmettitori cerebrali, ma fissiamoci a un fatto certo e dimostrato: di fronte all'indeterminatezza dei motivi scatenanti individuali, vi è l'assoluta determinatezza della stabilità statistica riguardo alla violenza suicida e alle sue ondate d'incremento. In ogni caso, per quanto riguarda gli esiti immediati della vita senza senso (che ne siano o meno responsabili i neuroni, o altre determinanti come concausa), siamo sempre di fronte ad un effetto soglia che scatta quando cause anche minime si accumulano nel tempo. Ciò ha delle implicazioni importanti via via che saliamo i gradini della complessità sociale e passiamo dal singolo individuo a insiemi più numerosi e interconnessi, i quali finiscono per trascendere l'individuo e presentare elementi di organizzazione di più individui o di comunità intere verso un fine, reale o immaginario; cosa che evidentemente supera le pulsioni puramente distruttive.

Ma andiamo con ordine. All'interno del grande insieme "violenza sulla persona", il confine tra la classe "suicidi" e quella "omicidi" è sfumato. Tra le due classi di comportamenti vi è quella abbastanza estesa degli "omicidi-suicidi", non certo prerogativa del jihadismo islamico. Sempre più spesso il suicidio avviene dopo atti omicidi e in molti casi, specie negli Stati Uniti, con un evidente salto dalla sindrome detta "di Werther" a quella che potremmo definire "di Sansone". Le cifre sono significative e in Italia oscillano intorno a una trentina di casi all'anno con circa 1,5 morti per ognuno di essi, con un numero di vittime intorno al 10% di quelle del suicidio individuale. L'ordine di grandezza è mediamente rispettato nei maggiori paesi industrializzati, anche se in quelli anglosassoni è leggermente sopra la media.

Un dato significativo è l'origine sociale dell'omicida-suicida-tipo, che per il 56% appartiene alla classe dei salariati (operai, impiegati, dipendenti pubblici), più o meno la stessa percentuale che questa classe copre sul totale degli occupati: segno evidente del fatto che la vita senza senso coinvolge tutte le classi, anche quelle "privilegiate", le quali non trovano un gran sollievo nel rapporto con il "loro" capitale. Un dato più significativo ancora è che l'omicidio-suicidio avviene per il 75% entro la famiglia, specie tra i parenti più stretti, dimostrando che questa istituzione da secoli non è più la base per relazioni di tipo umano, ma, al contrario, è ormai strumento di disumanizzazione perversa.

Dove la funzione disumanizzante della famiglia si mostra in tutta la sua potenza disintegratrice dei rapporti umani è nelle cifre dell'omicidio: nel 2002 le statistiche italiane hanno registrato per la prima volta un netto sorpasso delle stragi in famiglia rispetto a quelle della criminalità. Su 634 vittime totali, quelle degli eventi "di prossimità" sono state 325 di cui 223 nella famiglia in senso stretto (184 quelle della criminalità). Cresce l'uccisione dei figli, specie dei più piccoli. E quando una specie arriva a uccidere i propri cuccioli vuol dire che è allo stremo, perché uccide il proprio futuro; gli infanticidi in Italia sono in progressione geometrica: furono 12 nel '98, 14 nel '99, 20 nel 2000, 63 nel 2001. Le statistiche non comprendono ovviamente il macabro ricorso al "cassonetto" se non nei casi venuti alla luce, mentre per gli esperti un'accurata indagine sugli "incidenti" ai neonati moltiplicherebbe per diversi fattori il numero ufficiale degli infanticidi.

Dieci anni fa le vittime di omicidi in famiglia erano circa 50 all'anno; nel 2004 sono state 223, perciò la progressione è stata dell'8% all'anno. Anche qui una progressione geometrica che ovviamente non può rimanere costante all'infinito. In ogni caso non regge la teoria del delitto in quanto "disturbo psichico", manifestazione improvvisa di follìa ecc., perché la percentuale di premeditazione dell'omicidio in famiglia è del 60%, dimostrazione palese che vi è, come nel suicidio, lo sbocco violento di un lungo processo di preparazione. D'altra parte neppure la teoria della violenza innata dell'uomo può reggere. Infatti, in condizione di non-civiltà, gli ammazzamenti sono impensabili nella famiglia che è la base biologica di produzione e riproduzione, quasi assenti all'interno della comunità e molto rari fra comunità diverse, spesso più rituali che altro (tant'è vero che quando, più tardi, accadono, come registrato nella tragedia greca, essi danno inizio a una serie maledetta il cui fardello va al di là delle generazioni).

Dimenticato e rimosso l'armonico rapporto dell'uomo con l'altro uomo ― caratteristico di precedenti forme sociali ― abbiamo ormai una tendenza endemica alla distruzione di entrambi. A parte l'autodistruzione, la distruzione dell'altro avviene sia tramite la prevaricazione egoistica, sia, sempre più frequentemente, con l'eliminazione fisica. In ogni caso al fine di far valere un proprio "spazio" in concorrenza con quello altrui, evidente scimmiottamento della realtà economica. Così la vita non solo perde di senso ma anche di "valore", nel doppio significato ideologico ed economico, in significativo parallelo con la crescente svalorizzazione delle merci (compresa la forza-lavoro) dovuta all'automazione dei processi produttivi e alla crescente scala della produzione. Essendo la vita considerata alla stregua degli oggetti di consumo, è appunto consumata come una merce "usa e getta", con la differenza che l'uso corrisponde esattamente al gettare.

Ecco in che modo il rapporto EURES del 2004 descrive, con i limiti del linguaggio burocratico, lo scadimento dei rapporti umani rivelato dalla pratica generalizzata dell'omicidio:

"Dal confronto dei dati emerge una realtà nella quale lo spazio vitale dell'individuo, cioè l’insieme delle relazioni significative, si va gradualmente riducendo, con una progressiva perdita della capacità di discriminare, al di là della prospettiva emotiva e dei comportamenti reattivi individuali, tra ciò che ha realmente senso e valore e ciò che invece ne ha in misura soltanto marginale. I risultati del Rapporto indicano dunque che lo studio dell’omicidio deve oggi maggiormente concentrarsi sulle cosiddette patologie della normalità e, soprattutto, sulle reazioni individuali al disagio, allo stress e alla frustrazione, in una dimensione sociale caratterizzata dall’indebolimento e dalla perdita di ruolo di alcuni tradizionali attori della 'mediazione sociale' (la famiglia e le Istituzioni, ma anche i sindacati e le altre organizzazioni rappresentative)".

Non dice il rapporto che i mediatori hanno già fallito, che ormai nessuna mediazione sociale è più possibile, e che l'impulso alla distruzione sta abbondantemente trascendendo lo "spazio vitale" dell'individuo. Quale mediazione sociale sarà mai possibile fra uomini che non hanno neppure più un linguaggio per comunicare se non quello della violenza, potenziale o cinetica che sia? La civiltà capitalistica sta soffocando sotto i rifiuti del suo proprio metabolismo. C'è troppo di tutto e tutto si consuma troppo in fretta, anche il linguaggio. Ovunque rifiuti metabolici, comprese le industrie nuove di zecca, quando siano costruite solo come paravento alle attività del capitale finanziario. Perciò anche rifiuti ideologici e umani, come la sovrappopolazione relativa che non entrerà mai più in quelle fabbriche, popolazione ridondante che parla ormai con frasi fatte, luoghi comuni, slogan televisivi. L'overdose di comunicazione mediatica si traduce in spaventosa mancanza di comunicazione, e il rapporto dell'uomo con l'altro uomo si fa del tutto impossibile. In un mondo di uomini inutili non è per niente strano che l'omicidio sia visto così spesso come soluzione.

Reazione del terzo tipo: la comunità-contro

Vi sono situazioni in cui l'individuo non rivolge la violenza contro sé stesso o contro altri individui, ma si aggrega in insiemi sociali con varie finalità di tipo collettivo. Che potrebbero essere contro altri insiemi del medesimo tipo o contro enti anonimi, ad esempio lo Stato rappresentato da gruppi di uomini specializzati secondo la divisione sociale del lavoro (poliziotti, magistrati, burocrati). Ma potrebbero anche essere per costituire comunità più o meno permanenti fra individui con aspirazioni comuni. In questo caso i granuli sociali agiscono sempre secondo pulsioni individuali, però entro un campo di polarizzazione che li obbliga a disporsi secondo un determinato ordine spontaneo. Un caso significativo di comunità-contro s'è formato recentemente a Napoli, dove diverse centinaia di cittadini si sono mobilitati in difesa del loro quartiere preso d'assedio dalla polizia per catturare uno scippatore. A riprova di un'estraneità ormai diffusa nelle periferie rispetto a uno Stato visto come nemico, indifferente alle sorti dei suoi sudditi, s'è formata un'organizzazione spontanea. E s'è dimostrata così efficace, contro una forza militare soverchiante e preparata, da evocare presso la stampa una regia della camorra. Invece s'è trattato di scene talmente atipiche, rispetto all'omologazione sociale imperante, che la borghesia non ha neppure potuto pensare a un assaggio di rivolta sociale.

A Napoli è facile adoperare come spauracchio un fenomeno come la camorra. Ma risulta meno agevole inquadrare sotto la generica voce "teppismo", che non ha alcun significato sociale, episodi come quello del 13 giugno scorso a Carcavelos, un grande centro balneare a 15 Km da Lisbona. Che razza di teppismo può essere quello di 500 giovani fra i 12 e i 20 anni, provenienti dalle estreme periferie della città e anche da paesi vicini, che si organizzano per assaltare in massa migliaia di turisti? Il metodo è stato quello della razzia, un'ondata repentina che, partendo dalla stazione ferroviaria, ha coinvolto le strutture turistiche e i bagnanti sparsi sulla spiaggia, spazzando via ogni oggetto di valore che capitasse sotto tiro prima che la polizia potesse intervenire in forze. Il giorno dopo, mentre Carcavelos era assediata tardivamente dalla polizia, ad Algarve, nel Sud del paese, 50 ragazzi davano vita ad una razzia del tutto simile. Curiosamente, nei giorni successivi, una campagna xenofoba accentuava i due fatti sottolineando la maggioranza di immigrati neri e, nello stesso tempo, a protezione del turismo, una disinformazione ufficiale ridimensionava i fatti contraddicendo platealmente i rapporti di polizia e le foto pubblicate (soprattutto su Internet). Da notare che nelle località turistiche portoghesi s'era diffusa una scritta sui muri: turista, sei tu il terrorista, frase incomprensibile se non si pensa che il turismo contemporaneo, di massa o di élite, è visto, da chi non ne beneficia, come un gran distruttore del tessuto sociale di intere regioni, specie dove è un fenomeno recente. L'episodio della razzia organizzata ha fatto scalpore in Portogallo, dove la polizia era impreparata, ma è comune in Brasile, sulle spiagge o durante il carnevale di Rio, dove le "forze dell'ordine" sono tecnicamente addestrate a rispondere con una adeguata brutalità… che non serve assolutamente a nulla, dato che il fenomeno s'accresce invece di diminuire.

Nei casi napoletano e portoghese, come in quelli delle bande che sciamano dalle favelas brasiliane per le loro scorrerie, siamo di fronte ad un salto di livello rispetto al suicidio, all'omicidio e all'ibrido di entrambi. Al posto della sterile, nichilistica distruzione di sé e dell'altro in risposta alla vita senza senso, abbiamo qui la spontanea formazione di una comunità ritenuta alternativa e assai interessante al fine del nostro studio. Si tratta sempre di surrogati di comunità che riproducono il mondo del nemico: ma in confronto al nulla individualistico esistenziale v'è almeno un modello di socializzazione. Nel ribollire dinamico che dà vita a questi microcosmi si generano comportamenti ― e spesso persino linguaggi specifici ― che sono come segni di appartenenza. Sono comunità che si moltiplicano coinvolgendo migliaia di persone in una lotta a volte spasmodica. Una ribellione cieca quanto si vuole, certo non consapevole delle implicazioni, certo non per il nuovo ma solo contro l'esistente, tuttavia manifesta e preoccupante per lo Stato. Scrive ad esempio un lettore di Repubblica al supplemento del sabato di quel giornale, a proposito della violenza negli stadi:

"Coltivo questa passione dall’età dell’adolescenza. Le cariche del reparto celere, le contro-cariche dei tifosi, le armi rudimentali, le bottiglie rotte, le aste delle bandiere, le cinture dei pantaloni, i bidoni utilizzati come arieti, le nuvole di fumo, i lacrimogeni, le sassaiole, gli urli, le scaramucce, i tafferugli e la guerriglia urbana. Amo le dinamiche di questi moti. Le reazioni e i meccanismi che li regolano mi attraggono tutt’oggi come allora. E quanto più ne riconosco l’assurdità e il non-senso, tanto più mi affascinano, vani e disperati come certi gesti eroici […] Sono un ventinovenne nichilista e mi convinco via via più strettamente che quella in cui sto vivendo è una società in putrefazione".

Meccanismi vani e disperati. Infatti il lettore non scrive perché, pur non partecipando direttamente agli scontri, ne è "morbosamente" attratto, né perché considera in putrefazione questa società. Al di là della vena nichilista, gli scontri negli stadi non avrebbero alcun significato se non vi fosse un vuoto sociale da riempire con una ritualità di violenza che ha nella costituzione di una comunità entro la comunità la sola ragione di essere. Se non vi fosse il fascino dell'appartenenza ad essa e del sacrificio per affermarla e difenderla. Se non producesse organizzazione, capi, masse che si muovono, e ovviamente interessi. I lettori ricorderanno la battaglia che provocò la sospensione del derby Roma-Lazio nel marzo 2004: centinaia di feriti, quaranta fra i poliziotti, voci di un bambino ammazzato da una volante: voci che, di fronte alle continue smentite della polizia, proprio per questo sono credute vere da quasi centomila persone in agitazione dentro e fuori lo stadio. L'improvvisa alleanza fra tifoserie avversarie fece gridare a un complotto per accelerare una legge salva-debiti a favore delle squadre in crisi economica. Non c'era di vero né il bambino morto, né il complotto. Come dimostrato dalle inchieste di due giornalisti (Giovanni Valentini e Sandro Provvisionato), semplicemente, di fronte allo Stato presente con la sua forza armata e odiata, centomila tifosi s'erano coalizzati e molti avevano cercato lo scontro. Di vero c'erano di sicuro interessi fortissimi, che a posteriori avevano cercato di sfruttare l'avvenimento, ma sul campo c'erano soprattutto masse polarizzate, una effimera comunità-ultrà contro la minacciosa comunità-altra, quella che rappresentava il potere dello Stato. Di vero c'era, almeno per qualche ora, la paura delle alte sfere della polizia e delle società di calcio che sanno per esperienza (un episodio analogo era avvenuto nel settembre 2003 durante la partita tra Avellino e Napoli) quanto basti un nulla in questi casi per innescare una catena sociale. E c'erano centomila persone in uno spazio ristretto.

Un altro esempio significativo è quello dei "teppisti" di Campo dei Fiori, a Roma. La piazza è celebre, lì fu bruciato Giordano Bruno, lì c'è stato un intervento immobiliare che ha sloggiato parte della popolazione con le solite conseguenze: aumento dei prezzi, turisti, locali alla moda, comitato dei residenti per la "salvaguardia" del quartiere, ecc. Verso la metà dell'aprile scorso, una sera, alcuni ragazzi giocano al pallone, forse provocatoriamente, data la presenza dei tavolini dei bar con bottiglie e bicchieri. La polizia, che presidiava già la piazza, dà l'ordine di smetterla. Cosa che i ragazzi si guardano bene dal fare. Parte un tentativo di carica. Bottiglie e bicchieri diventano proiettili, la polizia chiama rinforzi, la piazza si anima e 400 persone vengono "coinvolte" nello scontro. Infine la piazza viene svuotata a forza. I turisti applaudono, un'ordinanza della prefettura proibisce le bottiglie di vetro nella zona, il comitato dei residenti ringrazia per l'ordine ripristinato. Ma i ragazzi ritornano da allora a provocare, non più con il pallone ma con megafonini cinesi a poco prezzo che vengono regolarmente sequestrati. Lo scontro diventa permanente. Il comitato dei residenti è disperato, la nuova comunità dei ragazzi si diverte sguaiatamente, i poliziotti non sanno più che cosa fare. Non vi è azione da parte loro che possa impedire il rafforzarsi della catena sociale invisibile: se la spezzano essa si ripresenterà inesorabilmente in altre forme, più sguaiate, più antipatiche, più violente, più diffuse, più persistenti che mai.

Torniamo in Campania dove, oltre al ricordato episodio della partita di calcio Avellino-Napoli, ve n'è stato un altro significativo, come la protesta spontanea della popolazione di Ariano Irpino contro la discarica di Difesa Grande. Migliaia di persone sono scese in strada per giorni al solo scopo di tutelare la propria salute, infischiandosene delle etichette, sia quelle di interessati sponsor politici, che avrebbero potuto adottare e non hanno adottato, sia quelle affibbiate dai media (il solito riferimento alle manovre della camorra, la quale c'entra, ma per sfruttare ciò che c'è, più che per crearlo). Infischiandosene soprattutto dell'etichetta politicamente corretta di bravi manifestanti per i propri "diritti", forse per via dell'istinto atavico di chi si sente negare non un "diritto" ma l'aria che respira in quanto comunità, la quale comunità non avrebbe nessuna voglia di farsi imporre l'accumulo di merda capitalistica sotto casa (una recente indagine dimostra che in vicinanza delle discariche i casi di cancro aumentano dal 50 al 100%).

Un fenomeno che anche in questo caso ha evidenziato il formarsi di una comunità-contro che prima, quando i granuli sociali non erano polarizzati, semplicemente non c'era, come sa chiunque abbia partecipato a una riunione di condominio. E ha soprattutto riprodotto lo schema della catena sociale, dato che ha coinvolto parecchie aree della Campania fino a Bagnoli, generando l'identico rifiuto di sottomettere le proprie necessità vitali a logiche produttivistiche ritenute estranee. Qui lo schema era completamente diverso rispetto a quello delle precedenti "lotte proletarie" di Porto Marghera, di Crotone o di Gela, dove la protesta per la salvaguardia della salute, nonostante la combattività degli interessati, era rimasta incanalata negli schemi classici del più "professionale" corporativismo delle istituzioni sindacal-governative. E dove l'impossibile difesa del "posto di lavoro" era passata in primo piano, isolando la protesta nell'ambito dell'ambiente in cui era nata, lasciando in secondo piano il fatto che fosse tossico e letale.

Prima di analizzare la dinamica della catena sociale, vediamo ancora un esempio. Nell'aprile del 2001, in un pub di Bradford, in Gran Bretagna, due individui si scazzottano. L'alterco "privato" innesca subito partigianerie che lo fanno diventare rissa "pubblica". Il locale viene devastato, interviene la polizia. Inizia un lancio di oggetti e poi di bottiglie molotov. Accorrono i soliti "teppisti" da altri quartieri. La polizia manda 130 agenti in tenuta antisommossa. Il locale va a fuoco e viene completamente distrutto. La battaglia si allarga alle strade vicine, poi al quartiere, le automobili in sosta vengono incendiate e i negozi saccheggiati. Si aggregano bande dai connotati etnici e politici (arrivano da altre città gruppi fascistoidi), la guerriglia urbana dura sette giorni, quasi senza sosta; ma anche nei giorni successivi le bande scorrazzano per la città picchiando, incendiando e saccheggiando. Continue battaglie di strada scoppiano per tre mesi. A giugno la polizia della contea rinforza quella locale con 500 agenti, che una notte sono sopraffatti dall'aggregazione improvvisa di 1.000 rivoltosi arrivati da tutto il paese. Gli agenti vengono ancora aumentati di numero, si ricorre all'organico di otto dipartimenti. Poi tutto cessa all'improvviso.

Questo processo di reazione a catena entro un gruppo umano e fra gruppi è riducibile a un modello matematico a sua volta descrivibile in termini discorsivi. Ogni singolo ha nello stesso tempo un impulso individuale e una relazione con l'altro singolo. Si forma una rete di relazioni entro cui un evento può far scattare o meno la soglia di reazione di chi si trova in prossimità dell'evento stesso. Se questa scatta in un singolo, aumenta la probabilità che scatti anche in un altro. Ma se la stessa cosa succede in più singoli, la soglia generale di salita ad un livello superiore si abbassa, perché ogni singolo non ne vede più un solo altro, ma ne vede molti, e quindi di fronte all'evento, che non è più quello iniziale ma lo stesso più una reazione a catena iniziata, la sua stessa reazione cambia. Il modello ci dà informazioni importanti sulla catena sociale: non è detto che un evento faccia scattare una soglia individuale, cioè un nuovo evento, ma una volta iniziata la reazione a catena, non è possibile stabilire dove essa si possa fermare; la catena sociale non produce mai puro caos, produce sempre due campi, ed entro essi un "ordine" che li distingue e li separa in un crescendo conflittuale.

Potremmo continuare i nostri esempi con eventi a scala molto più grande, più lontani nel tempo, come le rivolte di Los Angeles nel 1965 (cfr. L'estate di Watts), quelle di Cleveland e Chicago nel 1966, o quella di nuovo a Los Angeles nel 1992, che si estese a una decina di altre grandi città. Ogni processo sociale di questo genere è riconducibile al modello generale tratteggiato, che si può per esempio trasformare in un programma per computer in grado di visualizzarcene anche graficamente la dinamica. Così la rissa appena ricordata, lo scontro al derby Roma-Lazio o i grandi eventi come quelli di Los Angeles si possono riportare sotto un unico schema.

Ma allora sotto lo stesso schema si può far rientrare anche il comportamento dei singoli che fanno circolare denaro in una rete di relazioni di valore. Questo perché il denaro si aggrega là dove la soglia è rappresentata dalla nota relazione "denaro per più denaro", come quando una banca presta capitali a chi dimostra di essere solvibile, cioè già ne possiede, mentre li nega a chi ne avrebbe bisogno in quanto è senza. Ma allora si possono far rientrare anche le rivoluzioni, compresa quella d'Ottobre.

Il funzionamento di questi modelli è stocastico, cioè regolato da leggi probabilistiche, nel senso che la loro dinamica dipende da variabili introdotte da eventi casuali entro un quadro predefinito. Ciò non significa affatto che siano modelli "indeterministici", cioè che non possano darci delle informazioni sulla natura del sistema che formalizzano. Al contrario, essi possono funzionare soltanto perché si basano su una catena di eventi perfettamente determinati. Essi ci dicono semplicemente che ogni sistema in cui vi siano relazioni a rete, i nodi della quale sono soggetti a scatti causati da un effetto soglia, risponde a una legge matematica generale. Tanto ci basta per affermare: non sempre la dinamica delle reazioni a catena in un sistema evolve fino ad estreme conseguenze, ma sempre un sistema che evolve fino alle estreme conseguenze lo fa secondo la legge della catena sociale.

È utile a questo punto precisare con una definizione il significato di "catena sociale", fin qui dato per intuitivo. Eccola, ricavata sintetizzando ciò che si può trovare nei testi sulla teoria delle reti: catena di eventi che, attivata dal superamento di una determinata soglia, è in grado di coinvolgere a cascata un numero sempre maggiore di individui fino a configurare una specie di reazione atomica sociale. Adesso abbiamo sufficiente materiale per affrontare insiemi di terzo ordine, per studiare cioè il legame fra la vita senza senso e la ricerca di una soluzione, vera o presunta, attraverso la formazione, spontanea o intenzionale, di estesi fenomeni di auto-organizzazione permanente. Si tratta di fenomeni forse poco appariscenti, che compaiono di rado sui media e solo se abbinati a eventi specifici, ma importanti per il loro carattere diffuso e preordinato.

Incontri ravvicinati del terzo tipo: la comunità-surrogato

Il terzo tipo di reazione che consideriamo, collettivo, si scatena a causa delle stesse determinazioni che muovono il suicida o l'omicida individuale. Solo che esso si manifesta per così dire a livello più alto, come un tipico fenomeno da "margine del caos" (fase di transizione tra caos e ordine, se vogliamo prendere a prestito la definizione dei ricercatori nell'ambito dei fenomeni complessi). Si tratta di forzature della normalità entro un sistema che non permette ancora il loro sviluppo estremo, e quindi vengono facilmente riassorbite. Tuttavia esistono, e si moltiplicano. Forme di aggregazione umana che, nello studio di eventi come Watts 1965 o Los Angeles 1992 i sociologi hanno chiamato "rivolta delle classi impossibili", sono molto più diffuse di quanto si creda abitualmente. Nel film Strange Days la storia si svolge sullo sfondo di una latente rivolta sociale al cambio di millennio. Mentre cresce la violenza nelle vie di una Los Angeles in preda al caos, selvaggi attacchi della polizia vanno in crescendo fino alla repressione "militare", con autoblindo e infine carri armati. La trama è solo un pretesto da botteghino con un finale dolciastro in ridicola contraddizione col resto del film (o forse è una voluta provocazione), ma la storia vera è lo sfondo, preso da una realtà da mostrare tale e quale, comprese le comunità-surrogato dei neri, dei discotecari e persino degli sbirri. E la sceneggiatura fa dire chiaramente ai personaggi: qui si deve evitare una rivoluzione.

Siamo già un po' oltre la comunità-contro. Con la stessa sceneggiatura si potrebbe ambientare un film qui da noi. La si potrebbe adattare, ad esempio, a uno studio del SISDE, i servizi segreti nostrani, sugli aggregati di ultrà nel mondo calcistico. Questi aggregati rivelano una struttura a prima vista insospettata, con legami di appartenenza fortissimi in sostituzione della mancata comunità umana. Una struttura molto simile a quelle dei neri d'America, nonostante le grandi differenze storiche. Dove il ghetto territoriale nero, situato in un'area fissa, topograficamente definita, viene sostituito da un ghetto occasionale calcistico, rappresentato dagli stadi e dai percorsi blindati per giungervi.

Secondo lo studio citato, le tifoserie sorte nel dopoguerra avevano, un chiaro connotato di classe e riportavano al loro interno i caratteri che si riscontravano nei rapporti di lavoro e nella vita quotidiana, quando esisteva una vita regolata da istituti appositi:

"L'evolversi della società postindustriale ha profondamente modificato alcuni di questi 'pilastri sociali'. Il progressivo incremento del numero di persone escluse dal mondo del lavoro (soprattutto nel comparto industriale e nel settore giovanile) ha, infatti, ridimensionato la classe dei lavoratori e spinto all'espansione un nuovo gruppo sociale identificabile negli esclusi."

Oggi la famiglia, la parrocchia, la fabbrica, i partiti, i sindacati, cioè i ghetti di ordine superiore che contenevano razionalmente le spinte sociali, secondo il SISDE hanno dunque esaurito la loro funzione. Il lettore noterà che sono le stesse motivazioni che forniscono l'OMS per l'incremento dei suicidi e l'EURES per quello degli omicidi! La disoccupazione e l'isolamento degli esclusi esistevano anche in passato, solo che riflettevano i cicli economici boom-crisi. Adesso sono un fenomeno endemico e quindi nasce un nuovo gruppo sociale, quello degli esclusi per sempre, senza territorio, ma ugualmente in un ghetto fattosi virtuale. Il riflesso di questa realtà nel cervello sociale della piccola borghesia ha subito fatto nascere teorie sugli "inclusi" ed "esclusi", in un'area che definiremmo all'ingrosso, sulla base di loro auto-definizioni, post-fordista e post-operaista: teorie sulla "fine del lavoro", che non partono affatto dalle considerazioni di Marx sulla sovrappopolazione relativa, ma da constatazioni puramente empiriche sull'avvento dell’epoca del lavoro immateriale, con tutto ciò che ne consegue: fine della lotta di classe, moltitudini, imperi e fantasie varie.

Il SISDE, più marxista di costoro, identifica subito un problema di fondo: siccome gli emarginati sociali non hanno più accesso ai pilastri fondamentali della conservazione, non possono che rivelare una carenza di razionalità sociale abbracciando ideologie "fideistiche", con relativo culto del capo, della forza e dell'appartenenza, immedesimandosi con la squadra nel ruolo di "dodicesimo giocatore" e soprattutto con il proprio gruppo visto come comunità finalizzata a una "classifica" non ufficiale, cioè non legata ai risultati della squadra sul campo bensì al vittorioso confronto con gli altri gruppi di ultrà. Le connotazioni politiche superstiti, ereditate dagli anni successivi al '68, non sono altro che vessilli di identificazione, senza più alcun rapporto con i vecchi contenuti. In sostituzione di un programma più o meno razionale si fa strada un fondamentalismo cieco, accompagnato da atteggiamenti "jhadisti" indipendentemente dal contesto.

Per queste ragioni, continua lo studio, la struttura "criminogena" di tali comunità potrebbe portare ad una saldatura più stretta sia con il mondo dell'illegalità classica (droga, rapine, furti), sia con l'altro aspetto della violenza giovanile che è "l'area antagonista sia di destra che di sinistra" (doppia militanza, nel campo ultrà e in quello politico). Come si vede, il modello rimane intatto nonostante le trasformazioni di "ambiente". Si mantengono persino le connotazioni tipiche del suicidio, quando gli ultrà caricano in modo insensato, a mani praticamente nude, la polizia in assetto antisommossa, incuranti della propria incolumità; e dell'omicidio, quando scattano le uccisioni degli avversari (16 morti in vent'anni e una media di 1.200 feriti all'anno negli ultimi cinque). Le selvagge scene di battaglia all'Olimpico in occasione del ricordato derby Roma-Lazio non erano assolutamente diverse da quelle che comparivano nel film della Bigelow. E non erano neppure diverse le motivazioni sociali profonde che ispiravano realtà e finzione. Anche qui siamo un po' oltre la pura e semplice comunità-contro.

Non possiamo ora soffermarci su tutti gli innumerevoli esempi possibili, bisognerebbe scrivere un libro. Siamo costretti a selezionare tracce del rifiuto sociale in campi diversissimi tra loro e a trattarle solo di sfuggita. Quel che è importante è seguire il filo che le unisce: dal negarsi alla comunità attraverso l'eliminazione di sé stessi e dell'altro, fino al negarsi alla comunità collettivamente. Come i ragazzi di Campo de' Fiori (e del Testaccio, e di Trastevere, e di San Lorenzo, ecc.), che si negano alla loro "controparte" rappresentata dal comitato dei residenti, i quali, a loro volta, si negano agli "estranei" chiedendo alla polizia e al Comune di vietare il traffico notturno, di impedire la proliferazione delle birrerie e di recintare in ghetti appositi i giovani dediti agli incontri "da sballo". Come si vede, il discorso stesso ci porta quasi naturalmente a un altro tipo di comunità-surrogato, quella consapevole, organizzata e permanente.

La comunità-surrogato alla scala industriale

Per continuare gli esempi a scala sempre più larga, non più di semplici comunità "contro", ma di vere e proprie microsocietà operanti "per", passiamo negli Stati Uniti, un paese dove la contraddizione fra l'isolamento e il bisogno di comunità alternativa è rintracciabile in una storia straordinaria. La risposta spontanea verso questo obiettivo è rintracciabile a tutti i livelli, dalle ottocentesche gang di New York descritte nel libro di Herbert Asbury (da cui è stato tratto anche un film che ne ha esaltato il concetto di comunità, per quanto deviata) alle innumerevoli sette odierne; dalle ultracombattive società operaie pre-sindacati alle intentional community che raggruppano ormai almeno 60 milioni di americani; dalle comunità ecologistiche tecnologiche a quelle decisamente primitiviste; dalle sette più o meno religiose ai gruppi di scoppiati che semplicemente ne hanno le tasche piene di questa società, e vogliono vivere tranquilli coltivando l’orticello e vivendo estatiche esperienze collettivistiche.

Una società che schiaccia l'individuo in modo così brutale come quella americana non è mai esistita. Perciò essa ha generato, insieme, sia l'individualismo più spinto che la ricerca, spasmodica ma pratica, di una comunità in cui confondersi. D'altro canto gli eredi di coloro che sterminarono gli americani nativi e parte di sé stessi con una violenza inaudita non potevano che far nascere una società civile di altrettanto inaudita violenza. Ma proprio per questo dovevano dar vita, per reazione e su scala industriale, a importanti simulacri di società alternative.

Il problema è sentito. Citiamo di nuovo un film: The Village di Night Shyamalan, in cui la storia è imperniata sul tentativo di fondare una nuova comunità, che ovviamente non tarda a riprodurre, su scala minore, la società che voleva sfuggire. E infatti, essendo chiusa, la comunità si comporta come una famiglia schizofrenica allargata, producendo conflitti insanabili, una vita senza senso con relativa catena di omicidi. Le comunità i cui membri ammiccano sorridenti e giulivi dai siti internet sono un'evidente fuga dalla realtà che le circonda. Rappresentano il trionfo della segregazione in nome della libertà e tuttavia sono un fenomeno così vasto che è necessario capire perché mai nascano e proliferino così massicciamente.

Gli americani chiamano intentional community qualsiasi aggregato umano si raccolga volutamente intorno a un programma, un modo di vivere o un credo religioso. Esse sono considerate intenzionali anche quando nascono in base a necessità contingenti, come nel caso delle co-housing, vita nelle case comuni, liberamente scelta o forzatamente imboccata per avere accesso agli alloggi nelle grandi metropoli, altrimenti irraggiungibili a causa degli alti prezzi e dei bassi redditi per un numero crescente di persone. Secondo il Community Associations Institute la metà dei nuovi contratti d'affitto nelle grandi città americane riguarda comunità intenzionali.

Così, accanto a uno stuolo polverizzato di comunità più o meno comunistiche, quantitativamente poco importanti, ve ne sono di innumerevoli fondate su premesse assolutamente a-ideologiche, dettate unicamente da una ricerca spontanea di aggregazione per risolvere problemi pratici e perciò, a nostro avviso, più importanti anche qualitativamente. Perché la "fuga sanitaria dall'oppressione dello Stato", come osserva un immobiliarista dedito a soddisfare il bisogno di evasione, coinvolge persone che non pensano affatto soluzioni alternative a questa società, ma semplicemente fanno di tutto per trovare una soluzione individuale, dando vita a un fenomeno che finisce per essere ugualmente di massa.

Ci si potrebbe obiettare che siamo di fronte a una pura e semplice proliferazione del "privato" contro il "pubblico", una delle tante manifestazioni di egoismo individuale. La risposta è sì e no allo stesso tempo. Certamente siamo di fronte a un fenomeno di fuga, ma quando la fuga diventa un bisogno vitale vuol dire che c'è anche bisogno di un qualcosa di diverso da questa società. Ovviamente nessuno lo trova all'interno di essa, ma a noi non interessa ciò che frulla per la testa degli individui che si aggregano, non andremmo più lontano del lettino dello psicanalista o delle pagine di un libro di sociologia. Ci preme invece osservare la proliferazione del fenomeno, che ormai ha prodotto negli Stati Uniti 280.000 associazioni, fra i Common Interest Development, le co-housing ufficiali, i villaggi spontanei, ecc. I loro promotori costruiscono, comprano, raggruppano, gestiscono o abitano un totale di 21 milioni di case, nell'illusione di trovare un sollievo al mal di vivere sperimentato altrove. Sono quasi tutte comunità isolate dall'ambiente che le circonda (ne abbiamo visitate un paio in Florida), spesso con barriere fisiche, veri campi di concentramento imbellettati a giardino nel tentativo disperato di tener fuori l'angoscia esistenziale, insieme con i negri, i chicanos e gli schizoidi che negli Stati Uniti sparano così di frequente.

Queste comunità raccolgono da qualche decina a decine di migliaia di abitanti e sono tutte coerenti con un modello assai generalizzabile: hanno un nucleo di servizi e spazi in comune più o meno importante (ristorante, biblioteca, cinema, piscina, ecc.) e una zona privata; il tutto regolato da una legge interna derivata dall'interesse comune che ha mosso l'esigenza di aggregazione. Facciamo qualche esempio.

Arcosanti, Arizona. È una comunità sorta sulla base delle teorie urbanistiche di un architetto italiano (arcology, architettura ecologica); il principio di fondo è pratico: l'eliminazione degli spazi inutili, per esempio quelli per l'automobile, che negli Stati Uniti portano via agli uomini fino al 60% delle aree urbane; la coesione sociale è fondata su basi ecologiste; l'area abitata si sviluppa anche in altezza, prima di tutto per evitare l'isolamento reciproco delle città americane a villette, ma anche per risparmiare ulteriore spazio; le strutture sono infatti progettate per ottimizzare sia la circolazione dell'aria che la comunicazione fra le persone, che abitano a non più di 10 minuti a piedi dal luogo di lavoro (vi è produzione interna di merci e servizi); attualmente ha 500 abitanti, ma il progetto ne prevede 7.000.

Irvine, California. È la più grande, comprende 25 moduli urbani con 75.000 case; ha 200.000 abitanti, tutti appartenenti alle classi medie; essi condividono il progetto di un business park immerso nel verde, con terreni che non verranno mai urbanizzati, e con un tempo medio di 14 minuti per raggiungere il posto di lavoro (vi è produzione interna ed esterna, quest'ultima allocata nella comunità); il collante sociale è a-ideologico limitandosi alla comodità dei servizi centralizzati e al rispetto per il verde.

Sun City, Arizona. È una delle centinaia di città per soli anziani; ha 46.000 abitanti ed è sorta dal nulla su progetto unitario di un solo grande costruttore edile; non ha alcun tipo di produzione interna; gli abitanti si dedicano al tempo libero e a forme di volontariato per l'assistenza reciproca, dato che negli USA chi si ammala senza l'assicurazione privata o più gravemente di quanto questa preveda, è spacciato.

Ave Maria City (avete letto bene), Florida. Per adesso è un cantiere e sarà inaugurata fra qualche anno; il progetto, dovuto a un unico capitalista ex re delle pizze, si basa su di un solo presupposto ideologico: una specie di fondamentalismo cattolico che dovrebbe tener lontano ateismo, aborto, pornografia, droga, materialismo e famiglia disastrata (evidentemente non basta più neanche la comunità ufficiale cristiana); 3.500 famiglie hanno già comprato la loro casa sulla carta (gli abitanti previsti per l'inaugurazione sono 11.000, che dovrebbero diventare 30.000 in dieci anni); sono previsti produzione e servizi interni, più una grande università cattolica privata, sorella di un'altra già fondata a Ypsilanti, Michigan.

E così via. Queste città sono ormai migliaia, grandi e piccole. Sono progettate secondo un piano che in genere prevede un processo di smart growing, cioè di sviluppo intelligente, con parchi, laghi ecc. Non sono affatto enclave per ricchi: siccome sono costruite in zone dove i terreni hanno poco valore, in esse una casa media costa meno di un monolocale a Bologna o a Padova. Si può dire che siano una risposta diversa allo stesso problema che, nelle metropoli, hanno coloro che decidono di associarsi in forme comunitarie di co-housing, lo stesso che hanno, ovunque, coloro che si raggruppano in comunità ideologiche o finalizzate. Non è affatto secondario annotare, a parte le ovvie considerazioni sulla loro essenza capitalistica, che esse sono per la maggior parte la realizzazione spontanea, dovuta a rigetto sociale, dei progetti che hanno costellato la storia del comunismo. In parte ricalcano gli insediamenti proto-urbani delle comunità comunistiche antiche, in parte le città disegnate o realizzate da utopisti come Owen e Fourier, in parte quelle previste a grandi linee da Engels o Bebel per la società futura. Anche quando si tratta di pura e semplice speculazione edilizia, anche quando il gusto americano le fa somigliare più a Disneyland che alle città ideali degli utopisti, esse sono la prova empirica che si possono progettare, non lasciar crescere nel caos spontaneo delle moderne metropoli, le cui propaggini sul territorio sono state giustamente paragonate (ad es. da Levi Strauss) a metastasi cancerogene. Ma, come tutti gli altri esperimenti di comunità, sono anche la prova manifesta che questa società spreca inesorabilmente persino i portati della sua capacità di progetto. Sono isole private, cioè uno specchio della sottrazione – del gruppo invece che dell'individuo – alla comunità umana, che ne risulta negata. Fatte di villette prefabbricate e di grandi edifici per le attività collettive, assomigliano certo a campi di concentramento dorati, come abbiamo detto; ma il fenomeno delle intentional community è ormai diffuso a macchia di leopardo su tutta la superficie degli Stati Uniti, nei deserti come nelle metropoli, per cui è impossibile stabilire quale degli americani sia "prigioniero", quale sia "alieno". Del resto la condizione è assolutamente reciproca: l'uno e l'altro negano la propria umanità al prossimo. E così la negano a sé stessi proprio mentre cercano di affermarla con società che non riescono mai ad essere alternative, ad evitare la vita senza senso.

La comunità-surrogato comunistica

Le comunità intenzionali che più colpiscono l'immaginario sono quelle comunistiche, anche se nell'insieme nascono, come le altre, per risolvere problemi più individuali che sociali. Tuttavia, pur rappresentando un fenomeno quantitativamente secondario rispetto a quelle di massa appena descritte, sono importanti perché dimostrano come una diversa organizzazione del lavoro e delle risorse comuni sia di un'efficienza straordinaria (cfr. Engels, Descrizione delle colonie comunistiche). E questo nonostante la presenza di comportamenti poco razionali dovuti a impedimenti ideologici. Ad esempio, l'anarchismo non aiuta certo la disciplina organica di comunità appena un po' numerose. Ci basiamo su dati degli Stati Uniti, il paese dove il fenomeno è più sviluppato, ma teniamo presente che esso si espande anche nel resto del mondo occidentale. Anzi, per quanto riguarda le comunità urbane, in Europa è un fenomeno di ritorno, dato che quelle moderne, nate in Danimarca verso la fine degli anni '60 e praticamente scomparse, ora stanno formandosi di nuovo, anche in altri paesi, specie in Germania (cfr. La Repubblica, "Tutte le comuni di Berlino").

I dati sulle comunità comunistiche, americane e no, sono vaghi e contraddittori. Estrapolando però dal materiale documentario possiamo fare un confronto. Le persone che vivono nei soli Common Interest Development censiti dalle loro associazioni sono 47 milioni. Altre 10 milioni circa praticano la coabitazione, programmata o di fatto, nelle grandi città o vivono in comunità-villaggio, soprattutto in quelle di origine religiosa. Da 1 a 3 milioni, infine, vivono in comunità comunistiche esplicite, di cui il 40% circa sono urbane e il 70% laiche. Per la maggior parte sono indipendenti, solo una minima parte forma reti omogenee attraverso organismi di coordinamento. La Federation of Egalitarian Communities, ad esempio collega un piccolo numero di comunità rurali e urbane con un programma comunistico che impegna ognuna di esse ad

"avere in comune lavoro, redditi, terra e risorse; assumere la responsabilità per i bisogni dei propri membri distribuendo il prodotto del loro lavoro e gli altri beni in maniera equa a seconda dei bisogni; adottare forme di decisione in cui ogni membro abbia uguale possibilità di partecipare, attraverso il comune consenso o il voto diretto ma sempre secondo il principio di revoca degli incarichi".

Queste nuove comunità americane non assomigliano più a quelle tradizionali di un tempo, le cui origini risalgono in certi casi ad eresie europee del XVI-XVII secolo (Hutteriti, Amish) e che nella quasi totalità furono di carattere religioso. Pochi rami ebbero origine laica, gli Icariani di Cabet (i primi a chiamarsi comunisti), i Fourieristi, gli Oweniani, gli Anarchici. Nessuno di essi sopravvisse con realizzazioni importanti. Oggi le comunità religiose, anche se sono ancora floride, hanno perduto i caratteri originari integrandosi più o meno radicalmente nella società capitalistica, producendo e commerciando; perciò la diffusione delle nuove comunità comunistiche assume un significato particolare, dato che normalmente relegano alla sfera privata individuale sia le credenze religiose che le ideologie di ogni tipo. Individui con diverse origini ideologiche possono dunque trovarsi accomunati senza rivelarle l'uno all'altro, realizzando un'unione basata sulla vita pratica. In genere, infatti, sono comunità del tutto pragmatiche, i loro programmi sintetizzano in poche parole un intento comune e per il resto l'azione quotidiana è tesa a dare risultati concreti. Il più delle volte sono piccole, dieci o venti affiliati, molto raramente più di 100.

Meglio conosciute, perché ritenute più pittoresche dai mezzi d'informazione, sono le comunità rurali, dove la terra viene coltivata più o meno estesamente per l'auto-alimentazione, e il denaro per le necessità comuni è ricavato praticando un po' di artigianato e di micro-industria. Meno visibili ma più importanti dal nostro punto di vista sono quelle metropolitane, dove la messa in comune della casa o delle case (il termine housing ricorda anche l'accoglienza, il rifugio) produce un ambiente più refrattario al passatismo proudhoniano e all'ecologismo di maniera. La maggior parte di esse è localizzata nelle grandi città ed è radicalmente diversa dalle comunità rurali. I loro membri spesso lavorano all'esterno, e quando l'attività è interna quasi sempre è legata a settori, come l'informatica, che permettono il telelavoro o comunque ad attività silenziose che richiedono poco spazio.

Di fronte all'aumento della degradazione sociale e ambientale, al malessere che aggredisce gli uomini, le vecchie comuni hippie, isolate dalla società, erano un surrogato del suicidio, e la beat generation, con le sue pulsioni autodistruttive, ne fu l'anticamera mortuaria. Anche le comuni del dopo Sessantotto, specie quelle tedesche, erano allegre come cimiteri. Le nuove comunità urbane, invece, si radicano nella società "normale" come piante che crescono col crescere degli intoppi individuali. Esse sono molto più efficienti e dirompenti sia di quelle storiche che di quelle nuove, isolate nei deserti e nei boschi. Suggeriscono un'edilizia residenziale apposita, ben diversa dalle casette ballon frame dei pionieri dell'800 (a struttura di legno autoportante, realizzabile da qualsiasi carpentiere, anche inesperto), modello delle comunità rurali. Un'edilizia urbana sulla quale, è ovvio, si butta l'impresa costruttrice che, annusato l'affare, esalta nei suoi dépliant la compattezza e razionalità dei volumi, la condivisione delle risorse in grado di far risparmiare terra e dollari, sottolinea la ritrovata interazione umana, comprese le facilitazioni per i membri svantaggiati della comunità.

Il fatto è che si tratta, per una volta, della verità. Sulla scia della tradizione liberal americana, la pratica della co-housing è una vera e propria militanza provocatoria contro l'omologazione, che non va seguita leggendo i suoi ingenui proclami ma sul campo, guardando alla proliferazione degli esperimenti e al coinvolgimento delle strutture capitalistiche, costrette ad anticipare prove di socialità nuova. Non ha alcuna importanza che si scivoli facilmente in un nuovo tipo di omologazione, questo è scontato se non cambia la società: l'importante è che si dimostri possibile il ridisegno sociale sulla base di rotture clamorose dell'isolamento, della famiglia atomizzata e del suo bozzolo-casa fatto per il consumo.

Un'altra comunità-surrogato, comunistica, sta prendendo piede nel mondo delle reti informatiche, quella dei cosiddetti hacker, virtuale eppure reale, insofferente verso la proprietà e il controllo sulle persone, feroce contro i limiti imposti dalla società del valore, consapevole, anche se un po' autoreferente, delle immense possibilità dell'uomo sociale. Essa richiederebbe un articolo a sé, ma siamo costretti a rimandare.

Insopprimibile necessità di comunismo

Abbiamo visto che, nella sua fase senile, il capitalismo acuisce tutte le sue contraddizioni. Questo modo di produzione ha stravolto le antiche relazioni umane già minate dalla concorrenza tra simili, introdotta fin dalle prime società di classe, estendendo la concorrenza alle industrie, agli Stati e persino all'interno delle classi. E adesso le ha portate a limiti insostenibili. Non solo è stata dimenticata l'armonica cooperazione e il riconoscimento dell’altro come elemento indispensabile alla propria sopravvivenza individuale in quanto uomo, ma si attribuiscono i caratteri capitalistici a tutto quel che capita, come se non fosse mai esistito altro che il capitalismo (esilaranti e grottesche sono certe interpretazioni televisive delle società passate, non solo nei serial popolari ma sempre più spesso anche nelle trasmissioni con pretese scientifiche). Eppure tutta la storia dell'umanità è punteggiata da esperienze comunistiche, chiaro segno di un'aspirazione mai sconfitta nel tempo a dispetto della potenza rinnovata delle società di classe.

Come abbiamo visto, ciò vale anche per l'oggi. Il "bisogno di comunismo" non si manifesta con grandi lotte "eretiche" nei confronti della classe dominante, ma è materialmente più esteso ed economicamente importante. Comunque anche nel passato vi furono alti e bassi. Le eresie dei due secoli dopo il Mille furono quasi esclusivamente comunistiche. In seguito, con lo sviluppo della divisione sociale del lavoro e delle classi, la naturale quanto insopprimibile socialità dell’uomo dovette per forza essere relegata in comparti stagni, che finirono spesso per rappresentare conservazione (chiuse furono per esempio le abbazie, con il loro comunismo del tutto sterile). Tale processo storico non poteva che essere contraddittorio: da una parte movimenti comunistici che si richiamavano al passato, dall'altra una socializzazione crescente della produzione sotto la spinta degli scambi. Perciò nella dinamica dello sviluppo verso il capitalismo la vittoria di quei movimenti avrebbe rappresentato un freno all'avanzare sociale.

Lo stesso vale per i movimenti immaturi, non ancora in grado di impadronirsi della potenza anticipatrice del divenire storico. Non sappiamo quale sarebbe stato lo sviluppo storico della Comune di Parigi nel caso di una sua vittoria, ma essa non fu grande per ciò che diceva di essere o avrebbe potuto costruire sulla base dei suoi programmi non comunisti, bensì per ciò che era stata sul campo, per aver minato le fondamenta della dittatura di classe borghese. Per aver dimostrato che si può fare. L'Ottobre Rosso fu grande per ciò che era e per ciò che diceva, ma dovette soccombere a causa dell'immaturità della situazione russa e dei partiti proletari occidentali. Poi presero il sopravvento le forze della reazione, con la patria "comunista", lo Stato "comunista", la famiglia "comunista", ecc. Oggi i movimenti comunistici provenienti dal passato non contano più nulla e quelli che si manifestano non possono assolutamente essere definiti immaturi. Qualsiasi manifestazione odierna di comunismo, che sia intentional o no, è già manifestazione del futuro che si impone sul presente, una sua anticipazione.

La consapevolezza di una vita senza senso varia ovviamente da individuo a individuo, ma il maturare della situazione produce nel sottosuolo di questa società una moltiplicazione delle talpe invisibili che rodono le sue strutture portanti. Negato per ora da una situazione paludosa l'apporto della genuina lotta di classe, la rivoluzione non si ferma certo per questo: essa avanza dando luogo a fenomeni ibridi fra conservazione e superamento del sistema. È per esempio avanzata con il keynesismo, che in generale fu ed è ancora una medicina potente per il capitalismo senile, ma è anche un indizio di piano sociale, della possibile indifferenza verso la destinazione "legittima" del plusvalore, sottratto con la tassazione progressiva e ridistribuito. Agli antipodi della società, persino il tifoso di calcio – certo un sottoprodotto rispetto all'antico plebeo romano che riusciva ad avere influenza sui demagoghi, ottenendo panem oltre che circenses – fa un micro-passo avanti rispetto al rito di tipo sindacale corporativo e conservatore. Tre milioni di operai in piazza guidati dai sindacati tricolore aiutano effettivamente il sistema, mentre l'ultrà non "rivendica" nulla all'interno di questa società e vede nello Stato un nemico più identificabile che non il suo episodico nemico della curva opposta; o meglio, i gruppi ultrà chiedono cose inerenti a questa società, come la soluzione di problemi legati alle squadre e alle società calcistiche, ma nei loro circoli chiusi, mentre rompono con lo Stato e si coalizzano quando tensioni esterne fanno scattare la soglia di sopportabilità per bisogno di sfogo (vedere l'indagine del SISDE citata). Così, paradossalmente, l'irascibile ultrà menefreghista si avvicina di fatto al proletario del Manifesto, che ha da lavorare per la distruzione del capitalismo piuttosto che rivendicare guarentigie al suo interno.

I proletari scendono naturalmente ancora in piazza, esprimendo un crescente malessere materiale, ma impugnano bandiere conservatrici, e scandiscono slogan fuorvianti suggeriti dai partiti che vogliono i loro voti e dai sindacati che li adoperano per inserirsi sempre più nel sistema. Così lottano, ma sempre meno per sé come classe e sempre più per la difesa degli interessi nazionali e dei valori borghesi (la democrazia, la Costituzione, ecc.) . Fino ad accodarsi alle eterne campagne elettorali, scagliandosi magari contro qualche risibile battilocchio al governo, accecati dalla demagogia di chi addita il personaggio come causa del mal di vivere e della rovina dei proletari e di tutti i cittadini. Ma spesso, in queste stesse manifestazioni, gli operai sono numerosi e combattivi, per niente omologati, e marciano insieme rivelandosi altra cosa rispetto agli organizzatori ufficiali con i loro slogan, come se ritrovassero per un momento la loro umanità, come quando, nel '92, espressero una rabbia incontenibile contro i sindacati che li avevano traditi. Non "classe per sé", dunque, ma classe per il Capitale, tuttavia

Le sedi di quegli stessi sindacati che gli operai seguono secondo direttive conservatrici sono dei luoghi alieni, disertate dagli iscritti ormai da decenni. Esse assomigliano ad uffici pubblici qualsiasi. Le sedi dei partiti idem, tanto che gli iscritti non bastano neppure a pagarne l'affitto. Non c'è più relazione diretta fra il proletariato, i suoi vecchi organismi decaduti e la politica che coinvolge entrambi. Perciò la routine politica è condotta da "cellule depotenziate" di un sistema che ha fatto il suo tempo, assolutamente non in grado di controllare eventuali, autentiche esplosioni sociali. Non sta evidentemente rinascendo ancora nulla che possa sostituire le sopite attività di classe, ma è certo che, come abbiamo visto, aumenta la possibilità di individuare "comportamenti devianti" rispetto alla conservazione pura e semplice del sistema. Ciò avviene, deve avvenire, a tutti i livelli, dalle confuse ribellioni individuali, spesso con esiti tragici, fino a forme distruttive espresse da collettività più o meno stabili. Comportamenti devianti, cioè tendenti ad allontanarsi dall'omologazione capitalistica, sono presenti in gran numero addirittura nel mondo dell'industria, come abbiamo ripetutamente segnalato su questa rivista (cfr. Immaginate una fabbrica e altri articoli). Si tratta di casi sempre più frequenti di organizzazione del lavoro lontana dagli schemi classici legati al binomio Taylor-Ford. Segnali coperti da molto rumore sociale, al limite della decifrabilità per l'occhio che non li cerca, ma ben decodificabili da un detector che sia regolato allo scopo.

Tre milioni di operai in piazza per uno scopo inutile a sé stessi, valgono ai fini di classe come il milione di persone qualunque per il funerale della principessa inglese o i miliardi per l'avvento del millennio o per la santificazione del papa meno santo della storia. Date le premesse, a noi interessa fino a un certo punto che una data manifestazione, operaia, popolare, di piazza o di qualunque altro tipo, sia incanalata sui binari dell'omologazione corrente, oggi lo sono tutte. Quello che ci interessa è piuttosto cogliervi i caratteri di una ritrovata umanità, anche solo per l'occasione. Chiunque abbia partecipato a movimenti in massa di uomini sa bene che vi sono alcune situazioni vivaci come funerali, alcune pagliaccesche come carnevali e altre vibranti di tensione, cariche di potenziale energia. Questa è insopprimibile, come lo sono le contraddizioni del capitalismo, perciò diciamo che è inevitabile la sua trasformazione da potenziale a cinetica.

La formazione della comunità nuova

Siamo partiti da una ricerca di invarianza tra fenomeni apparentemente scollegati uno dall'altro, siamo passati a una carrellata sui fenomeni di fuga distruttiva individuale, e siamo giunti agli eloquenti fenomeni di massa che denunciano un'energia potenziale crescente. Tutti fenomeni che segnalano una tendenza, statisticamente registrata, all'intensificazione. A noi lo ribadiamo, non interessano né la psicologia (del singolo o collettiva) né la sociologia dei gruppi umani, che le discipline apposite portano ad osservare come un turista osserva gli animali allo zoo. A noi interessa il sistema termodinamico che vede aumentare la propria temperatura sociale e quindi la velocità di movimento delle proprie molecole. Ci interessa la potenzialità fisica, non la "spiegazione" ideologica. E non ci importa nulla se scandalizziamo qualcuno quando nel sistema analizziamo alla maniera invariante, come si fa con le molecole, il suicida e l'ultrà da stadio, il proletario in cerca della sua umanità e il guerrigliero che sacrifica intenzionalmente la propria vita per uccidere quanti più "nemici" possibile, il "folle" che spara a caso per la strada e il cittadino qualunque che va con altri milioni al funerale di un papa o di una principessa.

È ovvio che il sistema ribolle e produce caos; meno ovvio, almeno per la maggior parte delle persone, che solo dal caos può scaturire un livello di ordine superiore. Per sua natura, ogni ordine consolidato conserva le sue caratteristiche, da esso non scaturisce niente di nuovo. Come esempio di ordine consolidato prendete una scatola di caratteri componibili in cui qualcuno in precedenza abbia già formato la parola "capitalismo" fissandone i caratteri in qualche modo. Mescolate alla rinfusa il contenuto della scatola e vedrete che si leggerà sempre "capitalismo", mentre il resto dei caratteri avrà una disposizione caotica. Per formare una nuova parola, poniamo "rivoluzione" e negare la vecchia, "capitalismo", si dovrà eliminare quest'ultima e, attingendo al miscuglio caotico di caratteri, formare quella nuova.

La serie delle negazioni fin qui tratteggiata ― suicidio, omicidio, catena sociale, comunità-surrogato ― non può essere terminata senza introdurre, almeno brevemente, quella più potente di tutte, quella cioè operata dalla comunità umana futura necessariamente anticipata in questa società. Dobbiamo perciò chiederci quale possa essere la "politica" dell'uomo giunto alla consapevolezza della vita senza senso, quale possa essere la sua manifestazione organizzata di energia tesa a rifiutare l'esistente conservatore con un lavoro positivo per il nuovo, rivoluzionario. Si tratta di sapere, allora, se le manifestazioni di negazione possono essere rovesciate nel loro contrario, se l'individuo cui è negata l'appartenenza alla specie può riconquistare la propria umanità e per quale via.

Prima del Sessantotto, prima cioè che l'esistente si impadronisse della rabbia giovanile, l'impulso spontaneo delle giovani generazioni fu quello di negare semplicemente questa società: "piuttosto di fare la vita dei miei genitori mi ammazzo", come disse la citata ragazzina del Parini. La soluzione, appunto, non era entro questa società; e quella apparente, "estetica", hippy e floreale, non poteva che essere fagocitata dalla tetra politica gruppuscolare, anche se a Parigi qualche sprazzo di futuro si manifestò in modo più evidente che altrove. Ma il Sessantotto, come tutte le manifestazioni abortite della rivoluzione in corso, fu importante per ciò che poteva essere e non è stato, non per gli aspetti poi diventati leggenda. Infatti, prima di essere un movimento rivendicativo, fu semplicemente negazione, ricerca di una nuova appartenenza, senza però che vi fosse l'oggetto a cui fissarla, cioè la comunità politica, il partito.

Non siamo tra coloro che in questi casi dicono: "la situazione era rivoluzionaria, mancava solo il partito che dirigesse le masse". Quando il partito non c'è vuol dire che la situazione è controrivoluzionaria a tutti gli effetti, nonostante le premesse. Diciamo piuttosto che la rivoluzione non è cieca e che nel Sessantotto ha giocato d'anticipo: non ha permesso che nascesse un partito come copia di quelli delle rivoluzioni passate, democratici, elettoralisti, gerarchici e basati sulla personalità dei capi. L'impossibilità di ritornare indietro non ha coinciso con la possibilità di andare avanti, ma s'è verificata una condizione perfettamente in linea col Marx del '48, commentatore di una rivoluzione che criticava necessariamente sé stessa. In conclusione, del Sessantotto rimane il fatto importantissimo che milioni di persone hanno cercato qualcosa di nuovo, anche se non l'hanno trovato.

Vent'anni dopo, l'ondata del bisogno di cambiamento coinvolse la Cina con la rivolta iniziata a Tienanmen, durante la quale si ripresentarono modalità "parigine", compresa un'estetica politica completamente diversa da quella della cosiddetta rivoluzione culturale dei tempi di Mao. Anche nel movimento cinese ciò che più colpiva era la mancanza di finalità rivendicativa di una lotta che fu più grande rispetto all'importanza attribuitale dalle fonti d'informazione (patologicamente fissate sulle generiche parole d'ordine di democrazia e libertà, che a Tienanmen erano solo l'epifenomeno rispetto alle cause reali del grandioso movimento). E colpiva, proprio per questo, l'estrema brutalità della repressione, del tutto ingiustificata rispetto a presunti pericoli per lo Stato. A meno di non pensare che i governanti cinesi avessero intuito, con più perspicacia dei gazzettieri e dei politici nostrani, che era in gioco qualcosa che andava ben oltre le parole d'ordine urlate e scritte (la violenta repressione incominciò quando gli operai delle fabbriche requisirono autocarri e treni per marciare su Pechino).

Ecco dunque un fatto nuovo: la "politica" del futuro, di cui abbiamo avuto qualche saggio significativo benché per ora non influente, non mette più al centro la "rivendicazione", qualunque essa sia. Il movimento rivendicativo è in via di estinzione, come dimostrano le manifestazioni di massa, di qualunque tipo, che per i partecipanti valgono più per sé stesse che per le motivazioni accampate dagli organizzatori. Lo confermano i raduni oceanici, come quello di Roma, ad esempio, sul ridicolo articolo 18 che non comporta praticamente effetti reali sulla vita degli operai (cfr. Una storia infinita di Articoli 18); o quelli organizzati dalla Chiesa, ai quali partecipano pseudocristiani che sentono più il bisogno di trovarsi in quelle occasioni che non di fare vita da cristiani; o ancora, quelli che si organizzano con gran rumore intorno ai convegni dei "grandi" da Seattle in poi.

La politica del futuro non potrà che passare, necessariamente, attraverso la formazione di una nuova comunità-partito che anticiperà forme della società comunista, in critica a quelle del passato. Questa comunità non rifletterà più i caratteri dei vecchi partiti, che erano un misto fra chiesa, famiglia, parlamento e patria. La lotta per la distruzione dello Stato borghese e per la società nuova assumerà caratteristiche diverse rispetto ― per esempio ― alla Rivoluzione d'Ottobre: Lenin sapeva che in Occidente, al contrario che in Russia, sarebbe stato difficilissimo conquistare il potere, ma facile mantenerlo una volta conquistato. La forma sociale presente innalza una barriera controrivoluzionaria preventiva contro l'anti-forma che emerge con prepotenza e che si imporrà in quanto la sua forza è reale, non ideale.

Abbiamo già delle avvisaglie del percorso appena tratteggiato e non sono che la conferma di quanto già dissero i nostri classici a proposito dell'ingiustizia e dei diritti: all'operaio non viene fatta un'ingiustizia particolare e non gli sono negati particolari diritti; su di lui ricade l'ingiustizia universale e in questa società non ha garanzie; non può far altro che "spezzare le catene", cioè liberare la forma nuova dai legami che non la lasciano sorgere.

Lo Stato capitalistico può "riconoscere" qualsiasi forza sociale, anche muovendole guerra per ricondurla entro i confini del compromesso; ma non potrà mai riconoscere l'anti-forma che emerge senza rivendicare nulla, che semplicemente dà vita a una società nuova e per essa combatte contro il vecchio ambiente. Questa sarà la forza della futura comunità-partito irriducibile al compromesso. L'individuo-molecola trova le connessioni adatte e passa dall'alienazione al senso di appartenenza, si aggrega, si polarizza, si fa organismo nuovo e completo. Il quale diventa per ciò stesso il principale nemico della forma attuale, anzi, l'unico vero nemico. Per questo ad ogni accenno dell'emergere dell'anti-forma compaiono i carri armati, come a Parigi, Tienanmen, Los Angeles, senza contare i tanti altri luoghi sconosciuti che una cronaca distratta cita appena.

Letture consigliate

  • Amadeo Bordiga, Sorda ad alti messaggi la civiltà dei quiz, ora in Chiesa e fede, individuo e ragione, classe e teoria, Quaderni di n+1.
  • Karl Marx, Peuchet: del suicidio, Marx-Engels, in Opere complete, Editori Riuniti, volume IV, 1972.
  • Friedrich Engels, Descrizione delle colonie comunistiche sorte negli ultimi tempi e ancora esistenti, 1845, Marx-Engels, in Opere complete, Editori Riuniti, vol. IV, 1972.
  • Jean-Paul Sartre, L'esistenzialismo è un umanismo, Mursia 1964.
  • Viktor Frankl, La sofferenza di una vita senza senso, psicoterapia per l'uomo d'oggi., Lumann Elle Di Ci 1992.
  • Edgar Lee Masters, Antologia di Spoon River, Einaudi 1993.
  • Desmond Morris, La scimmia nuda, Bompiani 1968.
  • André Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola, Einaudi 1977.
  • "500 Attack Carcavelos Beach", The Resident, Algarve edition, 16 giugno 2005.
  • SISDE (a cura del), "Ultrà fra tifo e violenza", Gnosis, ottobre 2004.
  • R. Heinlein, "L'anno del diagramma", in Le meraviglie del possibile, Einaudi 1961.
  • John Barrow, Da zero a infinito, Mondadori, 2001.
  • Mark Buchanan, Nexus, Mondadori 2003.
  • Mark Granovetter, "Threshold Models of Behavior", The american journal of sociology, n. 6 del 1978.
  • Robert Conot, L'estate di Watts, Rizzoli, 1970.
  • Herbert Ashbury, Le gang di New York, Garzanti 2001.
  • The Economist, "America's new Utopias", 30 agosto 2001.
  • Andrea Tarquini, "Tutte le comuni di Berlino", supplemento Donne di La Repubblica del 21 maggio 2005.
  • Articoli di n+1 richiamati direttamente o indirettamente nei vari capitoli del testo: Il cervello sociale, n. 0; Operaio parziale e piano di produzione, n. 1; Immaginate una fabbrica, n. 2; Il castello del padrone umanista, n. 3; Proletari schiavi o mutanti?, n. 4; Una storia infinita di Articoli 18, n. 7; Fabbriche portatili, n. 9.
  • I film citati: Kathryn Bigelow, Strange Days, USA 1995; Niels Mueller, The assassination, USA 2004; Night Shyamalan, The Village, USA 2004.

Rivista n. 18