Legge della miseria crescente (2)
Schema dell'immiserimento reale
Il processo di immiserimento relativo ha il suo complemento nella diffusione crescente della miseria assoluta. Mentre l'operaio attivo vede crescere il suo salario, ma infinitamente meno di quanto la forza-lavoro venduta in cambio di esso produca in plusvalore, una massa proletarizzata sempre più gigantesca e disperata ingrossa le metropoli e le campagne, non solo nel "Terzo Mondo" ma anche nel primo e nel secondo. Prima della società divisa in classi, il necessario per vivere veniva distribuito fra i membri della comunità e le differenze erano minime, dovute solo ai rituali legati alla necessaria autorità di pochi elementi riconosciuti da tutti e agli effettivi bisogni delle famiglie e degli individui. Anche dopo, nella società antica e in quella feudale lo schiavo e il servo della gleba non erano abbandonati a sé stessi ma facevano parte di un sistema che garantiva la loro sopravvivenza indipendentemente da quanto e se producevano. La fame non era dovuta ovviamente a troppa produzione come adesso ma a scarsità indotta da carestie, guerre, pestilenze.
Il "reddito" non esisteva, dato che le classi soggette ricevevano in natura ciò che era considerato equivalente al lavoro medio di un gruppo (famiglia di schiavi, abitanti di un villaggio). Non c'era salario, né denaro cartaceo, né risparmio che un uomo potesse perdere con l'inflazione o altro. Nei commerci la moneta metallica era usata meno delle compensazioni fra mercanti (lettere di credito e debito) e la tesaurizzazione monetaria, poi bancaria, sorse molto tardi nella storia. Questo tanto per ricordare in breve come società senza il frenetico flusso di valore odierno fossero esenti dal pauperismo sistematico. In esse la maggior parte della popolazione viveva con poco, è vero, ma con tutti i loro limiti non conoscevano la povertà di massa e, per converso, in esse non si poteva neppure immaginare una concentrazione personale della ricchezza paragonabile a quella odierna (cioè del genere di quella ricordata da Sylos Labini).
Sia la liberazione della forza-lavoro che la sua presenza sempre più massiccia sul mercato hanno rotto il rapporto dell'antico produttore con i presupposti della sua produzione. Con la generalizzazione del salario si è generalizzata la condizione estrema delle due classi antagoniste:
"Chi lavora non accumula, e accumula chi non lavora. Non a caso dice il Manifesto descrivendo la crisi: il salario diviene sempre più incerto, più precaria la condizione di vita dell'operaio. Compenso incerto, non più basso, condizione precaria, non più modesta" (Marxismo e miseria).
Due classi: capitalisti che accumulano e salariati che lavorano. Ma ai salariati dobbiamo aggiungere coloro che non percepiscono salario pur senza essere usciti dalla classe proletaria o senza esservi ancora entrati nonostante siano nati e vissuti in essa. Essi non possono vivere del salario che non hanno, né possono avere un reddito proprio o elargito da qualcuno, ad esempio lo Stato. Essi vivono del plusvalore prodotto dai salariati attivi, cui l'insieme dei capitalisti rinuncia tramite lo Stato e che viene ripartito nella società. Il loro "reddito" non va quindi conteggiato nella somma dei salari in quanto detratto dalla somma dei profitti, cioè dalla massa del plusvalore prodotto. Di conseguenza, per calcolare la miseria relativa crescente, occorre raffrontare la massa del plusvalore totale divisa per il numero di capitalisti con la massa dei salari divisa per il numero totale dei proletari produttivi, occupati, disoccupati e in cerca di primo lavoro (tolti gli stipendiati improduttivi). In nessun caso la ripartizione del plusvalore va calcolata nel salario globale. Il plusvalore ripartito nella società fa parte di quelle operazioni a favore dei proletari a fini di ammortizzatore sociale e corruzione di classe, come si diceva al tempo di Lenin. Esse sono state perfezionate con i fascismi e da allora sono parte integrante delle politiche degli Stati.
Non a caso Marx, già nel Manifesto, osserva che uno dei segni della transitorietà del sistema capitalistico sta nel fatto che esso è incapace di dominare stabilmente perché è incapace di assicurare all'operaio i mezzi per vivere persino nei limiti della propria condizione, nel senso che ad un certo punto lo deve nutrire invece di esserne nutrita. Possiamo adesso tracciare uno schema sommario tratto dalle pagine del Capitale dove sarebbe evidenziato "il più grande errore" di Marx:
Fasi del modo di produzione capitalistico | Proletari, salari e profitti | Legge della popolazione |
---|---|---|
Fase ascendente (passaggio dalla manifattura all'industria). | Aumenta grandemente il numero dei salariati produttivi, aumenta la massa salariale, aumentano i profitti. | Esercito industriale attivo, esercito industriale di riserva ridotto, preminenza della sovrappopolazione fluttuante* e latente**. |
Fase di consolidamento (concentrazione dell'industria). | Aumenta il numero dei salariati produttivi, aumenta ilnnumero degli improduttivi, aumenta la massa salariale, aumentano i profitti. | Esercito industriale attivo, esercito industriale di riserva crescente, sovrappopolazione fluttuante*. Preminenza di quella latente**. |
Diminuisce il numero dei salariati produttivi, aumenta grandemente la produttività, aumenta il numero dei salariati improduttivi, staziona la massa salariale, giganteggiano i profitti. | Esercito industriale attivo, esercito industriale di riserva crescente, preminenza della sovrappopolazione stagnante o consolidata***. |
* Sovrappopolazione fluttuante: movimento entro il ciclo
produttivo (espulsione e riassorbimento alternati secondo le crisi ricorrenti),
presente in ogni fase del capitalismo.
** Sovrappopolazione latente: movimento potenziale verso il
ciclo produttivo (un tempo riguardante i contadini e gli artigiani, oggi gli
studenti e gli immigrati).
*** Sovrappopolazione stagnante o consolidata: movimento
entro il ciclo produttivo ma al di fuori dei parametri che lo regolano (un tempo
riguardante i lavoratori irregolari, ad esempio quelli a domicilio e i loro
subordinati; oggi soprattutto i precari, gli "atipici di ogni genere, gli
immigrati irregolari, ecc.).
Un approccio politico-discorsivo
Nell'ottobre del 2002 Paul Krugman, un economista americano, scrisse sul New York Times un articolo ("For Richer") che sollevò un gran rumore mediatico: in esso si dimostrava, cifre alla mano, che i ricchi diventavano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri; che i più ricchi non erano più i possidenti ma chi maneggiava capitali e che tra i poveri era caduto anche chi aveva un reddito stabile da lavoro (figura 3). Ciò che fece veramente scalpore, però, non fu solo questo dato di fatto, ormai confutato solo per ragioni ideologiche ma ricavabile dalle tabelle di qualsiasi bilancio nazionale; fu soprattutto l'affermazione che negli Stati Uniti era scomparsa la classe media. Entrò in agitazione precisamente quella che credeva di essere classe media, credenza condivisa dagli economisti che la chiamavano così. In realtà la piccola borghesia americana è uguale a quella di tutti gli altri paesi industriali e l'elefantiaca middle class del mito non è mai esistita. Per una stupida convenzione gli americani hanno sempre designato con quel termine non una effettiva classe sociale ma una fascia di reddito, entro la quale per decenni s'è comodamente adagiata anche una parte considerevole del proletariato americano, gran consumatore, anche se indebitato fino al collo. Qui non ci interessa analizzare il pur interessante articolo dell'economista: ci basta sapere che egli ha trattato i numeri per quello che sono, beccando in castagna i suoi colleghi abituati a barare sulle statistiche (cita anche alcuni casi di spocchiosa malafede). Non è l'unico. Nel 1979 John Kenneth Galbraith, altro economista americano, pubblicò un libro intitolato La natura della povertà di massa, in cui analizzava discorsivamente il problema e consigliava i rimedi. Anche in questo caso, già dal titolo, abbiamo una conferma che il problema esiste ed è enorme. Galbraith sembra agnostico sul problema del socialismo e cita altri autori per sostenere che dove imperversa la povertà prima di tutto ci vuole il capitalismo perché "essere sfruttati è una disgrazia, ma non esserlo è peggio ancora". Egli considera la povertà di massa un fenomeno da capitalismo arretrato o da assenza di capitalismo e sarebbe curioso sapere che cosa avrebbe detto leggendo articoli come quello di Krugman. Non che Galbraith credesse che il capitalismo fosse rose e fiori, tutt'altro, ma l'affermazione appena riportata è importante: la povertà di massa sarebbe effetto di mancato capitalismo, insufficiente mercato, rapporti di scambio ingiusti o distorti.
Tutto il contrario di ciò che ci mostra la legge marxiana della miseria crescente. Persino Krugman è costretto a ricordare che la riduzione del saggio di sfruttamento dovuta al New Deal (incremento dei lavori pubblici e protezione sociale) ha avuto come conseguenza una riduzione della miseria-sovrappopolazione relativa, la riduzione degli estremi di reddito e la crescita della cosiddetta middle class americana. E attribuisce il disastro sociale post-reaganiano, cioè la povertà crescente, ad una feroce classe borghese ritornata alla fase pre-keynesiana, che paga poco i lavoratori mentre distribuisce ai capitalisti e ai manager profitti e redditi astronomici. Se leggiamo i dati con il nostro metodo, vediamo che non è tanto la "cattiveria" dei capitalisti e dei manager a schiacciare il proletariato e a far sparire le fasce intermedie di reddito quanto il Capitale impersonale (finanziario, azionario, speculativo), che mette semplicemente in evidenza la "legge assoluta dell'accumulazione". Comunque Krugman tra le righe ci dice anche di più, e non ci importa quanto inconsapevolmente rispetto a quel che ci interessa: fu grazie alla guerra e alla ricostruzione che il mondo sviluppato conobbe trent'anni di accumulazione, che si produsse un boom economico senza il bisogno di troppa sovrappopolazione relativa, con una conseguente maggiore distribuzione sociale del valore prodotto.
Anche Galbraith non può fare a meno di ricorrere alla legge della popolazione-miseria crescente: nel descrivere la rottura dell'equilibrio della povertà, utilizza il paradigma dell'agricoltura e del doppio effetto degli aiuti, cioè il miglioramento della resa agricola (produttività) e la conseguente liberazione di contadini dal legame con la terra, quindi l'emigrazione interna o esterna. Sia Krugman che Galbraith non formalizzano le loro asserzioni; essi sono (o sono stati, Galbraith è morto) economisti "giornalistici", come diversi loro colleghi. Questo tipo di economista saprà senz'altro utilizzare i sofisticati mezzi d'indagine matematica, statistica, computeristica, ma evidentemente preferisce trarre conclusioni "discorsive" per farsi capire. Egli allinea i fatti che ha recepito per via induttiva dalla realtà e ne deduce teorie, ne ricerca leggi, come tutti. Solo che i suoi risultati sono infine esposti come dei ragionevoli discorsi che conducono a proposte a prima vista impregnate di sano buon senso. Se però formalizziamo gli assunti centrali secondo schemi numerici, troviamo sempre che le proposte non corrispondono alle possibili soluzioni del problema che si vorrebbe risolvere (vedremo che l'introduzione di modelli formali computerizzati porterà gli esperti di sistemi complessi ad accorgersi della contraddizione).
Galbraith, ad esempio, critica in modo molto convincente alcune teorie della miseria basate su fatti apparentemente oggettivi come la povertà "naturale" di certe aree, la mancanza di risorse ecc., ma poi cade anch'egli nella trappola degli appelli alla buona volontà dei governi, frasi senza alcun contenuto empirico e quindi pura aria fritta. Ciò non gli impedisce di affermare che queste teorie della miseria, esposte dai loro autori con seriosità "a tutti i livelli di finezza professionale", sono solo sciocchezze che è possibile demolire con una semplice critica empirica: il Giappone è poverissimo di risorse naturali ma è un paese ricchissimo; la Virginia, negli USA, è uno Stato con notevoli risorse, miniere, foreste, energia idrica, ma è al quint'ultimo posto nella classifica del reddito americano; Singapore e Hong Kong non hanno neppure terra sufficiente per i propri abitanti, ma sono floridi avamposti capitalistici in Asia; il Connecticut ha suolo povero, risorse scarse, industria mineraria esaurita, ma è al primo posto nel reddito americano. C'è evidentemente qualcosa che non va, e al lettore sembra persino strano che a questi luminari dell'economia possano essere venute in mente.
Stesso discorso si può fare a proposito delle teorie che ricercano la causa della miseria nel sistema politico adottato dai vari paesi, o nella mancanza di capitali per lo sviluppo, o nelle predisposizioni etniche, o nel clima, o nell'eredità coloniale, o nell'ingiustizia dello "scambio ineguale" con i paesi ricchi, o in combinazioni di tutti questi presunti fattori. E qui Galbraith ha buon gioco a elencare nuovamente prove empiriche a dimostrazione contraria, mostrando che spesso si scambia la causa con l'effetto e viceversa, che alla fine "della povertà non abbiamo spiegazioni; o più precisamente abbiamo una pletora di spiegazioni, nelle quali la cosa che si nota di più è ciò che non si riesce a spiegare".
Ma, inesorabile, viene anche per Galbraith l'ora di spiegare nel suo libro dal titolo così promettente, che cosa sia la povertà di massa. Per quanto sembri incredibile, la spiegazione non c'è. C'è, al suo posto, un balbettìo confuso su un circolo vizioso che porterebbe all'adattamento delle popolazioni alla miseria, ed esse non avrebbero così la forza di rompere il perverso equilibrio per "fuggire" da quella realtà. Sarebbe infine possibile introdurre elementi di rottura dall'esterno, ad opera dei paesi ricchi, che dovrebbero intanto accettare l'immigrazione come sintomo di fuga e poi, naturalmente, aprire la borsa per lo sviluppo locale, per l'istruzione ecc. ecc.
Nell'articolo di Krugman il lettore fa la stessa fine: arriva in fondo senza aver scoperto le cause della povertà così ben descritta e deve accontentarsi di un pistolotto sulla politica dei conservatori, come se i progressisti avessero invece la soluzione sociale a portata di mano. Due esempi sono sufficienti per passare velocemente ad un altro approccio alla realtà economica.
Un approccio analitico-matematico
Si fa indubbiamente un passo avanti quando si passa dalla semplice analisi descrittiva di un sistema economico all'analisi tramite la formalizzazione − in genere matematica − dei suoi meccanismi interni. Esamineremo ora alcuni modelli di simulazione della realtà che furono precursori delle attuali tecniche di previsione economica, anche se gli economisti d'oggi sono poco propensi a riconoscerne la validità. Anticipiamo che in questo passaggio e nei successivi non troveremo una teoria della popolazione diversa da quella malthusiana, e neppure un tentativo consapevole di scoprire quali siano le leggi che regolano un sistema apportatore di miseria relativa e assoluta a scala planetaria. Per adesso le ricerche sulla povertà hanno fornito soltanto prove empiriche, anche se, come vedremo nella seconda parte di questo lavoro, vi sono tentativi che dimostrano (volutamente o meno) come la miseria sia implicita nel sistema: si sa che esso la produce e che ne produrrà ancora di più. E vengono forniti i dati passati e presenti proiettati nel futuro. Nonostante tutto, si tratta già di una capitolazione importante di fronte al marxismo, che confuta di per sé la smaccata difesa del sistema basata sulla negazione del cambiamento sociale (per noi sinonimo di comunismo). Ma i decenni passano e gli autori che hanno previsto − empiricamente o teoreticamente − il peggioramento della situazione possono soltanto dire: avevamo ragione. Niente di più è successo: i governi sono rimasti sordi agli appelli, il collasso del sistema non c'è stato, nuovi giganti economici come la Cina e l'India si sono presentati sulla scena e la miseria continua a crescere con la popolazione. Eppure si sono fatti passi avanti nella simulazione della realtà e ci sarebbero ormai tutte le possibilità di trarre dai modelli indicazioni assai meno generiche degli appelli alla buona volontà degli uomini e dei loro governi. Per capire come sia stata possibile la capitolazione borghese di fronte al marxismo occorre fare un passo indietro nel tempo, fino alle origini dei modelli formali.
Tra la fine dell'800 e l'inizio del '900 alcuni economisti sentirono la necessità di elevare la ricerca in economia dal livello discorsivo ed empirico alla dignità matematica. In particolare si cercò di rappresentare con equazioni le grandezze tratte dal sistema economico e dai suoi movimenti interni (scambi, prezzi, redditi, salari, ecc.). I maggiori esponenti di questa corrente furono Léon Walras e Vilfredo Pareto, entrambi ingegneri passati alla disciplina economica, il secondo successore del primo come docente all'università di Losanna (ricordiamo queste invasioni nel campo economico da parte di altre discipline per i capitoletti successivi, quando vedremo ripetersi il fenomeno in epoca attuale). Walras escogitò un modello matematico di equilibrio generale in un sistema economico rappresentato da equazioni simultanee (non ancora dinamico come quelli per computer un secolo dopo, vale a dire senza le retroazioni che lo rendono non-lineare). Su quella base, Pareto cercò di formalizzare il rapporto sociale in economia (fu anche sociologo di fama) gettando a sua volta le basi moderne di quella che sarà poi chiamata "economia del welfare". Il suo programma era ambizioso: trasformare l'economia da non-scienza a scienza esatta, al pari della fisica newtoniana. Basandosi sulle categorie capitalistiche ciò non era possibile, tuttavia in tale contesto formulò varie teorie e leggi, tra cui quella che ancora oggi è chiamata "legge di Pareto", secondo la quale in ogni paese, indipendentemente dal suo governo e dal suo sviluppo, il reddito personale è distribuito secondo una curva che vede addensati i redditi bassi e diradati i redditi alti. In pratica pochi ricchi e tanti poveri, con la concentrazione massima intorno alla media, ovviamente bassa rispetto ai pochi massimi.
Si tratta di una variante della curva "a campana" di Gauss, che descrive la distribuzione statistica di elementi variabili in un dato insieme omogeneo, per esempio la misura, entro certe tolleranze, di pezzi meccanici dello stesso tipo, la statura o il peso degli esseri umani, il numero di semi in una spiga, ecc. Una rappresentazione grafica renderà evidente che tutte le curve di distribuzione statistica sono varianti della curva di Gauss, basta immaginare un sufficiente numero di casi per cui, passando dall'uno all'altro, l'andamento della curva cambia gradualmente fino ad assumere forme in apparenza molto diverse. Nel grafico-tipo di figura 4 la curva "a campana" regolare mostra la distribuzione statistica di grandezze riferite a un qualsiasi insieme: ad esempio vi saranno pochissime persone alte due metri e pochissime all'estremo opposto, mentre la maggior parte delle persone si ammassa nell'area della statura media. Nel grafico di figura 5 è illustrata la curva di Pareto; essa ricalca l'andamento reale del reddito così come evidenziato dai dati empirici: risulta ancora un ammassamento nelle fasce intermedie, anche se sbilanciato verso i bassi redditi; la curva esponenziale sovrapposta è quella, teorica, che si otterrebbe in un sistema lasciato a sé stesso, senza correttivi per la distribuzione del reddito (tassazione e ammortizzatori sociali): la massa gettata nella miseria si confronta con una esigua élite dal reddito altissimo e scompare quella che Krugman definisce "classe media". È da notare che lo stesso Pareto ammise l'erroneità della sua "legge", dato che nel corso degli anni i dati empirici avevano già dimostrato la tendenza della "paretiana" a spostarsi verso la forma esponenziale.
Vedremo nei capitoli successivi che la curva esponenziale risponde a leggi precise e che nei sistemi dinamici reali è in effetti alla base di importanti fenomeni della natura, fra i quali vi è l'inevitabile miseria crescente individuata da Marx con altro metodo (la società umana, per quanto "artificiale", è pur sempre parte della natura). Anche se questi modelli sono ancora completamente legati all'ideologia dominante, e perciò piena espressione del capitalismo, siamo comunque di fronte a importanti tentativi di formalizzare la realtà, ed essi sono in grado di permettere un salto verso un livello di ordine superiore. Ovviamente nessun modello costruito secondo un criterio di equilibrio può dare risposte sul cambiamento sociale, quindi serve soltanto per conoscere e riformare la realtà presente, non certo per rovesciarla. Dal più perfetto modello matematico del mondo, se si inseriscono dati riguardanti il capitalismo così com'è, senza tener conto di una dinamica in grado di farlo scattare in una società completamente nuova, si otterranno solo risposte sul capitalismo. Infatti, nelle storiche tesi del nostro movimento è registrata l'impotenza sociale delle formalizzazioni basate su parametri capitalistici:
"Non si tratta di trovare un modello di Stato futuro in lineamenti costituzionali od organizzativi… e ugualmente vana sarebbe l'idea di fabbricare un modello di partito perfetto, idea che risente delle debolezze decadenti della borghesia la quale, impotente nella difesa del suo sistema economico… e del dominio ideologico, si rifugia in deformi tecnologismi da robot per ottenere in questi stupidi modelli formali automatici una sua sopravvivenza" (Tesi di Napoli, 1965).
Nel passo, importantissimo, si parla di partito, ma è evidente che il discorso è universale: l'organo rivoluzionario, come la società futura, non è assolutamente descrivibile attraverso modelli che attingano dalle categorie presenti. È un assioma della nostra corrente che i caratteri di entrambi si possono trarre soltanto dalla dinamica che porta alla società futura. Per questo il partito deve esserne l'anticipazione, nel suo programma, nel suo agire e nella sua struttura. Ma anche il capitalismo non è descrivibile attraverso sé stesso, per farlo occorre spingersi alla forma sociale successiva (n+1), prodotto inevitabile e conosciuto del succedersi dell’insieme delle vecchie forme sociali, la sola che abbia in sé la spiegazione di tutte quelle precedenti. Tra l'altro le Tesi di Napoli furono scritte in un periodo anteriore allo sviluppo dei modelli computerizzati, proprio nel momento in cui si rendeva evidentissimo l'insuccesso di ogni tentativo volto a studiare l'economia dal punto di vista formale-matematico. La cosiddetta econometria (portare la misura numerica in economia) aveva rappresentato un fallimento così catastrofico che all'inizio degli anni '70 la maggior parte degli economisti proponevano di accogliere l'invito scherzoso di Siro Lombardini e ritornare alla buona nasometria di una volta.
Ma neanche l'andare a naso aveva dato risultati migliori. La ricerca sul modo di astrarre e formalizzare i meccanismi dell'economia politica non si fermò e nacquero i primi modelli dinamici di cui abbiamo già parlato, i quali sfociarono a loro volta in ulteriori modelli, questa volta strutturati con i metodi utilizzati nelle scienze fisiche. Come vedremo, si tratta di modelli completamente diversi da quelli econometrici. Pur se nati sempre per capire e migliorare la società borghese attraverso le categorie borghesi, sarà possibile intravedere in essi segni della rivoluzione che avanza nonostante il capitalismo e la borghesia. Ci sono dei critici nei confronti di questa impostazione: essi affermano che la borghesia non può andare oltre ai "deformi tecnologismi da robot" e che tutto ciò che è borghese va rigettato. Questa non è solo una mezza verità: è una cretinata, specie se notiamo che è formulata da chi ogni giorno va in automobile, manda i figli a scuola dalla borghesia, si piazza davanti al televisore e produce per i borghesi in cambio di salario. Come se il capitalismo non fosse la base per il comunismo. Le potenti formalizzazioni pubblicate dal nostro movimento, lo stesso cui dobbiamo la citazione appena riportata, dimostrano in abbondanza che il movimento reale obbliga la società a marciare verso il futuro. Com'è scritto nel Manifesto, la borghesia non può fare a meno di rivoluzionare in permanenza i rapporti di produzione e di scambio, e questo vorrà pur dire qualcosa. Infatti è la borghesia che capitola di fronte al marxismo, non viceversa (a dispetto di come capitolano continuamente i "marxisti").
Questa piccola escursione storico-matematica era necessaria per introdurre il lettore ai capitoli successivi, dove esamineremo il passaggio a diversi modelli dinamici che, interrogati, si mostrano tutti inesorabilmente impossibilitati nel dare risposte rassicuranti sul futuro della civiltà borghese.
Un approccio teorico-empirico con i modelli dinamici
A partire dal 1970, di fronte all'evidenza che la crescita non può essere infinita, l'incontro fra l'approccio politico-discorsivo e i nascenti modelli dinamici al computer (Jay Forrester e altri) diedero luogo al fenomeno umanistico-ecologico che si concretizzò nei rapporti su I limiti dello sviluppo, commissionati dal Club di Roma al Massachusetts Institute of Technology. Diciamo che questo esperimento fu un ibrido fra il "discorso" e la "formalizzazione" in quanto, per la prima volta, furono immessi nel computer i dati reali dell'economia così come notati da Krugman e Galbraith, e − senza una teoria preventiva se non quella dell'analisi dei sistemi valida universalmente e non solo per lo sviluppo economico − fatti interagire per vedere che cosa sarebbe successo. Dai risultati si sarebbero tratte indicazioni per i governanti responsabili delle scelte in economia, ecc.
Il metodo fu assai criticato, a dire il vero più dal punto di vista politico che non da quello scientifico, dagli stessi borghesi. Anche noi abbiamo avuto qualcosa da dire su di un metodo che ricavava una teoria postuma dai risultati dell'elaborazione dei dati (cfr. La borghesia interpella il suo oroscopo e Invano il capitalismo s'interroga sul futuro della propria economia), ma in questo momento ci preme altro: si trattava di un modello empirico (Mondo3), basato su di un diagramma di flusso delle interazioni fra nodi dell'economia mondiale, che non poteva ricavare teorie sullo stato presente e futuro del mondo, ma che riusciva comunque a fotografarlo nettamente, così come ha fatto Krugman nel suo articolo sulla miseria crescente degli americani. Non metteva in discussione direttamente il capitalismo, ma gli dava un oggettivo colpo mortale in quanto stabiliva che esso non poteva crescere oltre un certo limite. E il limite era dato dagli effetti congiunti di tre fattori principali: 1) l'aumento della popolazione; 2) la diminuzione delle risorse disponibili sul pianeta; 3) la rovina dell'ambiente in cui viviamo.
Secondo il modello era sbagliato chiedersi se sarebbe venuta la catastrofe; bisognava invece chiedersi quando prendere provvedimenti adatti per evitare la catastrofe altrimenti sicura. Verso la fine dello studio, prima di un capitolo sullo "sviluppo autocontrollato" del capitalismo (che di per sé contiene una bella ammissione del fatto che il capitalismo è globalmente incapace di autocontrollo) troviamo l'appello:
"Si può discutere sulla necessità che popolazione e capitale interrompano adesso la propria crescita, ma nessuno può sostenere che essa possa continuare indefinitamente sul nostro pianeta... È ancora possibile fissare dei limiti e decidere di fermare lo sviluppo al momento voluto... [Ciò] non sarà completamente indolore, giacché richiederà di modificare molte strutture socio-economiche affermatesi in secoli di storia e ormai parte del patrimonio culturale dell'umanità. D'altra parte aspettare che gli effetti collaterali del progresso distruggano essi stessi tale progresso… può riuscire assai più doloroso: a quel punto, infatti, non vi sarà più alcuna possibilità di scelta e lo sviluppo sarà troncato da forze al di fuori da ogni nostra capacità di intervento" (pag. 124).
L'aumento della produttività (tecnologia e organizzazione) non è messo in relazione con l'aumento della popolazione "dannosa" al pianeta; l'impianto dello schema è del tutto malthusiano e, anzi, non si accenna neppure a una teoria della popolazione. Nell'ultimo capitolo si afferma che la diseguaglianza nel benessere (riferito al solo reddito) è dovuta principalmente all'aumento della popolazione:
"È un principio del tutto generale che, quanto più aumenta il numero di individui fra i quali deve essere distribuito un certo ammontare di risorse, più disuguale si fa la distribuzione. D'altra parte equa suddivisione equivale a suicidio collettivo se non c'è abbastanza da distribuire" (pag. 142).
E viene citata la FAO, la quale ribadisce il "principio" accentuandolo: ad aumento della popolazione corrisponde un aumento più che proporzionale di coloro che soffrono la fame.
Vent'anni dopo il primo modello sui limiti dello sviluppo, gli stessi autori fanno il punto per mezzo di una sua versione aggiornata (cfr. Oltre i limiti dello sviluppo): in un capitolo intitolato "Più povertà, più popolazione, più povertà" si fotografa di nuovo la situazione e si ritorna al solito anello infinito di retroazione causa-effetto, che non può dare risposta al quesito su quale determinante (povertà o popolazione?) abbia il sopravvento sull'altra. Ma intanto una dimostrazione ineludibile rimane: più il capitalismo si sviluppa, più cresce la sovrappopolazione relativa, fluttuante, latente e stagnante; essa si consolida e diventa assoluta, così come la legge della miseria crescente è legge assoluta dell'accumulazione.
I modelli dinamici di simulazione del mondo non sono né "giusti" né "sbagliati", fanno notare gli autori. Essi nascono dall'esperienza empirica e tendono a rappresentare la realtà in processo, in modo da ricavarne proiezioni per il futuro. La realtà in processo è il capitalismo, aggiungiamo noi, e quindi, senza una precisa concezione del cambiamento sociale, si ricavano solo previsioni per il capitalismo futuro. Ma non possiamo ingannare la natura, disse il fisico Feynman di fronte ai disastri tecnologici, perciò anche un modello capitale-mondo impostato secondo criteri capitalistici ci offre la soluzione rivoluzionaria. Anzi, se il modello è realistico, proprio introducendo criteri capitalistici abbiamo come risultato la necessità di superare il capitalismo. Gli autori non giungono a dire questo, ma affermano che i risultati del loro modello dimostrano la necessità di una rivoluzione paragonabile a quella della transizione neolitica, quando l'uomo incominciò a coltivare la terra e ad allevare il bestiame. Nessuno, dopo Marx, ha avuto il coraggio di accennare a un programma rivoluzionario di tale portata, neppure i cosiddetti marxisti. Non ci interessano le idee "politiche" degli autori del modello, ci interessa constatare che, nell'ambito di un programma così estremo, il computer risponde anche sulla legge assoluta dell'accumulazione, cioè sulla miseria crescente:
"Non: arrestare la crescita bloccherà i poveri nella loro miseria; ma: gli attuali modi di crescita bloccano i poveri nella miseria".
Nel XXIII capitolo del primo libro del Capitale, sulla legge generale dell'accumulazione, Marx tratteggia un modello sociale mettendo in relazione dati e tabelle in una dinamica storica non dissimile, nella sostanza, ai diagrammi di flusso del programma di Forrester al MIT. Ci voleva un perfezionamento dell'uomo-industria marxiano per fare interagire cervello e macchina ed avere una risposta oggettiva che, al di là del linguaggio utilizzato per esprimerla, ancora schiavo dell'ideologia dominante, riconoscesse le leggi invece di sfornare contraddittorie teorie. Quando i modelli su di una realtà complessa raggiungono una simile completezza formale, e la società, angosciata dalle sue stesse realizzazioni, mobilita un così alto numero di persone che si dedicano a quel tipo di ricerca condividendone i risultati, vuol dire che non è più possibile disquisire se ciò sia "giusto" o "sbagliato": si può solo rispondere adottando metodi analoghi o, meglio ancora, escogitando modelli più potenti e perfetti.
I dati usati per la simulazione Mondo3 sono gli stessi forniti dall'ONU, dalla FAO, dalla Banca Mondiale, dal FMI, ecc. Le stesse Nazioni Unite, nel 1977, commissionarono al Nobel Wassily Leontief un modello econometrico del genere, la cui risposta non fu diversa. I professori alla Sylos Labini sono certo un po' distratti, non tanto rispetto a Marx, che rifiutano, quanto rispetto alle prove fornite dai massimi organismi mondiali preposti alla salvaguardia di quel capitalismo che essi non solo accettano ma amano al punto di voler rattoppare anche di fronte a una diagnosi di morte.
Transizione all'approccio fisico
Nel citato modello di equilibrio generale di Walras e negli studi di Pareto si prende in esame un sistema chiuso, in cui ogni variabile ne determina un'altra in una rete di equazioni simultanee che è il vero cuore del sistema. Il modello è finalizzato a realizzare un equilibrio che resti tale anche in caso di variazione dei parametri iniziali, quindi è per definizione un modello conservativo. Anche altri modelli posteriori lo saranno, ma essi conterranno una dinamica interna in grado di renderli sensibili al cambiamento, di assumere informazione dalla propria struttura e dal proprio funzionamento, di dare indicazioni sul fatto di essere chiusi (e quindi precipitare verso la catastrofe) o aperti (e quindi avere potenzialità di metamorfosi, di saltare a un livello superiore autonegandosi).
Il modello di Walras e allievi possiede indubbiamente delle analogie con la fisica "classica", come aveva intuito Pareto, e alcuni economisti odierni hanno notato che le formulazioni di Newton furono effettivamente riscritte dai suoi grandi continuatori (d'Alembert, Lagrange, ecc.) come equazioni di equilibrio, e che molto più tardi furono "trasportate" nel campo dell'economia e sviluppate infine autonomamente grazie alla diffusione di quel tipo di paradigma. Nel modello fisico classico regna quindi l'ordine, le concatenazioni causali permettono sia la prevedibilità del futuro sia la comprensione dei fatti passati, lo scambio di calore è sottoposto alla legge della conservazione dell'energia ecc. Allo stesso modo nei modelli economici chiusi regnano l'ordine e la conservazione, non c'è da stupirsi che abbiano avuto grande successo fra le teorie borghesi, nonostante il loro fallimento. In tali modelli lo scambio fra soggetti economici avviene in un ciclo matematico e non storico. Le merci vengono prodotte e consumate secondo relazioni stabilite, per quanto variabili, senza turbamenti sociali e senza dissipazione di energia. Persino il tempo non è storia ma la semplice variabile di un'equazione, come constatiamo in meccanica (base della fisica) quando scriviamo la formula della velocità: v = s/t (velocità = spazio : tempo). La velocità di un veicolo può variare nel tempo e/o la sua direzione cambiare; la formuletta si complica un po' per descrivere l'accelerazione, ma in ogni caso sull'autostrada della meccanica e dell'econometria classiche non si bucano le gomme, non si inquina il paesaggio con i gas di scarico, non si ammazzano i pedoni e l'industria può sfornare automobili all'infinito senza che i rapporti di classe disturbino formule eleganti. Il sistema è pensato per riprodurre semplicemente sé stesso, la popolazione non è che una variabile e l'esercito industriale di riserva è l'effetto di un rapporto causale semplice fra produttività e popolazione occupata.
Come si vede, mentre descriviamo l'evolversi dell'approccio all'economia, siamo costretti a fare il parallelo con l'industria e la scienza: l'ideologia è in linea con la forma economica e con lo stadio raggiunto dalla forza produttiva sociale. Le scienze attuali, sotto la spinta della produzione, hanno inglobato (non superato, come si dice comunemente) il vecchio paradigma newtoniano in nuove conoscenze. Oggi caso e necessità (disordine e ordine) non sono più trattati separatamente ma ci vengono descritti come connessi in un tutto deterministico inscindibile. Le astrazioni matematiche sono dunque un'utile base per capire la realtà, anche se questa sfugge il più delle volte ad una formalizzazione analitica del tipo della formula della velocità riportata più sopra, e di questo occorre tener conto. L'industria moderna ha bisogno di quella formula, ma vuole anche conoscere la fisica del consumo delle gomme e quella di turbolenze e inerzie entro il motore. Ecco perché si sono sviluppati modelli di simulazione della realtà basati su insiemi di eventi lontani dall'equilibrio, contraddistinti da instabilità, turbolenze, fluttuazioni. Ciò impone ai ricercatori di non rincorrere più le leggi dell'ordine ma quelle del disordine dal quale l'ordine emerge. Ed emerge non per creazione dal nulla, ma per caratteristiche intrinseche dei sistemi caotici, che sono in grado di presentare fenomeni di auto-organizzazione.
L'economia politica, seppure in ritardo, non poteva fare a meno di registrare questi risultati della scienza, come del resto accade in tutti i campi. Ci si accorse che il problema non era trovare la formalizzazione "giusta", dato che la capacità di astrazione e di analisi aveva raggiunto livelli sufficienti per una moltitudine di situazioni: il problema era formulare la domanda, sapere che cosa si voleva ottenere dalla formalizzazione. Non chiedere: "Come descrivere formalmente l'equilibrio del capitalismo?" ma: "Dove porta la struttura interna del capitalismo?". Si capisce che così facendo ogni modello dinamico rispondeva proiettando nel futuro i parametri tratti dalla realtà, entrando inesorabilmente in contraddizione con l'ideologia dominante, la quale ha bisogno di schemi di equilibrio in grado di simboleggiare l'eternità capitalistica.
Con i nuovi schemi formali le certezze borghesi vacillavano e l'eternità capitalistica veniva messa costantemente in dubbio da un terribile enunciato che possiamo grosso modo riassumere così: "Se non riusciremo a modificare il sistema capitalistico in modo che non assomigli più a sé stesso, allora l'attuale società basata sull'accumulazione perirà". Il nuovo approccio fu dovuto al fatto che, mentre in economia si era legati alle teorie dell'equilibrio, l'inevitabile contaminazione con la fisica portò a un sovvertimento di non poco conto: in fisica, quando un sistema è lontano dall'equilibrio segue una dinamica non lineare, diversa da quella delle orbite dei pianeti e dei flussi regolari contemplati dalla tradizione economica. Il capitalismo è un sistema che non ha nulla a che fare con l'equilibrio: esso soffre anzi moltissimo di squilibri tremendi: da una parte presenta retroazioni positive che accelerano i fenomeni (reinvestimento del plusvalore); dall'altra presenta retroazioni negative che bloccano l'intero funzionamento del sistema (crisi, disoccupazione, recessione). Naturalmente un effetto mitiga l'altro, ma a scapito della stabilità sociale. La contemporanea presenza di ordine e caos è dunque portatrice di instabilità, la dinamica corre sul filo di biforcazioni in grado di far assumere al sistema stati diversi, addirittura di farlo saltare in uno stato nuovo che nega del tutto quello precedente.
Qui la similitudine fra sistemi fisici e sistemi sociali si fa serrata: pur rimanendo entro lo schema capitalistico, il nuovo stato del sistema (globalizzazione, aumento della produttività, autonomizzazione del Capitale, aumento della sovrappopolazione relativa e assoluta, ecc.) non risulta più univocamente e chiaramente determinato dalle "condizioni iniziali" del sistema ad un dato tempo, ma dall'intera storia del sistema stesso, dalla sua struttura nel tempo, dalla dinamica delle sue componenti (ad esempio classi) e dalle "singolarità" (cuspidi, biforcazioni, catastrofi) che si presentano. Intendiamoci, non c'è nulla di arbitrario e indeterministico nel cambiamento di stato in presenza di una biforcazione; solo che, come dicono i fisici, il nuovo stato dipende dalla risposta fornita dall'intero sistema, o parte di esso, in presenza di eventi o stimoli, i quali, accumulati in una "storia" continua, graduale, trovano il loro sbocco in una esplosione discontinua.
In ogni fase della storia che precede il cambiamento generale di stato, gli stati intermedi vengono registrati dal sistema che ne conserva memoria, condizionando gli eventi futuri. Da notare che tutto ciò, oltre ad entrare a far parte dello studio dell'economia politica, è anche patrimonio della biologia. Infatti le recenti teorie dell'evoluzione non separano più caso e necessità (probabilismo e determinismo), ma prendono in considerazione l'unione dialettica fra probabilità statistica di un evento e retroazione delle condizioni che si verificano al suo manifestarsi, sia sull'ambiente che sull'organismo in evoluzione, il quale ovviamente è esso stesso frutto della propria storia. Va da sé che, per quanto riguarda l'attuale sistema sociale, il percorso verso la biforcazione dovrà contemplare la comparsa di quell'anticipazione della comunità umana che, come abbiamo visto, chiamiamo partito.
L'approccio di Marx e le analogie con la fisica
Marx analizza il capitalismo come un sistema costituito da elementi storicamente definiti nel senso della dinamica verso una biforcazione nuovo-ordine/caos. Egli addirittura definisce comunismo tale dinamica (in questo senso comunismo e rivoluzione sono sinonimi), e non una ipotetica società del domani o un modello sociale costruito a tavolino. Anche la nostra corrente definì il comunismo come un "andare verso…", specie per quanto riguarda la formazione e lo sviluppo del partito, processo che fa parte della dinamica complessiva e non può essere considerato indipendente da essa. In questo movimento verso una società di ordine superiore, la liberazione di forza-lavoro con conseguente formazione di sovrappopolazione relativa è paragonabile alla liberazione di energia da parte dell'industria: dall'abbandono della macchina a vapore alla produzione elettronica just-in-time (per non parlare del software), l'intero ciclo produttivo si è alleggerito al punto da farci intravedere con chiarezza che cosa potrebbe essere la società umana senza il capitalismo. Il sistema produttivo evolve verso rendimenti maggiori, mentre la società capitalistica nel suo insieme evolve verso una maggiore dissipazione di energia.
Il capitalismo è dunque inteso da Marx come una configurazione variabile della società, con al suo interno le potenzialità per farla scattare da un piano all'altro liberando energia. Ogni sua caratteristica, negata, diventa affermazione positiva in mancanza dello specifico modo di produzione capitalistico: la fabbrica da galera dell'operaio diventa mezzo per la liberazione dal bisogno e la disoccupazione diventa sostituzione del tempo di lavoro con tempo di vita. Il capitalismo è negazione di sé stesso a causa del suo percorso storico, del suo divenire. La sua configurazione moderna, la sua dinamica nell'epoca della centralizzazione e dell'autonomizzazione del Capitale, è dovuta a elementi sociali legati da relazioni specifiche, risultato di processi storici che hanno comportato perturbazioni di ogni genere, rendendo il percorso per niente lineare.
Visto come un sistema chiuso, il capitalismo è governato da leggi che non riguardano certo l'equilibrio. Quest'ultimo è un'aspettativa mai realizzata, un caso temporaneo in un contesto generale dove ormai la situazione più "probabile" è la crisi cronica (dissipazione sfrenata di energia). Questo perché la dinamica del sistema risulta dalla somma contraddittoria tra forze che tendono alla riproduzione allargata e forze che tendono alla stagnazione (quando non recessione), le une e le altre continuamente sollecitate dal muoversi caotico delle molecole sociali (gli elementi che compongono le classi). Come nei fenomeni fisici e soprattutto biologici, le leggi d'invarianza condannano il capitalismo a procedere allo stesso modo delle società che l'hanno preceduto: non è affatto il fine della storia e tantomeno il suo coronamento ma un semplice passaggio verso il livello più alto.
Visto come sistema aperto il capitalismo assume capacità di far emergere da sé la sua propria negazione. Come dal mondo inorganico emerge ad un certo punto un livello superiore di organizzazione della materia (vita), così nel capitalismo si formano e si sviluppano le forze necessarie al suo superamento. È infatti analizzando il capitalismo e non un modello utopico che Marx giunge alla sua negazione, cioè al comunismo. Una nuova teoria della conoscenza permette a Marx ed Engels di stabilire una dinamica che abbiamo analizzato come Dottrina dei modi di produzione (cfr. bibliografia) e che si sintetizza nel titolo di questa rivista. La chiave di tutto, quella che rende superati gli economisti classici e quelli neoclassici, è nel concetto di storico modo di produzione, destinato ad essere soppiantato. Critica all'economia politica, teoria della rivoluzione e del partito non sono che conseguenze del nuovo paradigma dinamico, demolitore delle teorie statiche dell'equilibrio. È questo che porta ad una concezione di "sistema economico" completamente diversa da quella tradizionale, molto più vicina alle scienze della natura che non all'economia politica.
In quanto sistema chiuso (bloccato dalla sua sovrastruttura di classe) il modo di produzione capitalistico è − per adottare un termine preso a prestito dalla termodinamica − entropico, cioè dissipa, si raffredda, tende alla "morte termica". La legge marxiana dei rendimenti decrescenti, mostra una curva dello sviluppo a "sigmoide": in una prima fase la crescita dei fattori della produzione è esponenziale; in una seconda fase, dopo il punto di flesso, la crescita si fa asintotica (diminuzione dell'incremento della produzione industriale o caduta storica del saggio di profitto).
In quanto nello stesso tempo sistema aperto, il capitalismo si trova adesso in una di quelle fasi di transizione ai margini tra l'ordine e il caos, dove forze piccolissime sono sufficienti a far scattare la storia ad un livello di ordine superiore, liberando la possibilità di progettare ciò che trasformerà completamente il sistema stesso (entropia negativa, rovesciamento della prassi, passaggio dal regno della necessità a quello della libertà).
A questo punto il problema dell'astrazione dal reale, cioè della formalizzazione, è risolto, ma solo perché s'è trovato il modo esatto di formulare la domanda, il resto viene da sé, con l'uso delle quattro operazioni o poco più, come fa Marx, o con l'uso di modelli di simulazione al computer come si può fare oggi. Invitiamo perciò il lettore a ricordare questo capitoletto quando arriveremo all'analisi di un modello sperimentale di "miseria crescente", riconoscibile ormai come modello di "entropia crescente" che lotta contro l'emergente "neg-entropia".
Resistenza ideologica alla formalizzazione dei fatti sociali
Nel 1972 Jay W. Forrester introdusse 430 pagine di studi del MIT (Verso un equilibrio globale) con un articolo intitolato Comportamento controintuitivo dei sistemi sociali. La tesi centrale era che il cervello umano si fosse evoluto lungo un arco di tempo troppo lungo per poter capire il funzionamento di un sistema sociale come quello odierno, esistente da pochissimo e caratterizzato da troppi anelli non lineari di retroazione. Perciò i modelli mentali classici sarebbero del tutto inadeguati per dare risposte, sia nell'ambito dell'analisi economica che rispetto al tentativo di intervenire nell'economia: quindi l'uomo, intervenendo sui sintomi invece che sulle cause, non farebbe che peggiorare la situazione pur cercando di migliorarla.
L'autore riporta come esempio la ricerca per la soluzione del problema della miseria e del degrado urbano in una grande città americana (con i parametri di Boston). Analizzato tramite un modello basato sulla dinamica dei sistemi, il ciclo della miseria e del degrado urbano si dimostrò vulnerabile soltanto a una politica completamente opposta a quella che di primo acchito viene in mente a urbanisti, economisti e politici. Invece di più investimenti il modello rispose che ne occorrevano di meno; invece di una politica "sociale" rispose che ne occorreva una industriale; invece di più alloggi e infrastrutture rispose che ne occorrevano di meno. Il modello rispose insomma che per evitare il ciclo di miseria e degrado occorreva abbassare la dissipazione energetica del sistema, abbassarne il metabolismo in modo che retroazioni positive e negative non concorressero al collasso.
La scuola di Forrester aveva dimostrato un assunto che fino a quel momento solo i materialisti rivoluzionari avevano sostenuto: il comportamento dei sistemi con retroazioni forti è lo stesso sia che si tratti di sistemi fisici, sia che si tratti di sistemi sociali. L'assunto è generalizzabile a una quantità estesa di fenomeni. Non esiste dualismo tra fisica e società nelle leggi sottostanti alla dinamica della natura. Lo dimostra anche il fatto che il programma utilizzato per il modello "Boston" non era stato compilato appositamente, ma era stato ricavato da una precedente ricerca per applicazioni di ingegneria, poi utilizzato per analizzare il ciclo industriale e finanziario di una grande azienda. Quando lo stesso modello fu applicato al mondo, risultò evidente che si trattava soltanto di una questione di scala: le dinamiche sono le stesse a livello industriale, aziendale, urbano e planetario.
Se insistiamo su alcuni particolari della storia dei modelli dinamici dei sistemi è perché per la prima volta una conferma della struttura portante del Capitale di Marx ci viene dall'interno del modo di produzione capitalistico stesso: la miseria e la fame non esistono perché si produce troppo poco, perché c'è troppo poco investimento o perché c'è troppa popolazione; al contrario: ci sono miliardi di uomini gettati nella sottonutrizione e nella precarietà perché si produce troppa merce e troppo capitale, si investe troppo, si produce plusvalore con troppo pochi operai col risultato di produrre troppa sovrappopolazione.
La resistenza all'uso di simili modelli è del tutto ideologica. Persino alcuni che si dicono comunisti affermano che la realtà sociale è troppo complessa per poter essere formalizzata come si fa con i fenomeni fisici. Si tratta di una credenza basata su un errore epistemologico: quello di immaginare i fenomeni fisici esclusivamente legati alla meccanica classica e quelli "morali" a qualche altro tipo di conoscenza complessa. Abbiamo visto invece che la natura è complessa sempre e che siamo noi ad aver bisogno di astrazioni semplici per conoscere. Tuttavia Marx edifica un grande modello della società capitalistica, con tanto di equazioni e retroazioni, pur senza poter ricorrere alle grandi possibilità offerte dai modelli moderni, computerizzati o meno. La difesa della concezione dualistica completamente antiscientifica è basata su argomenti che sono ancor peggio dell'assunto teoretico: si dice in genere che i sistemi sociali sono così complessi che è impossibile trarne dei dati quantitativi sufficientemente affidabili per generare dei modelli attendibili. L'imbroglio logico sta nel fatto che gli economisti e i politici sarebbero abbastanza informati sui sistemi per prendere delle decisioni vitali nei governi, ma quelle stesse informazioni non sarebbero sufficienti per generare dei modelli. In realtà un modello non ha bisogno di un'enorme quantità di dati ma solo di essere coerente con le leggi del sistema che deve simulare. Se aumenta la produttività, cioè la forza produttiva della società, devono aumentare la miseria e la sovrappopolazione relativa: in un modello formale è un assioma, in un modello mentale è una variabile che dipende dall'ideologia soggiacente.
In sociologia, ad esempio, alcuni "funzionalisti" (Comte, Spencer, Durkheim) utilizzarono il concetto di funzione, ma la buona volontà di dare un senso matematico alle proposizioni sociologiche si perse, e si dimostrò invece quanto l’ideologia sottesa al modello mentale fosse determinante nell'applicazione dei modelli formali. I funzionalisti partivano dalla giusta osservazione che la società è come un organismo in cui ogni elemento è posto in relazione con l'intero corpo biologico. Ricorrevano quindi a un modello semplice e coerente come quello di funzione matematica, con la quale potevano rappresentare, anche graficamente, la relazione di interdipendenza fra due grandezze date: y=f(x). Il guaio è che consideravano il sistema politico-economico unicamente come funzione volta ad assicurare il mantenimento dell’ordine sociale, perciò non tenevano conto del fatto che il potere politico derivante dal dominio economico si trasforma in puro e semplice sistema di sfruttamento al servizio del Capitale impersonale. Sarebbe assurdo pretendere criteri scientifici nel campo dell'economia politica (e della sociologia che ne è l'appendice), ma dovrebbe essere evidente a tutti che, se si considera la relazione fra il sistema economico, cioè l'insieme di risorse, beni, produzione e distribuzione (variabile indipendente x), e la società (variabile dipendente y) come una relazione armonica che ubbidisce alle variazioni introdotte da chi governa il sistema, allora siamo molto più vicini all'utopia che alla scienza. La realtà, che nega ogni utopia, ci mostra che le armonie come quella proposta dai funzionalisti sono semplice conservazione dello stato di cose presente. Tant'è vero che le disfunzioni del sistema non sono mai interpretate come contraddizioni intrinseche ad esso (ad esempio la produzione sociale che urta esplosivamente contro l'appropriazione privata), bensì come fenomeni tendenti a risolversi con interventi opportuni, o comunque, nel lungo periodo, a integrarsi nel sistema come dato di fatto, cronico ma neutralizzato (proprio come la miseria, entro certi limiti ritenuta fisiologica e quindi tollerata).
Un simile utilizzo del modello matematico elementare di funzione porta a formalizzare la realtà in modo completamente distorto: si considera una società come quella capitalistica, aperta e dinamica, gravida di estreme potenzialità rivoluzionarie, alla stregua di un sistema stabile e chiuso, fondato prevalentemente su integrazione e conservazione invece che su esplosione e trasformazione. Di qui alcuni tentativi di considerare non solo il concetto di funzione, ma anche l'insieme delle interdipendenze all'interno di un sistema "intelligente", cioè in grado di influenzare sé stesso in senso positivo o negativo, come nella teoria autopoietica dei sistemi di Luhmann, a suo tempo assai criticata (cfr. Forni, Teoria dei sistemi e razionalità sociale).
Il modello matematico di funzione, applicato all'argomento del presente saggio secondo criteri meno "armonici" di quelli sociologici, ci mostra che il costante aumento della miseria e della sovrappopolazione relativa (variabile dipendente y) in relazione all’aumento della produttività (variabile indipendente x) produce un grafico assai poco riformistico. Se la miseria cresce al crescere della produttività, è chiaro che ci troviamo di fronte a un processo teorico che si estende all'infinito, proprio mentre ha la pretesa di rappresentare formalmente un mondo che per sua natura è finito (il pianeta con la sua società, le sue risorse, ecc.). Perciò in un grafico tracciato da noi la curva, qualunque forma possa avere, rappresenterebbe un andamento di rottura e non di stabilità. Inoltre, il concetto di funzione affrontato in modo scientifico può solo avere significato matematico (dinamica di un punto individuato tramite coordinate), mentre per la sociologia funzionalista ha significato di obiettivo che qualcuno deve raggiungere. Ciò vuol dire che, cambiando lo scopo nell'utilizzo di un modello formale, il modello può soggettivamente assumere diverse funzioni, cosa che non succede affatto alle sue proprietà fisiche. Quindi, nonostante si sia costretti a usare modelli mentali, si devono tener presenti le proprietà fisiche delle formalizzazioni e non gli obiettivi. Questi ultimi saranno definiti in base alle risposte date dal modello fisico. Sarà banale, ma prima di agire bisogna conoscere, in modo da poter rovesciare la prassi con una politica di progetto invece che codista (e codina, nel caso specifico rispetto alle esigenze del Capitale).
Forrester e la sua scuola affermano appunto che le nostre conoscenze attuali ci permettono di generare tutti i modelli formali che vogliamo, e solo da quelli possiamo ottenere conoscenze supplementari utili ad affrontare razionalmente gli interventi diretti sulla società. Prima si debbono utilizzare strumenti teorici che liberino spietatamente il campo dai pregiudizi ideologici, poi sapremo come rovesciare la prassi, passare dal campo della necessità a quello della libertà. Un po' come l'ingegnere, che fa i calcoli delle strutture e da questi trae indicazioni per la realizzazione pratica in cantiere. Questo programma galileiano è lo stesso adottato da Marx per la critica all'economia politica e nessuno è ancora riuscito a scalfirlo.
Il ricorso a modelli per descrivere il mondo che ci circonda e noi stessi non è una novità. Noi elaboriamo idee e rappresentazioni non in base alla realtà, che è davvero troppo complessa per essere raffigurata in modo univoco, ma in base a modelli mentali individuali, ognuno necessariamente diverso dall'altro. Solo un modello formale, generato secondo regole condivise, ci può dare una rappresentazione della realtà da cui trarre indicazioni di azione che non siano opinioni ma progetti. Il problema non è se utilizzare dei modelli ma è stabilire quali scegliere e con quali criteri. Nel suo programma di lavoro Marx prese in esame diversi modelli, da Quesnay a Ricardo, da Smith a Mills e alla fine non adottò un modello mentale, nemmeno escogitato ex novo, ma ne scelse uno formale, quello galileiano suddetto, compresa la relatività: la miseria cresce o non cresce? La crescita della popolazione è un male? Dipende, egli risponde: bisogna vedere relativamente a che cosa. E scoprì la legge assoluta dell'accumulazione.
Abbiamo citato Quesnay solo di sfuggita, ma è utile soffermarci su qualche particolare forse poco conosciuto in ambito "marxista". Egli fu il prodotto di una società in transizione e, pur essendo figlio del feudalesimo morente, partecipò alla produzione di quella potente artiglieria antifeudale che fu l'Encyclopédie. Propose per la prima volta nella storia uno schema dinamico di ripartizione del prodotto fra classi sociali basato sull'unico surplus globale che produce la natura, quello dovuto al Sole. Chiamò "classi sterili" quelle che trasformavano o trasportavano semplicemente questo prodotto della natura (industriali, operai e commercianti). Fu dunque un inconsapevole antesignano di una teoria termodinamica della produzione basata sullo scambio di energia nell'universo. Marx trasse spunto dai suoi schemi, specie per quanto riguarda l'intuizione sulla dinamica del Capitale in quanto sistema di relazioni. Furono influenzati in questo senso anche studiosi dell'approccio sistemico come von Neumann, Leontief, Sraffa e Keynes.
A questo punto è utile fornire al lettore una definizione di approccio sistemico per mezzo di un confronto con quello analitico, dato che ci servirà moltissimo per comprendere a fondo ciò che seguirà. Occorre solo tenere ben presente che non vi possono essere discriminazioni di valore fra i due approcci: entrambi sono potenti ed entrambi sono fallaci a seconda di come e per che cosa vengono utilizzati. E comunque non si capisce perché mai dovrebbero rimanere separati.
L'approccio analitico… | L'approccio sistemico… |
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Isola i singoli elementi concentrandosi su di essi in quanto tali | Collega i singoli elementi concentrandosi sulle interazioni fra di essi |
Considera la natura delle interazioni | Considera gli effetti delle interazioni |
Modifica una variabile alla volta | Modifica gruppi di variabili simultaneamente |
Si basa sulla precisione dei dettagli | Si basa su di una percezione globale |
Considera i fenomeni reversibili (indipendenti dal tempo) | Integra la durata nel tempo e la reversibilità dei fenomeni |
Convalida i fatti mediante verifica sperimentale nel quadro di una teoria | Convalida i fatti mediante il confronto fra un modello funzionante e la realtà |
Porta a modelli precisi e dettagliati, ma difficilmente utilizzabili per il rovesciamento della prassi (ad esempio quelli econometrici walrasiani) | Porta a modelli non abbastanza rigorosi per migliorare la teoria della conoscenza, ma che permettono decisioni pratiche (ad esempio quelli basati sulla dinamica dei sistemi) |
È efficace quando le interazioni fra i suoi elementi sono lineari e deboli | È efficace quando le interazioni fra i suoi elementi sono non-lineari e forti |
Rafforza la tendenza a suddividere la conoscenza in discipline separate | Necessita di raccogliere le discipline separate in una conoscenza unitaria |
Porta a un rovesciamento della prassi passando per particolari e fasi | Porta a un rovesciamento della prassi puntando a obiettivi globali |
Porta a una conoscenza dei particolari in vista di obiettivi poco definiti | Porta ad una conoscenza degli obiettivi trascurando i dettagli |
La tabella comparativa è la nostra elaborazione di uno schema che abbiamo preso a prestito da un saggio di Joël de Rosnay (Il Macroscopio), ma l'argomento ricorre spesso in molti dei saggi scritti negli ultimi anni. L'approccio sistemico è utile per analizzare sia sistemi complessi di natura fisica, sia sistemi sociali. A differenza dell'approccio analitico consente di dare una spiegazione in termini generali di situazioni dinamiche, specie quando comportano retroazioni che danno luogo a calcoli non lineari. Anche in psicopatologia è stato utilizzato con successo l'approccio sistemico, analizzando l'ambiente del "malato" come un insieme di individui interagenti e non come un contenitore in cui il malato si trova e dal quale lo si preleva per una terapia individuale (scuola di Palo Alto).