"Not made in China"

Si dice che il ribasso alla borsa di Shanghai all'inizio dell'anno abbia provocato un effetto domino a scala mondiale coinvolgendo al ribasso le borse più importanti, da New York a Francoforte, da Londra a Hong Kong. La rivista The Economist, all'interno di un articolo controcorrente, commentava con britannica ironia: "Not made in China". In effetti è difficile pensare che un piccolo aggiustamento (9%) della borsa di Shanghai, che era cresciuta in un anno del 121%, abbia potuto provocare uno sconquasso internazionale. Tanto più che la borsa cinese non raccoglie capitali esteri ma risparmio locale dovuto alla poca estensione dei consumi, piccole cifre ma moltiplicate per i soliti numeri "cinesi" (alla fine del 2006 le banche gestivano 80 milioni di portafogli-titoli, 4 milioni in più delle banche americane). Nessun investitore occidentale ha perso un dollaro a causa del ribasso cinese.

La crisi borsistica cinese ha le sue radici nell'esuberanza di produzione cui non corrisponde ancora un adeguato consumo, secondo la classica legge della miseria crescente che incomincia a mostrarsi; la crisi borsistica d'Occidente (e tutte le sue crisi dagli anni '70 in poi, di borsa o no) ha le sue radici in una esuberanza della produzione cui non corrisponde più un adeguato consumo. Da una parte incomincia un ciclo, dall'altra finisce. Per la prima volta, nel 2006, l'Asia continentale ha superato gli Stati Uniti nella raccolta di capitali tramite le borse. Nelle sole borse di Shanghai e Shenzhen i nuovi arrivati hanno raccolto 50 miliardi di dollari. La raccolta bancaria è andata di pari passo, tanto che la prima banca cinese, la ICBC (Industrial and Commercial Bank of China, 150 milioni di clienti), ha sorpassato Bank of America ed è diventata la seconda banca del mondo (la prima è giapponese). In Cina il governo è intervenuto apertamente − dopo che il "valore" della borsa di Shanghai era più che raddoppiato in un anno − a frenare la bolla speculativa; intervento che ha un riscontro identico anche nel campo della produzione, dove lo Stato interviene decisamente per mantenere la crescita sotto il 10%. I governi occidentali se lo sognano! Essi intervengono per dare ossigeno, se possono, all'economia, non a frenarla per eccesso di crescita.

L'apparente effetto domino che sembrava partito da Shanghai per colpire anche le borse dei paesi più importanti è in effetti un risultato della paura tutta occidentale che qualcosa si inceppi nel meccanismo dell'accumulazione mondiale. Il governo cinese era già intervenuto per frenare la bolla speculativa immobiliare e per ripianare le gigantesche sofferenze delle banche cinesi (163 miliardi di dollari) dovute a prestiti per attività a rischio. Prima di ragionare sulle cause volute dell'aggiustamento cinese, gli operatori occidentali hanno agito con gigantesca coda di paglia: credevano che ci fossero segnali di crisi e che quindi gli investimenti occidentali in Cina fossero in pericolo; come sarebbe in pericolo perenne l'economia dei loro paesi se non fosse aiutata, questo sì, dall'esuberanza produttiva cinese.

Rivista n. 21