Tempi duri per il dollaro
Il dollaro è talmente sotto tiro che c'è da chiedersi come mai gli Stati Uniti non stiano passando al contrattacco. Eppure la soglia della svalutazione vantaggiosa, sia come sostegno alle esportazioni, sia come ridimensionamento del debito, è stata oltrepassata da un pezzo. Tanto più che l'America è un importatore netto, e comprare con dollari svalutati non è proprio un affare. Una serie di segnali consigliano di tenere d'occhio le vicende del dollaro, date le inevitabili ripercussioni di una sua eventuale caduta, già pronosticata e da alcuni paesi anche assecondata. La questione è importante perché coinvolge la capacità degli Stati Uniti di mantenere la propria egemonia indebolita ormai da una quantità di fattori esterni ed interni.
La Cina ha annunciato a marzo che non permetterà alle multinazionali (quasi tutte americane) di passare dagli investimenti diretti in stabilimenti e reti produttive a quelli sul mercato azionario. Nel frattempo ha varato una holding statale per la razionalizzazione degli investimenti di parte dei suoi 1.100 miliardi di dollari, accumulati con il surplus commerciale, in titoli esteri (quasi tutti americani).
Sempre in marzo l'OPEC (Organizzazione dei Paesi Esportatori del Petrolio), su pressione del Venezuela e dell'Iran, ha annunciato che sarà accelerata la tendenza a diversificare le valute usate per le transazioni sul petrolio, con un occhio particolare verso l'Euro, che sta diventando velocemente valuta di riserva sostitutiva.
Un avvenimento passato quasi sotto silenzio, ma che in campo internazionale avrà effetti politici, anche se non valutari, immediati, è il provvedimento iraniano, datato 21 marzo 2007, che rende illegale la circolazione del dollaro americano entro i confini del paese, pena il carcere. La Corea del Nord e la Malaysia hanno approvato un provvedimento simile pochi giorni dopo.
Secondo la Royal Bank of Scotland, la seconda banca del Regno Unito, il processo di diversificazione delle riserve, in molti paesi, più avanti di quanto non si voglia ammettere. Oltre ai paesi petroliferi, anche Italia, Russia, Svezia e Svizzera avrebbero variato significativamente le proprie riserve rafforzando le quote in euro e sterline. Una banca di Singapore ha confermato la tendenza, precisando che vi è stata una massiccia vendita di dollari fra settembre e dicembre del 2006.